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L'uomo nella natura, sospeso fra due infiniti

Blaise Pascal
1662

Pensieri, nn. 84-91

In questi brani dei Pensieri di cui vi proponiamo la lettura, Blaise Pascal presenta una riflessione sulla condizione dell’uomo in rapporto all’immensità della natura ponendogli davanti al pensiero due abissi: da una parte l’infinitamente grande, l’estremo, il termine delle cose, e dall'altra l’infinitamente piccolo, il nulla. Di fronte a questi due abissi, si provi ad immaginare la grandezza dell’universo o uno scorcio di atomo, il filosofo si chiede dunque cosa sia l’uomo nella natura, ovvero un nulla in confronto all’infinito, un tutto in confronto al nulla. Quindi, ribalta la stessa riflessione nell’ambito delle scienze e della conoscenza dei primi principi arrivando ad argomentare come la conoscenza della verità, di fronte agli abissi in cui l’uomo resta smarrito e sospeso, possa ritrovarsi in Dio.

84. Ecco dove ci portano le conoscenza naturali. Se esse non sono veritiere, non c'è affatto verità nell'uomo; e se lo sono, egli vi troverà un grande motivo di umiliazione, perché costretto ad abbassarsi in un modo o nell'altro. E, poiché non può vivere senza credere in esse, mi auguro che prima di procedere in ricerche più profonde sulla natura egli la consideri una volta con serietà e a proprio agio, esamini anche se stesso e conoscendo quale proporzione egli ha...

L'uomo contempli la natura intera nella sua alta e piena maestà; allontani il suo sguardo dagli oggetti meschini che lo circondano. Guardi quella luce splendente, collocata come una lampada eterna a illuminare l'universo; la terra gli appaia come un punto in confronto dell'immenso giro che quell'astro descrive e si stupisca che questo immenso giro è anch'esso descritto dagli astri che ruotano nel firmamento. Ma se la nostra vista si arresta lì, l'immaginazione vada oltre; essa cesserà di immaginare, prima che la natura cessi di fornirle materiale. Tutto questo mondo visibile non è che un segmento impercettibile nell'ampio seno della natura. Nessuna idea vi s'avvicina. Abbiamo un bello sforzarci di dilatare le nostre concezioni al di là degli spazi immaginabili, non partoriremo che atomi, a prezzo della realtà delle cose. È una sfera infinita il cui centro è ovunque, la circonferenza in nessun luogo. Infine, che la nostra immaginazione si perda in tale pensiero è il più grande segno sensibile dell'onnipotenza di Dio.

L'uomo, dopo essere ritornato in sé, consideri ciò che egli è in confronto di ciò che esiste; si consideri come smarrito in questo angolo appartato della natura; e da questa piccola prigione in cui è stato posto, intendo dire l'universo, impari a valutare la terra, i reami, le città e se stesso in giusta misura. Cos'è un uomo nell'infinito? Ma per presentargli un altro prodigio altrettanto meraviglioso, cerchi, tra quanto conosce, le cose più minute. Un acaro gli presenti, nella piccolezza del suo corpo, parti incomparabilmente più piccole, zampe con giunture, vene nelle zampe, sangue nelle vene, umori nel sangue, gocce negli umori, vapori nelle gocce; suddividendo ancora queste ultime cose, egli esaurisca le sue forze in queste concezioni, e l'ultimo oggetto cui possa arrivare sia per ora quello del nostro discorso; forse penserà che lì stia l'estrema piccolezza della natura. Voglio fargli vedere lì dentro un nuovo abisso. Voglio dipingergli non solamente l'universo visibile, ma quell'immensità della natura che si può concepire, nell'ambito di quello scorcio d'atomo.

Vi scorga un'infinità di universi, di cui ciascuno ha il suo firmamento, i suoi pianeti, la sua terra, nelle stesse proporzioni del mondo visibile: in questa terra animali, e alla fine acari, nei quali ritroverà ciò che i primi gli hanno presentato; e trovando ancora negli altri la stessa cosa, senza fine e senza posa, si perda in queste meraviglie, così stupefacenti nella loro piccolezza quanto le altre nella loro estensione; chi non si stupisce infatti che il nostro corpo, che poco fa non era percettibile nell'universo, impercettibile a sua volta in seno al tutto, sia ora un colosso, un mondo, o piuttosto un tutto, in confronto al nulla, a cui non si può arrivare? Chi si considererà in tal modo si sgomenterà di se stesso e, considerandosi sospeso, nella massa che la natura gli ha data, tra questi due abissi dell'infinito e del nulla, tremerà alla vista di tali meraviglie; e credo che, mutandosi la sua curiosità in ammirazione, sarà disposto più a contemplarle in silenzio che a indagarle con presunzione. Infine, che cos'e l'uomo nella natura? Un nulla in confronto con l'infinito, un tutto in confronto al nulla, qualcosa di mezzo tra il nulla e il tutto.

Infinitamente lontano dal comprendere gli estremi, il termine delle cose e il loro principio sono per lui invincibilmente nascosti in un segreto impenetrabile, egualmente incapace di scorgere il nulla, da cui è tratto, e l'infinito in cui è inghiottito. Che farà dunque, se non percepire qualche apparenza di ciò che è mediano nelle cose, in una eterna disperazione di non conoscere né il loro principio, né la loro fine? Tutte le cose sono uscite dal nulla e portate fino all'infinito. Chi scoprirà tali meravigliosi processi? L'autore di tali meraviglie non le comprende. Nessun altro lo può fare. Non avendo contemplato questi infiniti, gli uomini si sono volti in modo temerario alla ricerca della natura, come se avessero qualche proporzione con essa. È una cosa strana che essi abbiano voluto comprendere i principi delle cose, e di là giungere a comprendere il tutto, con una presunzione o senza una capacità sconfinata, come la natura. Quando si è istruiti, si comprende che, avendo la natura impressa l'immagine sua e quella del suo artefice in tutte le cose, queste partecipano quasi tutte della sua duplice infinità. Così notiamo che tutte le scienze sono infinitamente estese nelle loro ricerche; infatti, chi dubita che la geometria, ad esempio, ha una infinità d'infinità di proposizioni da esporre?

Queste sono anche infinite nella molteplicità e nella finezza dei loro principi; infatti, chi non vede che quelli che sono proposti per ultimi non si reggono di per se stessi e che sono fondati su altri, i quali, appoggiandosi su altri ancora, non ne ammettono mai un ultimo? Ma noi trattiamo gli ultimi principi che si presentano alla ragione come si fa nelle cose materiali: dove chiamiamo punto indivisibile quello al di là del quale i nostri sensi non percepiscono più nulla, benché sia divisibile all'infinito e per sua natura. Di questi due infiniti delle scienze, quello della grandezza e più percettibile, e perciò si spiega perché è capitato a pochi di pretendere di conoscere tutte le cose. «Ho intenzione di parlare di tutto» diceva Democrito. Ma l'infinita nella piccolezza è molto meno manifesta. Qui, sono stati piuttosto i filosofi che hanno preteso di arrivarvi, ed è proprio qui che tutti si sono arenati. È questo che ha offerto l'occasione a titoli così comuni: I principi delle case, I principi della filosofia e ad altri simili altrettanto grandiosi in realtà, anche se lo sembrano in apparenza meno, di quest'altro che cava gli occhi, De omni scibili. Ci si crede naturalmente più capaci di giungere al centro delle cose che di abbracciare la loro circonferenza. L'estensione visibile del mondo ci sorpassa in modo manifesto; ma dal momento che siamo noi a sorpassare le piccole cose, ci crediamo più capaci di dominarle; e tuttavia necessita non meno capacità per arrivare al nulla che al tutto: ne necessita una infinità per l'uno e per l'altro, e mi sembra che chi avesse compreso i principi ultimi delle cose potrebbe pure pervenire a conoscere l'infinito. L'uno dipende dall'altro e l'uno conduce all'altro.

Queste estremità si toccano e si riuniscono a forza d'essersi allontanate; e si ritrovano in Dio e in Dio soltanto. Rendiamoci conto dunque delle nostre possibilità: siamo qualcosa, ma non tutto; quel che abbiamo d'essere ci sottrae la conoscenza dei primi principi che hanno origine dal nulla; e quel poco d'essere che abbiamo ci nasconde la vista dell'infinito. La nostra intelligenza occupa nell'ordine delle cose intellegibili lo stesso grado del nostro corpo nell'estensione della natura. Limitati in ogni campo, questa condizione, che occupa una posizione intermedia tra due estremi, si ritrova in tutte le nostre facoltà. I nostri sensi non percepiscono nulla di estremo; troppo rumore ci assorda, troppa luce abbaglia, troppa lontananza e troppa vicinanza impediscono la vista, troppa lunghezza e troppa brevità rendono oscuro il discorso, troppa verità ci stupisce (conosco persone che non ce la fanno a capire che sottraendo da zero quattro, resta zero); i primi principi sono troppo evidenti per noi, troppo piacere incomoda, troppe consonanze spiacciono nella musica, troppi benefici irritano, noi vogliamo avere di che ripagare a dovizia secondo il debito: beneficia eo usque latea sunt dum videntur ecsolvi posse; ubi multum antevenere, pro gratia odium redditur [I benefici che si ricevono sono graditi fintanto che si ritiene di poterli contraccambiare; se essi superano di molto questo limite, la gratitudine cede il passo all'odio].

Noi non avvertiamo né l'estremo caldo né l'estremo freddo. Le qualità eccessive ci sono avverse e non sono percepibili: non le sentiamo più, le soffriamo. Troppa giovinezza e troppa vecchiaia impacciano lo spirito, troppa e troppo poca istruzione. Infine, le cose estreme sono per noi come se non esistessero, e noi non esistiamo nei loro confronti: esse ci sfuggono, ed anche noi a loro. Ecco la nostra vera condizione: ed essa ci rende incapaci di conoscere con certezza e di ignorare in modo totale. Noi vaghiamo in uno spazio ampio, sempre incerti e sballottati, sospinti da un'estremità all'altra. Qualunque termine a cui pensiamo di legarci e di fermarci, oscilla e ci abbandona; e se lo seguiamo, sfugge alla nostra presa, ci scivola via e fugge di una eterna fuga. Nulla si ferma per noi. È la nostra condizione naturale, e tuttavia la cosa più contraria alla nostra inclinazione; noi bruciamo dal desiderio di trovare un assetto stabile e un'ultima base solida per edificarvi una torre che si innalzi all'infinito; ma ogni nostro fondamento scricchiola e la terra si apre sino agli abissi. Non cerchiamo, dunque, sicurezza né stabilità. La nostra ragione è sempre delusa dalla mutevolezza delle apparenze; nulla può fissare il finito tra i due infiniti che lo racchiudono e lo fuggono. Avendo ben capito questo, credo che ci si terrà quieti, ciascuno nello stato in cui la natura lo ha posto. Poiché questo luogo di mezzo che ci è toccato in sorte è sempre lontano dagli estremi, che cosa importa che uno abbia un po' più di intelligenza nelle cose? Se ne ha, egli le intende un po' più dall'alto. Non è sempre infinitamente lontano dalla meta, e la durata della vostra vita non è egualmente infima rispetto all'eternità, anche se dura dieci anni in più? Considerando questi infiniti, tutti i finiti sono uguali; e non vedo perché fermare l'immaginazione piuttosto sull'uno che non sull'altro. Il solo confrontarci al finito ci fa pena. Se l'uomo studiasse se stesso per prima cosa, capirebbe quanto sia incapace di andare oltre. Come potrebbe parte conoscere il tutto? - Forse aspirerà a conoscere almeno quelle parti con cui ha una proporzione? – Ma tutte le parti del mondo hanno un tale rapporto e un tale concatenamento l'una con l'altra che credo impossibile conoscere l'una senza l'altra e senza il tutto.

L'uomo, ad esempio, è in rapporto con tutto ciò che conosce. Ha bisogno di un luogo che lo contenga, di tempo per durare, di movimento per vivere, di elementi per essere composto, di calore e di cibo per essere nutrito, di aria per respirare; vede la luce, sente i corpi; insomma, tutto rientra in unione con lui. Occorre dunque, per conoscere l'uomo, sapere per quale motivo egli ha bisogno d'aria per vivere, e per conoscere l'aria occorre sapere perché essa ha simile rapporto con la vita dell'uomo, eccetera. La fiamma non sussiste senza l'aria; dunque, per conoscere l'una bisogna conoscere l'altra. Dunque, poiché tutte le cose sono causate e causanti, adiuvate e adiuvanti, mediate e immediate, e poiché tutte sono collegate da un legame naturale e impercettibile che lega fra loro le più lontane e le più diverse, ritengo impossibile conoscere le parti senza conoscere il tutto, altrettanto quanta conoscere il tutto senza conoscere le parti una per una. «L'eternità delle cose in se stesse o in Dio deve anch'essa far stupire la nostra breve durata. L'immobilità fissa e costante della natura, in confronto con il continuo cambiare che si svolge in noi, deve produrre lo stesso effetto». E ciò che contempla la nostra impotenza a conoscere le cose è che quelle sono semplici, mentre noi siamo composti di due nature opposte e di diverso genere, di anima e di corpo.

Infatti, è impossibile che la parte che in noi ragiona sia anche altro, oltre che spirituale; e qualora si pretendesse che noi fossimo soltanto formati di materia, ciò ci impedirebbe ancor di più di conoscere le cose, poiché non vi è nulla di più inconcepibile che affermare che la materia conosce se stessa; non ci è possibile conoscere come essa conosce. E così, se noi [siamo] semplicemente materiali, non possiamo conoscere niente del tutto, e se siamo composti di spirito e materia, non possiamo conoscere alla perfezione le cose semplici, spirituali o corporali. Da ciò deriva che quasi tutti i filosofi confondono i concetti delle cose, e parlano di cose materiali in modo spirituale e di cose spirituali in modo materiale.

Essi infatti dicono arditamente che i corpi tendono in basso, che aspirano al loro centro, che fuggono la loro distruzione, che temono il vuoto, che [hanno] inclinazioni, simpatie, antipatie: sono tutte cose che appartengono agli spiriti. E, parlando degli spiriti, li considerano come in un luogo e attribuiscono loro il muoversi da un posto a un altro, che sono cose che appartengono solo ai corpi. Invece di cogliere nella loro purezza i concetti di queste cose, li tingiamo delle nostre qualità e impregniamo [del] nostro essere composto tutte le cose semplici che contempliamo. Chi non crederebbe, vedendoci attribuire a ogni cosa spirito e corpo, che tale mescolanza ci sia moltoo comprensibile? Viceversa, è la cosa che si comprende di meno. L'uomo è a se stesso l'oggetto più prodigioso della natura; non può intendere, infatti, che cos'e il corporeo, e ancor meno che cos'è lo spirito, e meno di tutto come qualche cosa come un corpo possa essere unito a uno spirito.Sta in questa il massimo delle sue difficolta, e tuttavia è questo il suo proprio essere: Modus quo corporibus adhaerent spiritus comprehendi ab hominibus non potest, et hoc tamen homo est [Il modo in cui lo spirito è unito al corpo non può essere capito dagli uomini e ciò nonostante si tratta dell'uomo]. Infine, per completare la prova della nostra debolezza, finirò con queste due considerazioni.

85. Se si è troppo giovani, non si giudica bene; lo stesso capita se si è troppo vecchi. Se non si riflette abbastanza, se si riflette troppo, ci si incaparbisce e ci si incapriccia. Se si considera il proprio lavoro subito dopo averlo fatto, se ne è ancora tutti presi; se molto tempo dopo, non ci si immedesima più in esso. Così i quadri, visti troppo da lontano e troppo da vicino: vi è solo un punto indivisibile che sia il luogo giusto. Gli altri sono troppo vicini, troppo lontani, troppo in alto, oppure troppo in basso. Nell'arte della pittura la prospettiva sa determinare il punto giusto. Ma nella verità e nella morale, chi lo stabilirà?

86. Quando tutto si muove in modo uguale, in apparenza nulla si muove, come su una nave. Quando tutti vanno verso la sfrenatezza, sembra che nessuno vada. Chi si ferma, porta a rilevare, come un punto fisso, il lasciarsi travolgere degli altri.

87. Coloro che si trovano nella sregolatezza dicono a coloro che sono nell'ordine che sono essi ad allontanarsi dalla natura, mentre essi credono di seguirla: come quelli che si trovano su una nave credono che ad allontanarsi siano quelli che si trovano a riva. Il linguaggio è lo stesso da tutte le parti. Bisogna avere un punto fisso per giudicare. Il porto giudica quelli che sono su una nave; ma dove troveremo noi un porto nella morale?

88. Quando considero la breve durata della mia vita, assorbita nell'eternità che la precede e la segue, il piccolo spazio che riempio e che vedo, inabissato nell'infinita immensità degli spazi che ignoro e che mi ignorano, io mi spavento e mi stupisco di vedermi qui piuttosto che là, perché non vi è motivo perché qui piuttosto che là, perché ora piuttosto che allora. Chi mi ci ha messo? Per ordine e per opera di chi mi è stato destinato questo luogo e questo tempo?

89. Perché la mia conoscenza è limitata? La mia statura? La mia durata di cent'anni piuttosto che mille? Quale motivo ha avuto la natura di darmela di tale misura e di scegliere questa numero piuttosto che un altro, fra gli infiniti numeri non essendoci maggior ragione di scegliere l'uno più che l'altro, dato che nessuno attira più di un altro?

90. Quanti reami ci ignorano!

91. Il silenzio eterno di questi spazi infiniti mi spaventa.

    

Da Pensieri, opuscoli, lettere, a cura di A. Bausola, tr. it. di A. Bausola e R. Tapella, Rusconi, Milano 19974Pensieri, nn. 84-91, pp. 425-437