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Una scelta di brani di carattere interdisciplinare

Angelo Secchi
1864-1879

Come accade per altri autori, sacerdoti e scienziati, che operarono durante il XVIII e il XIX secolo, Angelo Secchi non ci offre un pensiero sistematico sui rapporti fra scienza e fede. La sua visione epistemologica o filosofica per tali rapporti la si evince dalle considerazioni presentate nelle pagine finali di alcune sue opere, in particolare nei capitoli conclusivi de L’unità delle forze fisiche. Saggio di filosofia naturale (1864) e del volume Le stelle. Saggio di astronomia siderale (1877). L’edizione pubblicata postuma delle Lezioni di Fisica terrestre (1879) riporta in Appendice i testi di due conferenze divulgative tenute nel 1876 e 1877 all’Accademia Tiberina che toccano alcune questioni interdisciplinari. Riferimenti alla fede cristiana sono presenti in altre conferenze non pubblicate o di difficile reperimento e, soprattutto, nell’epistolario. Riportiamo qui alcune citazioni fra le più interessanti, con una breve contestualizzazione.

     
Sulle caratteristiche del lavoro scientifico 

Per Secchi occorre evitare due rischi: staccarsi dai dati sperimentali dedicandosi a costruzioni teoriche scarsamente fondate, oppure inibire la fantasia per troppa aderenza al realismo e alla tradizione.
   

«Malgrado che ci sia impossibile penetrare completamente il mistero della costituzione del Mondo, tuttavia dai lavori eseguiti finora dagli astronomi, abbiamo già molti materiali per illuminare un poco la nostra ignoranza. In questa materia dobbiamo sempre avere avanti agli occhi il bello avviso di Herschel che si devono evitare i due estremi: il primo di fabbrica mondi a nostra fantasia; perché così non arriveremo a conoscere la natura e sarebbe tempo perduto l’occuparvisi intorno; L’altro è la troppa timidità di congetturare, perché così si perde il frutto delle osservazioni, le quali appunto si devono fare, affine d’arrivare a conoscere la composizione e la struttura dell’Universo».

Le stelle. Saggio di astronomia siderale, Fratelli Dumolard, Milano 1877, p. 299.

        

Sul rapporto fra creazione ed evoluzione 

L’astronomo gesuita, che scrive a pochi anni dalla pubblicazione de L’origini delle specie (1859) di Darwin non vede incompatibilità fra un principio di creazione e la teoria dell’evoluzione biologica, partendo egli dall’osservazione scientifiche che la vita si è sviluppata sulla terra da forme assai semplici verso forme sempre più complesse. Avanza però delle riserve sulla possibilità che una specie biologica possa trasformarsi in un’altra, basandosi sulla infertilità sperimentale degli ibridi. Secchi desidera soprattutto chiarire nel mondo non tutto è materia e lo sviluppo della vita ha come causa originaria e finale l’azione di un’Intelligenza.
    

«L'idea delle successive trasformazioni presa con debita moderazione non è punto inconciliabile colla ragione, né colla religione. Infatti, ove non si voglia tutto eseguito per pure forze innate e proprie della materia bruta, ma si ammetta che queste forze non d'altronde derivassero che dalla Cagione prima che creò la materia, e ad essa diede la potenza di produrre certi effetti, non vi è nessuna intrinseca repugnanza per credere che, fino a tanto che non interviene nessuna forza nuova, possano svilupparsi certi organismi in un modo piuttosto che in un altro, e dar origine così a differenti esseri. Ma quando da una serie di questi esseri si passa ad un'altra che contiene un nuovo principio, la cosa muta aspetto. Dal vegetale senza sensibilità non potrà passarsi all'animale che ha sensazioni, senza un nuovo potere che non può venire dalla sola organizzazione, né dalla sola materia. E molto più dovrà dirsi ciò quando si passa dal bruto animale all'uomo che ragiona, riflette ed ha coscienza. Un nuovo principio deve associarsi allora alle forze fisiche della materia per avere questi risultati».

Lezioni di Fisica Terrestre, Loescher, Torino-Roma 1879, p. 199.

       

«Esiste, è vero, in natura, una mirabile serie di esseri e uno sviluppo meraviglioso di forme dalle più semplici alle più complesse, di organismi dai più rudimentari dai più sublimi, ma la causa che le determinò non può trovarsi nelle pure leggi della materia, ed è necessario ricorrere ad un principio libero che nella scelta e coordinazione delle forme, tra le infinite possibili fissò quelle che erano in armonia con le leggi primordiali delle forze fisiche liberamente da lui [dal principio creatore] stabilite, e di cui ab origine vide e conobbe tutte le conseguenze e mise gli organi in correlazione coll’uso e colla necessità della creatura. E se anche si dice che queste forme si svilupparono per circostanze speciali come le curve da una stessa equazione col variare parametri, noi diremo che lo stabilire quella prima formola da cui derivano le altre esige intelligenza e azione fuori della materia in cui si compiono: e ciò basta a tranquillare [sic] quelli che temono cattive conseguenze dalle idee darwiniane ove si venissero a dimostrare, il che non crediamo».

L’unità delle forze fisiche, Treves, Milano 1874, vol. 2, pp. 359-360.
      

«Il supporre che tutto sia effetto di forze cieche, di combinazioni accidentali di materia bruta, che restino poi così per caso permanenti, come per caso si formarono, è stata dai savi sempre riguardata come una stoltezza, anziché una filosofia degna di uomo ragionevole. [...] La mente è quella che veramente crea e concepisce, e se questo attributo è nell'uomo in qualunque modo, per partecipazione, non è render Dio pari a noi stessi l'attribuirgli eminentemente questo attributo, non è limitarlo ad una particolare esistenza il concepire che esso vede tutto, conosce tutto, spirito purissimo sostiene tutto, che in esso noi viviamo, ci moviamo ed esistiamo, e che siamo sua fattura».

Lezioni di Fisica Terrestre, Loescher, Torino-Roma 1879, p. 202.

     

Sulla presenza di un’Intelligenza creatrice come causa dell’ordine del cosmo 

Angelo Secchi scrive e opera mentre in Europa, Germania e Francia in particolare, prende corpo un diffuso materialismo naturalista che affida alla sola materia le risposte ultime dell’esistenza e delle leggi del cosmo. A tale visione egli intende opporre quella di un principio creatore, visione che non ostacola il lavoro della scienza ma, piuttosto, sembra renderlo fecondo.
     

«Per produrre l’organizzazione si esige l’opera intelligente dell’Eterno Macchinista il cui lavoro e la cui Arte con termine convenzionale e per brevità chiamiamo Natura. E tale intervento è qui tanto necessario per la forma, quanto lo fu nella materia bruta per dargli l’Essere e con questo il primo Moto. L’escluder questa azione sotto qualunque pretesto è un chiudersi la strada all’intelligenza de’ fenomeni i più manifesti. Né ciò vuol dire che alla scienza si sostituisca l’arbitrio, e che così si renda la scienza impossibile. Perché la scienza consiste nella deduzione di un fatto dalla sua causa, e dove la legge sia costante questo è sempre possibile. Col dire che le leggi di natura non sono necessarie assolutamente noi non diciamo che siano volubili e capricciose. L’Eterna Sapienza che le fissò da principio, le vide tutte nel suo intuito infinito, e tra di esse (a nostro modo di intendere) scelse per tal guisa che tutte fossero in armonia, ed è questa armonia che l’uomo cerca di svelare co’ suoi deboli sforzi. Costanza nelle leggi non è sinonimo di Necessità».

L’unità delle forze fisiche, Treves, Milano 1874, vol. 2, 361.

           

«Seppure noi arrivassimo a conoscere tutti i moti delle fibre cerebrali che accompagnano ogni nostra sensazione e ogni nostra affezione, sarebbe poi sempre da spiegare come ne abbiamo la coscienza […]. Lo studio accurato della materia conduce ad ammettere un principio immateriale che in noi regge ed impera. […] Quello che diciamo del principio che esiste in noi diverso dalla materia testimoniato dal senso intimo deve dirsi del resto del mondo. Se noi possediamo in noi una forza diversa dalla materia, anzi se l’uomo stesso è costituito nella sua nobiltà da questo principio, ed esso non è il suo proprio autore, è evidente che la causa che lo produsse dovrà per lo meno avere pari entità e capacità, cioè personalità, ragione, intelligenza, colla differenza che non potendosi procedere nella serie delle cause all’infinito, dovrà esisterne una che possegga in grado eminente tutte quelle proprietà che noi abbiamo per semplice comunicazione. Quest’ente noi lo chiamiamo Dio».

L’unità delle forze fisiche, Treves, Milano 1874, vol. 2, pp. 363-364.

         

«Esistenza, moto, vita vegetale, sensazione, intelligenza, ecco i cinque grandi stadii che formano la creazione tutta. L’Autore supremo, coll’atto stesso con cui diede l’esistenza alla materia bruta gli comunicò anche un principio di attività consistente in un moto indistruttibile. Ma in altri complessi determinò il moto dietro una disposizione particolare, subordinata però alle mere forze fisiche: in altri volle concorresse un altro principio superiore alla materia che ne regolasse le operazioni: finalmente nel più alto di tutti gli esseri posti su questa terra aggiunse il lume della ragione, che dà all’uomo solo la capacità di conoscere sé stesso, il suo autore, le sue opere, le relazioni generiche delle cose, e fino a un certo punto permette l’imitazione dell’arte divina. Che se qualcuno insistesse, come è che queste varie modificazioni di organismi si conservano e si perpetuano, noi non esitiamo a dire che ciò non è per forza loro propria, ma per l’attuale azione positiva dello stesso Primo Principio che le trasse dal nulla senza cui nel nulla ricadrebbero. Non è il Creatore come l’artista che fatta la macchina l’abbandona ed essa sussiste e lavora da sé: la conservazione è in vero senso una continuata creazione e in nessuna cosa ha acquistato il diritto di esistere per ciò solo che fu messa al mondo, ma intanto sussiste in quanto non cessa la volontà e l’azione Divina che la produsse».

L’unità delle forze fisiche, Treves, Milano 1874, vol. 2, pp. 369-370.

          

«Tutte le forze della natura dipendono dal moto della materia ponderabile e imponderabile o etere. Questo moto deve ammettersi nelle singole parti della materia nel modo più generale che lo può concepire una massa finita, cioè rotatorio e traslatorio. Per questa sua doppia modalità esso diviene indistruttibile nelle masse, considerato anche meramente nell’ordine meccanico in virtù dell’inerzia e non abbisogna di azione speciale che lo rinnovi. La sua energia proveniente dall’impulso primitivo del Primo Motore si conserva con quella azione medesima che conserva la materia. […] Così tutto dipende dalla materia e dal moto e siamo ricondotti alla vera filosofia della natura inaugurata dal Galileo, cioè che in natura tutto è moto o materia o modificazione semplice di questa, per mera trasposizione di parti o di qualità di moto. […] Ma l’investigare questi principi e il ravvisare queste cause dirette dei fenomeni non dispensa dalla Causa Prima, dalla cui volontà dipende la prima limitazione delle azioni intensità e direzione definita. L’uomo non può far altro che indagare quella prima volontà del Creatore da cui come effetto mediatamente dipende tutto ciò che si presenta al suo sguardo. Se tanto più rifulge l’abilità di un artista quanto più semplice è il suo principio di azione o quanto più si dispensa dall’intervento della mano che lo introdusse, altrettanto sarà da dirsi dell’opera dell’Eterno Artefice».

L’unità delle forze fisiche, Treves, Milano 1874, vol. 2, 371-372, 377, 379-380.

      

Sulla vita nel cosmo 

Come Giovanni Virginio Schiaparelli (1835-1910), che su questo punto fu anticipato dall’astronomo gesuita, Secchi ritiene possibile la diffusione della vita nel cosmo e non vede in essa un ostacolo alla comprensione delle verità di fede trasmesse dal cristianesimo.
    


I disegni di Marte

«Il creato, che contempla l'astronomo, non è un semplice ammasso di materia luminosa: è un prodigioso organismo, in cui, dove cessa l'incandescenza della materia, incomincia la vita. Benché questa non sia penetrabile ai suoi telescopii, tuttavia, dall'analogia del nostro globo, possiamo argomentarne la generale esistenza negli altri. La costituzione atmosferica degli altri pianeti, che in alcuni è cotanto simile alla nostra, e la struttura e composizione delle stelle simile a quella del nostro sole, ci persuadono che essi o sono in uno stadio simile al presente del nostro sistema, o percorrono taluno di quei periodi, che esso già percorse, o è destinato a percorrere. Dall’immensa varietà delle creature, che furono già e che sono sul nostro, possiamo argomentare la diversità di quelle che possono esistere colà. Se da noi l’aria, l’acqua e la terra sono popolate da tante varietà di esse, che si cambiarono le tante volte al mutare delle semplici circostanze di clima e di mezzo, quante più se ne devono trovare in quegli sterminati sistemi, ove gli astri secondarii sono rischiarati talora non da uno, ma da più soli alternativamente, e dove le vicende climateriche succedentisi del caldo e del freddo devono essere estreme per le eccentricità delle orbite, e per le varie intensità assolute delle loro radiazioni, da cui neppure il nostro sole è esente!».

Lezioni di Fisica Terrestre, Loescher, Torino-Roma 1879, pp. 214-215.

    

«È vero che essa [la vita] da noi non può esistere che entro confini di temperatura assai limitati, ma chi può sapere se questi non sono limiti solo pei nostri organismi? Tuttavia, anche con questi limiti, se essa non potrebbe esistere negli astri infiammati, questi astri maggiori avrebbero sempre nella creazione il grande uffizio di sostenerla regolando il corso dei corpi secondarii, mediante l’attrazione delle loro masse, e di avvivarla colla luce e col calore. […] La vita empie l’universo, e con la vita va associata l’intelligenza, e come abbondano gli esseri a noi inferiori, così possono, in altre condizioni esisterne di quelli immensamente più capaci di noi. Fra il debole lume di questo raggio divino che rifulge nel nostro fragile composto, mercé del quale potemmo pur conoscere tante meraviglie, e la sapienza dell’autore di tutte le cose è un’infinita distanza che può essere intercalata da gradi infiniti delle sue creature, per le quali i teoremi, che per noi sono frutto di ardui studi,  potrebbero essere semplici intuizioni».

Lezioni di Fisica Terrestre, Loescher, Torino-Roma 1879, pp. 215-216.

 
   

Sull’attività scientifica realizzata da un credente 

La conoscenza scientifica è ritenuta da Secchi un dono di Dio. Essa favorisce l’umiltà, la contemplazione e la vita di preghiera, sentimenti condivisi da numerosi scienziati che operarono già all’avvio del metodo scientifico, come ben espresso ad esempio da Johannes Keplero e Robert Boyle.
    

«Gli studi profani aprendo la mente le facilitano l'intelligenza delle cose divine. S. Paolo diceva: invisibilia Dei per ea quae facta sunt intellecta conspiciuntur [Rm 1,20] e i cieli mostrano la gloria del Signore, e il fiore del campo e l’insettuccio volante mostrano la sua infinita sapienza. Ma questa stessa intelligenza è dono di Dio: non solo nell'ordine delle cose soprannaturali noi non possiamo pensar nulla da noi come da noi, ma ogni potenza nostra è da Dio».

Archivio Secchi, Pontificia Università Gregoriana, 2.VIIa, p. 13.
    

«È dunque dono di Dio anche l’intelligenza nelle scienze ed uno dei doni del Santo Spirito. Allora, pertanto con coraggio, e dirò quasi con un certo diritto, potremo chiedere questo dono a Dio quando nei nostri studi noi ci proporremo lo scopo che si deve prefiggere ogni cristiano. Cioè non la vanità di superare gli emoli, non la boria o la superbia dopo averli superati ma solo col chiedere il lume dell'intelletto a comprendere le opere del Signore, a conoscere le sue grandezze e i nostri doveri».

Archivio Secchi, Pontificia Università Gregoriana, 2.VIIa, p. 13.
   

    
«Ricorriamo dunque al Signore di tutte le scienze [...] e in special modo alla SS. Persona della SS.a Trinità a cui è specialmente per appropriazione attribuito il rischiarare il nostro intelletto, ricorriamo a lui perché ci illumini, giacche noi non vogliamo questa intelligenza per nostra vanità [...]. Perché da questa cognizione di Lui e delle sue opere noi impariamo ad amarlo e a servirlo. […] Egli visiti le nostre menti che sono tutte per lui non per la vanità [...]. Questi doni siano accompagnati da quelli della grazia suprema che ci fa amici di Dio e fa dell'uomo un suo abitacolo [...]. Né solo la mente ma anche il cuore, perché colla sola mente non potremo piacergli [...]. Voi Paracleto consolatore, confortate le anime nostre nelle tristezze che spesso raccogliamo come frutto delle nostre fatiche negli studi [...] e dono prezioso della Triade altissima indivisa... fonte vivo di ogni scienza... fuoco di vero amore che ci leghi sempre alla vostra carità... e mozione spirituale colla quale voi potete lenire tutte le piaghe dell'anima e del corpo [...] illuminate col vostro chiarore la nostra mente, infiammate col vostro ardore i nostri cuori e dateci fortezza e coraggio per superare oggi e sempre i nostri nemici [...]. Fate che i nostri studi siano diretti a conoscere sempre meglio il divin Padre e il redentore Figlio e Voi».

Archivio Secchi, Pontificia Università Gregoriana, 2.VII.a, p. 22.

       

Parole pronunciate in occasione dell’inaugurazione del nuovo Osservatorio del Collegio Romano: «Religionis et Bonis Artibus è il motto che volle scolpito in fronte a questo collegio l suo fondatore a provare col fatto che la vera fede non è ostile alla scienza, ma che ambedue sono raggi di uno stesso Sole diretti ad illuminare le nostre cieche e deboli menti alla via della Verità. Senza quest’alto scopo, tali studi sono una mera curiosità, e spesso solamente fruttiferi di pene o almeno di non remunerate fatiche. Il pensare quanto sia magnifico il manifestare le opere del Creatore è uno stimolo che sprona anche quando viene meno ogni altro eccitamento; questo solleva la mente sopra la materialità delle cifre, e forma di queste fatiche un’opera sublime e divina».  

Descrizione del nuovo osservatorio del Collegio Romano, «Memorie dell’Osservatorio del Collegio Romano» (1856), p. 157, cit. in S. Maffeo, Il Collegio Romano e l’insegnamento delle scienze, in A. Altamore, S. Maffeo (edd.), Angelo Secchi. L’avventura scientifica del Collegio Romano, Quater, Foligno 2012, 15-41, qui 40.