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Anarchismo o progresso? Paul K. Feyerabend a 100 anni dalla nascita

Maggio 2024
Ivan Colagè
Vice-Direttore del Centro DISF

Cosa vedete in questa immagine? Qualcuno vedrà subito un volto di donna (probabilmente, il volto di una potenziale attrice di metà secolo scorso, con acconciatura dell’epoca, tipicamente occidentale). Altri vedranno dapprima l’immagine stilizzata e caricaturale di un sassofonista con un gran naso. Qualcuno faticherà a vedere entrambe le immagini, rimanendo focalizzato sulla prima che è apparsa. Altri, le vedranno facilmente entrambi, oscillando sovente tra l’una e l’altra. Perché ciò avviene? Una prima risposta proviene dalla psicologia (e specificamente dalla cosiddetta psicologia della Gestalt): gli stimoli sensoriali (non solo quelli visivi, in realtà) vengono in certo senso “interpretati” già a livello di percezione – ben prima di qualsiasi ragionamento. La nostra percezione non è puramente passiva, organizza le sensazioni in delle unità strutturate: gli conferisce una forma (“Gestalt” vuol dire proprio “forma” in tedesco).

Ma: su che basi? Questa è una domanda complessa e difficile – su cui oggi neuroscienze e biologia evolutiva avrebbero molto da dire. Un editoriale non è il luogo per spingersi così a fondo, ma possiamo proseguire un po’ il ragionamento ponendoci un’altra domanda. Cosa vedrebbe, in quella medesima immagine, un nostro conspecifico o una nostra conspecifica H. sapiens di, diciamo, 50.000, o anche 15.000 anni fa? Difficile a dirsi, naturalmente. Il mio guess però è che, assai probabilmente, … non ci vedrebbe proprio nulla. Non certo un sassofonista (ché il sax era ancora di la da venire). Verosimilmente, neppure un volto di donna: le acconciature all’epoca erano parecchio diverse … 

Parto dalle riflessioni su questa immagine per parlarvi di due temi importanti introdotti dal filosofo della scienza Paul Feyerabend (1924-1994), del quale ricorrono quest'anno il centenario dell nascita e il 30° anniversario della scomparsa. Il primo ha a che fare con l’annoso problema – almeno nella filosofia della scienza di tutto il ‘900 – del rapporto tra termini osservativi o linguaggio osservativo da una parte, e termini teorici o linguaggio teorico dall’altra. Questo tema attraversa tutto il pensiero del nostro autore. L’idea che egli avanza è che, in realtà, questa distinzione non c’è: tutti i termini sono in realtà teorici, ipotetici (o, meglio, frutto di interpretazioni teorico-ipotetiche della realtà in quanto percepita), e non esiste un linguaggio “neutro” sul quale stagliare (e valutare) quello teorico. Lo vedremo meglio tra poco, ma sarà utile sin da ora la seguente citazione:

La percezione sensoriale, per quanto semplice, contiene sempre una componente che esprime la reazione fisiologica dell’organismo percipiente e non ha alcun correlato oggettivo. (Feyerabend, Contro il metodo, pp. 55-56).

Il secondo tema – che è invece qualcosa a cui Feyerabend approda per lo più nell’ultima parte del suo sviluppo teorico – ha a che fare con la ineffabilità e la sovrabbondanza della realtà. Per stare nell’esempio, il fatto che noi possiamo vedere chiaramente il volto di donna e/o il sassofonista nell’immagine di prima (nessuna delle due “visioni” potendosi dire falsa, e nessuna delle due “più vera” dell’altra) suggerisce, in un certo senso, che quell’immagine è “sovrabbondante”, è in se stessa passibile di (almeno) due interpretazioni. “Almeno”, perché non possiamo sapere se i nostri antenati avessero potuto vederci altre cose – o se i nostri discendenti potranno vederci, immaginiamo, il volto di un robot umanoide che oggi ancora non esiste ma domani potrebbe esser diventato famoso …  

Ecco: il pensiero di Paul Feyerabend potrebbe essere compreso tra questi due estremi. Il primo (quello dell’impossibilità di distinguere radicalmente tra il teorico e l’osservativo) porterà nella fase centrale delle produzione del nostro autore – quella che culminerà in Contro il metodo (1975), la sua opera più famosa – al suo “anarchismo epistemologico”. Il secondo, quello del carattere ineffabile e sovrabbondante della Natura (scritta spesso con la maiuscola!) rappresenta, per così dire, l’esito ontologico (forse persino “metafisico”) dell’epistemologia e della filosofia della scienza feyerabendiane, la via per la quale “fondare”, o forse soltanto perorare e difendere, la sua teoria anarchica della conoscenza (come recita il sottotitolo di Contro il metodo).

Paul Feyerabend nasce a Vienna nel 1924 e la sua vita attraversa gran parte del Secolo Breve in Europa e negli Stati Uniti – morendo in Svizzera nel 1994. Ciò gli fa esperire in prima persona non soltanto gli sconvolgimenti socio-politici del suo tempo, ma anche gli sviluppi scientifici e filosofici che hanno caratterizzato gli anni centrali del ‘900. La sua biografia è assai movimentata, sia dal punto di vista personale che da quello professionale, e lo ha portato ad interagire più o meno direttamente con alcuni dei protagonisti del secolo scorso, dai filosofi Karl Popper e Ludwig Wittgenstein ai fisici Niels Bohr e David Bohm passando per Bertold Brecht. Conobbe Thomas Khun e fu grande amico di Imre Lakatos – rimenendo fortemente scosso dalla prematura scomparsa di quest’ultimo nel 1974.

Feyerabend è una della figure di spicco nell’epistemologia e filosofia della scienza novecentesca, considerato, insieme a Kuhn, Lakatos e Norwood Hanson, tra gli artefici della cosiddetta svolta storica in epistemologia – vale a dire quella corrente epistemologica che considera la storia della scienza come una dimensione essenziale per la stessa comprensione del “fenomeno scienza” nel suo complesso. Proprio questa sua convinzione circa l’importanza della storia – non soltanto per l’epistemologia scientifica (vale a dire, la riflessione filosofica sulla scienza) ma anche per la scienza in quanto tale – può essere considerato (almeno concettualmente) come il punto di inizio del suo distacco dal falsificazionismo popperiano, la corrente entro la quale Feyerabend iniziò ad occuparsi di epistemologia. Per Popper, com’è per lo più noto, la storia della scienza è una “storia di cadaveri” – vale a dire, la storia di teorie proposte e poi abbandonate in quanto falsificate, ritenute false perché le previsioni a cui davano vita si sono rivelate, presto o tardi, errate e smentite dei fatti. L’epistemologia di Popper, inoltre, è considerata (e lo fu anche da Feyerabend) come una epistemologia normativa: una epistemologia che intendeva dire agli scienziati come essi avrebbero dovuto fare scienza nel migliore di modi. Entrambi questi caratteri del falsificazionismo risultavano troppo restrittivi per Feyerabend. La reazione a questo, unitamente all’abbandono della distinzione osservativo-teorico, lo portarono – naturalmente, passando per attente analisi e ricostruzioni storiche che egli stesso svolse –al suo “anarchismo epistemologico”. Lo slogan di questa posizione epistemologica si trova formulato schiettamente alla fine del penultimo capoverso del primo capitolo di Contro il metodo:   

È chiaro, quindi, che l’idea di un metodo fisso, o di una teoria fissa della razionalità, poggia su una visione troppo ingenua dell’uomo e del suo ambiente sociale. Per coloro che non vogliono ignorare il ricco materiale fornito dalla storia, e che non si propongono di impoverirlo per compiacere ai loro istinti più bassi, alla loro brama di sicurezza intellettuale nella forma della chiarezza, della precisione, dell’“obiettività”, della “verità”, diventerà chiaro che c’è un solo principio che possa essere difeso in tutte le circostanze e in tutte le fasi dello sviluppo umano. È il principio: qualsiasi cosa può andar bene (p. 25).

Si perdonerà la veemenza (la “schiettezza”, appunto) dell’espressività feyerabendiana, ma questo è, in sostanza, il nocciolo della sua “teoria anarchica della conoscenza”. Il lettore immaginerà facilmente quanto dibattito questa teoria epistemologica abbia suscitato, e quante critiche abbia ricevuto – alle quali lo stesso Feyerabend si prenderà cura di rispondere minuziosamente (e ciò costituisce la terza parte del secondo libro più importante del nostro autore: Science in a Free Society, del 1978). Chiaramente, non possiamo entrare qui nella ricostruzione di questo importante dibattito filosofico. Vorrei però sottolineare una parola dello slogan: “può”. Feyerabend sostiene che qualsiasi cosa può andar bene, non che ogni cosa va bene di fatto. Il suo anarchismo metodologico non è un relativismo – concezione dalla quale lo stesso Feyerabend si distanzia esplicitamente.

Il suo è piuttosto un autentico pluralismo: il rifiuto di imporre l’adesione incondizionata ad uno e un sol modo di fare scienza. La teoria epistemologica del nostro autore intende legittimare il ricorso a idiosincrasie metodologiche qualora le circostanze, il contesto sociale, le peculiarità personali degli intellettuali, le priorità perseguite, ecc., ecc., lo richiedano. Feyerabend perora la sua posizione principalmente con argomentazioni storiche – non esitando ad entrare però, talvolta, in questioni scientifiche a lui contemporanee, come le interpretazioni della meccanica quantistica, o lo sviluppo della biologica molecolare fino allo Human Genome Project. Vorrei però, in questa sede, inquadrare la sua posizione esplicitando ancora un po’ i suoi presupposti concettuali, le sue motivazioni e, soprattutto, le sue implicazioni.

L’eroe di Feyerabend è Galileo (forse secondo solo ad Aristotele in quanto ad ammirazione concessa: in una lezione all’Università del Sussex, nell’autunno del 1974, egli inizio scrivendo alla lavagna il nome di Aristotele a caratteri enormi, e aggiungendovi al di sotto, in caratteri minutissimi, quasi illeggibili, quello di Popper …). Feyerabend nota che Galileo si riteneva un allievo di Aristotele migliore degli aristotelici ufficiali dell’epoca, e nota anche che la grandezza di Galileo è stata esattamente quella di violare gli standard aristotelici. Sottolinea come la grandezza di Galileo stia nel suo aver proposto e difeso una teoria (il copernicanesimo) in aperto contrasto e con le teorie e con le osservazioni dell’epoca! Arriva persino a sostenere, nel capitolo 9 di Contro il metodo, che Galileo abbia saputo mutare persino le sensazioni dei suoi ineterlocutori, il “cuore sensoriale delle nostre asserzioni d’osservazione” (p. 84, corsivo nell’originale). Questa è, a parer di Feyerabend , la grandezza di Galileo: aver cambiato, sovvertito, gli standard scientifici a tutti i livelli.

Ma quale potrebbe essere la motivazione per propugnare il pluralismo metodologico al punto da esaltare la violazione degli standard? Per come riesco a capire il pensiero di Feyerabend, direi: l’ostinazione contro qualsiasi limitazione o mortificazione possibile al progresso futuro della conoscenza! Non è un caso che il capitolo 1 di Contro il metodo sancisce che:

Questa libertà di azione [“non lasciarsi vincolare da certe norme metodologiche”], non è solo una fatto della storia della scienza. Esso è sia ragionevole sia assolutamente necessario per la crescita del sapere. (p. 21)

Aggiungendo poco dopo:

Ci sono addirittura circostanze – le quali si verificano anzi piuttosto spesso – in cui il ragionamento perde il suo aspetto orientato al futuro diventando addirittura un impaccio al progresso. (p. 22)

Quindi, l’intero sviluppo del pensiero di Paul Feyerabend potrebbe essere letto alla luce di una motivazione profonda verso l’incoraggiamento al progresso e alla crescita della conoscenza, motivazione tanto forte da spingere verso l’anarchismo epistemologico.

Eppure rimarrebbe ancora una questione su cui indugiare. L’oggetto della conoscenza – la realtà, la Natura, l’Essere – che ruolo giocano in questo pensiero. Non potrebbe essere proprio questo a forzarci – o semplicemente ad indurci – ad una metodologia fissa, stabile e definita? A questa prospettiva – sempre stando a come ho compreso il pensiero feyerabendiano – si trova una risposta nell’ultima fase dell’opera del nostro autore. 

Feyerabend è un realista. Questo può sorprendere dato quanto visto sin qui, ma egli si è sempre schierato a favore della necessità di intendere la conoscenza scientifica come finalizzata ad informarci sulla realtà, fuggendo da qualsiasi tentazione strumentalista. Il punto decisivo, però, è che egli concepisce la realtà come ineffabile e sovrabbondante (traendo spunto persino da Pseudo Dionigi Aeropagita) – mi riferisco qui principalmente ad un articolo del 1995, uscito postumo: Art as a Product of Nature as a Work of Art (forse traducibile con: “l’arte come un prodotto della natura in quanto opera d’arte”), pubblicato nel volume 165 dei Boston Studies in the Philosopy of Science). Ed egli concepisce la conoscenza scientifica in termini “interazionali”, ponendo l’accento sul fatto che la conoscenza scientifica ci informa sulla realtà tramite le, e grazie alle, nostre interazioni con essa. I programmi di ricerca scientifica non “rivelano come la Natura è indipendentemente dall’interferenza”; “essi rivelano come la Natura risponde all’interferenza” (p. 14). Questo va affiancato alla considerazione che “essendo approcciata in modi diversi, la natura da risposte diverse, e che proiettare una sola risposta su di essa [la natura] come se questa descrivesse la sua vera forma è pensiero speranzoso [wishful thinking], non scienza” (p. 14). Ecco quel fondamento ontologico che motiva il pluralismo epistemologico: la ricchezza della realtà. Ed è questo stesso fondamento che impedisce al pluralismo metodologico di scivolare in relativismo: “la natura non è qualcosa di informe che può essere trasformata in qualsiasi forma, essa resiste e attraverso la sua resistenza rivela le sue proprietà e leggi” (pp. 13-14). Pertanto, non: “ogni cosa va bene” perché la natura resiste ad alcune di queste “cose”; ma “qualsiasi cosa può andar bene”, fintanto che questa “cosa” ci permette di svelare qualche aspetto di questa realtà ricca, ineffabile nella sua totalità e sovrabbondante rispetto alle nostre interazioni.

     


P.K. FEYERABEND, Contro il metodo. Abbozzo di una teoria anarchica della conoscenza, trad.it. Libero Sosio, Feltrinelli, Milano 2002, pp 252

K. GAVROGLU, J.J. STACHEL, M. W. WARTOFSKY, Science, Mind and Art: Essays on science and the humanistic understanding in art, epistemology, religion and ethics, Kluwer Academic Publishers, Dordrecht 1995, pp. 476.