L’esigenza filosofica è un'esigenza di intelligibilità. Di fronte al disordine apparente delle cose, lo spirito filosofico cerca di intravedere un ordine, di stabilire delle consequenzialità, di scoprire la concatenazione delle cause. Al di sopra delle realtà concrete, lo spirito filosofico cerca di sviscerare la struttura stessa dell'essere, di cui vuol afferrare il principio primo, ciò che è insieme la causa, I'esemplare, il fine di ogni cosa. Questo principio si chiama Dio. La ricerca filosofica conduce necessariamente al problema di Dio, vale a dire al solo problema che realmente l'interessi.
Ma ecco che qui incontra un’invincibile tentazione, perché essa è giunta a quel principio che chiama Dio attraverso un'esigenza di intelligibilità. Dio rappresenta un'esigenza ed essa gli applica quel principio che l'ha condotta fino a lui: lo vuole cioè intelligibile. […]
Ora, l'essenza stessa di Dio è precisamente di essere ciò che non è misurato da nulla e che misura ogni cosa. Al livello di Dio il problema dell'intelligibilità si inverte. Egli è l’inintelligibile per il quale tutto il resto è intelligibile. Riducendolo alle entità intelligibili, lo si nega nella sua realtà specifica. Egli non è nell'interno dell’intelligibilità, ma è lui che la costituisce. Così, come ha detto Pascal, l'atteggiamento più ragionevole è la sconfessione della ragione. Qui è la conoscenza di Dio. […]
La ragione avrebbe trovato Dio solo riconoscendo la propria impotenza, ma lo perde pretendendo di impadronirsene. L’Uno di Plotino, il Brahman di Sankara, l'Essere di Spinoza, lo Spirito assoluto di Hegel non sono a conti fatti altro che idoli, non in quanto oggetto della ragione, ma in quanto sufficienza della ragione. […]
Così i veri problemi metafisici sono quelli che fanno toccare alla metafisica i suoi limiti. Ma questa è precisamente la loro funzione: essi impediscono alla ragione di rinchiudersi in se stessa, sono vere e proprie finestre aperte sul mistero dell'essere. La ragione non può sondare questo mistero, ma può almeno condurvi. La sua funzione è appunto questa: essa conduce lo spirito fino alle frontiere del mistero, circonda il dominio del mistero e, chiarendo tutto ciò che rientra nel suo proprio dominio, impedisce di scorgere mistero dove mistero non è. Essa svuota di ogni aspetto misterioso le realtà naturali, che spesso passano per misteri, esplicando così la sua funzione critica e purificatrice. Ma la ragione indica anche i veri misteri; e tradirebbe la sua missione se rifiutasse di riconoscerli e contestasse la realtà di ciò in cui il fascio luminoso del suo sguardo non riesce a penetrare. […]
[Dio] è per eccellenza colui di cui io non posso disporre. L’errore delle false filosofie è proprio quello di fare di Dio un oggetto, di pretendere di impadronirsene per mezzo dell'intelligenza. Ma ciò di cui si impadronisce l'intelligenza non potrebbe essere Dio. Al contrario, l'incontro con Dio obbliga l'intelligenza a una conversione radicale, a un decentramento di sé. E questa conversione è la conoscenza stessa di Dio. […]
Conoscere Dio significa per la ragione affermare l'esistenza dell'inconoscibile, cioè l'esistenza di ciò che trascende la sua conoscenza. Ed è chiaro che la pretesa di conoscere "cos'è" questo inconoscibile equivarrebbe a negarne l'essenza. Ciò ricondurrebbe la ragione nel mondo che è all'altezza della sua comprensione e quindi non si tratterebbe più di Dio. Questo è il vero paradosso della conoscenza di Dio, che fa sì che essa costituisca un ordine a parte che è ai limiti della conoscenza e dell'inconoscenza.
J. Danielou, Dio e noi, Rizzoli, Milano 2003, pp. 50-55.
Visita anche:
Cicerone, L'origine della nozione di Dio nel mondo antico (77 a.C.)
Tommaso d’Aquino, Le cinque vie per mostrare l’esistenza di Dio (1265-1274)
Nicolò Cusano, I gentili hanno chiamato Dio con nomi diversi rispetto alle creature (1440)