Esistono verità al di fuori di quelle scientifiche?

Francesco Panizzoli
Anche la scienza ha una componente “soggettiva”: gli scienziati posseggono, come tutti, interessi e convinzioni personali.

Sì. La verità scientifica non esaurisce tutta la ricchezza della nozione di verità, né tanto meno è conoscenza unica e assoluta di tutto il reale: si danno, dunque, nozioni di verità più ampie di quella di verità scientifica, pur contenendola. Ha inoltre senso cercare una verità valida per tutti perché non è detto che il metodo scientifico, almeno da un punto di vista pratico, possa venir esercitato da tutti gli uomini. Affinché tutti abbiano accesso alla verità occorre fare appello anche all'esperienza del vissuto, al senso morale, alla consocenza spontanea della realtà.

Cosa significa, dunque, “verità”? Se ne può dare una definizione?

Anzitutto una distinzione fondamentale: può considerarsi la verità come una “cosa”, di cui ricercare l’essenza, la definizione più propria come in qualsiasi indagine razionale (domanda relativa: che cos’è la verità?); può considerarsi anche come una “persona”, con cui entrare in un rapporto globale e non solo intellettuale, ovvero qualcuno mediante il quale accedo alla verità (domanda relativa: chi è la verità?). Ecco sette modi di intendere “verità”, i primi sei relativi alla prima modalità (la verità come contenuto), il settimo e ultimo alla seconda (la verità come persona). Possiamo considerare la verità come: 1) corrispondenza; 2) certezza; 3) coerenza; 4) disvelamento; 5) consenso; 6) utilità. Inoltre, possiamo considerare la verità come 7) rivelazione di un testimone. Quest’ultima accezione si incontra nelle grandi religioni monoteiste dette, appunto, “rivelate” (ebraismo, cristianesimo, islam), in cui si afferma che Dio prende l’iniziativa di parlare di sé consegnando all’uomo delle verità del tutto nuove e non deducibili da altre (rispondendo così alla domanda su chi sia la verità). Nella rivelazione, inoltre, sono contenute verità riguardanti l’intera realtà e l’uomo.

Le prime sei accezioni non si escludono, ma possono convivere e complementarsi. Inoltre sembrano avere una “struttura” comune, che dice qualcosa dell’essenza della verità: comportano un rapporto, una relazione tra un “qualcosa” (il mondo fisico, i dati di esperienza, le leggi, un contesto, uno scopo, un testo sacro) e un “qualcuno” che si trova coinvolto in una posizione di destinatario di tale verità (che dunque assimila a sé, oppure diventa cosciente, contempla, acconsente, decide, usa… tale “qualcosa”, che esso percepisce essere per lui). Tutte sono dunque fondate su un rapporto originario tra essere e pensiero, pur con le loro differenze teoriche e storiche.

La settima accezione è un rapporto tra due “qualcuno” (Dio e l’uomo), ma anch’essa incorpora in sé le altre accezioni. In tutte le accezioni, dunque, la verità ha una “struttura relazionale”.

È inoltre conveniente riconoscere due grandi ambiti nel discorso sulla verità. L’ambito ontologico: le cose sono vere perché sono; la verità di qualcosa è prima di tutto il suo essere. Questo primo ambito è il modo in cui diciamo le cose perché “corrispondono alla realtà”. L’ambito logico, che si declina in diversi modi: si dice un’affermazione essere vera se coerente, non contraddittoria, formalmente esatta, etc.

Gli atteggiamenti fondamentali dell’uomo rispetto alla verità sono due: 1) della ricerca attiva di essa (tramite gli strumenti propri della razionalità e delle varie discipline); 2) dell’accoglienza di essa che si dona o mostra. Entrambi sono necessari e complementari per ogni accezione di verità. C’è inoltre un fattore di “deliberazione” nell’acquisizione della verità da parte dell’uomo: egli la deve voler cercare e voler accogliere.

Il termine “verità” assume diverse accezioni: verità scientifica, verità storica, verità in logica o in filosofia, verità religiose… Cosa hanno queste accezioni in comune fra loro?

Se la verità ha una struttura relazionale, le differenti accezioni di essa si daranno in relazione ai termini che la costituiscono. Vi sarà dunque un rapporto (habitudo) scientifico tra il pensiero e la realtà, un rapporto di tipo storico-esistenziale, un rapporto logico, etc. Ciò che determina il tipo di rapporto è: a) l’oggetto specifico (il mondo fisico, gli eventi storici, gli schemi logici, le cose sante…); b) la facoltà del pensiero che è coinvolta con l’oggetto (l’analisi, la deduzione, la fantasia, l’assenso…). Da questi rapporti emergono verità relative a questi fattori e dunque verità parziali, perché delimitati sono gli oggetti e i metodi di indagine.

All’interno di un discorso ontologico sulla verità, ogni tipo di verità parziale si dice essere una partecipazione di quella “Verità” che da sola è fonte della realtà e della verità di ogni verità. Questa Verità non è il prodotto di un’attività umana e non è propriamente una “cosa”; piuttosto, essa è il fondamento che nessuna opzione scettica può mettere in dubbio: qualora si negasse ogni aspetto veritativo a tali verità specifiche, e persino lo si negasse a la verità, queste stesse negazioni postulerebbero ancora l’esistenza di una Verità.

Le accezioni parziali della verità hanno in comune non solo la struttura relazionale di fondo (essere-pensiero), ma anche alcune delle sette caratteristiche viste sopra. A esse si aggiunge un fattore cruciale che è il linguaggio. Infatti, il luogo primario del costituirsi e dell’esprimersi del rapporto veritativo è nel proferimento di un enunciato linguistico (ambito logico). Non solo in quello dichiarativo, che connettendo soggetto e predicato, ri-esprime in atto la sintesi concettuale dell’oggetto reale di cui parla, ma anche negli altri tipi di affermazioni ed enunciati che esprimono, ad esempio, credenze, deliberazioni, stupore, assenso interiore… In questo ruolo decisivo del linguaggio, la verità (veritas) che è una struttura astratta, si concretizza, trova un “corpo”, si esprime in molteplici forme di vero (verum), sia esso scientifico, logico, religioso. Il linguaggio fa sì che la verità sia per l’uomo, o comunque per un essere linguistico, che parlando diventa consapevole di essa.

È corretto affermare che la scienza si caratterizza per la sua oggettività e universalità, mentre visioni filosofiche e religioni interessano solo la sfera del personale e del privato?

Non è corretto relegare le visioni filosofiche e teologico-religiose – il più delle volte elaborate in forma sistematica – all’ambito privato, proprio perché anch’esse ambiscono a una “spiegazione” (sia essa descrittiva, oppure normativa) dei loro contenuti specifici (che riguardano la realtà nel suo complesso, Dio, il senso della storia, etc.) che sia il più possibile universale in quanto omnicomprensiva. La tendenza a una conoscenza della totalità è un atteggiamento filosofico-religioso, prima che scientifico. La filosofia, infatti, nasce come indagine sui principi dell’universo, come ricerca delle cause fondamentali dell’essere e del divenire, non come indagine particolare su questo o quel tipo di oggetto. La teologia in quanto discorso razionale su Dio illuminato dalla fede, non è riducibile a un sentimento di pietà personale, o a una scelta privata (semmai, include nella sua ricerca la fede del teologo e dell’uomo comune): indaga sulla realtà di Dio e sul suo disegno di rivelazione e di salvezza. Né la religione, in tutte le sue forme ed espressioni storico-culturali, è fenomeno solamente individuale, ma piuttosto comunitario, e tende anch’esso a una visione unitaria dell’intera realtà (il mondo in quanto creato da Dio).

L’oggettività e la comunicabilità della scienza è dovuta primariamente all’apporto dello strumento logico-matematico che essa ha impiegato con successo nel corso dei secoli. È la non ambiguità e la brevità del simbolismo formale a conferire alla conoscenza scientifica il suo carattere meta-culturale; e tutto ciò al di là della lunga fatica della sperimentazione in laboratorio, della formulazione e della verifica delle ipotesi, della misurazione più o meno precisa, tutti fattori anch’essi sottoposti ad approssimazione e recanti un’importante componente “soggettiva”.

In fondo anche la scienza possiede una dimensione “privata”, dovremmo dire personale, perché dipendente dalla persona fisica dello scienziato, con i suoi interessi, le sue convinzioni, fini e competenze.

Assumendo il valore analogo della nozione di scienza, va riconosciuto che anche la filosofia e persino la teologia posseggono un certo statuto “scientifico”, che regola il loro esercizio razionale con metodi e oggetti specifici. Secondo Tommaso d’Aquino, ogni scienza deriva le sue espressioni sensate da alcuni principi primi che accetta senza dimostrarli, perché dimostrati da una scienza superiore. La teologia è così anch’essa una scienza perché argomenta partendo da alcuni assunti teologici primi che essa non dimostra, ma ritiene dimostrati da una scienza superiore, la scienza di Dio, ciò che Dio ha rivelato.

Quale rapporto vi è fra verità, assoluto e assolutismi?

La Verità in sé stessa (anche qualora fosse la verità rivelata da Dio), che distinguiamo dalle verità parziali o regionali delle singole scienze e settori disciplinari, intende essere una verità del tutto, per il tutto, che riguarda la totalità dell’essere e, proprio per questa sua connotazione, ambisce a essere una verità assoluta. Ab-soluta significa “sciolta da” ogni determinazione a essa inferiore; non dipendente da; incondizionata; non manipolabile; non composta; non relativizzabile a; non completabile o perfezionabile; non limitata in alcun senso. “Assoluta” significa che non è in alcun rapporto, non è in relazione. Semmai, essa fonda ogni tipo di verità (la sua “struttura”) che è vera in virtù di essa. È semplice, auto-evidente, auto-fondata. Universale nel suo ambito di applicabilità, che avrà un carattere analogico: vale per tutti, per tutto, per ogni contesto, sapendosi adeguare e proporzionare proprio in quanto assoluta.

Il termine “assolutismo” appartiene invece al contesto storico-politico, e denota l’origine della moderna teoria dello stato territoriale sovrano. In esso il potere sovrano è “sciolto” da ogni tipo di vincolo istituzionale o giuridico che non si identifichi con il sovrano stesso e la sua somma volontà positiva. In questo senso l’assolutismo segna la rottura dell’autorità legislativo-esecutiva dalla trama dei rapporti con gli altri corpi e attori del tessuto sociale, religioso, economico, umano. Crea individualismo e disconnessione tra i soggetti individuali e sociali.

Nella sua deriva negativa esso diventa totalitarismo, dispotismo e instaura con la verità un rapporto di potere. È infatti il sovrano assoluto che istituisce, con la sua autorità carica di forza (politica, giuridica, economica e militare), i significati di volta in volta normativi di “verità”. Esso, quindi, scioglie la nozione di verità da ogni connotazione universale propriamente umana (separa la verità dalla ragione, dal diritto fondamentale, dal valore sacro-religioso) per legarla in maniera univoca alla sua disposizione forzata e violenta. Da un punto di vista storico, le verità legate agli assolutismi dispotici sono sempre verità parziali (legate a caratteristiche concrete: la razza, il rango sociale, un testo scritto) elevate con atto autoritario a verità (presunte) universali, rispetto alle quali la non adesione a esse comporta punizione o eliminazione.

Una enciclica della Chiesa cattolica, Fides et ratio (1998) di Giovanni Paolo II, parla estesamente del tema della verità. Come presenta questo documento il senso della ricerca umana della verità e la sua capacità di accomunare tutti gli uomini?

L’enciclica Fides et ratio esordisce così: «La fede e la ragione sono come le due ali con le quali lo spirito umano s’innalza verso la contemplazione della verità. È Dio ad aver posto nel cuore dell’uomo il desiderio di conoscere la verità e, in definitiva, di conoscere Lui perché, conoscendolo e amandolo, possa giungere anche alla piena verità su se stesso» (n. 1). La ricerca della verità è dunque inscritta nell’uomo, è un desiderio che lo coinvolge profondamente e in tutte le dimensioni della vita; perseguendo questa strada egli arriva anche alla conoscenza e alla realizzazione della sua soggettività. È una ricerca che affonda le sue radici nelle domande fondamentali dell’esistenza: chi sono? da dove vengo e dove vado? perché la presenza del male? cosa ci sarà dopo questa vita? e dunque ha una missione universale e condivisa.

L’uomo inizia e si istruisce anzitutto nella ricerca delle verità parziali delle scienze naturali e umane, e delle arti tutte. «Le più numerose sono quelle che poggiano su evidenze immediate o trovano conferma per via di esperimento […]. A un altro livello si trovano le verità di carattere filosofico, a cui l’uomo giunge mediante la capacità speculativa del suo intelletto. Infine, vi sono le verità religiose, che in qualche misura affondano le loro radici anche nella filosofia. Esse sono contenute nelle risposte che le varie religioni nelle loro tradizioni offrono alle domande ultime» (n. 30). L’essere umano è mosso da questioni teoriche e pratiche, esistenziali e tecniche; personali e comunitarie. Ha «sete di verità». Per questo egli cerca anche «un assoluto che sia capace di dare risposta e senso a tutta la sua ricerca: qualcosa di ultimo, che si ponga come fondamento di ogni cosa, […] una spiegazione definitiva, un valore supremo, oltre il quale non vi siano né vi possano essere interrogativi o rimandi ulteriori» (n. 27).

Non sempre tale ricerca della verità è trasparente e consequenziale. «La nativa limitatezza della ragione e l’incostanza del cuore oscurano e deviano spesso la ricerca personale» (n. 28). Nonostante questo l’essere umano non può sottrarsi a essa. «Mai, infatti, egli potrebbe fondare la propria vita sul dubbio, sull’incertezza o sulla menzogna; una simile esistenza sarebbe minacciata costantemente dalla paura e dall'angoscia». Si può definire, dunque, l'uomo come «colui che cerca la verità» (n. 28).

La verità scientifica può chiarire, ed eventualmente anche smentire, affermazioni di ambito religioso?

Le affermazioni del contesto religioso si pongono su un livello di senso che differisce dal contesto veritativo delle singole scienze, sia matematico-naturali che umane; cionondimeno  contengono ed esprimono argomenti anche di questi altri ambiti con una competenza spesso  ingenua o relativa a un preciso contesto storico-culturale e, comunque, il più delle volte funzionale al senso che voglio esprimere. È dunque più che legittimo che le conquiste delle scienze possano contribuire a precisare, correggere, chiarire tutte le affermazioni pseudo-scientifiche contenute nelle proposizioni religiose (orali e scritte).

Nel caso delle credenze magiche e del senso religioso naturale, il contributo delle scienze positive ha proprio la funzione di smentire e ben indirizzare credenze contrarie alla stessa ragione con la quale sia le scienze, sia la religione e la fede, cercano la verità.

Nel caso dei testi sacri delle religioni rivelate, non essendo essi trattati di scienza, di storia, di economia, di psicologia… (ma contenendo, tuttavia, elementi di questi ambiti umani), le scienze naturali e umane possono e devono contribuire alla retta esplicitazione di essi e alla manifestazione della verità che contengono. Ciò che conta, in questo lavoro di esegesi scientifica, è tenere distinti i diversi livelli di senso (di verità), senza operare alcuna riduzione univoca a un unico senso. Se, ad esempio, ci si trova di fronte a un’allegoria o a una parabola di carattere bucolico, la scienza agraria può contribuire a spiegare il significato della similitudine (ad es.: seme = parola di Dio; terreno = cuore dell’uomo) pur sapendo che a esso si aggiungono più sensi che vanno oltre quello agricolo, e che dunque non sono riportabili univocamente a esso.

È importante, dunque, distinguere il rapporto tra la religione e la magia, tra la religione e la superstizione, trattandosi di rapporti che proprio le scienze aiutano a chiarire. Fede e scienza hanno diversi oggetti formali, ma un medesimo oggetto materiale: il mondo, l’uomo, la vita. Per questo una maggiore conoscenza scientifica di questo medesimo oggetto materiale giova a una sua maggiore comprensione teologica.

   

Visita anche il Percorso Tematico Modalità della conoscenza umana e ricerca della verità fra fede e ragione

 

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Glossario: 

Atteggiamento di astensione rispetto a ciò che, come dice la parola, non si conosce (a-gnosi). La parola ha assunto un carattere più specifico, riferendosi a quel particolare tipo di conoscenza metafisica e religiosa che riguarda le cose ultime, superiori, trascendenti. L’agnostico è colui che non si pronuncia, che non sa/non vuole argomentare su tali temi, perché esulano dal suo metodo di indagine e ritiene che esulino persino dai limiti della conoscenza umana in quanto tale. Agnosticismo non è sinonimo di scetticismo, né di ateismo.

Stato della coscienza che si caratterizza come chiarezza, evidenza, auto-possesso, indubitabilità di una conoscenza acquisita. La certezza accompagna il processo conoscitivo, non si sostituisce a esso né al risultato (è, infatti, cum-scientia). Una conoscenza è certa quando il soggetto è consapevole di quello che sta assimilando a sé: sa di sapere qualcosa; sa come l’ha ottenuto. La certezza non è interscambiabile con la verità, perché si può essere certi di qualcosa che non sia vero: è piuttosto l’assenso soggettivo alla verità ritenuta tale. La certezza può essere: psicologica, logica, storica, morale, metafisica.

Espressione del lessico filosofico italiano (origine negli anni ’80). Indica un modo di fare filosofia: a) in contrasto con una ragione “forte”, tipica del pensiero moderno di matrice cartesiana; b) avverso alle certezze dogmatico-metafisiche che sarebbero da una parte consolatorie, dall’altra ritenute violente; c) contro la ricerca di un Fondamento, dell’essere, veritativo, etc.; d) concentrato sugli aspetti minimi dell’esperienza, che sono frammentati, disomogenei, emotivi e pratici; e) attento al contesto storico, alla mediazione narrativa, simbolica e linguistica, che rompe con le trattazioni sistematiche e le grandi narrazioni fondative.

In linea generale, il termine indica ogni visione o concezione della realtà che include una molteplicità di principi, di entità, di concezioni, tra loro coesistenti senza un conflitto di supremazia. Tale pluralità consente di spiegare la complessità della realtà, tenendo insieme istanze assai diverse. A differenza del relativismo, che esclude l’esistenza di una verità unificante, meritevole di essere cercata, il pluralismo non si oppone all’idea che alla verità si possa accedere, come nella scalata di un monte, percorrendo versanti diversi. Il pluralismo si oppone invece al “pensiero unico” e all’“integralismo”. Il pluralismo è favorito dall’analogia (l’essere si può dire in molti modi, secondo Aristotele), perché la stessa nozione di verità è analogica; è invece reso più difficile dalla dialettica, che esalta le opposizioni polari.

Posizione filosofica in base alla quale la nostra conoscenza non può raggiungere delle verità certe, riconoscibili come tali da tutti (verità oggettive), ma solamente verità condizionate alla validità dei principi ipotetici dalle quali sono dedotte. Il relativismo, dunque, nega ogni pretesa di assolutezza sia alle verità parziali di settori specifici, sia a una verità unica e assoluta. Le verità sono relative a (un contesto, un linguaggio, un tempo storico, un gruppo umano, una classe sociale, un genere sessuale, un interesse economico…), non esistono dunque principi assoluti universalmente condivisi. Parliamo di un relativismo: ontologico (relatività del reale); semantico (relatività del significato); epistemologico (relatività di percezione, credenza e razionalità), secondo il quale tutta la conoscenza è convenzionale ed è ridotta a opinione soggettiva; morale (relatività di costumi, valori, ordinamenti legali, politica); religioso (relatività su divinità e verità ultime).