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Possiamo amare la verità?

Rémi Brague
2010

Relazione tenuta all'Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano

 


Ogni universitario, che sia scienziato o filosofo, cerca la verità o fa finta di cercarla. Ma la cerca come si cerca la persona amata? La scoperta della verità è sempre, come tale, piacevole. Ma non è necessario che il contenuto scoperto sia amabile. Il poliziotto cerca il colpevole, ma non ama il reo come tale; e la verità che scopre è sempre brutta, spesso orribile. Quando si parla d’un amore della verità, dobbiamo distinguere. C’è da un lato la soddisfazione di conoscere, dall’altro lato la gioia della verità, la gioia nella verità come tale.

La prima può spiegarsi a partire della volontà di potere, del sentimento di avere vinto. E ciò in funzione della difficoltà da superare, non direttamente della rilevanza per la vita. Il matematico greco Archimede fece incidere sul proprio sepolcro la dimostrazione geometrica da lui fatta del rapporto tra il volume del cilindro e quello della sfera inscritta [1]. Ma il fatto che il volume della sfera sia i due terzi di quello del cilindro circoscritto, che cosa significa?

La seconda, la gioia della verità, non si lascia spiegare con la stessa facilità e soprattutto, non si può giustificare. Abbiamo bisogno di una ragione oggettiva. Allora, la condizione fondamentale d’un amore della verità è che la verità sia degna d’amore, ovvero bella. 

1. La verità bella

Propria degli scolastici è la teoria della cosiddetta convertibilità delle proprietà trascendentali dell’essere. Sono chiamate trascendentali le proprietà che si trovano in tutte le categorie, che non si fermano al loro limite e che, per questo motivo, le “trascendono”. Allora dicevano che tali proprietà possono convertirsi l’una nell’altra.

Ciò significa che ciò che è, è anche uno, buono, e vero. C’era gente, un po’ a margine, come Bonaventura, che aggiungeva il bello. Per gli altri, il bello era soltanto un aspetto inseparabile del bene.

L’amore alla verità suppone che la verità sia qualcosa di buono o che sembri buono, perché non si può amare quello che non è buono o almeno che non sembra tale. Per l’età classica e illuministica, la verità coincideva con la bellezza. Il poeta francese del seicento Nicolas Boileau ha espresso con chiarezza questa visione classica del mondo: «Niente è bello se non il vero, solo il vero è amabile» (rien n’estbeau que le vrai, le vrai seul est aimable) [2].

2. La verità brutta

Questa tranquilla equazione si è rovesciata nel movimento romantico e prima di questo nella reazione all’Illuminismo. Così Rousseau fa scrivere all’eroina del suo best-seller, il romanzo Giulia o la nuova Eloisa, una lettera in cui dice, rispondendo implicitamente a Boileau: «Niente è bello tranne quello che non è» (il n’y a rien debeau que ce qui n’est pas) [3]. Probabilmente lo scrittore che ha approfondito maggiormente questa idea è Leopardi. Scrive nello Zibaldone nel dicembre del 1822: «Il vero certamente non è bello» [4]. Un anno prima troviamo la formula generale: «Tutto il vero è brutto» [5]. Contrariamente all’ordine logico, un anno prima si legge: «La felicità consiste nell’ignoranza del vero» [6]. La rappresentazione di una natura crudele, cieca, brutta si trova in tutto l’Ottocento, soprattutto in Schopenhauer, che è stato nella seconda metà del secolo e fino alla Prima Guerra il filosofo più influente su scrittori ed artisti. Questa Stimmung fondamentale la riassume un personaggio di un dialogo di Ernest Renan: «chissà se la verità non è triste» [7]?

Oggi, c’è ancora di peggio: il vero è sospetto. Dicono spesso: la credenza in una verità assoluta produce il fanatismo, l’intolleranza, ed altri spauracchi. Dunque, occorre eliminarla in favore di un pluralismo delle “verità”.

3. Quello che rimane

Quello che rimane dopo il disprezzo della verità è un paesaggio intellettuale e spirituale abbastanza variegato. Mi sembrano importanti tre elementi.

1) Prima di tutto c’è l’accontentarsi di una versione debole della verità. I medievali come Mosè Maimonide, e dopo di loro Spinoza, distinguevano credenze (i’tiqâd, dogma) vere e credenze utili o pie [8]. Le vere sono riservate all’élite dei filosofi, quelle utili garantiscono l’ordine della società. I moderni non distinguono più tra verità e opinione. La verità diventa l’utilità, punto e basta. Questo l’aveva visto anche Leopardi con perfetta chiarezza: «La verità era necessaria all’uomo, soltanto come unico fondamento di quelle credenze che sono necessarie alla sua vita. [...] La perfezione della ragione non consiste nella cognizione di questa verità, perché non consiste nella cognizione della verità in quanto verità, ma in quanto stabile fondamento delle credenze necessarie o utili alla vita» [9].

2) Si predica la tolleranza davanti alla diversità delle opinioni di cui nessuna è l’unica vera. L’atteggiamento presupposto della tolleranza non è l’amore dell’opinione altrui, neanche il rispetto per la persona che difende questa opinione. Tollerare non è autorizzare, dare libero corso a quello che si considera come buono e che si vuole promuovere. La tolleranza vuol dire che ci si rassegna ad accettare di mala voglia un male necessario, che non possiamo eliminare.

3) Un vero che non fosse buono e bello, ma piuttosto cattivo e brutto, non potrebbe essere amato. Nonostante questo, può essere l’oggetto di un altro atteggiamento. Si tratta dell’onestà intellettuale, per cui il tedesco ha una parola che non si lascia tradurre facilmente in italiano, nemmeno in francese o in qualsiasi altra lingua, la Redlichkeit. Nietzsche dice che è la virtù più recente, una virtù che diviene, ed anche l’ultima virtù che ci resta [10]. È una virtù perché è una specie del genere fortezza, che è una delle quattro virtù cardinali. Occorre essere forti per accettare quello che dispiace.

4. Tre osservazioni sulla situazione presente

 Vorrei fare qui tre osservazioni che corrispondono suppergiù ai tre punti che ho appena delineato.

1) La verità non è qualcosa di superfluo, non è un lusso. È un bisogno. Siamo bambini viziati, possiamo permetterci di giocare con l’idea di verità perché non siamo costretti a mentire. È ben chiaro che la menzogna esiste ovunque nella società, come in tutto il genere umano dall’invenzione del linguaggio. Ma da noi non costituisce la condizione base della sopravvivenza. D’altro canto, ci sono, o forse, speriamolo, c’erano sistemi politici in cui non si poteva vivere normalmente senza rendersi complici della menzogna ufficiale dell’ideologia.

Dovremmo ascoltare a questo proposito la testimonianza di Aleksandr Solženicyn. Nella sua Lettera ai leaders sovietici, pubblicata nel 1974, lo scrittore russo dedica all’ideologia un capitolo speciale dell’operetta, il sesto. Scrive, parlandone: «questa bugia universale, obbligatoria, che siamo costretti adoperare, è divenuta l’aspetto più tormentoso dell’esistenza della gente in nostro paese – peggiore di tutte le avversità materiali, peggiore di ogni mancanza di libertà civile» [11]. La miseria e l’oppressione non erano da poco nell’Unione Sovietica dell’era Brežnev, quando scriveva Solženicyn. Nonostante tutto, l’autore ha preferito porre l’accento sulla sofferenza morale e intellettuale dovuta alla mancanza di verità.

2) Io sospetto il sospetto contro la verità. Mi chiedo se l’autentica ragione sia la paura dell’intolleranza. C’è un altro motivo per l’odio della verità. Vorrei leggere qui un brano di Agostino. Nelle Confessioni si domanda perché scrive Terenzio: veritas parit odium, «la verità partorisce l’odio», d’accordo col Vangelo di Giovanni che parla di quelli che rifiutano la luce (3, 19-21). Perché la verità, di cui tutti dicono che sia un bene, può diventare oggetto di odio?

Risponde Agostino con una distinzione tra due funzioni possibili della verità. «L’amano quando splende, l’odiano quando riprende (Amant eam lucentem,oderunt eam redarguentem). [...] L’amano allorché si rivela, e l’odiano allorché li rivela» [12]. Amiamo la verità lucens che ci permette di conoscere le cose come un lume puntato su queste. Per il secondo participio redarguens, la traduzione è corretta, risulta persino elegante grazie al gioco di parole. Eppure, non rende la complessità interna del verbo: redarguere significa, come lucere, “fare la luce”. Si pensi al metallo bianco che luccica, il cui nome latino, argentum, viene della stessa radice.

Ma la luce redarguens ritorna a quello che l’ha emessa, come in un specchio, e rivela tutto ciò che avremmo preferito nascondere.

La verità lucens, quella che ci fa conoscere le cose, scoprendole, ci permette di controllarle. La possiamo amare in quanto ci dà il ruolo di padrone. L’amore della verità lucens è alla fin fine amore di se stesso, non della verità come tale. Se amassimo la verità come tale, la ameremmo anche quando ci accusa.

Allora, dire che la verità è pericolosa perché c’è il rischio di fanatismo, ecc. può darsi che sia una scappatoia. La verità che si vuole annientare è quella redarguens. Ci lascia da soli con la verità lucens, cioè, con la propria volontà di potere.

3) L’elogio dell’onestà intellettuale è molto bello. Ma non risponde a una domanda semplice: perché dobbiamo accettare una verità che ci dispiace? Perché questa accettazione rassegnata dovrebbe essere una cosa buona, una virtù? Perché non sarebbe giusto preferire l’illusione, la finzione? Così faceva per esempio Puškin in un poema in cui dice preferire alla sobria verità storica la leggenda eroica su Napoleone e, più generalmente, “l’inganno che ci alza” (нас возвышаюшчий обман) [13].

L’onestà intellettuale davanti alla verità brutta è l’ultima traccia dell’amore per la verità bella. Si può chiedere se potrebbe sussistere a lunga scadenza senza tale amore. Anche Nietzsche ammetteva che ogni brama di verità si accende a una fiamma che già bruciava da Platone e dal cristianesimo [14].

È ancora più difficile pensare l’onestà intellettuale quando si tratta d’accettare una verità redarguens, “riprendente”, cioè una verità che è necessariamente spiacevole?

Forse non si può senza la speranza nel perdono di un Dio che mi vuole tale quale sono.

L’ultima parola la dice forse Claudel, criticando implicitamente il nemico Renan e alludendo alla fede nel Creatore che ha detto che, ultimamente, «tutto quanto aveva fatto era cosa molto buona» (Genesi, 1, 31). Fa dire al re di Spagna il drammaturgo francese nella Scarpina di raso: «Triste? Come dire senza empietà che la verità di queste cose che sono l’opera di un Dio eccellente sia triste?» (Triste? Comment dire sans impiété que la vérité de ces choses qui sont l’oeuvre d’un Dieuexcellent / Est triste?) [15].

 

[1] Cicerone, Tusculanae disputationes, V, 64-66; Plutarco, Vita di Marcello, XXII.

[2] N. Boileau, Epistola IX (Arte poetica).

[3] J.J. Rousseau, La nouvelle Héloïse, VI, 8; Euvres Complètes, Paris, Gallimard, 1961, p. 693.

[4] G. Leopardi, Zibaldone, 2653 (3.12.1822), in Tutte le Poesie, tutte le prose e lo Zibaldone, a cura di L. Felici, Roma, Newton Compton, 2007, p. 530b.

[5] G. Leopardi, Zibaldone, 1522 (18.8.1821), p. 343b.

[6] G. Leopardi, Zibaldone, 326 (14.11.1820), p. 106b.

[7] E. Renan, Dialogues et fragments philosophiques, in Euvres Complètes, Paris, Calmann-Lévy, t. 1, p. 614.

[8] Mosè Maimonide, Guida dei perplessi, III, 28, ed. I. Joël, Gerusalemme, Junovitch, 1929, p. 374; Spinoza, Tractatus Theologico-Politicus, c. 14, ed. van Vloten e Land, L’Aia, 1914, t. 2, p. 246.

[9] G. Leopardi, Zibaldone, 414 e 416 (16.11.1820), p. 125ab.

[10] F. Nietzsche, Morgenröte, V, §456; KSA, t. 3, p. 275; Frammento Agosto 1885-Primavera 1886, 1 [145]; KSA, t. 12, p. 44.

[11] A. I. Solženicyn, Lettera ai leaders sovietici, cap. 6.

[12] Agostino, Confessioni, X, XXIII, 34; a cura di M. Bettetini, Torino, Einaudi, 2000, pp. 370-371.

[13] A. Puškin, Герой [29.9.1830], v. 63-64; in Сочинения, Parigi, YMCA Press, 1991, p. 362b.

[14] F. Nietzsche, Die fröhliche Wissenschaft, V, §344; KSA, t. 3, p. 577.

[15] P. Claudel, Le Soulier de satin, Première journée, scène 6; Théâtre, ed. J. Madaule, t. 2, Paris, Gallimard, 1965, p. 687.

    

da: «Philosophical News», La verità [The Truth], II, marzo 2011, Mimesis, Milano 2011, pp. 48-53.