Esiste un finalismo nella natura?

Giuseppe Tanzella-Nitti
I filosofi medievali avevano intuito che l’intentio auctoris è la prima a comparire nella mente dell’agente, ma l’ultima a manifestarsi nell’effetto finale.

L’osservazione della natura ci porta a rintracciare finalità “locali”: un sistema termodinamico tende a raggiungere un equilibrio, un seme interrato tende ad assimilare le sostanze minerali e a sviluppare la pianta, due gameti di sesso opposto cercano di incontrarsi per riprodurre la stessa specie biologica, ecc. A livello di “fini locali” non abbiamo bisogno di presumere alcun agente personale intenzionale. Se invece ci interroghiamo sulla finalità del reale nella sua totalità, ci si sposta verso la ricerca di una finalità in senso forte, globale, intenzionale. Se vi è una finalità “totale” e intenzionale, essa non può che dipendere da Chi ha causato l’universo nel suo insieme. Concludere l’esistenza di questo Agente, non è compito della scienza impiegando il suo metodo, ma può esserlo dello scienziato in quanto essere personale, soggetto, come ogni altro essere umano, di esperienze estetiche, esistenziali, morali.

Fini locali, finalità del reale, intenzionalità di un agente: come entrano in rapporto fra loro?

Quando si parla di “finalismo” si pensa subito ad un’intenzionalità personale, a qualcuno che agisce, visibile o nascosto. Per questo motivo, il dibattito circa l’esistenza e il riconoscimento di una finalità nei fenomeni naturali è sempre un tema delicato. Chi riconosce un finalismo, si dice, sta implicitamente affermando l’esistenza di un agente nascosto. Nell’associazione fra fini e intenzionalità personale c’è qualcosa di vero, perché solo l’intelligenza riconosce l’esistenza di un fine. Una macchina, un computer o uno strumento di misura, possono registrare delle regolarità ricorrenti, delle simmetrie, ecc., ma non l’esistenza di un agente intenzionale. Tuttavia, sarebbe erroneo affermare che uno studio oggettivo e scientifico della natura non mostra dei fini. Un sistema termodinamico tende a raggiungere un equilibrio, un seme interrato tende ad assimilare le sostanze minerali e a sviluppare la pianta, due gameti di sesso opposto cercano in tutti i modi di incontrarsi per riprodurre con successo la stessa specie biologica, un vivente si muove alla ricerca di cibo, ecc. Questi sono fenomeni che la scienza osserva, studia, interpreta. Hanno tutti questi fenomeni a che vedere con una mente intenzionale? La risposta è sì e no, a seconda della prospettiva metodologica che assumiamo. Conviene per questo distinguere fra fini locali, finalità della realtà nel suo insieme e intenzionalità.

Possiamo dire che i precedenti fenomeni mostrano dei “fini locali”. Questi sono registrati da osservazioni oggettive, anche strumentali, ma il giudizio che si tratta di un “fine” lo formula il soggetto che studia, cioè un’intelligenza personale. Questi “fini” rendono la scienza possibile, ma il metodo scientifico non sempre può dare una spiegazione esaustiva della loro esistenza, del perché sono proprio così e non altrimenti: deve limitarsi a prenderne atto. Non limitandosi al solo metodo scientifico, e in quanto soggetto intelligente, lo scienziato può concludere grazie ad una riflessione filosofica che in natura esistono proprietà stabili, forme, specificità, appartenenti alla natura in quanto tale. La scienza non le crea ma le riceve. Sono queste a determinare i comportamenti ricorrenti, finalistici appunto, che riscontriamo nel mondo naturale e nei viventi. La filosofia della natura esprime tutto ciò parlando di una stretta corrispondenza fra cause formali e cause finali: una proprietà formale esprime un fine. La “forma” di un elettrone o di una cellula è sempre quella, e porta questi enti a comportarsi finalisticamente sempre allo stesso modo. Né la scienza, né la filosofia della natura ha bisogno di alcun “agente personale” o di una “intenzione”, per registrare l’esistenza di forme e di fini.

Se pensiamo invece alla realtà nel suo insieme, alla totalità del cosmo, lo studio dei fini locali resta insufficiente. Alla domanda “se il cosmo ha un fine” il metodo scientifico non può rispondervi da solo. Lo scienziato, come essere personale, può farlo ricorrendo ad altre esperienze: estetiche, esistenziali, morali. Seguendo itinerari di questo tipo, la filosofia ha tematizzato, ad esempio, la nozione di Logos, una ragione, ma anche una parola, che presiederebbe il progetto del mondo.

La “finalità intenzionale”, in senso forte, è sempre una finalità personale e reca con sé implicito il concetto di libertà. Un agente personale esprime e realizza in modo libero i suoi fini. Per concludere che i fenomeni naturali di cui parlavamo prima sono “finalistici”, a livello di “fini locali” non abbiamo bisogno di presumere alcun agente personale intenzionale. Se invece ci interroghiamo sulla finalità del reale nella sua totalità, ci si sposta verso la ricerca di una finalità in senso forte, globale, intenzionale. Questo fine intenzionale non può che essere lo sguardo di Chi ha causato l’universo nel suo insieme, di chi ha causato le sue cause formali e finali. Concludere l’esistenza di questo Agente, non è compito della scienza impiegando il suo metodo, ma può esserlo dello scienziato in quanto essere personale. Quale sia poi il “fine” del mondo, conoscerlo in verità, non possiamo dedurlo né con la scienza né con la filosofia. Se il mondo ha un Creatore, e questo Creatore è un soggetto personale libero, allora il fine del mondo possiamo conoscerlo solo se rivelato, se ci viene donato.

 

La scienza impiega ipotesi o formulazioni finalistiche per giungere ad alcuni risultati o scoprire alcune leggi?

Sì, vi sono leggi fisiche enunciabili in forma finalistica ed espresse in modo computabile, mediante grandezze quantitative. Sono leggi che prescrivono un certo fine che un sistema deve realizzare, riconosciuto dall’osservazione dei fenomeni naturali. Tali “fini” hanno a che vedere, in ultima analisi, con regolarità e causalità formali che l’intelligenza umana riconosce in natura, applicandone il valore predittivo.

In meccanica possiamo formulare in modo finalistico il comportamento di un sistema rappresentandolo con equazioni lagrangiane e hamiltoniane, che evidenziano come l’evoluzione di un sistema fisico nel tempo sia tale che esso, fra tutti i percorsi possibili, “scelga” quello che minimizza l’energia. Formalmente, tali rappresentazioni sono note con il nome di “princìpi variazionali”, che evidenziano come la natura si comporti in maniera tale da rendere minimo (o stazionario) un certo integrale d’azione. Anche la termodinamica formula leggi in termini finalistici, richiedendo che i processi raggiungano due fini: a) la conservazione dell’energia (primo principio della termodinamica); b) la crescita dell’entropia (secondo principio). Nella meccanica quantistica si formulano alcune leggi in modo prescrittivo, finalistico. Le regole quantistiche di Bohr, ad esempio, prescrivevano che le orbite degli elettroni si disponessero negli atomi avendo come fine rendere la “variabile d’azione” un multiplo della costante di Planck. Il principio di esclusione di Pauli prescrive invece che due elettroni in un atomo non possono occupare lo stesso stato quantico: dovendosi collocare in modo da realizzare questa finalità, essi prendono uno spin opposto quando occupano lo stesso orbitale. Anche se tali “prescrizioni”, sia in meccanica classica che quantistica, sono state poi “spiegate” da leggi ulteriori, più profonde della semplice descrizione fenomenica, esse testimoniano che ragionare in termini “finalistici” serve a comprendere il comportamento della natura.

Anche le leggi di conservazione sono leggi finalistiche: il moto tende a mantenere costante certe quantità (energia, momento angolare, ecc.). I moti che si realizzano in natura sono quelli che raggiungono il fine di “conservare” determinate grandezze. Nella teoria dei sistemi dinamici vi è un finalismo che conduce il sistema verso regimi stabili (equilibrio, cicli limite, attrattori), indipendenti dalle condizioni iniziali. Non sono determinanti tanto le condizioni iniziali (in modo figurato, i punti sul crinale di una montagna), quanto quelle finali, dove il sistema inevitabilmente finirà (il bacino a valle).

In biologia, e più in generale nelle life sciences, l’idea di fini intrinseci ai sistemi biologici è assai diffusa. L’organismo tende a sopravvivere e riprodursi. Il comportamento di microorganismi, piante e animali tende a ottimizzare alcune attività (si pensi ai batteri che cercano zucchero, alle lucertole che cercano di riscaldarsi o ai girasoli che si rivolgono al sole, per non parlare di comportamenti più sofisticati come la costruzione di tane e nidi, o i rituali d'accoppiamento in molte specie, etc.). Molti sistemi biologici sono finalizzati al mantenimento dell’omeostasi, regolando molte aspetti del metabolismo (quali, ad esempio, i livelli di acqua, di glucosio, di pressione sanguigna, di temperatura corporea, e in generale, la concentrazione di una miriade di sostanze chimiche e biochimiche all'interno dell'organismo). Anche se non è immediato attribuire qualche forma di finalismo alla selezione naturale in sé e per sé, non può essere taciuto che le strutture biologiche premiate dalla selezione naturale sono di fatto quelle che, dato il contesto, assicurano lo svolgimento di una funzione, mentre quelle eliminate sono quelle che non realizzano un tal fine.

Anche il principio antropico, in cosmologia, può essere considerato come un principio finalistico. Esso consente di dedurre alcune proprietà dell’universo fisico partendo dall’ipotesi che queste devono essere compatibili con la comparsa della vita (formulazione debole), o che la vita stessa, e la comparsa dell’uomo, funga da principio generale per comprendere la presenza necessaria di quelle proprietà (formulazione forte).

 

L’esistenza del finalismo in natura è una prova dell’esistenza di Dio?

Talvolta la regolarità e la bellezza delle forme esistenti in natura, o il loro complesso coordinamento funzionale, vengono invocate come “prove” dell’esistenza di Dio. In realtà, la forma di una galassia o di una conchiglia sono effetto di leggi di natura. L’ordine delle struttura materiali, fisiche e chimiche, è dovuto all’azione ordinatrice della legge di gravità, elettromagnetica, o delle interazioni nucleari. Queste forze rispettano campi di simmetria in due o più dimensioni. L’ordine e l’organizzazione che osserviamo nei viventi è frutto dei processi biologici, che oltre alle leggi della fisica e della chimica si basano su leggi proprie, come l’auto-conservazione, l’auto-riparazione, l’omeostasi, la nutrizione, la riproduzione, la lotta per la sopravvivenza. Questi processi, nel loro insieme, manifestano la “teleonomia” del vivente, dal greco telos + nomos, legge verso un fine, cioè un movimento interno, immanente alla vita stessa. Sono i “fini locali” manifestati dai fenomeni naturali.

Quando parliamo di “prove” dell’esistenza di Dio, ci riferiamo invece ad argomenti di carattere filosofico, non scientifico-quantitativo. Piuttosto che prove, sarebbe più esatto chiamarle “vie” o “itinerari” verso Dio per tenerle distinte dalle prove tipiche delle scienze formali. Alcune delle “vie verso Dio”, come quelle proposte dalla metafisica e dalla fenomenologia, impiegano anche il finalismo, perché partono dalla natura e dall’osservazione, a differenza di quanto fa la filosofia idealista, che parte invece dalle idee e dalle categorie mentali del soggetto. La filosofia che si occupa di dedurre l’esistenza di Dio dalla considerazione della natura viene chiamata “teologia naturale”. Essa viene oggi sviluppata anche in ambito logico (filosofia analitica) e non solo fenomenico.

La via “teleologica”, dal greco telos = fine, sviluppatasi originariamente in ambito metafisico, deduce l’esistenza di una Intelligenza ordinatrice partendo dall’osservazione dell’ordine e dei processi naturali che tendono verso un fine. Questa prova è la più antica ed è presente, con alcune varianti, nei filosofi dell’epoca pre-cristiana, in particolare in Aristotele. Anche Kant, ormai nell’epoca moderna, mostrerà una certa simpatia verso di essa, sebbene poi la metta in questione nella sua Critica della ragion pura. La prova teleologica è menzionata spesso dai Padri della Chiesa mediante metafore diverse – il cosmo è come una nave guidata da un comandante invisibile, un coro di voci armonizzate da un direttore nascosto, ecc. – ed è sobriamente presentata nella “quinta via” di Tommaso d’Aquino. Essa ricevette una notevole attenzione nei secoli XVII e XVIII a motivo del grande sviluppo avuto sia dall’osservazione scientifica, che mostrava ambiti della natura sempre più profondi e prima sconosciuti, sia dalla matematizzazione dei fenomeni fisici, che rivelava l’intero cosmo come sede di leggi razionali e universali.

In epoca moderna la finalità della natura è stata impiegata come via verso Dio sia da autori che accettavano una Rivelazione divina, e dunque ponevano l’Intelligenza riconosciuta dal finalismo in stretto rapporto con il Dio delle Scritture (teismo), sia da autori che non accettavano un Dio rivelato e si limitavano dunque ad affermare l’esistenza di un Dio-Ragione causa del mondo (deismo). In epoca contemporanea è stata proposta da numerosi scienziati (Einstein, Davies, Barrow e altri), specie in ambito deista piuttosto che teista. Un importante filosofo inglese del Novecento, Antony Flew, passato dall’ateismo all’affermazione di Dio, attribuì il suo cambiamento ad una più profonda riflessione sulle leggi di natura e la razionalità che esse rivelano.

Riconoscere che in natura esiste un finalismo può essere prova dell’esistenza di un’Intelligenza ordinatrice, di una Ragione (Logos) che ha progettato l’universo, ma non è in senso stretto una “dimostrazione di Dio”, se con il termine Dio intendiamo un Essere personale che crea l’universo liberamente e per amore, come sostiene ad esempio la tradizione ebraico-cristiana. Questa intenzionalità libera e amorevole, infatti, non sarebbe deducibile da nessun ragionamento scientifico o filosofico: trattandosi di un Essere personale, la si potrebbe conoscere solo se rivelata gratuitamente.

 

Riconoscere l’esistenza di un finalismo in natura equivale ad affermare la tesi del cosiddetto Intelligent Design?

Dipende dal significato che attribuiamo all’espressione Intelligent design. Letteralmente vuol dire “progetto intelligente”. Secondo questo significato, affermare che le leggi e i processi naturali manifestano finalismo può anche equivalere a dire che l’universo è un progetto intelligente. In un universo creato da Dio ogni ente – un cristallo, un insetto, un fiore, un mammifero, l’essere umano – sono frutto di un progetto, ed essi esistono perché voluti da un’intelligenza, quella del Creatore.

L’espressione Intelligent design viene però più spesso impiegata per indicare che, specialmente nel mondo dei viventi, esistono strutture, organi e organismi, la cui complessità suggerirebbe di non considerarli frutto dell’evoluzione graduale delle forme, mediante selezione naturale o altri meccanismi evolutivi, bensì risultato di un progetto unico, qualcosa di “pensato insieme”. Spesso, si aggiunge, qualcosa che non appare per caso, perché frutto di un finalismo. Posta così, tuttavia, l’alternativa è fallace e genera confusione. Un’evoluzione dovuta a selezione naturale, o anche ad altri meccanismi evolutivi, non è per questo un’evoluzione “casuale” da opporre al “finalismo di un’intelligenza”. L’evoluzione biologica è una descrizione sul piano empirico, scientifico, mentre la casualità è una categoria filosofica e vuol dire “negazione di fini”. L’evoluzione biologica non nega l’esistenza dei fini, perché il fine di un Creatore intelligente agisce su un livello più alto, intenzionale e personale, che trascende il piano empirico. Una cellula o un organo possono essere “pensati insieme” nel piano intelligente di un Creatore, ma comparire nella storia gradualmente, anche per lenta evoluzione, senza bisogno di pensare che siano “comparsi” insieme.

Sul piano scientifico ed empirico capiamo che l’occhio è fatto “in modo da vedere”, ma da questo non possiamo concludere, sul medesimo piano, che sia stato pensato e poi messo insieme “per vedere”. Questo sarebbe vero nella mente del Creatore, ma non potrebbe essere una conseguenza stringente della biologia. In questo senso, la tesi dell’Intelligent design, secondo cui il “progetto” lo deduce il biologo con i suoi metodi, e l’esistenza di una finalità creatrice che preveda, realizzi e sostenga nell’essere le sue opere, sono due cose diverse.

Va però ricordato che i sostenitori dell’Intelligent design sono biologi e in alcuni casi matematici. Essi ritengono che né la selezione naturale né la casualità, siano il principale motore dell’evoluzione biologica, bensì la direzionalità verso precise strutture morfologiche, che manifesterebbero, appunto, il progetto previsto da una “intelligenza” al lavoro nell’universo. La nostra conoscenza sui meccanismi evolutivi è ancora incompleta e limitata. L’insufficienza dei meccanismi darwiniani classici (mutazione genetica aleatoria + selezione naturale del più adatto) che i biologi sostenitori del “progetto intelligente” vogliono evidenziare, è cosa nota da alcuni decenni. Non possiamo invocare un “progetto intelligente” per rimpiazzare meccanismi incompleti o sconosciuti, ma dobbiamo cercare, sul piano biologico, meccanismi più soddisfacenti. Questi dovrebbero avere anche un valore predittivo per spiegare altri fenomeni, cosa che l’Intelligent design non realizza.

In sostanza, il “progetto intelligente” sembra appartenere alla filosofia della natura, non alla biologia in senso stretto. Per questo, esso non è una prospettiva alternativa all’evoluzione biologica, che è invece un fatto. Potrebbe essere forse presentato come una versione contemporanea degli Arguments from Design, che hanno sempre interessato i filosofi che studiano la natura.

 

Il “Principio antropico” è la dimostrazione dell’esistenza di un finalismo nel cosmo e, quindi, dell’esistenza di un Creatore?

No, questo Principio non dimostra l’esistenza di Dio, né quella di un finalismo intenzionale. In ambito filosofico, registra solo una “consonanza” fra alcuni risultati scientifici e l’idea che l’universo sia effetto di un piano razionale, sia “un colpo ben orchestrato” (Polkinghorne).

L’universo è altamente “sintonizzato” (fine tuned) per favorire la vita. I valori delle costanti delle 4 leggi fisiche fondamentali non sembrano “scelti a caso”, né in modo indipendente, ma sono gli unici capaci di determinare le condizioni necessarie affinché si possano successivamente generare strutture fisiche ed elementi chimici indispensabili per ospitare la vita e assicurarne la progressiva evoluzione. Se la carica dell’elettrone, la costante di Planck, o l’angolo della struttura molecolare dell’acqua – solo per fare alcuni esempi – fossero appena poco diversi da come sono, l’universo non sarebbe come lo conosciamo e non darebbe origine ad habitat adeguati per la vita. Sottili equilibri nelle forze gravitazionale, elettromagnetica e nucleari (forte e debole) hanno consentito all’universo di non collassare subito dopo l’inizio della sua espansione, alle galassie di formarsi e di avere al loro interno una tipologia di stelle con vita sufficientemente lunga e calore non troppo grande, tali da consentire la formazione di pianeti simili alla terra. Delicati equilibri quantistici nel nucleo dell’atomo di carbonio permettono la formazione di quantità sufficienti di questo elemento, indispensabile alla vita.

Queste osservazioni danno origine a due versioni del Principio: a) le proprietà dell’universo fisico non sono aleatorie o indeterminate, ma devono essere tali da consentire l’esistenza della vita, per creare le condizioni fisico-chimiche necessarie alla sua comparsa e sviluppo (Principio antropico debole); b) la vita stessa, anzi la comparsa dell’uomo, è l’effetto finale al quale l’universo tende, che ne spiega l’esistenza (Principio antropico forte). In realtà, sebbene chiamato “antropico”, le condizioni necessarie che esso esprime non riguardano direttamente l’essere umano, ma più in generale la vita basata sul carbonio.

La versione “debole” è un insieme di osservazioni scientifiche, oggettive, dalle quali si trae una conclusione: la struttura dell’universo e le sue leggi sono le uniche che consentono la possibilità della vita. Queste osservazioni non sono la dimostrazione “scientifica” di un “finalismo intenzionale” (l’universo risponderebbe ad un Progetto), ma sono certamente consonanti con l’idea di un progetto che abbracci l’intero cosmo. La versione “forte”, invece, è una visione filosofica a priori, perché le condizioni antropiche sono solo necessarie, non necessarie e sufficienti per la vita. Indicano ciò di cui la vita, anche umana, ha necessariamente bisogno per comparire, ma non danno ragioni sufficienti del perché esiste. Il Principio antropico non dimostra l’esistenza di un Creatore, ma se esistesse un Creatore e l’universo fosse un suo progetto, allora osserveremmo delle caratteristiche molto simili a quelle che effettivamente osserviamo. Per “rimuovere” il significato filosofico del Principio antropico occorre ipotizzare moltissimi, infiniti universi, indipendenti fra loro, con valori casuali delle costanti fisiche, e ritenere che soltanto il nostro, in cui la vita e noi stessi siamo comparsi, sia una “selezione a posteriori” di quello con i valori giusti. Questa ipotesi, pero, è un postulato a priori, scientificamente inverificabile.

  

Visita anche il Percorso Tematico Visioni e concezioni della natura fra scienza, filosofia e teologia

Glossario: 

Espressione con cui nella teologia naturale inglese dei secoli XVII e XVIII si cominciarono a indicare itinerari razionali che, partendo dall’osservazione dell’ordine e della progettualità (Design) della natura, avevano come fine dimostrare l’esistenza di una Intelligenza ordinatrice, e dunque di Dio. Alcuni di questi argomenti venivano presentati come argomenti scientifici, piuttosto che filosofici, come sarebbe dovuto essere. Vari loro autori diedero origine a un movimento intellettuale chiamato “Fisico-Teologia”. Molti argomenti formulati in ambito biologico risultarono ingenui a posteriori, perché superati dalle spiegazioni offerte dall’evoluzione biologica per selezione naturale. Altri, sviluppati in modo filosoficamente più rigoroso, sono tuttora suggerenti.

Nella dottrina aristotelica della causalità indica una delle quattro cause che concorrono alla formazione di un ente (causa materiale, causa formale, causa efficiente e causa finale). Per essere tale, ogni ente ha una “forma”, una specifica natura, che fa sì che quell’ente sia ciò che è e non altro. L’esistenza di “forme”, cioè di cause formali, è un presupposto filosofico dell’analisi delle scienze, anche se queste ultime si occupano quasi sempre solo di cause efficienti. Nella scienza contemporanea, la nozione di forma e di causa formale torna a essere percepita, meglio che in passato, attraverso la nozione di informazione (biologia, fisica delle particelle, etc.).

In metafisica e in filosofia della natura la Causa prima indica la causa incausata, prima in senso logico e non solo cronologico, che implica tutto ciò che esiste e dalla quale tutto ciò che esiste trae origine. Le cause seconde ricevono dalla Causa prima l’essere e l’essenza, cioè la capacità di causare a loro volta. Le cause seconde (ad es. le leggi di natura) sono responsabili degli effetti che esse causano, a differenza delle cause strumentali (ad es. un martello), che causano solo in virtù dell’agente principale.

Si dice “condizioni necessaria” quella che deve verificarsi perché si verifichi il condizionato: A è condizione necessaria di B se B non può accadere senza che accada A. Condizione necessaria per avere una molecola d’acqua H2O) è avere due atomi di idrogeno. Una “condizione sufficiente” è tale se basta che essa si verifichi perché accada il condizionato, ma il condizionato può accadere anche in assenza di tale condizione: A è condizione sufficiente per B se B accade ogni qual volta accada A, pur potendo accadere anche in assenza di A. Condizione sufficiente per aumentare la temperatura di un gas è aumentare la sua pressione. Esistono tuttavia altre situazioni in cui la temperatura di un gas può aumentare. Infine, A è “condizione necessaria e sufficiente” per B se B accade ogni qual volta accada A e accade solo se accade anche A (B non può accadere se non accade A). Sono tali, ad esempio, le definizioni della logica. È importante non identificare una “condizione necessaria e sufficiente” con una causa: possono esserci situazioni in cui tra A e B viga una relazione di condizione necessaria e sufficiente senza che viga anche una dipendenza causale (ad esempio, quando A e B sono entrambi effetto di un terzo evento che li causa entrambi).

Concezione religiosa tipica del razionalismo illuministico in quanto razionalismo metafisico, professa una dottrina piuttosto vaga sulla divinità (deitas), che si poggia essenzialmente sulle capacità intellettive dell’uomo e rifugge da ogni presupposto di rivelazione soprannaturale che attesterebbe, invece, la libera iniziativa del Dio trascendente. In quanto tale, il deismo intende distanziarsi dalle espressioni di una religione storico-positiva, connotata da fondatori identificati, da istituzioni gerarchiche, da insegnamenti dogmatici e norme di vita morale. In epoca contemporanea, il deismo è una concezione filosofica condivisa da autori che pongono in un Intelligenza impersonale o in un Essere Trascendente l’origine e il progetto del cosmo, senza volerlo collegare con la nozione di Dio propria delle religioni storiche.

Dal greco telos = fine e logos = discorso. Il termine indica l’ambito filosofico dello studio dei fini, più specificamente, lo studio dell’esistenza di un fine in un determinato processo o evento. La “prova teleologica” dell’esistenza di Dio è quella che intende risalire a Dio partendo dall’osservazione di fini esistenti in natura. Nell’aggettivo teleologico, il fine è indicato in senso forte, quasi sempre in riferimento a finalità intenzionali che guidano un processo, trascendendo il piano empirico in cui esso si manifesta.

Il termine viene impiegato da Jacques Monod ne Il caso e la necessità (1970) a volte come sinonimo di teleologia, per sottolineare però che nei viventi il finalismo sarebbe solo apparente, in quanto dovuto all’integrazione delle variazioni casuali nella trasmissione della codificazione genetica che causano una morfogenesi sempre più adeguata al successo dell’individuo. In realtà, con il termine teleonomia, più in generale si indica l’insieme dei processi mediante i quali il vivente mostra il raggiungimento di specifici fini interni al suo stesso vivere: omeostasi, auto-riparazione, invarianza riproduttiva, ecc.

Ambito della filosofia che sviluppa un discorso su Dio (in greco theos) partendo dalla natura. I primi esempi di teologia naturale ci vengono forniti dai filosofi presocratici e poi da Platone. In epoca contemporanea la teologia naturale, oltre alla filosofia metafisica, ingloba anche la filosofia analitica. Leibniz conia per la teologia naturale il termine “Teodicea” (giustificazione di Dio), per indicare che l’esistenza di Dio dovrebbe essere giustificata di fronte al problema del male.