Encomio a Dio esiste; Prefazione; Introduzione; Prima Parte: La mia negazione del divino; 1. La creazione di un ateo; 2. Dove conduce l’evidenza; 3. L’ateismo considerato con calma; Seconda parte: La mia scoperta del divino; 4. Un pellegrinaggio della ragione; 5. Chi scrisse le leggi della natura?; 6. L’universo sapeva del nostro arrivo?; 7. Com’è iniziata la vita?; 8. È mai nato qualcosa dal nulla?; 9. Fare spazio a Dio; 10. Aprirsi all’onnipotenza; Terza Parte: Appendici; Appendice A: Il “nuovo teismo”: una valutazione critica di Dawkins, Dennet, Wolpert, Harris e Stanger (Roy A. Varghese); Appendice B: L’auto-rivelazione di Dio nella storia umana: un dibattito su Gesù con N. T. Wright (N. T. Wright).
«Uno dei grandi studiosi ebrei del nostro tempo, Jacob Neusner, che ha scritto molti libri importanti sul giudaismo, scrisse un libro su Gesù. In esso, affermò che quando legge che Gesù disse cose del tipo: “Hai sentito che fu detto questo e quest’altro, ma io ti dico questo, quest’altro e quest’altro ancora”, egli afferma: “Voglio dire una cosa a questo Gesù: ma chi ti credi di essere? Dio?”». Si tratta di una citazione da un libro di un importante studioso di religioni, ma dato il tono surreale, sembra la battuta di un predicatore texano uscito da un film dei fratelli Cohen. Ancora più significativo, è il fatto che l’intera citazione sia di un teologo protestante, N.T. Wright, e provenga dall’appendice B (sintesi interessantissima, in forma di dialogo tra Flew e Wright, degli studi storici sulle narrazioni della Risurrezione) del volume che qui presentiamo: Dio esiste. Come l’ateo più famoso del mondo ha cambiato idea, traduzione italiana dall’originale There is a God: How the World’s Most Notorius Atheist Changed His Mind (New York: Harper & Collins, 2007). Lo firma il filosofo analitico britannico Antony Flew, scomparso nel 2010, solo qualche anno dopo aver annunciato pubblicamente, al termine una vita passata ad argomentare in favore dell’ateismo, di essere ormai fermamente convinto che, appunto, “Dio esiste”.
Cominciamo dalla fine, cioè dalla conclusione a cui giunge Flew alla fine del suo libro-autobiografia: «L’affermazione che ci sia stata un’auto-rivelazione di Dio nella storia umana nella persona di Gesù Cristo [...]», ed il fatto che vi siano una ricchissima serie di “evidenze” storiche, costituisce «la più forte argomentazione a favore del cristianesimo che io abbia mai visto» (p. 161). Insomma, in conclusione di un percorso razionale, alla ricerca di argomentazioni logiche che dimostrino un’Intelligenza creatrice dietro le leggi naturali e la coscienza, un filosofo anglosassone di estrazione fortemente analitica, formatosi ad Oxford durante gli anni in cui il neo-positivismo logico era l’orizzonte teorico di riferimento, comprende come la Verità che va cercando si sia comunicata in una persona fisica, e che nessuna indagine speculativa, per quanto cauta, documentata e corretta, potrà mai possedere la potenza esplicativa di un simile fatto. In breve, scopre la valenza euristica della fede. Questo è – secondo il parere di chi scrive – il grande valore del coraggioso “gesto” di Flew, perchè chiarisce, ancora una volta, il senso di quel Credo ut intelligam, intelligo ut credam che costituisce, in un certo senso, la sintesi del rapporto tra fede e ragione: la comprensione dell’ordine e della razionalità intrinseci al reale non potrà mai costituire, di per sé, un argomento probante in favore dell’opzione di fede, ma può e deve condurre l’intelligenza ad interrogarsi circa la possibilità di tale opzione. Ecco, allora, il valore della ricerca filosofica, dell’attività scientifica, dell’arte e di tutte le forme e le pratiche del sapere, perchè, come affermava qualche anno addietro Giovanni Paolo II nella Fides et Ratio, «La letteratura, la musica, la pittura, la scultura, l’architettura ed ogni altro prodotto della intelligenza creatrice sono diventati canali attraverso cui esprimere l’ansia della ricerca. La filosofia in modo peculiare ha raccolto in sé questo movimento ed ha espresso, con i suoi mezzi e secondo le modalità scientifiche sue proprie, questo universale desiderio dell’uomo».
Lo scenario in cui si colloca la svolta di Flew è quello della riscoperta del teismo da parte dei filosofi analitici, sopratutto statunitensi, tra gli anni ’80 e ’90. Un rinnovato interesse per la trascendenza e i rapporti tra Dio e sfera naturale, che però, va detto, si ferma al tentativo di coniare un concetto di Dio coerente rispetto ai principi della logica e alle leggi fisiche. Lo stesso autore, del resto, lo ammette candidamente: «Devo sottolineare che la mia scoperta del divino è avanzata su un livello puramente naturale, senza alcun riferimento a fenomeni soprannaturali. È stato un esercizio in ciò che è tradizionalmente chiamata teologia naturale. Non ha avuto alcun legame con nessuna delle religioni rivelate, né tantomeno affermo di aver avuto alcuna esperienza personale di Dio [...] In breve, la mia scoperta del divino è stato un pellegrinaggio della ragione e non della fede» (pp. 103-104). Pellegrinaggio che si è nutrito, naturalmente, delle recenti scoperte scientifiche nel campo della cosmologia e della biologia – come l’evidenza che l’universo si sta espandendo, o che non esiste una teoria fisica soddisfacente della coscienza – le quali, secondo Flew, allo stato attuale della ricerca sembrano fornire fortissime argomentazioni logiche in favore di un “Progettista”. Anche su questo aspetto, Flew non arriva a dichiararsi aperto sostenitore di quel vasto e controverso movimento conosciuto come Intelligent Design, ma sembra, almeno a chi scrive, condividerne in parte alcuni assunti di base. Perché se è vero che il nostro autore afferma, giustamente, di voler seguire il ragionamento «fino a dove questo conduce» – secondo lo stile dei dibattiti al Socratic Club di Oxford, dove Flew cominciò ad emettere i primi “vagiti” filosofici – è altrettanto vero, allora, che la scoperta di una razionalità intrinseca al cosmo e al vivente non “conduce” automaticamente all’evidenza che “Dio esiste”, bensì, come si diceva sopra, fornisce un accesso razionale alla nozione di Dio – che è cosa ben diversa.
Detto questo, l’onestà intellettuale e la passione che animano Flew, e che emergono a più riprese dalle pagine del libro, non potranno non affascinare il lettore. Si prenda, ad esempio, la chiosa della prima parte, in cui il nostro autore ripercorre la propria difesa dell’ateismo: «Spero che la mia difesa dell’ateismo e che i dibattiti con i teisti e altri indichino il mio continuo interesse verso questioni teologiche e la volontà di continuare a esplorare varie risposte. Gli analisti e gli psicologi possono dire ciò che vogliono, ma l’impulso per me è ancora quello che è sempre stato: la ricerca di argomentazioni valide e conclusioni vere» (p. 94). Concludendo, vorremmo allora evidenziare un aspetto del volume, forse secondario rispetto al contenuto, ma non per questo meno interessante. Tutta la prima parte, infatti, è dedicata alla spiegazione delle argomentazioni chiave dell’ateismo di Flew, ma di fatto diviene un vivido spaccato autobiografico sulla formazione umana e filosofica di uno dei massimi interpreti della filosofia analitica del secondo Novecento. Le pagine che l’autore dedica al racconto del proprio rapporto con la disciplina e con i colleghi, la descrizione delle discussioni fra le varie “scholarships” che durante quegli anni di fuoco per la filosofia continentale si scontravano in accesi dibattiti metafisici, costituiscono una lettura divertente e stimolante (e chi scrive consiglierebbe di proporla nelle aule dei Licei). Così, mentre descrive il percorso logico del proprio ateismo, partendo dal problema del male, passando per la definizione del concetto di Dio, fino alla decisione su chi debba ricadere – atei o credenti – «l’onere della prova» della Sua esistenza, l’autore ci racconta l’incontro con Wittgenstein, invitato a tenere una conferenza ad Oxford, oppure della sua sorpresa nello scoprire che negli Stati Uniti, già a metà anni ’70, i dibattiti pubblici sul teismo erano grandi eventi mediatici che attiravano migliaia di persone. E poi, ancora, i confronti e le discussioni con Dawkins, Plantinga, Barrow, Davies, e molti dei filosofi e degli scienziati più influenti degli ultimi trent’anni. Tutto ciò mostra, al di là delle a volte eccessive semplificazioni e delle affrettate conclusioni, quanto un certo tipo di riflessione interdisciplinare sia viva e anche culturalmente condivisa nel mondo anglo-americano, e suggerisce che forse bisognerebbe prendere ad esempio l’entusiasmo di un autore come Flew, il quale da ultraottantenne ha messo in discussione tutto quello che aveva detto e pensato, senza timore di essere estromesso dal mondo accademico, che anzi, proprio per quel gesto, ne ha subito fatto un esempio di spirito libero di ricerca. Sarebbe potuto succedere in Italia? Lascio al lettore l’onere della risposta...