No, perché ci sono cose che le macchine, in ogni caso, non saprebbero fare mai: provare sentimenti e acquisire la consapevolezza di sé. Sono qualità che resteranno sempre proprie della persona umana. I computer sanno ricordare e gestire una quantità di informazioni con velocità e precisione impossibili per l’uomo e cominciano ad “apprendere”. Si ritiene che gli algoritmi sapranno decidere meglio degli uomini, che i robot saranno più abili in tutto. Certamente il lavoro umano è destinato a cambiare e sarà progressivamente sostituito dalle macchine: ma precisamente ciò richiede all’uomo una grande capacità di riflessione e di progettualità. Infatti, sarà sempre la coscienza dell’uomo quella che introdurrà nelle macchine i riferimenti etici in base ai quali queste potranno prendere le decisioni.
Il tema dell’Intelligenza artificiale (IA) occupa oggi non solo le riviste scientifiche, ma anche la letteratura e il cinema… Finora intelligenza ed emozioni erano attribuite soltanto alla razionalità umana: possiamo applicarle anche ai robot?
L’intelligenza dei robot riproduce alcune delle caratteristiche dell’intelligenza umana: la capacità di ricordare e analizzare informazioni, organizzate dai progettisti umani; la capacità di prendere decisioni secondo criteri predeterminati, la capacità di apprendere dall’esperienza, per mezzo del confronto con i dati già immagazzinati e in base a regole previste, applicate attualmente solo a problemi specifici e limitati. In alcune di queste attività le macchine ottengono ottimi risultati, e colpisce l’immaginario collettivo l’abilità dei computer di competere a scacchi con i grandi campioni umani, riuscendo a sconfiggerli. L’azione dei robot e l’Intelligenza artificiale compiono con precisione e rapidità i compiti per cui sono state programmate, determinati dagli algoritmi. Ma non ci sono algoritmi in grado di riprodurre le emozioni e i sentimenti. Un programmatore particolarmente abile può riuscire a imitare nel robot atteggiamenti esteriori che sembrano esprimere sentimenti, ad esempio il sorriso, o il dispiacere, o il pianto, similmente a quanto accade quando l’uomo assume quei comportamenti cosiddetti “di circostanza”: in funzione di ciò che gli succede intorno, o degli atteggiamenti delle persone, si possono codificare alcune reazioni convenzionali. Nel suo libro intitolato Silicio (Mondadori, 2019), in cui racconta la sua esperienza di vita come progettista e fondatore di aziende di componenti elettronici, Federico Faggin descrive con precisione l’impossibilità di trasferire alle macchine l’esperienza delle emozioni. Queste si verificano nell’uomo in maniera immateriale, sono legate a “moti dell’animo” e non sono riproducibili semplicemente come effetto di fenomeni elettrici. Mentre le percezioni sensoriali sono stimoli provenienti dall’esterno, e possono essere realizzate nei robot mediante sensori e trasduttori, che le trasformano in segnali digitali, le emozioni e i sentimenti prodotti dalle sensazioni, dai ricordi, da circostanze emotive, non sono riproducibili nelle macchine.
Le applicazioni della robotica stanno suscitando molte riflessioni in ambito etico, in particolare su ciò che una macchina può fare e su ciò che essa non dovrebbe fare. Cosa possiamo affidare alle macchine e in cosa esse potranno sostituirci nel tempo?
L’azione dei robot e le tecniche di Intelligenza artificiale sono ancora in larga misura un utile complemento dell’opera dell’uomo, e non lo sostituiscono completamente. Suscitano però grande interesse le macchine cosiddette “autonome”, di cui sono già in atto diverse applicazioni: sono sistemi meccanici o robotici la cui azione è determinata da un programma, senza l’intervento dell’uomo durante il loro funzionamento. Ovviamente l’uomo è tuttavia sempre presente nelle fasi di progetto e di realizzazione dei sistemi autonomi. Possono essere sofisticati apparati che compiono da soli le funzioni di numerosi operai a una catena di montaggio, mezzi di locomozione o autoveicoli senza guidatore, oppure sistemi di controllo di impianti industriali o anche delle funzioni degli impianti domestici.
Il principale problema da affrontare in sede di progetto e di realizzazione di apparati destinati al controllo di sistemi che possono avere un impatto pericoloso sulla salute o sull’ambiente riguarda la sicurezza: occorre garantire che il funzionamento del sistema sia sempre corretto, in grado di reagire in maniera controllata a qualsiasi evento si verifichi. Pertanto si introducono in fase di progetto tutte le verifiche e si prevedono tutte le contromisure necessarie. Con tali attenzioni il campo di applicazione delle macchine intelligenti è praticamente infinito, e può essere in molti casi sostitutivo dell’azione umana, ad esempio in condizioni di lavoro che sarebbero insopportabili per l’uomo.
Nel caso dei sistemi autonomi può sembrare meno evidente la responsabilità etica dell’uomo, quasi che le macchine potessero non solo agire autonomamente, ma anche esserne consapevoli e responsabili. Così non è. Anche per i sistemi autonomi, le azioni sono determinate dalle scelte e dai valori etici dei progettisti, che ne rimangono in ultima istanza responsabili.
I settori applicativi in cui la presenza delle macchine è prevalente sono i più svariati, come illustra Massimo Gaggi nel libro Homo Premium (Laterza, 2018), dall’industria ai servizi, dalla logistica all’ambito della cultura. Delegare il lavoro alle macchine apre prospettive di grande cambiamento, un possibile nuovo Rinascimento, secondo la convinzione di Derrick De Kerchove, ma suscita anche notevoli problemi, riguardo alla necessità di ripensare i tempi di vita, tra lavoro e tempo libero, tra occupazione e assenza di lavoro.
Intelligenza Artificiale e robotica si muovono anche nella direzione di favorire una migliore qualità della vita. Quali sono i principali ambiti di studio e di ricerca in questo campo?
L’utilizzo di tecniche di Intelligenza artificiale per analizzare dati e supportare le decisioni umane rappresenta un ambito applicativo in cui si possono considerare già acquisiti risultati importanti. La gestione ottimale delle risorse energetiche, l’efficiente erogazione dei servizi pubblici, il miglioramento delle procedure gestionali con notevoli economie di costi sono pratica quotidiana in organizzazioni pubbliche e aziende. Le tecniche di analisi dei dati permettono di costruire modelli previsionali, e sono usate a supporto delle ricerche in biologia, in genetica e in vari ambiti della medicina. Un’estensiva analisi su dati epidemiologici aiuta a formulare diagnosi con maggior precisione, e l’indagine intelligente sugli esiti delle terapie applicate può essere di beneficio nell’orientare le cure. Inoltre, costruire modelli virtuali di sistemi biologici permette di simularne i comportamenti con una rapidità che spesso non è raggiungibile con le tradizionali attività di laboratorio.
Alcuni sviluppi della robotica si stanno affermando rapidamente in varie applicazioni biomedicali, come ausilio all’intervento umano e come dispositivi artificiali per pazienti amputati o che presentano gravi patologie. Un’area applicativa promettente è rappresentata, nel settore dell’assistenza agli anziani, dall’utilizzo di robot antropomorfi, resi il più possibile simili a persone in carne e ossa.
Accanto a evidenti benefici, l’Intelligenza artificiale e la robotica presentano in questi settori aspetti critici, riguardanti da un lato l’accettazione culturale di un affiancamento dell’uomo da parte di macchine, o la sostituzione di organi umani con dispositivi artificiali, dall’altro la corretta identificazione delle attività per cui i robot siano adatti.
Sia nell’ambito dell’uso delle macchine nei settori produttivi, che in quelli di cura, è indispensabile una ricerca di nuovi approcci giuridici per affrontare i problemi legislativi. Si possono considerare ad esempio le forme di “contrattualizzazione” del lavoro delle macchine e il loro rapporto con il lavoro dell’uomo, il tema della responsabilità penale e civile conseguente a eventuali malfunzionamenti. Qualcuno propone di fissare una specie di “statuto giuridico del robot”, trascurando il fatto che il terreno su cui risolvere tutti i problemi relativi al futuro “invaso” dalle macchine non è quello di assimilare le macchine all’uomo, bensì quello di riportare l’uomo al centro di ogni intervento, come fine ultimo di tutti i provvedimenti di riorganizzazione del lavoro o di disciplina legislativa della futura società tecnologica.
Alcuni scienziati affermano che sarà possibile riprodurre artificialmente il pensiero umano nella sua complessità e che realizzarlo è solo questione di tempo: cosa c'è di scientificamente attendibile in tali affermazioni?
La prospettiva di riprodurre il pensiero umano nelle macchine fu la spinta iniziale agli studi sull’Intelligenza artificiale, a metà del secolo scorso, sulla base della convinzione che lo studio dell’uomo avrebbe spiegato completamente il funzionamento del cervello umano e che fosse possibile realizzare una macchina in grado di riprodurre tale funzionamento. Lo sviluppo delle neuroscienze e gli studi sul cervello umano hanno successivamente approfondito le relazioni esistenti tra cervello, mente e pensiero, raggiungendo la conclusione che il cervello e il pensiero umano hanno una complessità che non è raggiungibile da una macchina. Non solo dal punto di vista fisico – il nostro cervello è composto da circa 100 miliardi di neuroni connessi da un numero incalcolabile di sinapsi – ma anche perché sono state identificate una varietà di forme di intelligenza – gli studi di Gardner e di Goleman individuano, tra le altre, l’intelligenza logica, artistica, spaziale, emotiva, spirituale – che solo in parte sono realizzabili nei computer. Solo la parte che riguarda le capacità algoritmiche, razionali, è trasferibile alle macchine, e costituisce una piccola frazione del pensiero umano. Ciò appare evidente nelle applicazioni delle macchine al linguaggio. Si stanno ottenendo ottimi risultati in ambiti ristretti, in cui le macchine operano secondo uno schema “domanda-risposta” con un dizionario di parole e frasi stabilito dall’uomo e con semplici regole per estendere il dizionario in base ai dialoghi effettuati. Se si prende come riferimento il "test di Turing", la macchina può sembrare “intelligente”, cioè indistinguibile da un essere umano. Turing propose nel 1950 di “misurare” l’Intelligenza artificiale facendo dialogare a distanza una persona con un’altra persona o con una macchina. Se la sequenza di domande non “smascherava” la macchina, il test si considerava superato. L’interesse del test sta nel legare in qualche modo l’intelligenza alla capacità di parola. Ma nell’ambito della traduzione, o in quello ancor più difficile della composizione di testi originali, le macchine dimostrano tutti i loro limiti. Che sono ineliminabili.
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Si può definire un “uomo robotizzato”, uomo nel quale un certo numero di organi vitali è stato sostituito da dispositivi artificiali. È un essere immaginario creato dalla letteratura fantascientifica, mito moderno che ricalca in chiave tecnologica le figure antiche del Centauro o del Minotauro. Il termine è usato anche per indicare un “robot antropomorfizzato”, un essere artificiale che non solo si comporta come un uomo, ma ne assume la natura stessa. Anche in tale accezione ha radici lontane: il Golem ebraico, Frankenstein, il Turco giocatore di scacchi. Tutti figli del desiderio dell’uomo di farsi “creatore”, non di macchine inanimate, ma della vita stessa.
Disciplina finalizzata a rendere la casa “automatizzata”, fornendo un’abitazione di dispositivi intelligenti in grado di automatizzare a distanza ogni azione utile nella gestione domestica: accendere e spegnere a un tempo stabilito le luci, l’impianto di riscaldamento, gli elettrodomestici, e di regolarne il funzionamento in base a ciò che accade. L’automazione si realizza attraverso sensori e dispositivi di controllo, sempre più frequentemente inseriti durante la costruzione stessa dell’edificio.
Prospettiva nata dalla convinzione crescente che “le macchine operano meglio dell’uomo”, fino ad arrivare a pensare che sia meglio “lasciar fare alle macchine”. Si tratta, però, di un atteggiamento che tende a de-responsabilizzare l’uomo, come R. Guardini ammoniva nello scritto La cultura come opera e come minaccia (1957). Secondo G. Dioguardi, si possono individuare due grandi categorie di deleghe tecnologiche. La prima si verifica quando si affidano a macchine operatrici compiti che esse possono svolgere meglio e più rapidamente dell'uomo. La seconda è una delega che potremmo definire di natura intellettuale, mediante la quale vengono trasferite a macchine generalmente elettroniche funzioni e attività tipiche dell'uomo.
Criterio proposto da Alan Turing nel 1950 per determinare se una macchina fosse in grado di “pensare”. Presentato nell'articolo Computing machinery and intelligence, pubblicato sulla rivista Mind, il test prendeva spunto dal “gioco dell'imitazione” a tre partecipanti: un uomo A, una donna B, e una terza persona C che è tenuta separata dagli altri due. Tramite una serie di domande da lui formulate, le cui risposte sono ricevute dattiloscritte, la persona C doveva stabilire quale fosse l'uomo e quale la donna. Se sostituendo la persona A con una macchina i responsi della persona C fossero stati paragonabili prima e dopo la sostituzione, allora il comportamento della macchina avrebbe potuto qualificarsi “intelligente”. Il test, che aveva tuttavia limiti e semplificazioni intrinseche, fu riformulato in anni successivi di modi diversi, ad esempio da John Searle con l’idea della “stanza cinese”. In senso ampio “test di Turinig” sono tutte quelle prove, metodologicamente diversificate, finalizzate a esaminare se il comportamento di una macchina, ovvero di una “intelligenza artificiale”, sia assimilabile a quello di un’intelligenza umana.
Indica una macchina che è in grado di svolgere il lavoro dell’uomo. Il termine ha origine in opere letterarie di fantascienza. Lo troviamo nell’opera di K. Čapek, R.U.R. (1921) (robota significa “lavoro” in cecoslovacco), e nel romanzo di I. Asimov, Circolo vizioso (1940), che rese famose le “tre leggi della robotica” e diede origine al film Io Robot (2004). Nella fantascienza i robots sono automi antropomorfi, ma nella vita reale l’obiettivo è stato raggiunto solo a metà: non è facile far camminare un robot senza che finisca “gambe all’aria”.