Il brano, tratto dalle pagine iniziali del celebre testo di Charles P. Snow presenta, con stile provocante, letterati e scienziati dell’Università di Cambridge come rappresentanti di due “culture” contrapposte che non comunicano e si guardano con reciproca diffidenza: incomprensione, soprattutto, e qualche volta ostilità e disprezzo. Gli scienziati, con “il futuro nel sangue”, accusati di essere animati da un ottimismo superficiale; i letterati, che meglio avvertono la tragicità della condizione individuale, rimproverati di chiudere l’arte proprio nel momento esistenziale più importante, coltivando attitudini politiche anti-sociali. Si tratta di malintesi o di accuse fondate?
Circa tre anni fa pubblicai un sommario articolo intorno a un problema che mi teneva occupato già da qualche tempo [1], e che, date le vicende della mia vita, doveva inevitabilmente presentarmisi. Per meditare l’argomento, non avevo allora altre credenziali che quelle che derivavano da tali vicende, da un complesso di circostanze fortuite. Chiunque avesse avuto un’esperienza simile alla mia avrebbe visto più o meno le stesse cose e, penso, avrebbe fatto più o meno le medesime riflessioni. Si trattò, in verità, di un’esperienza poco consueta. Di professione ero scienziato: di vocazione, scrittore. Ecco tutto. Fu una fortuna, se volete, che derivò dal fatto di essere cresciuto in una famiglia povera.
Ma la mia storia personale non è ciò di cui intendo parlare ora. Mi basterà dire che venni a Cambridge a svolgere alcune ricerche in un periodo di grande attività scientifica. Ebbi il privilegio di assistere, da un buon posto di osservazione, ad uno dei periodi più prodigiosamente creativi di tutta la fisica. E i casi della guerra — compreso l’incontro con W. L. Bragg al bar della stazione di Kettering un freddissimo mattino del 1939, che ebbe un’influenza determinante sulla mia vita pratica — mi misero in grado, anzi mi costrinsero moralmente a non lasciare più quel posto di osservazione. Così per trent’anni dovetti stare in contatto con gli scienziati non soltanto per curiosità, ma a causa della mia vita professionale. Durante quegli stessi trent’anni cercai di dare forma ai libri che desideravo scrivere, e questo a suo tempo mi fece entrare nel novero degli scrittori.
Molte volte, dopo la giornata lavorativa trascorsa tra gli scienziati, la sera “evadevo”, per così dire, con qualche collega letterato. Ho avuto, naturalmente, amici intimi tra gli scienziati come tra gli scrittori. Vivendo tra questi gruppi, ed ancor più, penso, spostandomi regolarmente dall’uno all’altro e viceversa, mi trovai nella condizione di dovermi occupare del problema di quelle che, ancor molto prima di scriverne, battezzai fra me “due culture”. Avevo infatti la costante sensazione di muovermi tra due gruppi — di pari intelligenza, di identica razza, di estrazione sociale non molto differente, di reddito pressoché eguale — che ormai non comunicavano quasi più tra loro e che, quanto ad atmosfera intellettuale, morale e psicologica, avevano così poco in comune che si sarebbe creduto non di essere andati da Burlington House o South Kensington a Chelsea, ma di avere attraversato un oceano.
Di fatto, si era percorsa una distanza molto superiore a quella di un viaggio transoceanico, giacché oltre Atlantico, a qualche migliaio di miglia, al Greenwich Village ci si trovava a parlare precisamente lo stesso linguaggio che a Chelsea, ed in entrambi questi luoghi si aveva col Massachusetts Institute of Technology quella comunicazione che si sarebbe potuta avere se gli scienziati avessero parlato solo tibetano. Il problema, infatti, non è soltanto nostro; qui, per certe nostre idiosincrasie culturali e sociali, viene un tantino esagerato, mentre, per un’altra caratteristica della società inglese, viene un po’ minimizzato; ma, più o meno, riguarda tutto l’Occidente.
Con ciò intendo parlare di una cosa seria. Non penso alla storiella di quel gioviale professore di Oxford — ho sentito attribuire l’aneddoto ad A. L. Smith — che intervenne a un pranzo a Cambridge. Mi pare che fossero gli ultimi anni del secolo, al St. John’s College, o forse al Trinity College. Dunque, Smith sedeva alla destra del Preside o Vice-Preside: gli piaceva far partecipare alla conversazione tutti quelli che gli stavano vicino, ma la loro espressione non era incoraggiante. Tentò una scherzosa battuta oxoniense col commensale che gli stava di fronte, ma per tutta risposta ebbe un grugnito; tentò con quello seduto alla sua destra, ma ne ebbe un altro grugnito. Dopo di che, sorpreso, vide che l’uno si rivolgeva all’altro e diceva: “Di che sta parlando?” “Non ne ho la minima idea.” A questo punto, anche Smith cominciò a sentirsi a disagio. Ma il Preside, fungendo da emolliente sociale, lo tranquillizzò, dicendo: “Oh, sono matematici! Noi non rivolgiamo mai la parola a quelli là.”
No, intendo parlare di una cosa seria. Sono convinto che la vita intellettuale, nella società occidentale, si va sempre più spaccando in due gruppi contrapposti. Quando dico vita intellettuale, mi riferisco anche a una larga parte della nostra vita pratica, perché sarei l’ultima persona al mondo a suggerire che le due cose al livello più profondo possano venire distinte. Tornerò alla vita pratica un po’ più avanti. Due gruppi antitetici: a un polo abbiamo i letterati, che come per caso, senza che nessuno se ne accorgesse, cominciarono ad autodefinirsi “intellettuali,” quasi che non ce ne fossero altri. Ricordo che una volta, intorno agli anni Trenta, G. H. Hardy mi faceva notare, con mite meraviglia: “Hai fatto caso come si usa oggi la parola ‘intellettuale’? A quanto pare, è una nuova definizione, certamente non include Rutherford o Eddington o Dirac od Adrian o me stesso. È strano, ti pare?” [2].
Letterati a un polo e scienziati all’altro, i più rappresentativi dei quali sono i fisici. Tra i due gruppi, un abisso di reciproca incomprensione: qualche volta (particolarmente tra i giovani) ostilità e disprezzo, ma soprattutto mancanza di comprensione. Gli uni hanno un’immagine stranamente distorta degli altri. Gli atteggiamenti sono così diversi che non c’è un terreno comune neppure per quanto riguarda le emozioni. I non-scienziati sono inclini a considerare presuntuosi e vanesi gli scienziati: da T. S. Eliot, che possiamo prendere per i nostri esempi come figura archetipa, sentono dire, a proposito dei suoi tentativi di far rivivere il dramma in versi, che abbiamo poche speranze di riuscirvi, ma che egli ed i suoi collaboratori si riterrebbero soddisfatti se potessero preparare le basi per un nuovo Kyd od un nuovo Greene. Questo è il tono, attenuato e trattenuto, che i letterati tengono abitualmente: è la voce mitigata della loro cultura. Poi sentono una voce più sonora, quella di un’altra figura archetipa, Rutherford, che proclama: “Questa è l’età eroica della scienza! Questa è l’età elisabettiana!” Molti di noi udirono questa affermazione, e molte altre, rispetto alle quali quella poteva apparire modesta; e non avevamo alcun dubbio circa l’identità di colui al quale Rutherford attribuiva il ruolo di Shakespeare. E per i letterati è difficile immaginare o capire come egli avesse assolutamente ragione.
E confrontate l’affermazione “così finisce il mondo, non con un rimbombo ma con un lamento,” — sia detto per inciso, una delle profezie meno probabili, da un punto di vista scientifico, che siano mai state fatte — confrontate quella affermazione con la famosa, mordace risposta di Rutherford a chi gli diceva “Beato te, Rutherford, sempre sulla cresta dell’onda”; “Beh, l’ho fatta io, l’onda, no?”
I non-scienziati hanno una radicata impressione che gli scienziati siano animati da un ottimismo superficiale e non abbiano coscienza della condizione dell’uomo. D’altra parte, gli scienziati credono che i letterati siano totalmente privi di preveggenza e nutrano un particolare disinteresse per gli uomini loro fratelli; che in fondo siano anti-intellettuali e si preoccupino di restringere tanto l’arte quanto il pensiero al momento esistenziale. E cosi via. Chiunque abbia una sia pur debole attitudine all’invettiva, potrebbe presentare una grande quantità di sotterranee accuse e controaccuse di questo genere. Sia le accuse che vengono mosse da una parte, sia quelle che vengono lanciate dall’altra contengono qualcosa di non del tutto privo di fondamento. Ma esse sono tutte distruttive. Per la maggior parte si basano su pericolosi malintesi. Vorrei ora prendere in considerazione due dei più profondi di questi malintesi, uno per parte.
Innanzitutto, l’ottimismo dello scienziato. È una accusa cosi spesso ripetuta da essere ormai un luogo comune. L’hanno lanciata alcune delle più acute menti non-scientifiche dei nostri giorni. Ma dipende da una confusione tra esperienza individuale ed esperienza sociale, condizione individuale e condizione sociale dell’uomo.
La maggior parte degli scienziati da me conosciuti hanno sentito — non meno profondamente dei non-scienziati da me conosciuti — che la condizione individuale di tutti noi è tragica. Ciascuno di noi è solo: talvolta sfuggiamo alla solitudine con l’amore o l’affetto o, forse, in certi momenti di creazione, ma questi trionfi della vita sono piccole zone illuminate che ci creiamo, mentre il margine della strada rimane avvolto nell’oscurità: ciascuno di noi muore solo. Ho conosciuto scienziati che credevano nella religione rivelata. Forse per loro il senso della condizione tragica non è così forte. Non so. Per la maggior parte delle persone di profondo sentire, per quanto coraggiose e felici, e qualche volta soprattutto per quelle più felici e più coraggiose, quel senso della condizione tragica sembra costituzionale, parte del peso della vita. Questo vale per gli scienziati che ho meglio conosciuto, come per chiunque altro.
Ma quasi tutti — ed è qui che veramente si manifesta il colore della speranza — non vedrebbero alcuna ragione perché, proprio per il fatto che la condizione individuale è tragica, lo debba essere anche la condizione sociale. Ciascuno di noi è solo; ciascuno di noi muore solo: bene, è un destino contro il quale non possiamo lottare — ma nella nostra condizione ci sono molte cose che non dipendono dal destino, e se non lottassimo contro di esse saremmo men che uomini.
La maggior parte dei nostri simili, ad esempio, sono denutriti e muoiono precocemente. In parole crude, è questa la condizione sociale. Riuscire a vedere in fondo alla solitudine umana racchiude una trappola morale: induce a tenersi in disparte, tutti compresi della propria unica tragedia, e a lasciare che gli altri stiano senza pane.
Come gruppo, gli scienziati cadono in questa trappola meno degli altri. Sono inclini a darsi da fare per cercare un rimedio e a pensare che, fino a prova contraria, è sempre possibile trovarlo. Questo è il loro vero ottimismo, un ottimismo del quale il resto dell’umanità ha urgente bisogno.
Viceversa, lo stesso spirito, forte e buono e deciso a battersi a fianco dei propri fratelli, ha indotto gli scienziati a considerare spregevoli gli atteggiamenti sociali dell’altra cultura. È troppo facile: alcuni rappresentanti di quella cultura sono spregevoli, ma rappresentano solo una fase temporanea e non bisogna credere che siano tipici.
Ricordo un contro-interrogatorio al quale mi sottopose un famoso scienziato: “Perché nella maggior parte gli scrittori hanno opinioni sociali che sarebbero state giudicate palesemente incivili, e fuori moda al tempo dei Plantageneti? Non è forse così per quanto riguarda la maggior parte dei più famosi scrittori del ventesimo secolo? Yeats, Pound, Wyndham Lewis, nove su dieci di coloro che hanno dominato la sensibilità letteraria dei nostri tempi — non furono forse, politicamente, non soltanto ottusi, ma addirittura scellerati? Non è stata forse l’influenza di tutto ciò che essi rappresentano a portare tanto più vicino Auschwitz?”
Allora pensavo, e lo penso ancora, che la risposta giusta fosse non difendere l’indifendibile. Era inutile dire che Yeats, secondo il giudizio di amici di cui mi fido, era uomo singolarmente magnanimo, non meno che grande poeta. Inutile negare i fatti, che sono in generale veri. Per rispondere onestamente bisognava dire che in effetti c’è un rapporto, che i letterati ebbero la colpa di cogliere in ritardo, tra alcune forme d’arte dell’inizio del ventesimo secolo e le più imbecilli espressioni di anti-socialità [3]. E fu questa una delle tante ragioni per cui alcuni di noi voltarono le spalle all’arte e cercarono di aprirsi un’altra strada [4].
Ma anche se molti di quegli scrittori hanno dominato la sensibilità letteraria per una generazione, ora non è più così, o almeno non nella stessa misura. La letteratura cambia più lentamente della scienza. Non ha lo stesso correttivo automatico, e così i suoi periodi di traviamento sono più lunghi. Ma è avventato, per gli scienziati, giudicare gli scrittori sulla base delle prove offerte nel periodo 1914-50.
Sono, questi, due dei malintesi tra le due culture. Dovrei dire che, da quando ho cominciato a parlarne — delle due culture, cioè — ho avuto qualche critica. I più, tra gli scienziati che conosco, pensano che ci sia qualcosa di vero, e così pure la maggior parte degli artisti di professione. Ma alcuni non-scienziati mi hanno accusato di nutrire interessi troppo terra-terra. Secondo loro, la mia è una eccessiva semplificazione, e se proprio si vuole parlare in questi termini, andrebbero individuate almeno tre culture, e sostengono che, senza essere scienziati, degli scienziati condividerebbero in buona parte i sentimenti. La recente cultura letteraria, sarebbe per loro, come per gli scienziati stessi, di scarsa utilità — forse, dal momento che la conoscono meglio, di utilità ancor minore. J. H. Plumb, Alan Bullock ed alcuni sociologi americani miei amici hanno dichiarato che rifiutano energicamente di essere imbrancati nello stesso recinto culturale assieme a gente con la quale non vorrebbero farsi vedere neanche morti e che non vogliono si pensi di loro che contribuiscono a creare un clima nocivo alle speranze sociali.
Sono argomenti che rispetto. Il numero 2 è un numero molto pericoloso: ecco perché la dialettica è un processo pericoloso. Bisogna considerare con molto sospetto i tentativi di dividere ogni cosa in due. Mi sono chiesto, dopo lunga riflessione, se era opportuno ricorrere a distinzioni più sottili: ma ho finito col decidere di no. Cercavo qualcosa che fosse un po’ più di una elegante metafora, ma anche molto meno di una mappa culturale: e le “due culture” servono abbastanza allo scopo, e voler sottilizzare di più comporterebbe più inconvenienti del necessario.
A uno dei due poli, la cultura scientifica è realmente una cultura, in un senso non solo intellettuale ma anche antropologico. Vale a dire, non è necessario, e spesso naturalmente non avviene, che i suoi membri si capiscano sempre a fondo; i biologi, nei casi più frequenti, avranno una idea abbastanza confusa della fisica contemporanea; ma ci sono atteggiamenti comuni, comuni regole e schemi di comportamento, presupposti comuni e un comune modo di accostarsi alle cose. Sono caratteristiche sorprendentemente estese e profonde: e contrastano con altri schemi mentali, siano religiosi, politici o di classe.
Statisticamente, credo che il numero degli scienziati che sono, in termini religiosi, miscredenti, sia leggermente superiore a quello degli altri membri del mondo intellettuale — sebbene ve ne siano molti religiosi, e a quanto pare in misura sempre crescente fra i giovani. Ancora statisticamente, di poco superiore è il numero degli scienziati che in politica sono a sinistra — sebbene, ancora, molti si siano sempre dichiarati conservatori, e anche questo, a quanto pare, è più comune fra i giovani. Rispetto al resto del mondo intellettuale, notevolmente superiore è il numero di scienziati che in questo paese, e probabilmente anche in U.S.A., provengono da famiglie povere [5]. Tuttavia, per quanto concerne un’intera sfera di pensiero e di comportamento, nessuna di queste cose conta molto. Nel lavoro, e in gran parte nella vita dei sentimenti, i loro atteggiamenti sono più vicini a quelli di altri scienziati che a quelli di non-scienziati di uguali convinzioni religiose o politiche, o dello stesso ambiente sociale. Se dovessi azzardare una definizione telegrafica, direi che hanno per natura il futuro nel sangue.
Che piaccia loro o no, è così. Ciò era non meno vero dei conservatori J.J. Thomson e Lindemann che dei radicali Einstein o Blackett: del cristiano A. H. Compton che del materialista Bernal: degli aristocratici Broglie o Russell come del proletario Faraday: tanto di quelli nati ricchi, come Thomas Merton o Victor Rothschild, quanto di Rutherford, figlio di un uomo tuttofare senza occupazione stabile. Senza pensarci, reagiscono tutti allo stesso modo. Ecco che cosa è una “cultura.”
All’altro polo, lo spiegamento di atteggiamenti è più largo. È ovvio che tra i due poli, andando nella società intellettuale dai fisici ai letterati, ci si imbatte in tutti i registri del sentimento. Ma credo che il polo che dimostra una totale incomprensione della scienza diffonde la sua influenza su tutto il resto. Questa totale incomprensione dà, molto più profondamente di quanto ce ne possiamo rendere conto noi, che ci viviamo dentro, un sapore a-scientifico all’intera cultura “tradizionale,” e questo sapore a-scientifico è spesso, molto più di quanto noi ammettiamo, sul punto di mutarsi in anti-scientifico. I sentimenti di un polo diventano i sentimenti contrari dell’altro polo. Se gli scienziati hanno il futuro nel sangue, allora la cultura tradizionale risponde auspicando che non ci sia il futuro [6]. È la cultura tradizionale che, in una misura troppo poco limitata dall’emergere della cultura scientifica, governa il mondo occidentale.
Questa polarizzazione è soltanto un danno per tutti noi. Per noi, come persone, e per la nostra società.
[1] The Two Cultures, in “New Statesman”, 6 ottobre 1956.
[2] Questa conferenza fu tenuta ad un pubblico di Cambridge, e così feci alcuni riferimenti che non necessitavano spiegazioni da parte mia. G. H. Hardy (1877-1947) fu uno dei più illustri matematici puri del suo tempo, ed un personaggio pittoresco a Cambridge sia come giovane docente universitario sia al suo ritorno, nel 1931, alla Sadleirian Chair of Mathemathics.
[3] A questo proposito ho detto qualcosa di più su “The Times Literary Supplement” (Challenge to the Intellect), 15 agosto 1958. Spero qualche giorno di approfondire l’analisi.
[4] Sarebbe più esatto dire che, per ragioni letterarie, avevamo la sensazione che le fogge letterarie predominanti ci erano inutili. Fummo però rafforzati in questo sentimento quando ci capitò di constatare che quelle fogge predominanti si accompagnavano strettamente ad atteggiamenti sociali o perversi, o assurdi, o l’una e l’altra cosa assieme.
[5] Un’analisi delle scuole dalle quali provengono i Fellows della Royal Society parla da sé. La distribuzione è notevolmente differente da quella, ad esempio, dei membri del Foreign Service o delQueen’s Counsel.
[6] Confronta G. Orwell, 1984, che è il più fervido augurio possibile che il futuro non esista, con J.D. Bernal, World Witbout War.
Charles Snow, Le due culture, tr. it. di Adriano Cargo, Feltrinelli, Milano 1964, pp. 3-12.