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Galilei, Galileo (1564 - 1642)

Anno di redazione: 
2002
William A. Wallace

I. Il periodo iniziale di Galileo (1564-1610) - II. Galileo e il copernicanesimo (1611-1632) - III. Il processo a Galileo e gli ultimi anni ad Arcetri (1633-1642) - IV. La revisione del caso Galileo.

I. Il periodo iniziale di Galileo (1564-1610)

Il padre di Galileo, Vincenzio Galilei, nacque a Firenze nel 1520, ove si affermò come insegnante di musica ed abile liutaio. Studente di musica per un certo periodo a Venezia presso Gioseffo Zarlini, Vincenzio sposò nel 1563 Giulia Ammannati (1538-1620) di Pescia e si stabilì poi in una zona fuori città, vicino a Pisa. Lì nacque il loro primo figlio, Galileo, il 15 febbraio 1564. Quando la famiglia rientrò a Firenze nel 1572, il giovane Galileo restò a Pisa con un parente della madre, Muzio Tebaldi un uomo di affari ed agente doganale in quella città.

1. Studi, insegnamento ed opere. Nel 1574 Galileo si riunì con la sua famiglia a Firenze e la sua educazione fu affidata a Jacopo Borghini. Successivamente fu inviato al monastero Camaldolese nei pressi di Vallombrosa per cominciare la sua educazione scolastica. Durante il periodo trascorso nel monastero, Galileo fu attratto dalla vita dei monaci e si unì di fatto all'ordine come novizio. Contrariato dallo sviluppo che avevano preso le cose, Vincenzo ritirò suo figlio da Vallombrosa e lo riportò con sé a Firenze. Galileo riprese i suoi studi presso una scuola diretta dagli stessi monaci camaldolesi, ma questa volta non più come candidato ad entrare nell'ordine. L'intenzione di Vincenzio era quella di avviare Galileo agli studi di medicina, per fargli seguire così le orme di un loro parente vissuto nel XV secolo, chiamato anch'egli Galileo, che aveva goduto di grande fama come medico e come uomo di vita pubblica. D'accordo con questo piano, fece in modo che suo figlio tornasse a vivere con Tebaldi a Pisa, iscrivendolo nell'università come studente di medicina nell'autunno del 1581.

Galileo trascorse i quattro anni successivi all'università di Pisa studiando principalmente filosofia, con i professori Francesco Buonamici e Girolamo Borro, e matematica (che comprendeva anche astronomia), con Filippo Fantoni, monaco camaldolese. Egli tornava probabilmente a Firenze durante il periodo estivo e ciò spiegherebbe il modo in cui Galileo integrò la formazione matematica ricevuta da Padre Fantoni. Era consuetudine della corte di Toscana trasferirsi ogni anno da Firenze a Pisa nel periodo che andava da Natale a Pasqua. Matematico di corte era Ostilio Ricci (1540-1603), un competente geometra che era stato probabilmente discepolo di Niccolò Tartaglia (1449 ca. - 1557). Durante l'anno accademico 1582/83, Galileo incontrò Ricci, mentre quest'ultimo si trovava a Pisa, ed assistette alle lezioni che Ricci dava su Euclide presso la corte. L'estate seguente, quando Galileo ritornò a Firenze, all'epoca del suo studio di Galeno, invitò Ricci a casa sua, perché conoscesse suo padre. Vincenzio fu colpito dalla personalità del Ricci ed i due diventarono amici. Ricci informò Vincenzio che suo figlio era poco interessato alla medicina e che voleva diventare invece un matematico e chiese pertanto il permesso di poterlo istruire in questa disciplina. Nonostante il disagio di Vincenzio di fronte ad una simile richiesta, avvalendosi dell'aiuto di Ricci, a partire da quel momento Galileo poté dedicarsi sempre più intensamente allo studio di Euclide e di Archimede, grazie probabilmente alle traduzioni in lingua italiana delle loro opere preparate dal Tartaglia (cfr. Drake, 1978).

Nel 1585 Galileo interruppe gli studi universitari a Pisa e cominciò ad insegnare privatamente matematica a Firenze e a Siena, ove ebbe un posto pubblico nel 1585-1586, e quindi a Vallombrosa, nell'estate del 1588. Già nel 1587 Galileo si era recato a Roma per visitare Cristoforo Clavio (1537-1612), famoso gesuita matematico al Collegio Romano, e discusse con lui un saggio che stava scrivendo sul baricentro dei corpi solidi. Nel 1588 Galileo fu invitato all'Accademia Fiorentina per dare delle lezioni sulla posizione e le dimensioni dell'Inferno descritto nel poema dantesco. Nel 1589 Fantoni lasciò la sua cattedra di matematica a Pisa e Galileo fu scelto per sostituirlo, sia per la buona impressione causata alla corte di Toscana durante le sue lezioni su Dante, sia per le raccomandazioni impetrate da Clavio e da altri matematici che avevano ormai conosciuto il suo lavoro. Galileo cominciò ad insegnare a Pisa nel novembre del 1589 insieme a Jacopo Mazzoni (1548-1598), un filosofo che insegnava Platone ed Aristotele, ma era anche esperto di Dante. I due diventarono subito amici. Mazzoni conosceva le opere di un altro matematico, Giovanni Battista Benedetti (1530-1590), e Galileo ne fa un'esplicita menzione in una lettera, scritta da Pisa e indirizzata a suo padre a Firenze, datata 15 novembre 1590 (cfr. Opere , vol. X, pp. 44-45).

Durante il suo soggiorno pisano, Galileo scrisse tre quaderni in lingua latina, uno sulla logica, spiegando il concetto di dimostrazione e di prova in Aristotele (Dialettica , manoscritto [=MS] n. 27), un altro spiegando l'insegnamento di Aristotele sui cieli e sugli elementi ( De caelo e il De elementis , MS n. 46), ed un terzo quaderno contenente il suo primo trattato sul moto (De motu, MS n. 71). Quest'ultimo parla della gravità e della leggerezza, del galleggiamento, dei corpi in moto, sia in caduta libera che lungo piani inclinati. I manoscritti 27 e 46 sono sostanzialmente delle esposizioni teoriche, mentre il manoscritto 71 menziona gli «esperimenti» (pericula) che egli realizzò nel tentativo di formulare le leggi del moto (Wallace, 1984 e 1998).

Galileo insegnò a Pisa fino al 1592. La morte di suo padre, avvenuta nel 1591 gli causò, in quanto figlio primogenito, alcuni problemi finanziari; egli dovette allora procurarsi un salario migliore dei 60 fiorini che percepiva fino a quel momento. Si mise alla ricerca e finalmente ottenne un posto da 180 fiorini all'Università di Padova, ove svolse la sua lezione inaugurale il 7 dicembre 1592. Galileo trascorse ancora diciotto anni della sua vita nel territorio della Repubblica Veneta, più tardi ricordati da lui come gli anni più felici della sua vita. In questo periodo scrisse trattati di meccanica (Le Meccaniche, 1600 ca.) e sull'opera di Sacrobosco sulle Sfere, che egli intitolò Trattato della Sfera ovvero Cosmografia(1604-1606); tale trattato venne da lui utilizzato per insegnare astronomia tolemaica. Fra il 1602 e il 1609 produsse note manoscritte e schizzi di esperimenti realizzati con pendoli, piani inclinati, corpi in moto naturale oppure proiettili. Finalmente nel 1609, avendo saputo dell'invenzione del telescopio cannocchiale in Olanda, Galileo perfezionò questo strumento per lo studio dei corpi celesti. Fece così scoperte sorprendenti, fra le quali la capacità di riconoscere moltissime altre stelle nel cielo, montagne sulla luna e satelliti attorno a Giove. Nel marzo del 1610 pubblicò questi risultati a Venezia, nel Sidereus Nuncius e fu subito acclamato in tutta Europa come il più importante astronomo del momento. Questo periodo della sua vita si conclude con il suo ritorno alla corte fiorentina nel 1610, ove lavorerà come matematico e filosofo presso Cosimo II de' Medici, Granduca di Toscana.

2. Le scoperte di nuovi manoscritti. La cronologia che qui presentiamo è basata su ricerche recenti e non è contenuta nella Edizione Nazionale delle Opere di Galileo, curata da Antonio Favaro (Firenze 1890-1901, rist. 1968). Favaro conosceva il MS n. 27, ma ritenne si trattasse di un esercizio che Galileo copiò da un monaco di Vallombrosa, datato attorno al 1579 e non lo incluse pertanto nella edizione delle Opere. Trascrisse e pubblicò i MSS nn. 46 e 71, ma non datò bene il primo e non ricostruì correttamente le parti in cui era composto il secondo. Il materiale del MS n. 72 fu giudicato intrattabile e lasciato da parte. I quattro manoscritti sono attualmente conservati nella Collezione Galileiana della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze.

I manoscritti pisani sono indispensabili per la comprensione del periodo iniziale dell'attività di Galileo. Il MS n. 27 fu trascritto, editato e pubblicato quattrocento anni dopo essere stato scritto (cfr. Tractatio de praecognitionibus Tractatio de demonstratione , a cura di W.F. Edwards e W.A. Wallace, 1988; Galileo's Logical Questions , a cura di W.A. Wallace, 1992). I trattati che esso contiene corrispondono al corso annuale di logica dato dal gesuita Paolo Vallius (1561-1622) al Collegio Romano, concluso nell'agosto del 1588 e furono composti da Galileo probabilmente all'inizio del 1589. Essi contengono un'esauriente analisi della dottrina di Aristotele circa la conoscenza previa necessaria ad ogni dimostrazione e sulla dimostrazione in se stessa e si concludono con una spiegazione sul processo dimostrativo (vedi infra , n. 3). Il MS n. 46 è composto dai due trattati già segnalati, oltre ad una serie di annotazioni sul moto analoghe al materiale del MS n. 71. I trattati sono stati da noi tradotti come Physical Questions (cfr. Galileo's Early Notebooks , a cura di W.A. Wallace, 1977). Sono manoscritti su carta con filigrana pisana che presumono la conoscenza della logica del MS n. 27, e come quest'ultimo si basano su corsi impartiti dai gesuiti al Collegio Romano. La sua migliore datazione è a Pisa, attorno al 1590, entro un anno dalle "questioni sulla logica". La storia del MS n. 71 è più complessa. Le sue cinque parti, tutte originali di Galileo, furono scritte in formato folio con una varietà di filigrane. Il suo latino va migliorando al progredire della composizione. Iniziato nel 1588 e completato attorno al 1592, le sue differenti parti furono scritte a Firenze e Pisa in epoche diverse. Per il suo contenuto si può vedere la traduzione curata da Drabkin (On motion, 1960); si forniscono dettagli completi in Wallace (1998).

L'ultimo manoscritto, il n. 72, fornisce abbondanti evidenze circa un programma di sperimentazioni realizzato da Galileo a Padova fra il 1602 e il 1609, che terminerà con la scoperta di quei princìpi sui quali la sua Nuova Scienza sarà più tardi basata. A partire dal 1970, Stillman Drake ha sviluppato una tecnica per la datazione dei manoscritti sulla base delle filigrane. Dai diagrammi e calcoli presenti, Drake ed altri ricercatori sono stati capaci di ricostruire e di riprodurre gli esperimenti che Galileo fece a Padova e mai riportati sugli scritti pubblicati. L'importanza di questi nuovi manoscritti può essere valutata collegando questi esperimenti con le scoperte che Galileo avrebbe presto fatto con il suo telescopio, e considerando entrambi alla luce dei trattati di logica del MS n. 27. Pare dunque chiaro che, mentre si trovava a Padova, Galileo fu capace di trattare in termini di dimostrazioni aristoteliche i fenomeni dei corpi celesti e la caduta dei gravi. Alla fine del 1610 egli aveva scoperto le fasi di Venere, mostrando che ruotava attorno al sole e non attorno alla terra, completando così le argomentazioni offerte dal Sidereus Nuncius . Le dimostrazioni di tipo meccanico saranno riportate solo parzialmente e molti anni più tardi, non prima del 1638. È ormai chiaro che il concetto galileiano di scienza fosse dall'inizio alla fine quello dell' epistéme aristotelica, che egli riteneva potesse condurre ad una conoscenza certa e irreformabile. Fu d'accordo ai suoi canoni che egli avrebbe fornito i suoi principali contributi scientifici, già verso il 1610 (cfr. Wallace, 1992).

3. Il processo dimostrativo. Il contenuto sostanziale del MS n. 27 riguarda il processo (regressus) dimostrativo, un tipo di ragionamento che impiega due dimostrazioni, una "del fatto in sé", l'altra "del fatto ragionato". Nella sua esposizione, Galileo si riferisce a queste due dimostrazioni come "progressioni" e nota che esse sono separate da una fase intermedia. La prima progressione argomenta dall'effetto alla causa, mentre la seconda si muove nella direzione opposta, dalla causa all'effetto. Perché il processo funzioni, occorre che la "dimostrazione del fatto" venga per prima e che l'effetto sia dunque inizialmente conosciuto più della sua causa, sebbene alla fine essi debbano essere visti in modo convertibile. La fase intermedia realizza la transizione alla seconda dimostrazione. Così come veniva spiegata ai tempi di Galileo, questa fase riguardava un esame mentale della causa proposta (mentale ipsius causae examen), secondo l'espressione usata da Jacopo Zabarella (1533-1598). Il termine latino examen è importante perché corrisponde al grecopeîra, un vocabolo che è nella radice del latino periculum, cioè prova, l'equivalente di esperimento (experimentum). Compito principale della fase intermedia è la prova, il ricercare ed eliminare altre possibilità, in modo da ritrovare la causa che fa sì che quell'effetto sia presente.

La maggiore innovazione di Galileo nella logica del regressus fu dunque l'impiego del periculum nella fase intermedia, allo scopo di determinare la vera causa del fenomeno che si stava studiando. Nel caso del moto dei corpi, il fenomeno da studiare era la velocità di caduta dei corpi all'interno di mezzi diversi. Il maggior utilizzo di Archimede da parte di Galileo fu in questo caso la rimozione del concetto aristotelico di peso assoluto in favore di quello di peso specifico, cioè del peso del corpo influenzato dal mezzo in cui esso è immerso, la cui azione deve essere sottratta. Si tratta di un suggerimento originariamente avanzato da Benedetti e non da Galileo. Ciò che fu invece originale in Galileo riguarda l'utilizzo del piano inclinato per ritardare la caduta, sotto l'influenza della gravità, dei corpi in esame. L'intuizione basilare che soggiace a questo esperimento la si trova nel De motu(cfr. Opere , vol. I, pp. 296-302) e può essere esposta come segue. Se il peso effettivo di un corpo può essere diminuito collocandolo su di un piano inclinato, allora anche la sua velocità di scivolamento diminuirà proporzionalmente. La dimostrazione offerta da Galileo è di tipo geometrico e consiste nel mostrare che le forze corrispondenti ai pesi sui piani inclinati obbediscono di fatto alla legge della bilancia. Ciò richiede però varie supposizioni e, a questo rispetto, può essere vista come una dimostrazione ex suppositione. Se quelle supposizioni sono garantite, la conclusione segue direttamente: il rapporto delle velocità lungo il piano inclinato corrisponderà a quello fra la lunghezza del piano e la sua altezza verticale, perché il peso dei corpi varia precisamente secondo quella proporzione.

Nell'opera De motu Galileo utilizza per cinque volte il termine periculum per indicare una prova o un esperimento. In un caso, in relazione ad una supposizione basilare per il suo ragionamento, e cioè il principio aristotelico che la velocità di caduta fosse direttamente proporzionale al peso del corpo in caduta, da lui corretto come peso nel mezzo e non più considerato come peso assoluto. Galileo afferma che se uno realizza un esperimento (periculum), la proporzionalità proposta non viene di fatto osservata, ed egli attribuisce inizialmente la discrepanza a cause di tipo accidentale (cfr. Opere , vol. I, p. 273). Inoltre, perché l'argomentazione a partire dal piano inclinato possa essere applicata, occorre supporre che non vi sia resistenza accidentale dovuta all'attrito del corpo in moto sul piano o alla forma del corpo; il piano, per dirlo in qualche modo, deve essere come incorporeo, perfettamente levigato e rigido; occorre anche supporre che il corpo in caduta sia perfettamente liscio e di forma assolutamente sferica (cfr. ibidem , pp. 298-299). Sotto queste condizioni si può supporre che ogni corpo dato può essere mosso su un piano parallelo all'orizzonte da una forza piccola a piacere (cfr. ibidem, pp. 299-300). Galileo afferma qui che, a motivo di due ragioni, non si deve essere sorpresi se un esperimento (periculum) non verificasse ciò: potrebbero esservi degli impedimenti esterni (riguardo la prima supposizione), e va ricordato che una superficie piana non può essere parallela all'orizzonte perché la terra è sferica (cfr. ibidem, p. 301).

Un ancor più interessante periculum è quello a cui Galileo fa riferimento quando parla della caduta di oggetti dall'alto di una torre (cfr. Opere, vol. I, pp. 333-337). Egli contesterà i risultati di un esperimento realizzato da Girolamo Borro (1512-1592), il quale intese mostrare che quando due oggetti rispettivamente di piombo e di legno, sono lanciati simultaneamente da una finestra, il corpo più leggero raggiungere necessariamente il suolo prima di quello più pesante. Le prove di Galileo, che egli dice di aver ripetuto più volte, mostreranno invece l'opposto: sebbene il corpo leggero si muova inizialmente più velocemente, quello più pesante lo sorpassa rapidamente e raggiunge il suolo molto prima. La ragione offerta da Galileo è che il corpo più leggero non è in grato di conservare il suo impetus verso l'alto così bene come quello più pesante e perciò comincia a cadere prima dell'altro, ma ben presto il corpo più pesante lo raggiunge e lo sorpassa. La soluzione dipende dall'argomento di Galileo nel De motu , in chiave antiaristotelica, utilizzato per spiegare perché i corpi aumentano la loro velocità, o accelerano, durante la caduta (cfr. ibidem , pp. 315-323). Lì Galileo basa la sua spiegazione su un impetus diretto verso l'alto o una leggerezza impressa nel corpo che si esaurisce con il tempo. Diversamente dalla causa proposta da Aristotele, Galileo ritiene che la vera causa dell'aumento della velocità giaccia nella diminuzione del peso effettivo lungo la caduta del corpo.

Tutte queste dimostrazioni appartengono al periodo pisano di Galileo e possono essere messe nella forma di un procedimento dimostrativo ( regressus ) secondo quanto stabilito nel MS n. 27 (cfr. Wallace, 1992, pp. 241-257). Galileo voleva pubblicare il suo trattato sul moto, ma aveva chiaramente dei dubbi in merito alle "vere cause" che vi aveva proposto, in quanto non vi erano degli esperimenti in grado di confermarlo. Tenne il manoscritto presso di sé e, quando scoprì finalmente la legge giusta del moto dei gravi, inserì un appunto di questa scoperta fra i fogli del MS n. 71, segnalando così il ruolo avuto da questi studi precedenti nel processo della scoperta. Si tratta del frammento De motu accelerato , che Favaro giustamente giudicò composto nel 1609, alla fine del suo primo periodo, pubblicandolo pertanto nel secondo volume dell'Edizione Nazionale (cfr. Opere, vol. II, pp. 259-266).

4. Le scoperte astronomiche. Il modo in cui il procedimento dimostrativo del regressus viene utilizzato in astronomia può vedersi nel lavoro di Galileo Trattato della sfera ovvero Cosmografia , composto a Padova attorno al 1602. Il contesto è qui rappresentato dalle fasi lunari e dal modo in cui esse variano lungo il periodo siderale e sinottico [rispettivamente, il mese lunare rispetto alle stelle e alle fasi, ndt] (cfr. Opere, vol. II, pp. 251-253). Tali fenomeni dipendono soltanto dalle posizioni relative dei corpi all'interno dei sistemi terra-luna e terra-sole e non richiedono l'opzione per il geocentrismo o l'eliocentrismo, potendosi ben spiegare in entrambe le configurazioni. Alla base della spiegazione vi è la convinzione che le diverse apparenze e fasi della luna siano effetti ai quali sia possibile assegnare una causa (cfr. ibidem, p. 250). Fra le cause, Galileo enumera che la luna è di forma sferica, che non ha luce propria, ma riceve la sua luce dal sole, e che l'orientamento di sole e luna rispetto alla terra sono il motivo dei vari aspetti lunari e della loro periodicità. L'argomento segue da vicino il paradigma proposto da Aristotele nei Secondi Analitici (cfr. I, 13) per mostrare che la luna è una sfera. Vi si opera l'unica supposizione che la luce viaggi in linea retta e ciò è quanto governa la fase intermedia del ragionamento. Ciò consente l'uso della geometria proiettiva per stabilire la condizione di convertibilità, vale a dire il fatto che solo un'illuminazione esterna che colpisce una forma sferica farebbe sì che la luna esibisca le fasi mostrate, nelle posizioni e nei tempi osservabili dalla terra.

Quando Galileo compì le sue scoperte con il telescopio durante gli anni 1609-1610 questo medesimo paradigma era pronto e a portata di mano per ulteriori utilizzi. Altri prima di lui avevano costruito telescopi, ed alcuni li avevano anche già diretti verso il cielo, ma nessuno di loro avrebbe formulato quelle «necessarie dimostrazioni» che Galileo avrebbe proposto sulla base delle sue osservazioni. Sappiamo che fra il 30 novembre ed il 18 dicembre 1609 Galileo studiò la luna con il suo nuovo strumento e compose non meno di otto disegni di ciò che vedeva. Il 7 gennaio del 1610 scrisse a Firenze ad Antonio de' Medici che, a partire dai suoi dati, «un retto modo di ragionare non poteva concludere diversamente»: la superficie lunare conteneva montagne e valli del tutto simili, se non più grandi, di quelle distribuite sulla superficie della terra (cfr. Opere , vol. X, p. 273). In un mese di tempo Galileo poteva essere certo di aver dimostrato a se stesso che vi erano montagne sulla luna.

La stessa sera in cui Galileo scrisse ad Antonio de' Medici a proposito della superficie lunare, egli notò un altro strano fenomeno: il pianeta Giove era accompagnato da tre stelle fisse (cfr. ibidem, p. 277). La notte successiva, l'8 gennaio 1610, Galileo diresse nuovamente il suo telescopio verso il cielo sperando di vedere come Giove si fosse mosso ad ovest di tali stelle, in accordo con quanto i calcoli tolemaici avrebbero predetto (cfr. Opere , vol. III/1, p. 250). Con sua grande sorpresa trovò invece il pianeta ancora ad est di quelle stelle. Il tentativo di risolvere tale anomalia lo condusse al programma di osservare Giove ed i suoi strani compagni tutte le volte che gli fosse possibile, lungo un periodo di circa due mesi. Ma già l'11 gennaio poteva concludere che non si trattava di stelle fisse che potevano essere usate per determinare il moto di Giove relativamente ad esse, bensì di piccoli corpi, mai osservati prima, che si muovevano assieme a Giove, anzi, gli ruotavano attorno. «Giunsi così alla conclusione, al di là di ogni dubbio ( omnique procul dubio ) - egli scrisse - che nei cieli vi sono tre stelle che si muovono attorno a Giove, come Venere e Mercurio attorno al sole» (cfr. ibidem, p. 81). Il 13 gennaio osservò per la prima volta un quarto oggetto ed il 15 dello stesso mese era già convinto che anche questo quarto corpo si comportava come gli altri tre (cfr. ibidem , p. 82). Così, ad appena una settimana di distanza da quando sorse la sua curiosità circa quell'insolito moto, aveva concluso il suo processo dimostrativo convincendosi che Giove aveva quattro satelliti che gli ruotavano attorno, mentre egli compiva la sua maestosa rivoluzione attorno al "centro" dell'universo (cfr. ibidem , pp. 80-95).

Un ragionamento completamente analogo lo si ritrova nel modo in cui Galileo, nel dicembre del 1610, avendo osservato le fasi di Venere, intese dimostrare che Venere ruotava attorno al sole. In questo caso la geometria coinvolta era abbastanza più complessa di quella richiesta per poter completare le possibili deduzioni proprie della fase intermedia del ragionamento, così come avveniva nel precedente esempio. Ma una volta compresa la geometria del fenomeno, è facile capire perché, quando vista dalla terra, Venere presentava delle fasi, variando le sue dimensioni e le sue apparenze. Uno potrebbe anche vedere perché non sarebbe possibile che Venere ruotasse attorno alla terra, e dovrebbe invece ruotare attorno al sole. È questa dimostrazione, così come le precedenti, che egli ha in mente quando nel 1615 scrisse così animatamente nella sua Lettera alla Granduchessa Cristina riguardo alle «necessarie dimostrazioni e sensate esperienze». È significativo che egli usi questa espressione, o altre equivalenti, per ben oltre quaranta volte nella lettera citata (Moss, 1986). Come ciascuna di essa corrisponda ad un procedimento dimostrativo di regressus è spiegato in dettaglio da Wallace (1992, pp. 193-207).

5. Gli esperimenti sui piani inclinati in laboratorio. Le sue scoperte astronomiche erano delle vere e proprie dimostrazioni e si può allora capire perché, una volta compresa la loro importanza, la fama di Galileo cominciò a correre per tutta l'Europa. Tuttavia esse sono meno importanti, in definitiva, della sua serie di esperimenti sul moto e sui gravi in caduta che egli realizzò a Padova, immediatamente prima delle sue scoperte astronomiche, negli anni dal 1602 al 1609. Verso il 1602, all'epoca della sua corrispondenza con Guidobaldo del Monte (1545-1607), Galileo cominciò a fare esperimenti con il pendolo, come alternativa a quelli fatti con i piani inclinati perché, sebbene la palla del pendolo si muova lungo l'arco di una circonferenza e non lungo una corda, ne vengono però eliminati gli attriti presenti negli esperimenti sui piani (cfr. Naylor, 1974). Fu allora quando Galileo respinse la legge della dinamica aristotelica secondo la quale la velocità di caduta dei gravi sarebbe uniforme e semplicemente proporzionale al peso. Nel 1604 scrive a Paolo Sarpi (1552-1623) affermando che la velocità cresce con l'altezza della caduta e da questo semplice principio cerca di dedurre varie proprietà del moto dei gravi (cfr. Opere , vol. X, pp. 115-116). Subito dopo egli iniziò degli esperimenti con un piano inclinato collocato sopra un tavolo di laboratorio. Il limite del piano pendente veniva fatto corrispondere al bordo del tavolo in modo tale che il grave rotante, conclusa la sua traiettoria sull'asse inclinato, cadeva sul pavimento. In questi esperimenti, noti come "esperimenti sui piani inclinati in laboratorio", Galileo usò i piani inclinati per giungere a stabilire: a) la corretta legge della velocità, e cioè che la velocità è proporzionale non all'altezza della caduta, come egli pensava in un primo tempo, ma alla radice quadrata della distanza percorsa; b) la corretta legge di caduta, e cioè che la distanza coperta è proporzionale al quadrato del tempo di caduta; c) la traiettoria di caduta, e cioè che quella seguita da un corpo proiettato orizzontalmente a velocità uniforme e poi lasciato cadere è una semiparabola. Questi esperimenti furono totalmente sconosciuti fino al 1972, quando Stillman Drake ne scoprì traccia nel manoscritto galileiano n. 72 e li portò alla luce (Drake, 1973 e 1978). Da quel momento essi sono stati analizzati in dettaglio e riprodotti dallo stesso Drake e poi da altri autori (Naylor 1976, 1980 e 1990; Hill 1979, 1986 e 1988). Nel loro insieme, questi risultati mostrano che Galileo condusse un serio programma di ricerca in proposito, durante la prima decade del XVII secolo, giungendo ad un'accuratezza del 3% nei propri calcoli.

Il risultato chiave che emerge da questi esperimenti è che la velocità dei corpi in caduta libera, calcolata con corpi che non rotolano più sul piano inclinato ma cadono in modo naturale, è direttamente proporzionale al tempo di caduta. A partire da questo principio, affermato all'inizio del "terzo giorno" dei discorsi sulle Due Nuove Scienze , Galileo deriva la maggior parte delle proposizioni che presenta nel terzo e nel quarto giorno in cui si snoda quell'opera. Nello stabilire tale principio, il suo ragionamento è di ordine dimostrativo e può essere messo giù nella forma di un regressus , come per le precedenti dimostrazioni astronomiche (cfr. Wallace, 1992, pp. 287-289). Per Galileo, la vera causa qui in questione è la definizione del moto «naturalmente accelerato». Il primo procedimento è a posteriori , dall'effetto alla causa, il secondo è a priori , dalla causa all'effetto. La fase intermedia, il lavoro intellettuale, porta il peso della prova, come sempre. Le espressioni galileiane seguono da vicino il testo latino del frammento De motu accelerato , ora unito al MS n. 71 (cfr.Opere , vol. II, p. 226), dove Galileo lo inserì dopo averlo scritto. Espressioni pressoché identiche compaiono anche nelle Due Nuove Scienze (cfr. Opere , vol. VIII, p. 198).

Questa dimostrazione, come le precedenti, è fatta ex suppositione , cioè supponendo che tutti gli impedimenti al moto in caduta, come l'attrito, la resistenza del mezzo o fattori di tipo accidentale, siano stati rimossi. La prova è basata in parte sull'eliminazione dell'alternativa più semplice, che la velocità di caduta fosse semplicemente proporzionale alla distanza coperta, come Galileo pensava inizialmente. Ma la prova diretta è di tipo sperimentale, come può vedersi dal suo riferimento ad «esperimenti naturali», puntualizzato al plurale. Il riferimento non è solo ai semplici esperimenti di piano inclinato così come descritti nelle Due Nuove Scienze , ma all'intero programma di esperimenti, inclusi quelli sui piani inclinati in laboratorio, realizzato a Padova prima delle sue osservazioni astronomiche. In essi Galileo non identifica più la causa delle caduta con il peso dei corpi, come nelle sue prime formulazioni; adesso è interessato principalmente ai fattori cinematici che riguardano gli aspetti quantitativi del moto naturalmente accelerato. La causa di questo, come la causa ultima della caduta, vengono identificate semplicemente con la "natura", il principio ultimo di spiegazione nella fisica di Aristotele. Quanto egli propose per la dinamica è ciò che Archimede aveva fatto per la statica, cioè fornire una scienza del moto locale basata sulla matematica e non soltanto su princìpi di ordine fisico, cosa fino a quel momento sconosciuta.

II. Galileo e il copernicanesimo (1611-1632)

Sullo slancio delle sue scoperte astronomiche, Galileo ottenne il patrocinio del Granduca di Toscana, Cosimo II de' Medici. Egli lasciò i sui compiti di insegnamento a Padova e si trasferì a Firenze, per lavorare come "matematico e filosofo" presso il Granduca. Nella primavera del 1611 Galileo si recò a Roma, dove incontrò Clavio e vari astronomi del Collegio Romano che avevano verificato le sue scoperte fatte con il telescopio. Poté anche parlare con il cardinale Roberto Bellarmino (1542-1621), gesuita, in merito alle implicazioni delle sue scoperte per la risoluzione delle differenze fra il sistema di Tolomeo (ca. 100-170) e quello di Copernico (1473-1543).

1. Galileo, il controversista. Gli scritti scientifici di Galileo fino all'anno 1611 non erano affatto polemici. Il suo primo lavoro sul moto a Pisa si era sviluppato al di fuori del clima delle dispute universitarie, di cui Galileo solo più tardi prese progressivamente coscienza; egli sapeva però senza dubbio che i suoi argomenti sarebbero stati rigettati da aristotelici conservatori, come lo era il suo insegnante Buonamici. Le sue idee riflettevano in qualche modo quelle già avanzate da Benedetti ed altri. La cosa importante è che le idee di Galileo non erano state ancora pubblicate e ciò spiega perché esse non avevano fatto scoppiare alcuna controversia. Le sue scoperte al telescopio, è vero, toccavano un punto piuttosto controverso, quello della natura dei cieli, eppure il suo modo di riportarle nel Sidereus Nuncius offriva poche possibilità ai suoi avversari di poterle rifiutare. Il problema principale posto da questi ultimi fu di ordine fattuale, poiché coloro che non avevano accesso ad un telescopio con un potere risolutivo ed un ingrandimento sufficiente erano tentati di interpretare sbrigativamente i suoi risultati come illusioni ottiche. Albert Van Helden ha mostrato che gli astronomi dai quali ci si sarebbe aspettato un rifiuto dei risultati di Galileo per motivi filosofici, come ad esempio i gesuiti professori al Collegio Romano, di fatto verificarono le scoperte di Galileo non appena essi furono in grado di costruire dei telescopi di qualità paragonabile (cfr. Sidereus Nuncius or The Starry Messenger , a cura di A. Van Helden, 1989, pp. 110-112). Questa situazione è piuttosto rappresentativa se si pensa che, tranne la reazione iniziale poco responsabile di autori come Martin Horky, Francesco Sizzi e Giulio Cesare Lagalla, le scoperte di Galileo furono subito accettate senza problemi dagli astronomi di tutta Europa.

Una situazione analoga concerne gli esperimenti sui piani inclinati in laboratorio. Il materiale presente nei MS nn. 27, 46 e 71, così come quello nel MS n. 72 non era noto a tutti ai tempi di Galileo. Essi suscitano controversie ai nostri giorni su come debbano essere interpretati, ma si tratta di un problema da storici, non da scienziati. Subito dopo il 1610 Galileo fu però profondamente coinvolto in una controversia e, sfortunatamente, questo stato di cose continuò più o meno fino alla fine della sua vita (cfr. Moss, 1983). Molte di queste controversie furono più teologiche che scientifiche, in quanto concernevano su come dovesse essere interpretata la Sacra Scrittura e quanto spazio di manovra era consentito a coloro che si distanziavano dagli insegnamenti tradizionali della Chiesa. Come molti dei problemi scientifici con i quali egli ebbe a che fare, anche questo tipo di problemi non potevano essere risolti con le informazioni allora a disposizione di Galileo o di qualsiasi altro, e pertanto non erano soggetti a procedimenti dimostrativi rigorosi. Buona parte del ruolo avuto da Galileo in tali problematiche può essere compreso in termini di vari adattamenti che egli sembra aver fatto al suo metodo di regressus , applicandolo a situazioni per le quali non si poteva raggiungere una certezza e si doveva perciò ricorrere a considerazioni di probabilità.

Tre casi che illustrano questi adattamenti risultano rappresentativi anche per quello che sarà il suo successivo modo di argomentare. Tutti e tre ebbero luogo nella seconda decade del XVII secolo, subito dopo i suoi notevoli successi con i piani inclinati in laboratorio e le sue scoperte astronomiche. I primi due riguardarono due casi di controversia: la disputa di Galileo con Ludovico delle Colombe (n. 1565) a Firenze, nel 1612, in merito alla causa del galleggiamento ed il suo lungo dibattito con Christopher Scheiner (1573-1650), nel 1618, sulla natura delle macchie solari. Il terzo caso, che discuteremo in una prossima sezione, si verificò nel periodo intermedio fra questi due e non fu, propriamente parlando, una controversia, sebbene era destinato a suscitarne una circa quindici anni più tardi. Si trattò della sua proposta al fatta al cardinale Orsini nel 1616 circa l'utilizzo dell'argomento delle maree allo scopo di mostrare il moto della terra, che dovette in seguito avere conseguenze disastrose per Galileo quando egli lo riformulò nel suo Dialogo sui massimi sistemi nel 1632. La tecnica preferita da Galileo nelle controversie era presentare due spiegazioni di un particolar fenomeno che fossero alternative e reciprocamente escludentesi, per poi allegare una serie di osservazioni e prove sperimentali che sarebbero dovute servire per eliminare una delle due e conservare l'altra. Affiancato a metodi di dimostrazione geometrica, una simile tecnica conduceva verso una reductio ad impossibile per una delle due alternative, fornendo così una prova indiretta a favore dell'altra. La dicotomia svolge il ruolo di una suppositio nella prova, ed è particolarmente efficace se essa è, come tale, proposta o almeno accettata dall'altro avversario nella controversia.

Nella disputa con Delle Colombe, la supposizione era che il moto di un corpo verso il basso, all'interno di un certo mezzo, fosse causato o dalla forma del corpo (posizione di Delle Colombe) o dal peso che il corpo assume nel mezzo in cui è posto (posizione di Galileo). L'argomento che Galileo propone per sostenere la propria tesi si basa su princìpi idrostatici, applicati attraverso un'opportuna analisi geometrica, allo scopo di chiarire la causa del galleggiamento. La conclusione a cui egli perviene fu che la vera, intrinseca e specifica causa del galleggiamento o dell'immersione (escluse le cause accidentali) doveva essere il peso del corpo relativo a quello del mezzo. In altre parole, non è il peso assoluto del corpo o la gravitas che determina se il corpo galleggia oppure no, ma piuttosto la propria gravitas , il suo peso nel mezzo in cui è immerso, considerando che il corpo è tenuto su da una forza uguale al peso del mezzo che esso è capace di spostare. Per Galileo soltanto ciò è in grado di spiegare il motivo del perché alcuni corpi galleggiano ed altri no, la misura in cui emerge sulla superficie, o come un determinato mezzo può sostenere un peso maggiore del suo (cfr. Opere , vol. IV, p. 79). Per venire incontro alla tesi di Ludovico delle Colombe, Galileo ammette che la forma di un corpo può influire sulla velocità del suo moto attraverso il mezzo, ma ciò non costituisce la causa specifica del moto. Ciò può essere mostrato mediante un esperimento con una massa di cera modellata in varie forme; la sua posizione nel mezzo è determinata solo dal suo peso e non dalla particolare forma che esso va assumendo. Il caso speciale di una sottile lastra di ebano che galleggia sull'acqua può essere spiegato ricorrendo ad una causa accidentale. Qui Galileo formula la proposta ingegnosa che il volume di aria trattenuto dalle increspature del corpo sotto il pelo dell'acqua, quando sommato alla superficie asciutta della lastra, aggiunge galleggiabilità al corpo (cfr. Opere, vol. IV, pp. 107-111). Dunque egli si avvicina al problema della tensione superficiale, concentrando l'attenzione su una situazione di equilibrio in cui le cause che potrebbero produrre il moto si cancellano ed una semplice soluzione volumetrica può essere fornita mediante princìpi geometrici (cfr. Wallace, 1992, pp. 277-278).

La disputa con Scheiner viene condotta in modo analogo. L'avversario di Galileo era d'accordo col fatto che le macchie solari potevano essere spiegate in due modi: o si tratta di macchie che si muovono sulla superficie del sole - o molto prossime ad essa - oppure si tratta di corpi che ruotano in una sfera celeste attorno al sole, presumibilmente una sorta di corpi stellari o planetari. Desideroso di preservare l'incorruttibilità e l'inalterabilità del sole, Scheiner preferì la seconda alternativa, dando così a Galileo l'opportunità di dimostrare la prima. Accettando la dicotomia, Galileo contrasta la posizione di Scheiner facendo uso di un'analisi geometrica, questa volta usando i princìpi dell'ottica piuttosto che quelli dell'idrostatica. L'ottica geometrica - argomenta Galileo - fornisce la necessaria dimostrazione che le macchie non sono al di fuori del sole, ma contigue con la sua superficie. In particolare, quando le macchie sono prossime al bordo del sole, esse appaiono più sottili di quando sono vicine al centro del disco solare; inoltre la distanza che esse percorrono cresce quando esse si avvicinano al centro geometrico del disco solare e diminuisce quando si allontanano verso il bordo; ancora, la separazione relativa fra le macchie cresce sempre più quando esse si approssimano al centro. Per chi conosce la prospettiva - afferma Galileo - «sarà manifesto argomento sì della globalità [sfericità] del Sole, come pure della prossimità delle macchie alla solar superficie» ( Opere , vol. V, p. 119). Osservazioni accurate mostrano che l'apparenza delle macchie non è quella di stelle; esse sembrano piuttosto essere delle nuvole («nugole») che si formano e si dissolvono, cambiando così forma e dimensione. Dunque, osserva Galileo, non è certo che le stesse macchie ritornino visibili dopo una completa rivoluzione e non è nemmeno certo che il sole ruoti attorno ad un proprio asse, sebbene appaia che sia proprio così (cfr. Opere , vol. V, p. 133). È interessante notare che sebbene Galileo sostenga di incorporare delle «dimostrazioni necessarie» all'interno del suo argomento, e così negare con successo la posizione di Scheiner, egli propone soltanto un'opinione probabile su quanto le macchie, in ultima analisi, potrebbero essere. Pertanto, le sue conclusioni potrebbero essere riassunte così: le macchie solari, in modo definitivo, non sono certamente delle stelle o dei pianeti che ruotano in proprie orbite celesti attorno al sole, in qualche spazio fra il sole e la terra; è probabile che esse siano delle nuvole in un mezzo che circonda la superficie del sole; ed è più probabile che il sole medesimo ruoti e trasporti questo mezzo e le sue nuvole in esso, che non ritenere che queste descrivano un moto circolare indipendente attorno al sole (cfr. Drake, 1957; Wallace, 1992, pp. 209-210).

2. La questione copernicana. Galileo aveva insegnato a Padova astronomia tolemaica, ma a Firenze, arricchito da nuove evidenze, era diventato un copernicano convinto. Ciò lo pose in difficoltà con i Domenicani, i quali erano preoccupati di come l'insegnamento di Copernico che la terra si muoveva e che il sole fosse fermo si potesse riconciliare con le affermazioni della Bibbia che dicevano il contrario [ad es. la descrizione del moto del sole in Gs 10,12; Sal 19,6-7; Qo 1,4-5; ndt]. Nel 1613 Galileo scrisse una lettera ad un suo vecchio studente, il benedettino Benedetto Castelli (1578-1643), su come non fosse necessario vedere il moto della terra in opposizione con la Sacra Scrittura. Un anno più tardi Galileo fu attaccato dal pulpito dei Domenicani a motivo dei suoi insegnamenti copernicani. Egli fu dunque richiamato dalla madre del suo patrocinatore, la Granduchessa Cristina di Lorena (m. 1637), che era a lui legata da amicizia ed era preoccupata per la sua ortodossia. Ciò diede origine alla nota Lettera alla Granduchessa Cristina (1615), sviluppo della sua precedente lettera a Benedetto Castelli, uno scritto considerato ancora un capolavoro del suo sforzo di riconciliare i testi biblici con le scoperte scientifiche (cfr. Moss, 1983). Circa negli stessi momenti, ed in modo indipendente da Galileo, il carmelitano Paolo Foscarini (1580 ca.-1616) scriveva una lettera al cardinale Bellarmino, spiegando con analoghe argomentazioni come il sistema copernicano poteva essere reso consonante con le Scritture (cfr. Blackwell, 1991).

Consapevoli di questi tentativi di esegesi biblica, il cardinale Bellarmino scrisse il 12 aprile 1615 a Foscarini e a Galileo che il sistema copernicano poteva essere utilizzato per calcoli astronomici, ma che il moto della terra era per il momento solo una ipotesi e non era stato definitivamente dimostrato. Egli mise in guardia circa il fatto che, fino a quando una simile dimostrazione non fosse stata disponibile, la comune interpretazione delle Scritture doveva essere conservata: «Dico che mi pare che V.P. e il Sig. Galileo - si legge nella lettera - facciano prudentemente a contentarsi di parlare ex suppositione e non assolutamente, come io ho sempre creduto che abbia parlato il Copernico. Perché il dire che, supposto che la terra si muova et il sole stia fermo si salvano tutte l'apparenze meglio che con porre gli eccentrici et epicicli, è benissimo detto, e non ha pericolo nessuno [.]. Dico che quando ci fusse vera demonstratione che il sole stia nel centro del mondo e la terra nel terzo cielo, e che il sole non circonda la terra, ma la terra circonda il sole, allhora bisognerà andar con molta consideratione in esplicare le Scritture che paiono contrarie, e più tosto dire che non l'intendiamo, che dire che sia falso quello che si dimostra» ( Opere , vol. XII, p. 171). Allarmato da questi sviluppi, Galileo si preparò a difendersi. Cercato ed ottenuto il permesso di Cosimo de' Medici di andare a Roma, verso la fine dell'anno arrivò nella Città Eterna.

Poco tempo dopo, il 23 febbraio del 1616 un gruppo di consultori del Sant'Uffizio giudicarono che considerare il sole fermo si opponeva al senso letterale delle Scritture, qualificando tale opinione come posizione eretica, mentre ritenere la terra in moto, sebbene non fosse eretica, era un'affermazione almeno teologicamente erronea. Due giorni dopo, papa Paolo V (1605-1621) chiede a Bellarmino di informare Galileo di questi giudizi e di comunicargli di non sostenere né difendere l'immobilità del sole ed il moto della terra. Il giorno successivo, il 26 febbraio, Bellarmino lesse un pubblico avvertimento alla presenza dei membri del Sant'Uffizio. Questi avevano preparato un'ingiunzione da dirigere a Galileo nel caso egli non avesse accettato di sottomettersi al loro giudizio. Nell'ingiunzione si diceva che Galileo doveva abbandonare la sua posizione sull'immobilità del sole ed il moto della terra e che essa «non si doveva pertanto sostenere, né insegnare, né difendere in alcun modo, tanto oralmente come per iscritto». Galileo diede il suo assenso e l'ingiunzione non fu spiccata, ma rientrò negli archivi del Sant'Uffizio.

Cominciarono a circolare delle voci secondo le quali Galileo avrebbe abiurato nelle mani di Bellarmino ed avrebbe ricevuto una pena per aver insegnato il sistema copernicano. Galileo visitò Bellarmino il 3 marzo 1616 ed ottenne da lui un certificato che ciò non corrispondeva a verità, ma che soltanto, come fu di fatto, erano stati notificati a Galileo gli insegnamenti della Chiesa in proposito. Due giorni dopo, la Congregazione per l'Indice pubblicò un decreto contro il copernicanesimo, condannando un lavoro di Foscarini e sospendendo la pubblicazione del De Revolutionibus Orbium Caelestium di Copernico (pubblicato a Norimberga nel 1543), fino a quando il testo non fosse stato corretto.

3. L 'argomento delle maree. Il terzo tipo di argomento sottoposto a dibattito da Galileo non invocava una dicotomia, come avveniva nei primi due casi, cioè il galleggiamento dei corpi e la natura delle macchie solari, ma impiegava un ragionamento causale, assegnando gradi di probabilità alle varie possibili spiegazioni di un fenomeno, un po' come aveva già fatto nella disputa con Scheiner. In questo, come in altri casi analoghi, l'impiego di alcune massime sulla causalità assume una certa importanza. Ad esempio che deve esserci solo una vera e principale causa per ogni effetto; che effetti di tipo similare possono essere ricondotti ad una singola vera causa principale; che vi è un collegamento costante, fisso, fra causa ed effetto, in modo che ad ogni variazione dell'una debba corrispondere una variazione dell'altro, e viceversa (cfr. Mertz, 1980; Wallace, 1983). Nel caso presente, l'effetto da spiegare è il flusso ed il ritrarsi delle maree nei diversi mari ed oceani della superficie terrestre, che Galileo sospettava poter essere collegato con il moto della terra. Nella suaLettera alla Granduchessa Cristina del 1615, Galileo aveva fatto riferimenti ad «effetti naturali, le cause de' quali in altro modo non si possono assegnare» ( Opere , vol. V, p. 311), senza specificare cosa egli avesse in mente. Pare che egli abbia discusso di questo argomento con un suo giovane amico, Alessandro Orsini, che era stato appena creato cardinale, il quale chiese a Galileo di mettere per iscritto i suoi argomenti. Galileo lo fece in una lettera datata 8 gennaio 1616, intitolata Discorso del flusso e reflusso del mare Opere , vol. V, pp. 377-395).

Galileo comincia col notare che l'esperienza sensibile mostra che le maree implichino un vero moto locale nel mare e che per trovare la loro causa si doveva cominciare col cercare i vari modi in cui si può impartire un moto alle acque. Egli segnala poi la complessità del fenomeno mareale, ed a questo proposito vuol vedere se a qualcuno dei possibili agenti moventi si possa ragionevolmente assegnare il ruolo di causa primaria. Egli propone così di tener conto anche di cause secondarie o concomitanti per dare ragione della diversità dei movimenti mareali. Poiché il moto del contenente può spesso spiegare il moto del fluido contenuto, Galileo arguisce che «la ragione dei flussi e dei reflussi dell'acque marine potesse resiedere in qualche movimento dei vasi che le contengono», focalizzandosi così sul moto del globo terrestre quale causa «almeno molto più probabile» di ogni altra causa previamente assegnata ( Opere , vol. V, p. 381). Su queste basi egli suppone dunque il moto della terra in forma ipotetica (« ex hypothesis ») ed a partire dai suoi due moti, quello di rivoluzione attorno al sole e quello di rotazione attorno al proprio asse, spiega come ciò potrebbe essere la causa primaria del moto in avanti e indietro dell'acqua marina sulla superficie terrestre. Poiché tale causalità non potrebbe dare ragione sufficiente di tutti i dettagli del fenomeno, egli vi aggiunge l'azione di cause addizionali, del genere prima menzionato. Fra queste vi sarebbe secondo lui il peso dell'acqua marina, la lunghezza e la profondità dei bacini in cui è contenuta, la frequenza delle sue oscillazioni ed i modi in cui queste ultime potrebbero coordinarsi con i movimenti delle varie parti della terra. Galileo conclude che con tali sue spiegazioni sarebbe in grado di armonizzare il moto della terra e le maree, «prendendo quello come cagione di questo e questo come indizio ed argomento di quello» (cfr. ibidem , p. 393). La sua espressione segnala qui chiaramente l'uso di un ragionamento che potrebbe essere indicato come regresso dialettico, secondo il paradigma che abbiamo altrove spiegato (Wallace, 1992, pp. 211-216). Va anche notato che, inizialmente, non vi è alcun clima di controversia nella presentazione di questo argomento. Si tratta di un argomento scritto dopo la lettera inviata a Maria Cristina di Lorena; esso fu scritto anche dopo la lettera di Bellarmino al Foscarini (e a Galileo) mettendolo in guardia dall'utilizzare affermazioni riguardanti il moto della terra in assenza di prove dimostrative certe, per non mettere così in questione l'insegnamento tradizionale della Chiesa circa l'interpretazione delle Scritture, ma allo stesso tempo prima del decreto ecclesiastico del 5 marzo 1616 contro il copernicanesimo. Pertanto, tale scritto riflette il pensiero di Galileo circa la dimostrazione a partire dalle maree in un periodo relativamente tranquillo della sua vita, molto prima che egli venisse invischiato nell'amara controversia sull'interpretazione della Scrittura, cosa che dovrà poi condurlo al processo ed alla relativa condanna ecclesiastica del 1633.

Galileo ritornò a Firenze. Nel 1618 apparvero nei cieli tre comete e l'astronomo gesuita Orazio Grassi (1590-1654) diede una conferenza pubblica al Collegio Romano sulle traiettorie e l'apparenza delle comete. Informato del contenuto della conferenza, Galileo attaccò Grassi con un Discorso sulle Comete , stilato ostensibilmente da uno studente di Galileo, Mario Guiducci (1585-1646), ma composto sostanzialmente da Galileo. Le sue relazioni con i gesuiti si erano già fatte difficili durante la disputa con Scheiner sulle macchie solari, ma adesso si erano ormai trasformate in guerra aperta.

L'anno 1621 fu testimone della morte di tre importanti figure: il papa Paolo V, Roberto Bellarmino ed il mecenate protettore di Galileo Cosimo de' Medici. A Paolo V successe fortunatamente un cardinale fiorentino, Maffeo Barberini, il quale aveva seguito con simpatia l'operato di Galileo durante i problemi avuti nel 1616 e che, in generale, si era schierato dalla sua parte nelle dispute con i gesuiti. Quando Barberini assunse il papato nel 1623 con il nome di Urbano VIII, Galileo ebbe l'opportunità di dedicare al nuovo Papa la sua risposta definitiva ad Orazio Grassi in tema di comete, l'opera Il Saggiatore , che egli aveva appena terminato. Non vi è dubbio che Urbano VIII gradì questo modo di fare, concedendo a Galileo il favore di ben sei udienze. La maggior parte degli studiosi concorda nel ritenere che Galileo cercò di procurarsi qualche tipo di permesso da Urbano VIII per poter riprendere il suo lavoro sul sistema copernicano.

4. I Due Sistemi del Mondo. Verso il 1630, Galileo aveva terminato il suo grande lavoro, Dialogo sui due massimi sistemi del mondo . In esso egli valuta tutte le evidenze e gli argomenti a favore e contro i due sistemi, tolemaico e copernicano, prendendo decisamente le parti del copernicanesimo e facendo sì che nel corso dell'opera gli aristotelici ed i tolemaici apparissero nelle vesti dei più sciocchi. Galileo offrì una caricatura della posizione avversaria attraverso il ricorso ad una figura fittizia, l'inetto Simplicio, che trovava la sua filosofia nei libri di Aristotele e non nel libro della natura. Galileo trovò delle difficoltà nell'ottenere il permesso di pubblicazione del Dialogo. Il domenicano Niccolò Riccardi (1585-1647), incaricato di far da censore all'opera, fece buona memoria del decreto contro il copernicanesimo del 1616. Galileo dovette così scrivere una nuova prefazione ed una nota finale, chiarendo che non si reclamava di provare il sistema copernicano, ma solo di assumerlo come una pura ipotesi matematica. Riccardi diede così la sua approvazione al manoscritto rivisto ed esso fu pubblicato a Firenze nel 1632.

Lo stile rinascimentale del Dialogo riporta una discussione che si snoda lungo quattro giornate fra alcuni personaggi immaginari, Salviati, Sagredo e Simplicio, esponendo in ciascuna giornata una diversa serie di argomenti. Durante la prima giornata Salviati, che rappresenta la posizione di Galileo, argomenta che non vi è una chiara dicotomia fra le regioni terrestri e quelle celesti, uno dei princìpi della cosmologia aristotelica. Egli sostiene che il mondo è uno solo, edificato probabilmente con lo stesso tipo di materia (le montagne sulla luna, ad esempio, sono simili a quelle sulla terra) e dunque oggetto dello stesso tipo di moti. L'argomento principale della seconda giornata riguarda il moto diurno della terra attorno al proprio asse. Qui Galileo respingerà la maggior parte delle prove che la terra è ferma, come ad esempio quella che un corpo, gettato dall'alto di una torre, cada sempre sulla verticale. Egli mostra che, se uno conosce i princìpi della meccanica (oggetto delle sue dimostrazioni padovane, ma che egli non aveva mai pubblicato), converrà che le prove offerte dagli avversari valgono sia se la terra si muova, sia se stia ferma. Questi risultati, egli ammette, non provano che essa stia girando. Semplicemente egli rimuove il loro peso di prove che la terra debba essere immobile. Il moto diurno di rotazione terrestre viene dunque lasciato come un problema aperto. La terza giornata è dedicata ad un tema ancora più difficile: se la terra, cioè, sia immobile al centro dell'universo oppure essa ruoti in una grande orbita attorno al sole, lungo il tempo di un anno. In questo caso Galileo argomenta per analogia: poiché egli ha dimostrato che altri pianeti ruotano attorno al sole (vedi supra, I.2) e che Giove trascina dietro di sé altre quattro lune, la terra e la sua luna farebbero facilmente lo stesso nei confronti del sole. Inoltre, la rivoluzione terrestre attorno al sole spiegherebbe dei cambiamenti che egli aveva osservato nella posizione delle macchie solari [per la diversa inclinazione dell'asse di rotazione solare, rispetto alla terra, lungo l'anno, ndt]. Infine, durante lo svolgimento della quarta giornata, Galileo rafforza le conclusioni dei due giorni precedenti, mostrando come esse forniscono anche una semplice spiegazione di un fenomeno universalmente osservato, il moto delle maree. Il suo argomento è sostanzialmente il medesimo già delineato al cardinale Orsini nel 1616 e già noto a Papa Urbano VIII, che aveva però scoraggiato Galileo ad impiegarlo. La proposta galileiana è che la combinazione della rotazione diurna terrestre attorno al proprio asse insieme con il suo moto di rivoluzione annuale attorno al sole determina l'azione di forze diseguali sulla massa delle acque che ci sono sulla superficie della terra. Questo squilibrio di forze è ciò che darebbe origine alle maree. Su questa "prova", che noi oggi sappiamo inadeguata, Galileo aveva lavorato per molti anni, senza però essere stato capace di rimuoverne i palesi difetti. Nella prefazione del Dialogo vi si riferirà come ad una «fantasia ingegnosa».

III. Il processo a Galileo e gli ultimi anni ad Arcetri (1633-1642)

Con la pubblicazione del Dialogo , Galileo si cacciò in un guaio assai più grosso di quanto egli avrebbe mai immaginato. Papa Urbano VIII andò su tutte le furie perché si accorse che Galileo non aveva mantenuto l'impegno, con lui assunto, di scrivere in modo imparziale su un simile tema e, quasi certamente, perché si accorse che Galileo aveva strumentalizzato e ridicolizzato la risposta che lo stesso Urbano VIII aveva dato alla controversia tolemaico-copernicana, e cioè che essa non poteva essere risolta in modo definitivo dall'intelletto umano. Nell'agosto del 1632 ogni pubblicazione o vendita del libro furono espressamente proibite dal sant'Uffizio. Galileo fu richiamato a Roma da Firenze per essere giudicato da un tribunale di dieci cardinali con l'accusa di aver volontariamente insegnato la dottrina copernicana nonostante la sua precedente condanna come dottrina contraria alle Scritture (cfr. Finocchiaro, 1989).

Galileo non si trovava in buona salute verso la fine del 1632 e dovette essere portato a Roma in una lettiga, ove giunse nel febbraio del 1633. Ma in questa data tutti i membri del Sant'Uffizio che avevano preso parte ai fatti del 1615-1616 erano ormai già morti. Il nuovo commissario del Sant'Uffizio, il domenicano Maculano Firenzuola, dovette pertanto basarsi sui dati di archivio in merito al caso Galileo. Lì vi scoprì l'ingiunzione del 1616 e decise di fondare la sua azione contro Galileo sulla base di quel documento. Quando chiese a Galileo di rispondere davanti all'ingiunzione, e in modo particolare se gli era stato notificato che «non si doveva sostenere, né insegnare, né difendere il copernicanesimo in alcun modo, tanto oralmente come per iscritto», Galileo replicò che non ricordava che gli fossero state dirette quelle parole. Ricordò tuttavia un certificato inviatogli il 26 maggio 1616 dal cardinale Bellarmino, di cui aveva portato con sé una copia. L'ordine del cardinale era sì di non sostenere o difendere la detta posizione, ma le parole «non insegnare in alcun modo» non erano presenti nel certificato ed è per questo che Galileo probabilmente non le ricordava.

L'informazione colse il Firenzuola di sorpresa poiché questi non conosceva il certificato, non avendone copia nei suoi archivi (ne fu ritrovata solo nel 1984 a Roma una copia autografa, negli archivi dei gesuiti). Firenzuola continuò nondimeno il suo interrogatorio, chiedendo a Galileo se aveva ottenuto il permesso di scrivere il libro. La risposta di Galileo fu ingegnosa: egli non aveva alcun bisogno di chiedere permesso per scrivere il libro in quanto non vi si difende l'opinione di Copernico, ma piuttosto la si respinge. Il contenuto dell'ingiunzione era secondo lui irrilevante in quanto aveva voluto mostrare nel libro che gli argomenti a favore de copernicanesimo erano invalidi ed inconclusivi. Sconcertato, Firenzuola chiese a tre consultori di leggere il Dialogo per giudicare se davvero Galileo «sosteneva, insegnava o difendeva» il sistema eliocentrico. Tutti e tre conclusero che senza dubbio Galileo aveva insegnato e difeso l'opinione di Copernico, ma sul fatto che l'autore la sostenesse personalmente non ne erano così sicuri, perché nel testo vi erano molti diversi apprezzamenti e qualificazioni. Due di loro, tuttavia, espressero "il forte sospetto" che egli la sostenesse. Il tentativo di difesa inizialmente escogitato da Galileo fu ovviamente irrazionale e non poteva funzionare, cosicché Firenzuola ricorse ad un accordo per patteggiamento. Per evitare l'accusa assai più seria che egli avesse sostenuto personalmente l'opinione copernicana, Firenzuola gli propose di riconoscere l'accusa inferiore, e cioè che egli lo aveva difeso, ma lo aveva fatto non intenzionalmente, semplicemente perché portatovi dal realismo e dalla foga della redazione. Galileo accettò l'offerta e fu così in condizione di basare la sua successiva difesa su tale posizione. Egli sostenne che, quale devoto figlio della Chiesa, non credeva in coscienza nulla che fosse contrario alla Sacra Scrittura. Egli negò ogni intento malizioso, si scusò di «natural compiacenza che ciascheduno ha delle proprie sottigliezze, e del mostrarsi più arguto del comune de li huomini» ( Opere , vol. XIX, p. 343) e chiese pertanto clemenza e perdono.

Il processo sarebbe potuto ben terminare lì, ma sfortunatamente non fu così. Sotto l'insistenza di Urbano VIII, che restava poco convinto della veridicità di Galileo, gli fu chiesto di giurare che egli non credeva nel moto della terra ed abiurare i suoi precedenti insegnamenti. Su queste basi gli fu data una penitenza salutare e venne poi confinato agli arresti domiciliari, prima a Siena, poi nella sua villa ad Arcetri. Il Dialogo fu bandito e a Galileo fu vietato di scrivere qualsiasi altra cosa sul copernicanesimo (cfr. Fantoli, 1993; Sharrat, 1994).

Ad Arcetri Galileo recuperò i suoi primi manoscritti e riprese il suo lavoro sulla sua "nuova scienza" del moto, alla quale aveva lavorato in periodo discontinui, dopo l'epoca di Padova, nel 1618, 1627 e nel 1631. Progettò un esteso dialogo, ancora lungo quattro giornate e con gli stessi personaggi. I primi due giorni, dedicati alla scienza della meccanica con lo scopo di trattare principalmente della resistenza dei materiali, furono conclusi verso la metà del 1635. La terza e la quarta giornata sviluppavano in modo sistematico la scienza del moto locale, focalizzandosi rispettivamente sul moto naturalmente accelerato e sul moto dei proiettili. Il lavoro che ne risultò, Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze attenenti alla meccanica e ai movimenti locali , fu terminato nel 1637 e inviato in Olanda, dove fu pubblicato a Leida nel 1638. Il lavoro conteneva moltissimi riferimenti alle dimostrazioni sulle quali le due nuove scienze erano basate, cosa sorprendentemente assente nelle pagine del Dialogo del 1632. Curiosamente non vi si menzionano però gli esperimenti sul piano inclinato in laboratorio, che fornivano il principale fondamento empirico sul quale le nuove scienze si poggiavano. Galileo non allegò al volume i suoi lavori sui centri di gravità e le forze di percussione scritti cinquanta anni prima (inclusi nell'edizione di The Two New Sciences , curata da Drake, 1974).

Nei restanti pochi anni della sua vita, Galileo lavorò alla progettazione del quinto e del sesto giorno dei suoi Discorsi . Nonostante la sua ferma avversione alla fisica aristotelica, il 14 settembre del 1640 egli scriveva a Fortunio Liceti (1577-1657) che in materia di logica era sempre stato, lungo tutta la sua vita, un convinto peripatetico (cfr. Opere , vol. XVIII, p. 248). Vi sono pochi dubbi che i suoi ideali di scienza e di dimostrazioni fossero stati dunque di carattere aristotelico ed ancora ispirati a quei Trattati di Logica del suo primo periodo pisano.

Nel novembre del 1641 Galileo fu colto da una forte febbre e da palpitazioni cardiache che lo costrinsero a letto. Dopo due mesi di malattia si spense serenamente ad Arcetri l'8 gennaio del 1642. Fu sepolto in una cappella laterale della chiesa francescana di Santa Croce in Firenze. Il 13 maggio 1736 i suoi resti furono traslati in luogo di maggiore onore, all'interno della stessa chiesa, accanto alle tombe di Michelangelo e di Machiavelli.

IV. La revisione del caso Galileo

Nel 1820 il Sant'Uffizio revocò la condanna del copernicanesimo. Lo fece sulla base delle scoperte di due astronomi italiani poco conosciuti. Il primo di essi, Giovanni Battista Gugliemini, offrì una prova fisica della rotazione della terra misurando, grazie a degli esperimenti realizzati a Bologna fra il 1789 e il 1792 una leggera deflessione verso est di gravi in caduta dall'alto di una torre. Il secondo, Giuseppe Calendrelli, fu in grado di misurare la parallasse della stella Vega ( α Lyrae ) e presentò i suoi risultati a Pio VII (1800-1823) in un lavoro pubblicato nel 1806. Si trattava in questo caso della prova fisica di un moto della terra, la sua rivoluzione intorno al sole, rispetto ad una direzione fissa sulla sfera celeste. L'occasione della revoca del Decreto del 1616 da parte dell'allora commissario del sant'Uffizio, il domenicano Benedetto Olivieri, fu offerta da una discussione in merito alla concessione dell' imprimatur al testo Elementi di ottica e di astronomia del canonico Giuseppe Settele, professore all'Università romana " La Sapienza ". Olivieri riconobbe nelle scoperte menzionate la prova del duplice movimento della terra e ne concesse l' imprimatur ; accogliendo così il ricorso dell'autore dell'opera, che era stata inizialmente fermata dal P. Anfossi perché vi si sosteneva il sistema copernicano non più come ipotesi, bensì come tesi. Il nuovo Indice dei libri proibiti non venne pubblicato fino al 1835, data a partire dalla quale non vi comparirà più elencato il Dialogo sui massimi sistemi di Galileo (cfr. Brandmüller e Greipl, 1992).

In occasione del centenario della nascita di Albert Einstein, il 10 novembre 1979, durante un discorso alla Pontificia Accademia delle Scienze, papa Giovanni Paolo II riconobbe che Galileo aveva sofferto non poco, da parte di alcuni ecclesiastici ed invocò un sereno riesame del famoso processo. Si affermava in quel discorso: «La grandezza di Galileo è a tutti nota, come quella di Einstein; ma a differenza di questi, che oggi onoriamo di fronte al collegio cardinalizio nel nostro palazzo apostolico, il primo ebbe molto a soffrire - non possiamo nasconderlo - da parte di uomini e di organismi di Chiesa. Il Concilio Vaticano II - aggiungeva il Papa - ha riconosciuto e deplorato certi indebiti interventi: "Ci sia concesso deplorare - è scritto al n. 36 della Costituzione conciliare Gaudium et spes  - certi atteggiamenti mentali, che talora non mancarono nemmeno tra i cristiani, derivati dal non avere sufficientemente percepito la legittima autonomia della scienza, e che, suscitando contese e controversie, trascinarono molti spiriti a tal punto da ritenere che scienza e fede si oppongano tra loro". Il riferimento a Galileo è reso esplicito dalla nota aggiunta, che cita il volume Vita e opere di Galileo Galilei di mons. Paschini, edito dalla Pontificia Accademia delle Scienze. A ulteriore sviluppo di quella presa di posizione del Concilio, io auspico che teologi, scienziati e storici, animati da uno spirito di sincera collaborazione, approfondiscano l'esame del caso Galileo e, nel leale riconoscimento dei torti, da qualunque parte provengano, rimuovano le diffidenze che quel caso tuttora frappone, nella mente di molti, alla fruttuosa concordia fra scienza e fede, fra Chiesa e mondo».

Il 3 luglio 1981 Giovanni Paolo II nominò una speciale commissione con il compito di studiare e di pubblicare tutti i documenti disponibili sul caso. I risultati del lavoro della commissione furono presentati dallo stesso Pontefice alla Pontificia Accademia delle Scienze il 31 ottobre 1992. Il rapporto chiarisce che nel 1616 e nel 1632 l 'astronomia era in un momento di transizione e gli studiosi di Sacra Scrittura fecero della confusione in materia di cosmologia. Di fatto, Galileo non aveva dimostrato in maniera rigorosa il moto della terra, ma i teologi sbagliarono nel loro giudizio sui suoi insegnamenti (documentazione e commenti in Poupard, 1996).

Riportiamo alcuni passaggi centrali del discorso papale del 31.10.1992: «Se la cultura contemporanea è caratterizzata da una tendenza allo scientismo, l'orizzonte culturale dell'epoca di Galileo era unitario ed era contrassegnato da una particolare formazione teologica. Tale carattere unitario della cultura, che è in sé positivo e che sarebbe auspicabile anche oggi, fu una delle cause della condanna di Galileo. La maggior parte dei teologi non coglievano la distinzione formale tra la Sacra Scrittura e la sua interpretazione , il che li indusse a trasporre indebitamente nel campo della dottrina della fede una questione di fatto rilevante della ricerca scientifica» (n. 9). «A partire dal secolo dei Lumi e fino ai nostri giorni, il "caso" Galileo ha rappresentato una specie di mito [.]. Questo mito ha avuto un ruolo culturale considerevole; ha infatti contribuito a radicare numerosi scienziati in buona fede nella convinzione che ci fosse incompatibilità tra lo spirito della scienza e la sua etica di ricerca, da un lato, e la fede cristiana dall'altro. Una tragica incomprensione reciproca è stata interpretata come il riflesso di una opposizione costitutiva fra scienza e fede. Le chiarificazioni cui si è giunti grazie ai recenti studi storici ci permettono di affermare che tale doloroso equivoco appartiene ormai al passato» (n. 10).

Si segnala poi nel medesimo discorso che molte scoperte della scienza contemporanea sono così complesse che è difficile stabilire con certezza il loro grado veritativo, ma, nondimeno, ciò che di meglio si può sperare da una teoria scientifica è che essa sia almeno seriamente e solidamente fondata. Compito della Pontificia Accademia delle Scienze «è proprio quello di discernere e divulgare, nello stato attuale della scienza e per quello che è il suo campo, ciò che può essere considerato come una verità acquisita, o che per lo meno gode di una tale probabilità, che sarebbe imprudente e irragionevole respingere» (n. 13). Se questo illuminato consiglio fosse stato disponibile all'epoca del suo predecessore Urbano VIII, si sarebbe potuto risparmiare al caso Galileo il suo tragico epilogo.

 

Documenti della Chiesa Cattolica correlati: 
Gaudium et spes, 36; Giovanni Paolo II: Discorso alla Pontificia Accademia delle Scienze, 10.11.1979, Insegnamenti II,2 (1979), pp. 1115-1120; Discorso in occasione del 350° anniversario della pubblicazione del "Dialogo sui due massimi sistemi del mondo", 9.5.1983, Insegnamenti VI,1 (1983), pp. 1192-1199; Discorso alla Pontificia Accademia delle Scienze, 31.10.1992, Insegnamenti XV,2 (1992), pp. 456-465; Fides et ratio, 34.

Bibliografia: 

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