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Kepler, Johannes (1571 - 1630)

Anno di redazione: 
2002
Juan Casanovas

I. Vita e opere - II. Il Mysterium Cosmographicum - III. L'eredità delle osservazioni planetarie di Tycho Brahe e l'Astronomia Nova - IV. Keplero e Galileo - V. Lo spirito pitagorico dell'Harmonice Mundi - VI. Lo scienziato come sacerdote del Libro della natura.

I. Vita e opere

Giovanni Keplero è considerato uno dei più grandi astronomi di tutti i tempi. I trattati di meccanica celeste ricordano le sue tre leggi del moto dei pianeti. Non meno importanti sono i suoi contributi nel campo dell'ottica. È significativo che la sua opera principale, davvero rivoluzionaria, porti il titolo Astronomia Nova, consapevole, com'egli era, di avere con essa profondamente cambiato l'astronomia tradizionale. Dobbiamo infatti a Keplero il merito di aver eliminato una volta per tutte il ricorso a deferenti ed epicicli nell'interpretazione dei moti planetari, ed il superamento del principio assiomatico che tutti i movimenti celesti dovevano essere circolari e procedere con velocità uniforme, principio che aveva dominato tutta l'astronomia antica e medievale e che risultava ancora tanto caro a Copernico. Deciso promotore dell'eliocentrismo sin dalla sua gioventù, Keplero non ebbe nella difesa del copernicanesimo lo stesso ruolo di protagonista del suo contemporaneo Galileo, ma il suo contributo fu decisivo, forse ancor più di quello dello scienziato pisano, per l'affermazione della nuova visione del sistema solare. Può sembrare paradossale che mentre i migliori astronomi alla fine del Cinquecento non avevano difficoltà ad accettare l'"astronomia" di Copernico (cioè le sue tabelle matematiche costruite secondo la supposizione eliocentrica), rifiutavano al tempo stesso l'eliocentrismo per le inaudite conseguenze fisiche che ne derivavano. Keplero, invece, ignorò quell'astronomia matematica che conservava delle orbite rigorosamente circolari - perché da lui considerata superata - sfruttando invece, e nel migliore dei modi, il cuore dell'ipotesi copernicana, cioè il suo eliocentrismo.

Johannes Kepler, italianizzato come Keplero, era nato a Weil der Stadt, in Suabia, nel sudovest della Germania il 27 dicembre 1571. Nonostante i suoi genitori fossero luterani, egli fu battezzato cattolico, ma poi educato nella dottrina della Riforma, alla quale rimase più o meno legato per tutta la sua vita. Membro di una famiglia di condizioni modeste - suo padre era stato soldato dell'imperatore - grazie ad una borsa di studio dei duchi di Württenberg poté entrare nel 1584 nel seminario di Adelberg con l'intenzione di diventare predicatore. Nel 1591 si iscrisse alla Facoltà teologica dell'università di Tübingen per studiare, oltre alla teologia, anche matematica e astronomia, ottenendovi il titolo di Magister Artium. Questa università aveva come compito principale formare buoni pastori da inviare alle chiese che avevano abbracciato la confessione protestante, ai quali veniva richiesto di sottoscrivere la "Confessio Concordiae" del 1577. A Tübingen ebbe come professore di matematica Michael Mästlin (1580-1635) il quale, malgrado insegnasse la vecchia astronomia tolemaica, era un copernicano convinto. E fu proprio Mästlin, attraverso lezioni e seminari privati che i maestri erano soliti impartire ai migliori studenti, ad introdurre Keplero alla nuova teoria eliocentrica, della quale il suo discepolo sarebbe poi divenuto ardente sostenitore.

Terminati gli studi di teologia, nel 1594 fu suggerito a Keplero di accettare l'invito a recarsi a Graz, in Austria, presso lo studio che i riformatori protestanti vi avevano aperto per incaricarsi ufficialmente dell'insegnamento della matematica. Le intenzioni di Keplero erano in realtà quelle di proseguire gli studi superiori di teologia e diventare poi predicatore nella chiesa luterana. Ma proprio in campo teologico Keplero si era mostrato di spirito piuttosto indipendente, manifestando idee non conformi con l'insegnamento ufficiale dell'università di Tübingen, avvicinandosi alle posizioni di Calvino (1509-1564) specie per quanto riguardava la dottrina sulla Eucaristia. Anche se ciò giunse a precludergli la possibilità di dedicarsi professionalmente alla teologia, i problemi religiosi continueranno ad interessarlo da vicino e vi si dedicherà con passione, conservando sempre una certa vocazione teologica anche all'interno del suo lavoro scientifico.

Accettato suo malgrado il posto di professore di matematica nel Seminario luterano di Graz, Keplero intrattenne nella città austriaca rapporti amichevoli con alcuni padri gesuiti, nonostante la sua condizione di protestante. Oltre ai suoi compiti di insegnamento, che prevedevano corsi di matematica (che includeva anche l'astronomia), di letteratura e di teologia, nonché la preparazione di calendari astronomici ai quali vi erano associate, secondo la consuetudine dell'epoca, anche certe previsioni di carattere astrologico, egli si dedicò alla stesura della sua prima opera, il Mysterium Cosmographicum. Ma proprio all'inizio del 1600, a causa di un decreto che ingiungeva l'espulsione di tutti i protestanti, Keplero dovette lasciare Graz restando, fra l'altro, senza lavoro. Fu per lui provvidenziale, anche alla luce della sua futura attività scientifica, ricevere in quel momento un invito da Tycho Brahe (1546-1601) a recarsi con lui a Praga. L'astronomo danese, perso il suo protettore in Danimarca, aveva dovuto lasciare il suo paese e l'osservatorio che aveva allestito nell'isola di Hven, portando con sé il frutto di preziose osservazioni planetarie compiute per oltre un ventennio con nuove tecniche e nuovi strumenti di misura, con cui poté determinare la posizione degli astri sulla sfera celeste con una precisione di circa due minuti d'arco, cioè il massimo ottenibile all'epoca prima dell'introduzione del telescopio. La breve coincidenza dei due studiosi fu però sufficiente perché alla morte di Tycho, avvenuta nel 1601, Keplero potesse succedergli come matematico imperiale alla corte di Rodolfo II (1552-1612). Ed è proprio grazie all'eredità delle osservazioni di Tycho Brahe che Keplero (il quale, fra l'altro, non godeva di buona vista e doveva perciò servirsi di osservazioni altrui) potrà successivamente dedurre le sue famose leggi del movimento dei pianeti. A Praga compose la sua opera principale l'Astronomia Nova seu physica coelestis (1609), che contiene la formulazione delle prime due leggi che portano il suo nome, alle quali giungerà grazie alle misure compiute da Tycho sulle posizioni del pianeta Marte.

Quando nel 1612 all'imperatore Rodolfo successe suo fratello Mattia, Keplero decise di lasciare la corte di Praga per trasferirsi a Linz, pur mantenendo il titolo di matematico imperiale e lo stipendio che vi corrispondeva. Da qui dovette allontanarsi per qualche tempo allo scopo di difendere sua madre Caterina Guldenmann, che era stata accusata di stregoneria e messa sotto processo a Tübingen, processo che dopo quattro anni si concluse con la sua assoluzione nel 1621. Nelle brevi pause concesse dalla guerra dei Trenta Anni, che rendeva difficile la situazione generale dell'Europa del tempo, Keplero continuò la preparazione delle Tavole planetarie, le future Tabulae Rudolphinae (che verranno pubblicate solo nel 1627 a Ulma) e di altre due importanti opere, Harmonice Mundi (1619) e l'Epitome Astronomiae Copernicanae, composto fra il 1618 e il 1621. Giovanni Keplero morirà a Ratisbona il 15 novembre del 1630.

L'opera di Keplero è ricca di fondamentali contributi scientifici, ma vi traspare anche un pensiero filosofico di orientamento spirituale, di indole neoplatonica e a tratti pitagorica. Sebbene i due ambiti, quello scientifico e quello filosofico, appaiano spesso mescolati, una lettura attenta permette di notare come egli sapesse distinguere i due campi, ed entrare nel discorso filosofico solo dopo un duro lavoro matematico. Sarebbe quindi errato accostarsi allo spirito dei suoi scritti secondo una prospettiva esclusivamente filosofica, ignorando che la parte più importante del suo lavoro fu rappresentata dall'osservazione celeste e dalle innovative argomentazioni matematiche e fisiche. Tuttavia, non va dimenticato che il Keplero filosofo e teologo condizionò la vita del Keplero scienziato. E questo non solo nelle sue opere mature, come nell'idealistica ricerca di una sintesi fra cristianesimo e neopitagorismo dell'Harmonice Mundi, ma anche nel suo giovanile Mysterium Cosmographicum, pubblicato quando aveva solo 24 anni d'età, col quale si proponeva di trovare il misterioso "perché" del numero, delle distanze e delle velocità dei pianeti del sistema solare. Egli consacrò in fondo la sua vita intera a questo programma, che quasi pensò di vedere compiuto dopo anni di indicibile lavoro interamente dedicato alla matematica e ai calcoli.

II. Il Mysterium Cosmographicum

L'ingresso di Keplero nel mondo dell'astronomia avvenne con la pubblicazione del Mysterium Cosmographicum, concepito a Graz ma pubblicato a Tübingen nel 1596 con l'appoggio di Mästlin, e il cui titolo completo, quasi un vero sommario dell'opera, recita Prodromus dissertationum cosmographicarum continens Mysterium Cosmographicum, De admirabili proportione orbium coelestium, deque causis coelorum numeri, magnitudinis, motuumque periodicum genuinis et propriis per quinque regularia corpora geometrica (cfr. Koyré 1966, p. 322). Un'opera dal contenuto originale, fra le cui pagine ritroviamo il vero Keplero, rigoroso nel calcoli, sistematico nelle ricerche ma assai personale nelle interpretazioni. L'Autore ne fu così soddisfatto che a distanza di molti anni, nel 1621, volle riproporne una seconda edizione corredata di lunghe annotazioni, per aggiornarvi quanto appariva ormai superato. Il Mysterium è una visione copernicana dell'universo il cui punto di partenza non è solo l'eliocentrismo, ma soprattutto il fatto che la teoria copernicana era la sola finalmente in grado di fornire le distanze relative dei pianeti dal Sole, distanze che non era possibile calcolare con la precedente astronomia tolemaica, in quanto essa non diceva nulla circa la reale situazione spaziale dei diversi pianeti rispetto al centro del sistema planetario, essendo le diverse "sfere rotanti" (orbes) immaginate l'una contigua all'altra. Keplero intravide proprio in ciò il principale merito della nuova cosmologia copernicana, e non solo nel fatto che essa offriva una soluzione più convincente della complessa struttura tolemaica per spiegare le "anomalie" dei moti planetari.

«La mia intenzione - si legge all'inizio del Mysterium Cosmographicum - è di mostrare in questo libro che il Creatore Ottimo Massimo, al creare l'universo mobile e al disporre gli orbi, ha guardato quelli cinque solidi regolari notabilissimi dal tempo di Pitagora e di Platone fino ai nostri e che Egli accomodò alla natura di essi il numero degli orbi celesti, le loro proporzioni e i loro movimenti». I solidi a cui Keplero si riferisce sono i cinque solidi perfetti della geometria euclidea (tetraedro, cubo, icosaedro, ottaedro e dodecaedro) le cui superfici circoscrivevano le orbite sferiche dei sei pianeti allora conosciuti. Egli stesso racconta, nella medesima prefazione, che nel luglio del 1595, mentre si preparava a spiegare agli alunni come le congiunzioni consecutive di Giove e Saturno presentano un salto di otto segni zodiacali nel circolo massimo dell'eclittica, gli venne in mente di disegnare un triangolo inscritto fra le orbite dei due pianeti. Notò che poteva vedersi geometricamente come l'orbita di Giove era la metà di quella di Saturno. Tentò quindi di trasferire questo concetto, purtroppo senza successo, ai due pianeti Giove e Marte. Alla fine si convinse che doveva usare delle figure tridimensionali. Gli venne allora in mente di tentare di inscrivere nelle orbite i cinque poliedri regolari, gli unici possibili, studiati da Euclide nel libro XIII dei suoi Elementi (cfr. prop. 18). Fu così che Keplero trovò, con grande eccitazione, la seguente proporzione: «Sia l'orbita della terra la misura di riferimento. Se la circoscriviamo con un dodecaedro, la sfera che lo inscrive contiene l'orbita di Marte. Se costruiamo intorno a Marte un tetraedro, la sfera che lo inscrive contiene l'orbita di Giove. Finalmente se costruiamo intorno a Giove un cubo, la sfera che lo inscrive è l'orbita di Saturno. Ma se costruiamo un icosaedro all'interno dell'orbita della terra, la sfera ad esso inscritta è l'orbita di Venere. Costruiamo all'interno dell'orbita di Venere un ottaedro, la sfera inscritta è l'orbita di Mercurio». Con queste combinazioni Keplero riproduceva abbastanza bene le distanze relative dei pianeti rispetto al Sole, come queste si potevano calcolare secondo l'ipotesi copernicana. Si trattava di un risultato meramente fortuito oppure obbediva ad un disegno del Creatore, che aveva voluto impiegare questi poliedri regolari a motivo della loro simmetria e armonia? Keplero non poteva concepire che tutto ciò fosse solo una casualità e optò per la seconda interpretazione, pervaso da una fede profonda nella presenza di un Creatore, giungendo anzi a ritenere che Dio avesse scelto proprio lui per divulgare a tutta l'umanità questa meraviglia insita nella creazione.

Con questa scoperta, da lui ritenuta sensazionale, egli aveva già trovato parte di quanto si era proposto: cercare il perché del numero dei pianeti e delle grandezze delle loro rispettive orbite. Le leggi che Keplero doveva scoprire più avanti saranno solo un "complemento", perché faranno riferimento alla forma delle orbite, che riconoscerà come ellissi. Non c'è da meravigliarsi troppo di quanto riportato nel Mysterium Cosmographicum se notiamo, come fanno molti autori, che la scoperta di Keplero assomiglia abbastanza alla legge empirica proposta nel Settecento, detta di Titius-Bode, secondo la quale le distanze planetarie si possono dedurre da una formula assai semplice, avente per argomento dei numeri interi. È significativo notare che, nella la zona del sistema solare compresa fra le orbite di Marte e Giove, la legge di Bode prevedeva un pianeta che non c'è, ma è proprio in questa zona ove si trova la nutrita fascia degli asteroidi. Non esiste a tutt'oggi una spiegazione teorica della legge di Bode, che rimane di fatto un vero e proprio "mysterium cosmographicum".

In questa medesima opera Keplero sostiene di aver osservato che i periodi (e dunque le velocità lineari) di rivoluzione dei pianeti intorno al Sole erano in "armonia" con le loro distanze, ovvero quanto più un pianeta era lontano dal Sole, più lentamente compiva la sua orbita. Ma se il Creatore - come egli riteneva - aveva fatto in modo che i periodi orbitali dei pianeti corrispondessero alle loro distanze, era logico aspettarsi che avesse fatto anche corrispondere tali distanze a qualcosa di prestabilito (di cui la legge dei poliedri regolari era in qualche modo manifestazione). Egli cercò invano, all'epoca, di trovare una regolarità nelle diverse velocità dei distinti pianeti (che sarà più tardi la sua "terza legge" del movimento dei pianeti). Per il momento non poté fare altro che fornire una spiegazione solo di carattere "qualitativo": al centro, il Sole è come il motore (l'anima) del movimento dei pianeti, ma il suo influsso decresce con la distanza, in modo simile a quanto accade alla luce, che partendo da una certa sorgente luminosa, diminuisce la sua intensità con la distanza (egli riteneva erroneamente che l'intensità della luce diminuisse in maniera inversamente proporzionale alla distanza, mentre in realtà lo fa in modo inversamente proporzionale al suo quadrato).

III. L'eredità delle osservazioni planetarie di Tycho Brahe e l'Astronomia Nova

Con le osservazioni compiute in Danimarca, Tycho Brahe si era proposto di calcolare delle nuove tavole astronomiche, migliori di quelle esistenti, della cui imprecisione egli si era accorto durante il suo lavoro a Hven. Le nuove tavole, denominate Tabulae Rudolphinae in onore dell'imperatore Rodolfo, dovevano sostituire definitivamente le vecchie Tavole Alfonsine - che raccoglievano la tradizione dell'astronomia araba - composte in Spagna nel XIII secolo, e le Tavole Pruteniche, basate sul De Revolutionibus di Copernico e pubblicate da E. Reinhold nel 1551.

Di spirito sperimentale ed induttivo, Tycho Brahe non condivideva il contenuto del Mysterium Cosmographicum, che considerava una cosmologia costruita, per così dire, a priori. Tuttavia, egli vedeva nel giovane Keplero un talento ed una tenacia fuori del comune. Questi fu assunto inizialmente come calcolatore per aiutare il maestro - personaggio assai particolare e custode geloso delle sue osservazioni - nella riduzione dei dati osservativi. A Keplero fu assegnato il compito di studiare l'accordo delle osservazioni con la teoria del moto lunare, mentre la preparazione della tavola delle posizioni del pianeta Marte fu affidata al danese Christian Severin, conosciuto come Longomontano (1562-1647). Trovando però quest'ultimo non poche difficoltà nella riduzione dei dati, fu chiesto allora a Keplero di dedicarsi alle tavole di Marte. Tycho Brahe insisteva nel voler accomodare alle osservazioni i parametri dell'orbita del pianeta impiegando ancora il sistema geometrico ereditato da Copernico, il cui assioma fondamentale richiedeva che «tutti i moti dei corpi celesti fossero circolari e uniformi, oppure una composizione di essi». Ma Keplero non riteneva necessario - come aveva già osservato nel suo Mysterium Cosmographicum - dover conservare questo criterio, cosa che rendeva la collaborazione con Tycho non sempre facile, né priva di disaccordi al momento di interpretare le osservazioni del pianeta rosso. Nessuno sa fino a quando sarebbe potuta durare la loro collaborazione: la morte del suo maestro, avvenuta nel 1601 dopo appena un anno dall'inizio della riduzione dei dati, lasciò il campo libero a Keplero e al suo lavoro. Nominato matematico di corte di Praga come successore di Tycho Brahe, titolo che mantenne per trent'anni fino alla sua morte, Keplero ricevette l'incarico di continuare il progetto di preparazione delle Tavole Rudolfine sulla base delle osservazioni astronomiche del suo predecessore. Keplero era adesso libero di affrontare il problema dell'orbita del pianeta Marte come riteneva più opportuno.

Come risultato delle ricerche del matematico di corte apparve nel 1609 (lo stesso anno in cui Galileo puntava il suo telescopio verso il cielo) il libro Astronomia Nova. È questa l'opera fondamentale di Keplero, nella quale egli presenta la legge delle aree, trovata inizialmente per l'orbita di Marte, e quella sulla forma ellittica delle orbite planetarie. Nell'introduzione, oltre a menzionare importanti concetti di meccanica che apriranno la strada ad una visione fisica e non più solo geometrica del sistema solare, vi aggiunge un piccolo trattato col quale intendeva armonizzare il copernicanesimo con le affermazioni delle Sacre Scritture, problema, questo, che cominciava già a diventare importante anche fra i riformatori protestanti in Germania.

Dopo aver provato tutti i possibili schemi geometrici per accordare i dati osservativi con le orbite planetarie, si convinse che era necessario tentare nuove ipotesi. La scelta di Marte fu, a questo proposito, una scelta fortunata, perché il pianeta possedeva la più grande eccentricità fra i pianeti maggiori del sistema solare e gli effetti dell'ellitticità (rispetto a quanto sarebbe apparso in regime di moto circolare) erano in questo caso maggiormente percettibili. Alla base del programma kepleriano vi era l'insistenza su una visione più fisica che geometrica delle orbite planetarie: non si trattava di considerarle come costruzioni geometriche ma di cercare quali fossero le cause fisiche del moto. Ciò che voleva capire era perché, quanto più Marte era vicino al Sole, tanto più veloce era il suo moto (e, corrispondentemente, tanto più lento quanto più ne era lontano), fenomeno che aveva osservato anche per gli altri pianeti, la cui rivoluzione intorno al Sole era tanto più lenta quanto più grande la loro orbita. Dopo ingenti calcoli e ardite ipotesi giunse così alla «legge delle aree», chiamata poi anche «II legge di Keplero», e cioè che il raggio vettore che unisce il pianeta al Sole spazza, sul piano orbitale, aree uguali in tempi uguali. In altre parole quanto più breve è la distanza del pianeta dal Sole tanto più velocemente gira il raggio vettore, per poter spazzare un'area più grande nell'unità di tempo. Ottenuto questo risultato, fu facile vedere che la curva geometrica descritta dal pianeta era precisamente una ellisse e che il Sole occupava uno dei due fuochi, conclusione nota come «I legge di Keplero».

Principale preoccupazione di Keplero era quella di comprendere il senso del ruolo centrale del Sole, che evidentemente doveva essere la causa del movimento dei pianeti. Il suo "influsso" sembrava diminuire con la distanza. Egli non giunse ad ipotizzare la legge di gravitazione universale, perché riteneva ancora che questa attenuazione dell'influsso solare diminuisse in modo proporzionale all'inverso della distanza, e non con l'inverso del quadrato della distanza come sappiamo oggi. Ma egli vede giusto quando ipotizza che l'attrazione reciproca fra la Terra e la Luna sia la causa per spiegare il fenomeno delle maree, sebbene non estese questa intuizione anche agli altri pianeti. Il problema, che dovrà perdurare fino a Newton (1642-1727), era per lui capire come una forza di attrazione potesse costituire la causa delle orbite: per comprenderlo sarebbero stati necessari strumenti matematici che al tempo non erano ancora disponibili. Proprio nel tentativo di cercare il fenomeno che regolasse il ruolo centrale del Sole pensò di potervi trovare una soluzione nell'azione del campo magnetico, dal momento che William Gilbert (1544-1603) aveva da poco ipotizzato che la Terra si comportasse come una calamita (cfr. De Magnete, Londra 1600). Keplero immaginava che se anche il Sole fosse stato una calamita in rotazione attorno al proprio asse, avrebbe potuto trascinare nel suo moto i pianeti, concepiti anch'essi come altre calamite. Più tardi Keplero doveva scoprire, suo malgrado, che il Sole aveva sì una rotazione assiale, ma in realtà molto lenta, con un periodo medio sulla superficie di circa 27 giorni.

Uno dei grandi meriti di Keplero, decisivo per giungere alle sue formulazioni teoriche, fu quello di fidarsi della bontà e della precisione delle osservazioni astronomiche fatte da Tycho Brahe, attribuendo ad esse sempre priorità quando vi erano discordanze rispetto ad un possibile schema teorico suggerito per l'orbita di Marte. Egli stesso narra come, non contento di uno scarto di 8 minuti primi (equivalenti a circa un quarto del diametro angolare della Luna) fra teoria ed osservazioni, considerò il precedente schema teorico ancora inadatto, tornando nuovamente al lavoro per formularne uno più adeguato. Da questo punto di vista, l'Astronomia Nova è un'opera unica nella letteratura astronomica: in essa Keplero descrive tutti i suoi intenti, tanto i successi come i fallimenti; opera di difficile lettura, ma testimone di uno sforzo ancor più difficile, quello del suo autore per giungere, dopo otto lunghi anni di tentativi e di ipotesi, alle prime due leggi del moto planetario.

In quella stessa epoca Keplero ebbe anche il tempo di dedicarsi alla pubblicazione di opere di ottica, forse spintovi dallo studio del fenomeno della rifrazione atmosferica, di cui occorreva necessariamente tener conto per correggere la posizione dei pianeti e calcolarne opportunamente le orbite. Vanno ricordati il trattato Ad Vitellionem con l'Optica Astronomica (Ad Vitellionem Paralipomena quibus Astronomiae Pars Optica traditur, 1604), il cui titolo rimanda a Witelo, filosofo e fisico polacco del XIII secolo che si era occupato della rifrazione della luce nell'atmosfera, ma soprattutto l'opuscolo Dioptrice (1611). Fu in quest'ultimo lavoro, occasionato dalla pubblicazione del Sidereus Nuncius (1610) di Galileo, che Keplero mostrò la sua perizia in campo ottico. Riprendendo lo schema del cannocchiale galileiano, col quale lo scienziato pisano aveva fatto le sue prime scoperte astronomiche, Keplero suggerisce di sostituire la lente concava, impiegata come oculare, con una lente biconvessa la quale, anche se invertiva l'immagine, consentiva di sfruttare meglio la lunghezza focale dell'obiettivo principale, anch'esso costituito da una lente principale biconvessa. Nel Dioptrice si descrive questo nuovo tipo di strumento ottico, che verrà anche esposto e poi messo in pratica dall'astronomo gesuita tedesco Christoph Scheiner (1573-1650) nel suo volume Rosa Ursina (1630). Questo telescopio, chiamato "astronomico" per differenziarlo dal cannocchiale terrestre galileiano, consentirà per la prima volta di fare misure di posizione sulla sfera celeste assai precise mediante l'impiego di un micrometro oculare. I circoli meridiani muniti di telescopio con micrometro faranno passare dalla precedente accuratezza di circa 2 minuti d'arco (quella delle misure di Tycho Brahe), ad una precisione di pochi secondi d'arco. Grazie a questo sensibile miglioramento tecnico, le successive osservazioni astronomiche sulle posizioni dei pianeti confermeranno le scoperte di Keplero, ma permetteranno anche la scoperta di nuovi fenomeni, come l'aberrazione della luce, all'inizio del Settecento, primo indizio di un movimento di traslazione della terra.

Trasferitosi a Linz nel 1611, dove poté mantenere il titolo di matematico di corte, Keplero continuò a lavorare alle Tavole Rudolfine, giovandosi per questo della pubblicazione delle tavole dei logaritmi di base naturale preparate da Nepero (1550-1617). Fra il 1618 e il 1621 prepara e poi pubblica l'Epitome Astronomiae Copernicanae, un libro dedicato anche ai non specialisti, scritto sotto forma di domande e risposte, col quale darà ampia diffusione del sistema copernicano, sebbene vi si trovi pure notizia degli altri sistemi cosmologici. L'Epitome abbraccia molteplici materie, dalla geografia alla trigonometria sferica; vi troviamo naturalmente le considerazioni geometriche sui poliedri regolari già sviluppate nel suo Mysterium Cosmographicum, le leggi sulle orbite planetarie ed anche le sue teorie sulle "armonie celesti" (vedi infra, V). Estremamente utile per capire l'astronomia dell'epoca, e soprattutto per approfondire il pensiero del suo autore, l'opera fu però inclusa dal sant'Uffizio nell'Indice dei libri proibiti a motivo del suo eliocentrismo, in seguito ai noti eventi collegati con il decreto del 1616 che ne consentiva l'insegnamento solo ex suppositione.

IV. Keplero e Galileo

I primi contatti di Keplero con Galileo Galilei (1564-1642) furono occasionati dalla pubblicazione del Mysterium Cosmographicum (1596). Come era consuetudine, l'autore dell'opera ne inviò copia ai professori di astronomia delle diverse università d'Europa. Il libro, come abbiamo visto, era apertamente copernicano. Ricevutolo, Galileo rispose con una lettera di ringraziamento, confessando che anche lui, da tempo copernicano, stava aspettando il momento opportuno per far conoscere i suoi argomenti in favore di tale ipotesi. Incoraggiato da questa risposta, Keplero scrisse nuovamente a Galileo, proponendogli di fare osservazioni simultanee, in Germania e in Italia, per tentare di scoprire la parallasse annua delle stelle, un risultato che avrebbe rappresentato una dimostrazione geometrica, decisiva e definitiva, del moto di rivoluzione terrestre intorno al Sole. Ma Galileo lasciò cadere questa proposta e l'esperimento non fu mai realizzato (lo sarà solo due secoli dopo, quando si disporrà di strumenti con un sufficiente potere risolutivo). Qualche anno dopo, Galileo inviò a Keplero copia del Sidereus Nuncius (1610) chiedendogli un parere sulle scoperte fatte con il telescopio; questi lo accolse con entusiasmo, come la gran parte degli astronomi del tempo, stilando lunghe considerazioni di apprezzamento in una Dissertatio cum nuncio sidereo.

Ma gli interessi e i metodi dei due studiosi erano diversi. Keplero rimaneva soprattutto un astronomo, dedito ai calcoli, impegnato a cercare argomenti per giustificare le sue teorie sulla base dell'ingente quantità di osservazioni effettuate da Tycho Brahe; Galileo prediligeva invece la sperimentazione fisica e tentava di provare i moti della terra con analogie intuitive ed argomenti un po' azzardati (e talvolta errati): lo stessoSidereus Nuncius era un'accurata relazione su ciò che egli poteva osservare dei corpi celesti, ben lontano da un impiego del telescopio come strumento astrometrico, cioè di misura delle "posizioni" degli astri sulla sfera celeste, come era abituale fare fino a quel momento in astronomia. Se Keplero dovette compiere uno sforzo ed un lavoro enormi prima di trovare le tre leggi del moto dei pianeti intorno al Sole, Galileo credette di aver già trovato una prova del movimento della Terra con la sua interpretazione delle maree.

Proprio al riguardo di quest'ultimo fenomeno, va ricordato che nell'introduzione alla Astronomia Nova, Keplero ne aveva ipotizzato la causa nell'attrazione reciproca tra la Terra e la Luna: si trattava in fondo di un'estensione dell'ipotesi avanzata da Copernico secondo la quale tutti i corpi celesti potevano considerarsi "centri di attrazione". Dal canto suo Galileo, pur riconoscendo i meriti dell'astronomo tedesco per i suoi lavori sulle orbite planetarie, nel suo Dialogo sui massimi sistemi (1632) qualificherà come "puerile" la teoria delle maree suggerita da Keplero, ritenendola derivata dall'uso di "forze occulte". In realtà, i rapporti fra i due non furono mai troppo cordiali. Galileo, ad esempio, non si riferì mai alle leggi dell'orbitamento enunciate da Keplero, né mai menzionò l'idea di "orbite ellittiche". Fu davvero una contingenza storicamente sfortunata che i due geniali personaggi non trovassero un comune terreno di intesa nella difesa del copernicanesimo, con una collaborazione che avrebbe certamente condotto ad importanti conseguenze, e non solo sul piano astronomico.

La ricerca storiografica si è senza dubbio occupata assai di più delle vicende galileiane che delle ricerche kepleriane, come mostra l'enorme mole di letteratura esistente su Galileo e quella piuttosto scarsa su Keplero. Le opere del primo furono ben presto tradotte in diverse lingue, a differenza di quanto accadde al secondo, e gli interessi degli storici si polarizzarono maggiormente sullo sviluppo del metodo scientifico galileiano che sugli studi e le argomentazioni matematiche dello scopritore delle leggi dell'orbitamento. Ma in questo neanche Keplero ha molto aiutato la posterità. Il suo linguaggio era a volte difficile da capire, mentre le opere di Galileo rappresentavano in alcuni casi dei veri pezzi antologici della letteratura scientifica italiana. Keplero, metodico e riflessivo, non era un gran letterato ed i suoi scritti, spesso ricchi di conteggi e di formule, erano in lingua latina: Galileo era un maestro della lingua toscana, dal temperamento acceso e non di rado polemico, col quale amava imporsi all'attenzione degli uditori.

L'insistenza di Keplero nel narrare nelle sue opere tutti i passi previ alle sue scoperte, i tentativi falliti, l'arrivo alla soluzione finale, spesso corredata da considerazioni spirituali che intendevano mostrarne la ragione ultima in Dio Creatore, non aveva il linguaggio della scienza moderna. E non l'avevano neanche l'affermare di essere guidato nel suo lavoro dalla grazia divina, il presentarsi come un sacerdote della natura, e il presentare la natura come opera di Dio, né la sua predilezione per l'armonia pitagorica dei numeri e delle proporzioni geometriche, o un certo gusto per l'astrologia. È probabile che fu già per questo che Galileo nutrì poco apprezzamento per Keplero. Ciò nonostante, non sarebbe possibile studiare Galileo senza conoscere la grande opera, a lui contemporanea, di Giovanni Keplero.

Per quanto riguarda le sorti dell'eliocentrismo, va segnalato che dopo la morte di Keplero, fino alle ultime decadi del Seicento, non vi furono grandi sviluppi in campo astronomico. I decreti del Sant'Uffizio del 1616, originati dalla problematica biblica suscitata con la difesa del coperncanesimo fatta da Galileo, non furono necessariamente i fattori determinanti. Vi erano indicazioni convincenti ma mancavano prove fisico-matematiche dirette di fenomeni astronomici che si potessero spiegare esclusivamente con il sistema eliocentrico. Le discussioni teoriche, le argomentazioni come quelle (più di settanta) presentate da Gianbattista Riccioli (1598-1671) nel suo Almagestum Novum (1651), non sortivano alcun effetto. Del resto, l'affermazione di un copernicanesimo modificato come quello kepleriano non era facile, in quanto le orbite ellittiche presentavano una certa complicazione di calcolo. Inoltre, la differenza tra le effemeridi calcolate con le teorie precedenti e quelle calcolate partendo dai moti planetari orbitali scoperti da Keplero non era ancora evidente, perché l'osservazione astronomica non aveva fatto grandi progressi dopo Tycho Brahe: verso la metà del Seicento, prima dell'introduzione del telescopio con micrometro oculare, la precisione nel calcolo delle posizioni celesti era la stessa che si aveva alla fine del Cinquecento. Fu piuttosto sul versante fisico, con i principi della meccanica di Newton - dai quali le leggi di Keplero potevano essere agevolmente dedotte teoricamente - quando, ormai alla fine del Seicento, l'unione dell'interpretazione delle osservazioni astronomiche con le leggi della meccanica celeste sancì l'inizio del vero trionfo dell'eliocentrismo, e proprio nella forma proposta da Keplero.

V. Lo spirito pitagorico dell'Harmonice Mundi

Pitagora di Samo (VI sec. a.C.) e i suoi discepoli avevano scoperto nei numeri proporzioni ed armonie giungendo a dare vita ad una visione "mistica" dell'aritmetica. La musica rappresentava l'aspetto sensibile e percepibile di questa armonia. Pitagora aveva osservato che il tono della corda di un strumento musicale dipendeva, a parità di tensione, dalla sua lunghezza, e che non tutti i rapporti fra lunghezze davano suoni armonici, bensì solo quelli che seguivano certe proporzioni numeriche. Pertanto, nelle cose naturali era presente un'armonia che poteva essere esplicitata e determinata mediante i numeri. Queste idee furono riprese prima da Platone (427-347 a.C.) e poi da altri filosofi lungo tutto il medioevo, per essere infine riproposte dal neoplatonismo rinascimentale. Lo stesso Claudio Tolomeo (100-178) aveva scritto un'opera di acustica in tre libri, Harmonica, approfondendo la teoria dell'armonia musicale ed il suo influsso sull'animo umano: nel libro III, l'autore estendeva questi concetti anche al movimento degli astri, giungendo così per la prima volta all'idea di una "armonia celeste".

Queste concezioni furono riprese da Keplero sulla scia della scoperta fatta nel Mysterium Cosmographicum, ove mostrava che il sistema planetario seguiva certe combinazioni e certi rapporti basati sulle figure geometriche dei solidi regolari (vedi supra, II). Nel 1619, dando vita ad una sintesi che veniva già maturando dal 1599, Keplero pubblicò finalmente l'Harmonices Mundi Libri V, un'opera che si può per molti versi considerare il suo testamento intellettuale e spirituale. In esso egli studia le proprietà delle figure regolari, piane e solide, le diverse proporzioni armoniche e la natura del canto. Le armonie (proporzioni armoniche) produrrebbero molteplici effetti sullo spirito umano; la loro origine celeste offrirebbe inoltre una spiegazione dell'influsso degli astri sulla vita terrena, dando un certo fondamento alle congetture dell'astrologia (le cui previsioni oroscopiche erano in qualche modo assimilate, come già osservato, alla preparazione dei calendari astronomici dell'epoca). Nel Libro V dell'opera, l'autore applica finalmente tutto ciò al movimento dei pianeti attorno al Sole, derivandone una fantastica visione dell'armoniosa opera del Creatore, di notevole valore estetico. Dal capitolo VI al IX dello medesimo libro, Keplero espone in modo sistematico tutta la sua teoria sulla "musica delle sfere celesti", opportunamente corredata di tavole numeriche e di partiture musicali, con le diverse note "suonate" da ciascun pianeta. È davvero impressionante vedere la quantità di assiomi, di proposizioni, di calcoli e di tavole che l'autore elabora per giungere a mostrare le proprietà razionali dell'armonia celeste: un lavoro forse oggi difficile da comprendere, ma certamente testimone delle convinzioni profonde di uno dei più grandi scienziati del Seicento, un lavoro che la storia della scienza ha quasi completamente dimenticato.

È importante notare che la visione armonica ed estetica di Keplero non era frutto di un'impostazione aprioristica, di taglio deduttivo (come potrebbe far pensare l'ispirazione platonica), ma nasceva sorprendentemente da un modo di procedere sperimentale, induttivo, poggiato sulle osservazioni dei fenomeni celesti e sui calcoli numerici, prima che questi venissero successivamente integrati, come nell'Harmonice Mundi, in un'interpretazione più o meno fantastica del cosmo. Prova di questo atteggiamento è il modo con cui il suo autore comunica la scoperta di quella che verrà chiamata la «III legge di Keplero» sul movimento dei pianeti. Egli interrompe le sue riflessioni speculative sull'armonia celeste per segnalare che cercava da tempo il rapporto dei movimenti dei pianeti fra di loro. Parte del Mysterium Cosmographicum non era finita da 22 anni perché non si riusciva a trovarne la regola. «Trovati i veri intervalli degli orbi grazie alle osservazioni di Tycho Brahe, dopo molto lavoro continuo (plurimi temporis labore continuo) finalmente fu trovata la genuina proporzione dei periodi dei pianeti alla dimensione delle orbite [...]. Se mi domandi quando, fu l'otto di marzo dell'anno 1618, però i calcoli davano risultati infruttuosi, e quindi li ho rifiutati come falsi. Alla fine, ritornando all'assalto il 15 di maggio, si schiarirono le tenebre (novo capto impetu expugnavit mentis meae tenebras). La convergenza fra le osservazioni di Tycho Brahe durate 17 anni e la mia elucubrazione era tale che all'inizio io pensavo di sognare e di aver commesso una petizione di principio. Però è verissimo e esatto che il rapporto fra i periodi di due pianeti qualunque è in precisa proporzione alla potenza di 3/2 delle due distanze» (Lib. V, cap. III). In termini matematici, se P1 e P2 sono i periodi di rivoluzione intorno al Sole di due qualsivoglia pianeti, ed a1a2 i semiassi maggiori delle loro orbite, la legge trova che il rapporto fra i quadrati dei periodi (P1)2 / (P2)2 è uguale al rapporto fra i cubi dei semiassi (a1)3 / (a2)3. La deduzione della terza legge rappresenta una sorta di parentesi all'interno del libro: dopo aver fornito anche il giorno della scoperta, l'autore riprende le sue fantastiche considerazioni sulle armonie dell'universo. La III legge di Keplero, leggermente modificata con l'introduzione delle masse planetarie, sarà dedotta teoricamente da Isaac Newton, come prima ricordato, a partire dai principi della meccanica all'interno della sua teoria della gravitazione.

VI. Lo scienziato come sacerdote del Libro della natura

Quando Keplero lasciò con rammarico l'università di Tübingen per prendere il posto di professore di matematica nello studio protestante di Graz, sapeva di dover lasciare la teologia e la predicazione. Ma a Graz ebbe la sorpresa di percepire come il suo lavoro di matematico e di astronomo lo poneva in un rapporto privilegiato con Dio. È in questo senso che egli interpretò la scoperta delle correlazioni fra le dimensioni delle orbite planetarie e le forme dei poliedri regolari: riteneva di essere stato fatto partecipe di uno dei segreti della creazione. «Io desideravo diventare teologo - scrive nel 1595 - e per lungo tempo ero angosciato; ma ecco, guarda come Dio sarà ora lodato attraverso il mio lavoro in astronomia (Theologus esse volebam: diu angebar: Deus ecce mea opera etiam in astronomia celebratur)» (Lettera a Mästlin, 3.10.1595, in Gesammelte Werke, XIII, n. 23). Egli giunge così alla conclusione che «gli astronomi sono sacerdoti del Dio Altissimo in rapporto al Libro della Natura (ex parte librij Naturae), per cui è nostro dovere non cercare la nostra gloria, ma la gloria di Dio sopra ogni altra cosa» (Lettera a Herwath von Hohenburg, 26.3.1598, in ibidem, n. 91), idea che riprenderà nella dedica all'imperatore dell'Epitome Astronomiae: «comprendo il mio ruolo come quello di un sacerdote del Dio Creatore al servizio di Vostra Maestà Imperiale».

Di particolare interesse è il riferimento alla natura come "Libro", una metafora già nota alla teologia patristica e medievale che Keplero riprende ora in un contesto scientifico. Va ricordato che lo stesso Galileo, pochi anni prima, aveva menzionato il parallelo fra il Libro della Scrittura e il Libro della Natura nelle due lettere "esegetiche" a Benedetto Castelli (1613) e a Cristina di Lorena (1615), facendone una delle principali immagini sulle quali fondare l'unicità del Verbo divino, per riprendere poi nel Saggiatore (1623) l'idea che la natura è un libro scritto con un linguaggio matematico. Riferendosi allo studio dell'universo, scrive Keplero nell'Epitome (1621): «Questo è il vero Libro della Natura, nel quale Dio Creatore ha proclamato e come tracciato la sua essenza e la sua volontà, in una sorta di scrittura senza uso di parole» (Gesammelte Werke, VII, p. 25).

Al parlare di Dio, Keplero impiega gli attributi tradizionalmente associati all'immagine del Creatore (onnipotenza, onniscienza, ecc.), ma a motivo del suo spirito pitagorico - dal quale non si distaccherà mai - privilegia un'immagine di Dio che sembra essere piuttosto quella di un geometra o di un musicista. L'universo ne mostra, nella sua struttura e nelle sue armonie, la traccia. Egli riprende l'uso diffuso, di origine pre-cristiana, della "perfezione" della forma sferica e del numero 3. Astraendo dai suoi moti, nella sua struttura l'universo è visto come una sfera perfetta, nella quale ravvede un'immagine trinitaria caratterizzata dai tre elementi del solido - il suo centro, la sua superficie e il suo volume - per i quali propone l'associazione del Padre con il centro, del Figlio con la sfera delle stelle fisse e dello Spirito con l'etere che vi è contenuto. Analoga associazione è proposta per i suoi moti: il Sole, come centro e origine del moto, è figura del Padre, che crea attraverso il Figlio (estendendo il moto alle stelle) e attraverso lo Spirito (estendendolo al sistema solare nello spazio circostante) (cfr. Lettera a Mästlin, 3.10.1595, in Gesammelte Werke, XIII, n. 23). Nell'Harmonice Mundi, pur mantenendo una chiara distinzione fra il credo cristiano e l'idolatria pagana, riprende l'Inno al Sole del platonico Proclo, sottolineando in esso l'idea di applicare al Sole (che per Keplero è solo "immagine" di Dio) l'origine di un armonico canto che si riversa nello spazio, permeandolo e dirigendone i moti (cfr. Lib. V, cap. X).

È difficile offrire un giudizio conclusivo, sul tema del rapporto fra scienza e religione, su un personaggio così originale, di spirito indipendente, ma anche profondo e sincero credente, come fu Giovanni Keplero. Alcune delle sue intuizioni sull'accesso a Dio attraverso la natura possono forse conservare una certa attualità filosofica, anche se il linguaggio e le costruzioni con cui ciò viene proposto non consentono di sottoscriverne le conclusioni. La sua eredità più significativa sta probabilmente nella passione con cui sviluppò la sua ricerca "alla presenza di Dio", con la consapevolezza che il suo studio (e il suo sforzo) per scoprire le leggi del moto dei cieli era anche il luogo da cui poteva salire una preghiera di ringraziamento e di lode a Dio Creatore. Così lo esprimeva in una pagina finale dell'Harmonice Mundi: «Interrompo di proposito e il sonno e la vastissima speculazione, esclamando dinanzi a tanto spettacolo con il Re suonatore di cetra: grande è il Signore nostro, grande è la sua virtù, e la sua sapienza non ha confini; lodatelo voi, o cieli, e lodatelo voi, o Sole, o Luna, o Pianeti, qualunque senso per percepire e qualunque lingua adoperiate per manifestare il vostro Creatore; lodatelo voi, o armonie dei cieli, lodatelo voi che osservate le armonie manifeste; loda anche tu, anima mia, il Signore creatore tuo finché vivrò; infatti da Lui, per Lui e in Lui ci sono tutte le cose, "tanto le cose sensibili, quanto le cose intellettuali", tanto quelle che ignoriamo del tutto, quanto quelle che conosciamo, che sono poi una piccolissima parte, giacché non si può ancora andare oltre. A Lui la lode, l'onore e la gloria nei secoli dei secoli. Amen.» (tr. it. L'armonia del mondo, p. 158).

Bibliografia: 

Opere di Keplero: Opera omnia, a cura di C. Frisch, 8 voll., Heider & Zimmer, Frankfurt-Erlangen, 1858-1871; Gesammelte Werke, a cura della Kepler-Kommission, Bayerische Akademie der Wissenschaften, 22 voll., Beck, München 1937-. Bibliografie: Bibliographia Kepleriana, a cura di J. Hamel, Beck, München 1998 (aggiorna la prima ed. a cura di M. Caspar, 1968). Cfr. anche M. LIST, Bibliographia Kepleriana 1967-1975, in Kepler. Four Hundred Years, a cura di A. Beer e P. Beer, "Vistas in Astronomy" (Pergamon Press) 18 (1975), pp. 957-1010. Traduzioni di alcune opere: Mysterium CosmographicumThe Secret of the Universe, a cura di A.M. Duncan, pref. di I.B. Cohen, Abaris Books, New York 1981; New astronomy (Astronomia nova), a cura di W.H. Donahue, Cambridge Univ. Press, Cambridge 1991; The birth of history and philosophy of science. Kepler's "A defence of Tycho against Ursus" (Apologia pro Tychone contra Ursum), a cura di N. Jardine, Cambridge Univ. Press, Cambridge 1984; L'armonia del mondo, a cura di C. Scarcella, Edizioni del Cerro, Tirrenia (Pisa) 1994 [contiene alcuni parti dell'Harmonice mundi]. A. FAVARO, Carteggio inedito di Ticone Brahe, Giovanni Keplero e di altri celebri astronomi e matematici dei secoli XVI e XVII, tratto dall'Archivio Malvezzi de' Medici in Bologna, 1886.

Opere su Keplero: C. BAUMGARDT (a cura di), Johannes Kepler: his Life and Letters, Philosophical Library, New York 1951; R. SMALL, An Account of the Astronomical Discoveries of Kepler (1804), Wisconsin Press, Madison 1963; A. KOYRÉ, La rivoluzione astronomica. Copernico, Keplero, Borelli, Feltrinelli, Milano 1966; H.C. FREIESLEBEN, Kepler als Forscher, Wissenschaftliche Buchges, Darmstadt 1970; UNIVERSITY OF TEXAS AT AUSTIN (a cura di), Johannes Kepler, 1571-1630. An exhibit of books, manuscripts, and related materials, Quadricentennial celebration, The Humanities Research Center, Austin 1971; M. DICKREITER, Der Musiktheoretiker Johannes Kepler, Francke, Bern-München 1973; A. BEER, P. BEER, Kepler, Four Hundred Years. Proceedings of the Conferences held in honour of Johannes Kepler, "Vistas in Astronomy" (Pergamon Press) 18 (1975); O. GINGERICH, Kepler, Johannes, in DSB, vol. VII, 1976, pp. 289-312; G. SIMON, Kepler astronome astrologue, Gallimard, Paris 1979; S. WOLLGAST, Johannes Kepler, Urania Verlag, Leipzig 1980; J. SCHMIDT, Johann Kepler. Sein Leben in Bildern und eigenen Berichten, Trauner, Linz 1986; H. VON GÜNTHER, H. GRÖSSING (a cura di), Der Weg der Naturwissenschaft von Johannes von Gmunden zu Johannes Kepler, Österreichische Akademie der Wissenschaften, Wien 1988; M.M. ILLMER, Die göttliche Mathematik Johannes Kepler. Zur ontologischen Grundlegung des naturwissenschaftlichen Weltbildes, EOS Verlag, St. Ottilien 1991; O. GINGERICH, The Eye of Heaven. Ptolemy, Copernicus, Kepler, The American Institute of Physics, New York 1993; E. GRIFFITHS, Kepler. The Biography, Pelham, London 1994; J. KOZHAMTHADAM, The discovery of Kepler's Laws. A study in the interaction among empirical science, philosophy, and religion, Univ. of Notre Dame Press, Notre Dame (IN) 1994; B. STEPHENSON, The Music of the Heavens. Kepler's Harmonic Astronomy, Princeton Univ. Press, Princeton (NJ) 1994; M. CASPAR, Johannes Kepler, Verlag für Geschichte der Naturwissenschaften und der Technik, Stuttgart 1995; J. KOZHAMTHADAM, Kepler and the Sacredness of Natural Science, "Philosophy in Science" 7 (1997), pp. 9-36; C. METHUEN, Kepler's Tübingen. Stimulus to a Theological Mathematics, Ashgate, Great Yarmouth (UK) 1998.