Darwin, Charles Robert (1809 - 1882)

Anno di redazione
2002

I. L'ambiente socio-culturale del giovane Darwin: gli interessi naturalistici ed il viaggio a bordo del Beagle - II. Le radici intellettuali, la metodologia e le convinzioni personali alla base della teoria darwiniana - III. La pubblicazione de L'origine delle specie (1859), L'origine dell'uomo (1871) e le altre opere - IV. La selezione naturale e la teoria evoluzionista di Darwin: precursori, elementi caratteristici e rilievi critici - V. La critica del darwinismo classico alla luce di alcuni studi recenti - VI. Il darwinismo sociale: dalla sociobiologia all'etica evoluzionista - VII. Considerazioni conclusive.

La vita di Charles Darwin assume per molti versi il ruolo di simbolo del secolo XIX, in cui visse e di cui egli sintetizzò, forse meglio di altri grandi studiosi, alcuni passaggi fondamentali, segnati da cambiamenti radicali nel modo di concepire la natura, l'uomo e più in generale la vita nei suoi molteplici aspetti, non solo materiali. Testi come L'origine delle specie o L'origine dell'uomo e la scelta sessuale costituiscono un coagulo di idee, paradigmi e concezioni del mondo sotto molti aspetti dirompenti: questi lavori di Darwin portarono alla luce, cercando di dargli sistematicità e coerenza, un fiume carsico che già da tempo percorreva la cultura occidentale provocando l'erosione di alcuni presupposti millenari, che all'epoca dello studioso inglese venivano, per lo meno formalmente, ancora accettati.

I. L'ambiente socio-culturale del giovane Darwin: gli interessi naturalistici ed il viaggio a bordo del Beagle

Charles Darwin nacque il 12 febbraio 1809 nella località The Mount, a Shrewsbury, in Inghilterra, vicino al confine con il Galles. Il padre, Robert, era medico, figlio del famoso Erasmus Darwin (1731-1802), medico, libero pensatore di orientamento radicale e deista, teorico di un evoluzionismo che prefigurava quello di stampo lamarckiano. La madre di Charles morì abbastanza giovane, quando egli aveva 8 anni: forse per questo motivo la figura materna appare singolarmente assente nella vita del giovane Darwin, come lui stesso ammetterà molti anni dopo. Quintogenito di sei figli ricevette un'educazione autoritaria e repressiva specie dal padre, e poi anche dalla sorella Carolina, più grande di lui, che, alla morte della madre, ne fece le veci. Visse, nel complesso, immerso nell'ambiente di una tipica famiglia della borghesia inglese ottocentesca, agiata, perbenista, formalmente protestante (i suoi genitori aderivano al culto unitario, secondo il quale egli venne battezzato), ma segnata da una vena di agnosticismo non del tutto dissimulata. Fin da giovane dimostrò un amore precoce per il collezionismo e per la natura. Nel giardino di casa viveva attorniato da piante e da animali domestici di varie specie, secondo uno stile per altro comune nella società benestante inglese di quell'epoca, affascinata da una certa idea della natura, "distillata" e sterilizzata, sotto certi aspetti assai artificiale. Il piccolo Charles frequentò scuole abbastanza esclusive, talora caratterizzate da un forte rigorismo, di cui mantenne un ricordo assai negativo. In quegli anni si rese conto di non avere alcuna predisposizione per le materie umanistiche, ma anche di essere assai poco portato per la carriera di medico, verso la quale voleva già indirizzarlo suo padre. A 16 anni Charles andò a studiare a Edimburgo, dove avrebbe dovuto seguire gli insegnamenti di medicina, verso i quali, invece, manifestava una notevole avversione. Possedeva già una certa familiarità con l'idea generale di un processo di trasformazione degli esseri viventi, che gli era derivata dalla lettura dell'opera di suo nonno, Zoonomia o le leggi della vita organica (1794-1796), definita da Coleridge «la teologia dell'orang-utan capostipite della razza umana, in sostituzione al primo capitolo del Genesi». Questo tipo di conoscenze indussero lo zoologo evoluzionista Robert Grant a esporgli le opinioni trasformiste di Lamarck. Dopo due anni egli riuscì a convincere il padre e poté lasciare Edimburgo, ma quel periodo gli permise, comunque, di conoscere alcuni studiosi che lo stimolarono ancor più ad approfondire tematiche naturalistiche e geologiche, settori verso i quali si sentiva portato.

Abbandonata l'idea di farne un medico, il padre decise che il giovane Charles dovesse intraprendere la vita religiosa; così lo iscrisse al Christ's College di Cambridge perché conseguisse la laurea in teologia. Ne uscì dopo tre anni di studi, durante i quali ottenne risultati mediocri, con un diploma di baccelliere in lettere. Se quel periodo lo visse come una ulteriore "perdita di tempo", va anche evidenziato, però, che ebbe l'occasione di leggere alcuni libri che lo colpirono molto, come Personal Narrative di F.W. von Humboldt e Introduction to the Study of Natural Philosophy di Sir John Herschel, spingendolo ancor più verso gli studi naturalistici. Inoltre, a Cambridge Darwin si legò a personaggi quali John Stevens Henslow, docente di botanica, e Adam Sedgwick, docente di geologia, ambedue ecclesiastici. Il primo, pur non condividendone i contenuti, gli suggerirà la lettura dei Principi di Geologia di Charles Lyell (1797-1875), un autore in cui sono evidenti gli echi filosofici del monismo materialistico. Lyell, che in parte era stato già preceduto nel Settecento dal geologo scozzese James Hutton (1726-1797), distrusse la teoria geologica dei cataclismi successivi, il "catastrofismo", tanto cara alla teologia naturale protestante di impronta letteralistico-biblista, sostituendola con l'"attualismo", secondo il quale i processi geologici in azione durante la storia della Terra sono stati estremamente lenti e dello stesso tipo di quelli ancor oggi osservabili, con esclusione, quindi, di qualsiasi sconvolgimento improvviso o di interventi di ordine soprannaturale (ad esempio il diluvio della Genesi, in cui credevano molti geologi). La concezione di Lyell implicava, inoltre, che la storia del nostro pianeta si era svolta lungo enormi durate di tempo, ben maggiori dei seimila anni postulati dai seguaci della interpretazione letterale dell'AT. Tali idee ebbero una notevole importanza nell'influenzare alcuni aspetti della teoria evoluzionista che Darwin maturerà in seguito. Per meglio inquadrare le influenze sulla formazione scientifico-filosofica del giovane Darwin sarà anche utile ricordare la forte impronta ricevuta da Sedgwick, seguace di quella visione materialista della natura sostenuta da Francis Bacon, impronta a cui farà riferimento lo stesso Darwin parlando del metodo di ricerca da lui seguito.

Uscito da Cambridge, il dott. Robert Darwin riteneva che suo figlio fosse ormai pronto a iniziare la carriera ecclesiastica. Ma non era certo questa l'ambizione del giovane dilettante di studi naturalistici. A venirgli in aiuto fu un evento del tutto inaspettato. Il reverendo Henslow, che era divenuto suo protettore e che non credeva assolutamente alla vocazione sacerdotale di Charles, lo informò che stavano cercando dei naturalisti per le missioni idrografiche della Marina britannica. In pratica veniva offerta a Darwin l'opportunità di viaggiare intorno al mondo, per un periodo di 5 anni, a bordo di un brigantino, chiamato H.M.S. Beagle. Il padre di Charles naturalmente si oppose subito a questa possibilità, che vanificava i suoi progetti sul figlio, ma il cognato Josiah Wedgwood, che conosceva la passione naturalistica del giovane, riuscì a convincerlo che si trattava di un'opportunità eccellente da non trascurare. La nave salpò il 27 dicembre 1831 da Plymouth. Dopo aver fatto scalo alle Canarie e all'isola di Santiago, nell'arcipelago di Capo Verde, il Beagle arrivò in Brasile, da dove iniziò il lungo viaggio di circumnavigazione dell'America del Sud, toccando molti porti. In occasione di queste fermate Darwin poteva avventurarsi verso l'interno del continente, iniziando a raccogliere una grande quantità di materiali: minerali e animali, viventi e fossili. Nel settembre del 1835 il Beagle raggiunse le isole Galàpagos, dove Darwin poté osservare le varie popolazioni di fringuelli, differenziate nelle diverse isole: tale esperienza è stata ritenuta fondamentale per la genesi delle sue idee trasformiste delle specie animali e vegetali. Infatti, secondo quanto affermato dai suoi biografi più "ortodossi", si pensa che Darwin si fosse imbarcato credendo ancora nel «fissismo», cioè nella fissità delle specie, tutte frutto di singoli atti creativi di Dio, secondo la concezione creazionista allora diffusa, formalizzata scientificamente nel Settecento da Linneo e seguita dai suoi maestri Henslow e Sedgwick. Ma, sempre secondo l'ipotesi "ufficiale", si crede che durante il viaggio Darwin, solo sulla scorta delle sue osservazioni, avesse lentamente cambiato idea, sviluppando un certo criticismo verso il racconto biblico. Successivamente la nave toccò Thaiti, la Nuova Zelanda e l'Australia, dove Darwin previde, senza dimostrarsi un buon profeta, la prossima estinzione di tutta la fauna primitiva. Infine, dopo aver doppiato Cape Town, in Africa del Sud, raggiunse di nuovo il Brasile, attraccando a Bahia, e poi giunse in Inghilterra, nel porto di Falmouth. Era il 2 ottobre 1836.

Durante ogni sosta Darwin aveva organizzato spedizioni naturalistiche, raccogliendo un'enorme quantità di campioni, sebbene con criteri più vicini a quelli di un collezionista dilettante che di uno scienziato. La sua preparazione scientifica continuava ad essere piuttosto modesta: in geologia dimostrava di non possedere idee chiare circa la stratigrafia e la tettonica, mentre in biologia si rivelava privo di una buona conoscenza dell'anatomia. Inoltre, mancava di accuratezza e sistematicità. Un caso esemplare è quello dei fringuelli delle Galàpagos: infatti non si preoccupò neppure di indicare l'esatto luogo di provenienza degli esemplari collezionati. I suoi appunti erano ridondanti e poco utili per una ricerca scientifica rigorosa, coerente e sequenziale: egli tentava di sopperire una certa mancanza di professionalità (e quindi di qualità), con la quantità dei dati raccolti. Le descrizioni, spesso poco precise, erano sovente unite ad interpretazioni e speculazioni del tutto personali, frutto della sua immaginazione unidirezionale: le ricerche del giovane Darwin, in definitiva, mancavano di un metodo di indagine degno di tale nome. Durante il suo lungo viaggio egli aveva visitato le terre più diverse e aveva potuto conoscere i popoli più disparati, anche molto primitivi, come le tribù della Terra del Fuoco e quelle dei Maori della Nuova Zelanda, popolazioni verso le quali non mancano di trasparire, pure nei suoi libri più famosi, giudizi poco lusinghieri.

II. Le radici intellettuali, la metodologia e le convinzioni personali alla base della teoria darwiniana

Tornato in patria, la vita di Darwin iniziò a scorrere nella più assoluta uniformità, caratterizzata da una florida situazione economica che gli consentì di potersi dedicare totalmente ai suoi studi, senza mai dover lavorare per mantenersi. In un primo tempo si stabilì a Cambridge, dove vivevano Henslow e Sedgwick, poi nel 1837 andò ad abitare a Londra, poco distante dal fratello maggiore Erasmus. Qui mise in ordine le sue collezioni naturalistiche e scriverà il Viaggio di un naturalista intorno al mondo, dedicato appunto all'esperienza sul Beagle (Journal of researches into the geology and natural history of the various countries visted by H.M.S. Beagle, 1839; 18452A Naturalist's Voyage round the World, 18603prima tr. it. Viaggio di un naturalista intorno al mondo, Torino 1872). La prima edizione del 1839 ebbe successo tra i colleghi, ma scarsa diffusione tra il pubblico; la seconda del 1845, con dedica a Lyell, venderà in poco tempo 10.000 copie, incontrando il gusto di un vasto numero di lettori inglesi appassionati ai racconti di viaggi naturalistici. In questo libro si trovano pochi riferimenti al problema del divenire dei viventi, a dimostrazione che Darwin non aveva ancora una chiara idea di come organizzare concettualmente il problema. La concezione trasformistica probabilmente non si era ancora imposta in modo totalizzante nella sua mente: essa rimaneva un'importante ipotesi da valutare, che - va notato - veniva giudicata improbabile dallo stesso Lyell, da lui conosciuto di persona proprio nel 1837. D'altra parte va rimarcato che le osservazioni naturalistiche rilevate da Darwin non erano del tutto originali nella loro fenomenologia generale, già nota ad altri studiosi, e quindi potevano essere lette anche in una cornice che esulava dall'evoluzionismo radicale a cui poi egli approdò. Fu questo un periodo di dubbi e riflessioni, di tormenti e autointerrogazioni, come emergerà dalla lettura di alcuni taccuini scritti negli anni 1836-1844, pubblicati solo alcuni anni orsono (Notebooks: Charles Darwin's Notebooks, 1836-1844, Cambridge 1987). Dalla loro analisi emerge che Darwin stava rapidamente abbandonando ogni idea fissista e creazionista riguardo alle specie per abbracciare un trasformismo ispirato ad un materialismo filosofico.

È probabile che una certa influenza in questa direzione la esercitò l'ornitologo londinese John Gould (1804-1881), secondo cui non pochi esemplari di uccelli raccolti da Darwin in isole differenti dell'arcipelago delle Galapagos, non erano semplici sottospecie locali di specie del continente sudamericano, ma appartenevano in realtà a specie distinte. Dallo studio dei taccuini emerge, però, la sensazione netta che le cosiddette "prove" scientifiche siano state un fattore aggiuntivo, non fondamentale, mentre abbiano giocato un ruolo centrale alcuni aspetti del tutto soggettivi, anche di ordine emozionale, in cui convergevano elementi del suo vissuto personale e influenze extrascientifiche di origine ambientale. A questo proposito va rilevato il fatto che Darwin era avido di letture di carattere economico e sociologico. Ancor più dell'influenza dei naturalisti e dei geologi del suo tempo, egli subì quella di autori come il demografo e sociologo ecclesiastico Robert Malthus (1766-1834), l'economista liberista Adam Smith (1723-1790) e lo statistico Lambert-Adolphe Quételet (1796-1874), oltre che quella dei filosofi materialisti Herbert Spencer (1820-1903) e Auguste Comte (1798-1857), autori ai quali riserverà, quasi sempre, riconoscimenti espliciti nelle sue opere, come nel caso di Malthus, di cui lesse nel 1838 il suo Saggio sul principio di popolazione (1798). Sulla base della osservazione che le popolazioni aumentano in progressione geometrica, mentre le disponibilità alimentari si accrescono solo in progressione aritmetica, Malthus affermava che, se non si fosse intervenuto con mezzi artificiali, le popolazioni sarebbero andate inevitabilmente incontro a gravissime crisi alimentari periodiche, che ne avrebbero determinato la decimazione per fame e malattie. Darwin trasse da queste riflessioni l'idea del ruolo importantissimo della "selezione naturale", che successivamente coniugò con la definizione spenceriana della "sopravvivenza del più adatto".

Egli aveva ormai maturato l'idea che le specie non sono immutabili, contrariamente a quanto affermato dai fissisti; ma nell'affermarlo, come scrisse in una lettera a Hooker l'11 gennaio del 1844, aveva quasi l'impressione di «confessare di aver commesso un assassinio», sebbene quattro anni più tardi, in una nuova lettera allo stesso Hooker (10 maggio 1848), non esiterà a paragonare l'autorevolezza della sua teoria delle specie «a quella del vangelo» (sic!). La concezione darwiniana dell'evoluzione costituiva l'estensione al campo biologico del principio dellaissez-faire economico di Smith. Tale principio postulava che un'economia ordinata ed assicuratrice del massimo benessere per tutti poteva essere realizzata solo lasciando che gli individui fossero liberi di competere l'uno con l'altro, seguendo unicamente la propria utilità, senza interventi di autorità super partes esterne al campo dell'economia, le cui leggi divenivano totalizzanti e invadenti per l'intera società. Da questa lotta sarebbero derivati "spontaneamente" ordine e armonia sociale, perché eliminati gli inefficienti e gli incapaci e favoriti i migliori e più dotati. Come sottolineato da Elders (1984), sotto certi aspetti anche Comte fu tra gli ispiratori di Darwin, specie per quel che riguarda la contrapposizione fra l'idea della vera scienza e la teologia. Darwin andò così maturando il progetto di una biologia positivista, libera da interferenze religiose. Ciononostante, egli non ammise mai il suo debito verso Comte, al punto da eliminare dal suo diario alcune pagine riferite a questo filosofo.

Parallelamente alla trasformazione della sua concezione della natura, Darwin stava abbandonando la sua fede religiosa, che, per altro, non aveva certo solide basi, come si evince dai suoi scritti, ma era abbastanza formale e piuttosto superficiale. Se si esclude la moglie, nel suo ambiente era circondato da scettici. Credente, fiducioso del valore letterale della Bibbia prima di imbarcarsi sul Beagle, già durante il viaggio aveva cominciato a esternare alcuni dubbi, che dopo il rientro in patria lo portarono ad abbracciare un vago teismo, poi sfociato in un franco e dichiarato agnosticismo che lo accompagnò fino al termine della sua vita, ritenendo del tutto inconciliabili, come testimoniato dalla sua Autobiografia, evoluzionismo e fede cristiana nella creazione. Dall'analisi dei suoi Notebooks si notano alcune contraddizioni in merito al modo di procedere nelle ricerche: se da un lato si dichiara fedele seguace del metodo baconiano, preoccupato solo di raccogliere dati oggettivi per valutarli poi in modo impersonale, dall'altro egli opera alcune "letture" dei dati che dipendevano dalle convinzioni filosofiche e sociologiche che andavano ormai maturando nella sua mente. Va anche segnalato il suo mancato rapporto con Gregorio Mendel (1822-1884). Darwin ignorava, come i suoi contemporanei, i veri meccanismi dell'ereditarietà, ritenendo che i caratteri parentali si mischiassero e fondessero nella discendenza secondo regole sconosciute, al pari di quanto fanno due liquidi dal colore differente. In realtà, come stava mostrando Mendel, i caratteri ereditari andavano considerati delle entità "discrete", con elementi dominanti e recessivi. Il monaco agostiniano inviò a Darwin nel 1866 una sua memoria, contenente illuminanti informazioni sui processi ereditari, dal titolo Saggi sugli ibridi vegetali (1865). Ma lo studioso inglese, incredibilmente, non lesse mai questo scritto e per decenni cercò un meccanismo che potesse spiegare in termini non lamarckiani, che vedeva venati di panpsichismo (la spinta interna degli organismi a evolversi), il processo di mutamento delle specie. L'approccio statistico, la concezione competizionista, l'aspetto creativo inerente al successo riproduttivo, giunsero a Darwin da settori diversi dalle scienze naturali, spesso in linea con le visioni filosofiche, non di rado ideologizzate, cui egli aveva rivolto il suo interesse.

Queste erano quindi le idee su cui stava lavorando Darwin nel periodo successivo al viaggio sul Beagle. Intanto, nel 1838 era stato nominato segretario della Geological Society, carica che tenne fino al 1841, e nel 1839 venne eletto membro della Royal Society. Nello stesso anno si sposò con la cugina Emma Wedgwood, che gli darà dieci figli, alcuni dei quali moriranno in tenera età. Infine, nel 1842 si trasferì con la famiglia in campagna, in un esilio volontario, a Down House nel Kent, dove rimarrà fino alla morte. Da questa sede, ove visse in condizioni di stress nervoso e di forti crisi di ansia, si dedicò alla pubblicazione dei suoi libri intrattenendo una fittissima, quasi terapeutica, corrispondenza epistolare. Proprio mediante tale corrispondenza, rivolgendo «senza alcun ritegno» le richieste più disparate alle persone più diverse (cfr. S.J. Gould, prefazione a C. Darwin, Lettere 1825-1859, Milano 1999, p. XXI), egli cercò di ricevere le informazioni scientifiche che gli era impossibile ottenere direttamente, avendo ormai da tempo sospeso i suoi viaggi naturalistici. Fra i destinatari delle sue lettere troviamo nomi di noti studiosi come Thomas Huxley, Asa Gray, Charles Lyell, James Dana e molti altri, ma anche gente comune, come il suo ex domestico a bordo del Beagle, Syms Covington, al quale chiede di inviargli dei crostacei cirripedi, su cui stava conducendo studi approfonditi. Buona parte di queste informazioni, però, avevano scarsa attendibilità, trattandosi inevitabilmente di reperti di "seconda mano", inverificabili da parte sua.

III. La pubblicazione de L'origine delle specie (1859), L'origine dell'uomo (1871) e le altre opere

A partire da quest'epoca, la vita di Darwin si identifica con la stesura e la pubblicazione dei suoi libri. Da uno sviluppo del Viaggio di un naturalista intorno al mondo nascerà una nuova opera in 5 volumi, La zoologia del viaggio del Beagle (1840-1843), frutto del lavoro di numerosi naturalisti i quali, sotto la supervisione di Darwin, analizzarono il materiale da lui raccolto, costituito da esemplari di fossili e di vertebrati viventi nelle aree visitate. In particolare, gli uccelli vennero studiati dall'ornitologo Gould, di cui abbiamo già evidenziato l'influenza su Darwin. Lo stesso anno in cui si ritirò in campagna apparve il lavoro sulle scogliere coralline (The structure and distribution of coral reefs, in "Geological Observation" 1842; 18742; prima tr. it. Sulla struttura e distribuzione dei banchi di corallo e delle isole madreporiche, Torino 1885). La teoria delle scogliere coralline venne elaborata da Darwin in un quadro uniformitariano e lyelliano: è la sua teoria geologica più famosa, oggi accettata solo in parte, che venne formulata in modo completamente deduttivo, quando era ancora sul Beagle lungo le coste occidentali del Sud America, prima ancora di aver visto una scogliera corallina. Nei primi anni Cinquanta escono i suoi volumi sui crostacei cirripedi (Monograph on Cirripedia, 1851-1854), frutto di un lungo studio che lo stremò. Tre sono gli aspetti importanti che Darwin avrebbe elaborato durante questo lavoro: l'esistenza di un rapporto tra embriologia ed evoluzione; la validità del modello arboreo sistematico-genealogico per classificare gli animali; l'esistenza di una enorme variabilità in natura, non prodotta, a suo parere, dall'ambiente fisico, ma da cause imprecisate interne all'organismo.

Nel 1858 Darwin si trovò davanti a un grave dilemma. Il naturalista Alfred Russel Wallace (1823-1913) gli aveva inviato dalla Malesia un lavoro scientifico sull'evoluzione degli organismi viventi che sosteneva alcune tesi identiche alle sue circa i meccanismi evolutivi. Wallace era arrivato agli stessi risultati di Darwin senza aver avuto mai contatti scientifici con lui. Di fatto, la sovrapposizione delle loro teorie fu solo parziale: successivamente Wallace aderì a una forma di evoluzionismo dalle forti tinte spiritualiste, del tutto estranea alla mentalità di Darwin. Per evitare di perdere la priorità in un campo in cui stava lavorando da molti anni, Darwin dovette rompere gli indugi e rendere pubblico il suo pensiero sui meccanismi evolutivi, centrati sulla selezione naturale, cosa che non aveva ancora voluto fare per insicurezza e per il timore di suscitare reazioni violente, dato il sottofondo nettamente anticreazionista della sua teoria. Così, anche su consiglio di alcuni amici, fu deciso che i due naturalisti, Darwin e Wallace, avrebbero presentato congiuntamente i risultati delle loro ricerche alla Società Linneana il 1° luglio 1858, ove Darwin lesse una relazione, intitolata On the tendency of species to form varieties. Questo fatto lo spinse a scrivere rapidamente un volume che sintetizzasse le sue ricerche e così nel 1859 venne pubblicato il suo testo più famoso On the origin of species by means of natural selection, che ebbe sei edizioni successive, con numerose modifiche apportate dall'autore (la prima tr. it. sarà del 1875). L'evoluzione dei viventi (Darwin in realtà non usava questo termine, preferendo parlare di «discendenza con modificazioni») veniva spiegata facendo riferimento alla presenza di una diffusa variabilità degli organismi su cui avrebbe agito il "potere creatore" della selezione naturale, dando vita a nuove specie. L'autore, preoccupato di non suscitare reazioni che avrebbero potuto danneggiare la sua immagine e la diffusione del libro, evitò accuratamente di trattare argomenti scabrosi quali l'origine dell'uomo o la validità del racconto biblico della GenesiL'origine delle specie ebbe un successo di pubblico immediato, ma provocò furiosi dibattiti, nonostante le cautele dell'autore. Le tesi di Darwin furono accettate non solo da un certo numero di studiosi "laici", con competenze in campo naturalistico o geologico, come Lyell, Hooker, Huxley, o filosofico, come Spencer, ma anche da esponenti del mondo religioso, come il canonico Tristam, il botanico americano Asa Gray, il sacerdote e romanziere Charles Kingsley. Per converso, troviamo molti naturalisti dell'epoca, spesso di grande rilievo, come Agassiz, von Baer, Pictet, Sedgwick, Bernard, Pasteur e Virchiow, del tutto contrari o indifferenti alle tesi darwiniane, oltre, naturalmente, alla maggioranza del mondo religioso che gli era ostile (per una visione di insieme del dibattito con selezione di testi, cfr. McIver, 1992; Hayward, 1998).

Nel 1862 appare un testo sulla fecondazione delle orchidee da parte degli insetti, On the various contrivances by which British and foreign orchids are fertilised by insects (prima tr. it. I diversi apparecchi per mezzo dei quali le Orchidee vengono fecondate dagli insetti, Torino 1883). In questo tipo di studi specifici Darwin cercava di ottenere dati sui fenomeni di variabilità che potessero supportare la sua teoria. Seguendo lo stesso filone Darwin pubblicherà nel 1868 un altro suo studio sulla variabilità degli organismi viventi, The variation of animals and plants under domestication (prima tr. it. Variazioni degli animali e delle piante allo stato domestico, Torino 1876), ove affronta il problema dell'ereditarietà, dimostrando di condividere il concetto di eredità mista, cioè frutto della mescolanza nella prole dei caratteri dei genitori. Espone, tra l'altro, la sua specifica teoria in proposito, detta della «pangenesi», secondo la quale ogni cellula emetterebbe minuscole particelle, o gemmule, che alla fine raggiungono gli organi riproduttivi. Da questi, tali particelle passerebbero nella progenie dove riproducono le caratteristiche dei genitori formando cellule simili a quelle da cui derivano. Questa teoria gli consentiva di spiegare l'ereditarietà dei caratteri acquisiti, in cui credeva: le gemmule avrebbero registrato le variazioni degli organi dovute all'uso o al non uso e le avrebbero poi trasmesse alla prole. Si trattava di una teoria meccanicista, piuttosto semplicistica, destinata ad un fallimento scientifico che Darwin avrebbe potuto evitare se avesse preso in considerazione i lavori ricevuti da Mendel.

Al tema delle origini dell'uomo, deliberatamente evitato ne Le origini delle specie, Darwin dedicò un'opera successiva The descent of man and Selection in Relation to Sex (1871), che provocò accesi dibattiti in quanto vi si sosteneva la tesi delle origini della specie umana dai Primati (prima tr. it. L'origine dell'uomo e la scelta in rapporto col sesso, Torino 1871). Per supportare la sua idea di una continuità uomo-primati inferiori lo studioso inglese analizzò le espressioni delle emozioni sia nell'uomo, sia in altri mammiferi, più o meno vicini filogeneticamente all'uomo, rilevando - a suo parere - una serie di analogie spiegabili solo alla luce della sua teoria evolutiva (The expression of the emotions in man and animals, 1872). Per l'autore le nostre espressioni di stati emotivi, come gioia, paura, disgusto, sarebbero il prodotto di un processo di derivazione da forme animali inferiori, al pari della nostra struttura anatomica e fisiologica. Come hanno notato vari critici, il linguaggio adottato nel libro è antropomorfico e le argomentazioni sono spesso aneddotiche e poco scientifiche. Philip Prodger (1998) ha recentemente dimostrato che una parte delle foto utilizzate da Darwin a sostegno della sua tesi erano state truccate, su esplicita richiesta dello studioso, dal fotografo Oscar Gustave Rejlander. Mancando immagini che raffigurassero espressioni umane spontanee in vari stati psicologici, Rejlander ricorse a vari stratagemmi per accontentare l'autore: ritoccò delle foto, spacciò disegni per fotografie, usò espressioni simulate. Darwin utilizzò anche immagini di volti stimolati con impulsi elettrici per ottenere smorfie e deformazioni che, prima di essere pubblicate, vennero opportunamente ritoccate per nascondere i fili elettrici. Seguirono poi altri lavori, principalmente di botanica, e uno studio sull'azione dei vermi nella formazione dell'humus vegetale, col quale si intendeva dimostrare che l'accumulo lento e continuo di azioni impercettibili poteva produrre grandi effetti. Si tratta di opere nelle quali cercò sempre di dimostrare, con casi specifici, la portata innovativa e creatrice della selezione naturale. Fra queste, quasi tutte tradotte all'epoca, a distanza di pochi anni, anche in italiano, ricordiamo Le piante insettivore (1875), Gli effetti della fecondazione incrociata e propria nel regno vegetale (1876), Le diverse forme dei fiori in piante della stessa specie (1877), Il potere di movimento delle piante (1880), La formazione della terra vegetale per l'azione dei lombrichi (1882). A parte ricordiamo la biografia dedicata al nonno Erasmus (Life of Erasmus Darwin, 1879), un formale atto di omaggio all'illustre antenato col quale ebbe sempre una consonanza di idee e di concezioni del mondo. Charles Darwin morì a 73 anni, il 19 aprile 1882, per infarto. Venne sepolto accanto a Isaac Newton nell'Abbazia di Westminster.

IV. La selezione naturale e la teoria evoluzionista di Darwin: precursori, elementi caratteristici e rilievi critici

Nonostante Darwin abbia generalmente cercato di negare l'esistenza di precursori delle sue idee, esisteva in realtà un ampio e profondo retroterra che già dal Settecento aveva preparato l'affermarsi di un evoluzionismo meccanicista (cfr. Ungerer, 1972, pp. 100-102; Mayr, 1990, pp. 247-338; Omodeo, 1996) Sembra che, nei tempi moderni, il primo assertore di una delle premesse concettuali all'idea di trasformismo delle specie fu il francese Bernard Le Bovier de Fontenelle (1657-1751) con il suo Entretiens sur la pluralité des mondes (1686), dove affermava che le condizioni ambientali determinano la costituzione fisica e il comportamento dei viventi. Dopo di lui va ricordato un altro francese, Benôit de Maillet (1659-1738) con la sua opera Telliamed, dove, per bocca di un immaginario filosofo indiano, sosteneva che la collocazione della Terra nel sistema solare è mutata nel corso del tempo. Nel passato, quando si trovava in una posizione più lontana dal Sole, era coperta dal mare e i suoi abitanti erano esseri acquatici. Poi, al diminuire la sua distanza dal Sole, la Terra si è in parte disseccata e molti dei suoi abitanti si sono trasformati in esseri diversi, capaci di vivere fuori dall'acqua: tra questi l'uomo, che quindi deriverebbe per trasformazione da organismi marini. In tali concezioni manca, però, l'idea, tipica degli evoluzionisti, della comune origine di tutti i viventi e delle profonde trasformazioni subite dagli organismi nelle epoche passate.

Pierre-Louis Moreau de Maupertuis (1698-1759) si contraddistinse invece per le sue analisi sulla riproduzione degli animali e sulla trasmissione dei caratteri ereditari, inserita in una cornice teorica di tipo casualista, con richiami al concetto di selezione intesa come sopravvivenza differenziale di individui variamente dotati, idea ripresa da Lucrezio e poi da Empedocle. Per de Maupertuis, si passa da una specie vivente all'altra, "attraverso gradi impercettibili": la natura non fa salti, ma è un continuum. Nel suo De Universali naturae systemata l'autore enuncia l'ipotesi che la molteplicità delle specie oggi viventi derivi da una coppia iniziale, attraverso una serie di mutamenti dovuti a variazioni della trasmissione dei caratteri ereditari nei discendenti. Julin Offroy de La Mettrie (1709-1751), pensatore spiccatamente materialista, afferma ne L'Homme machine e L'Homme plante (ambedue del 1748) che fra l'uomo e gli animali c'è solo una differenza quantitativa e non qualitativa (anche sul piano delle capacità intellettuali); nella sua opera Les animaux plus que machine (1750) egli ribadisce la parentela tra tutti gli animali, e quella tra questi e l'uomo. Con la sua Histoire naturelle (1749), George-Louis-Leclerc Buffon (1707-1788) dilata la storia della Terra ben oltre i limiti che si ritenevano allora trasmessi dalla Bibbia, iniziando così un processo di storicizzazione delle scienze naturali che costituì un'importante premessa per l'affermarsi delle teorie evoluzioniste, per le quali il lungo tempo a disposizione è una dimensione essenziale. Denis Diderot (1713-1784), con la sua opera satirica Lettera sui ciechi (1749), si mostrerà scettico circa la creazione divina del mondo e della vita. Nei Pensieri sull'interpretazione della natura (1753) egli amplia ancora più di Buffon l'età della Terra, portandola fino a milioni di anni, dipingendo un quadro protoevoluzionistico degli esseri viventi, i cui caratteri sempre più complessi ed elevati vengono visti come il frutto di un lungo processo, puramente immanente, tuttora in corso. Nella sua ultima opera Il sogno di d'Alembert (1769, 1782), riferendosi al concetto di ereditarietà dei caratteri acquisiti, Diderot farà dire a uno dei personaggi: «Gli organi producono i bisogni e i bisogni producono gli organi». Va qui ricordato anche Paul Henri Dietrich d'Holbach con il suo Système de la nature (1770), ove si articola in modo più esplicito e approfondito l'interdipendenza organismo-ambiente, per cui se cambia il secondo dovrà farlo anche il primo, per adeguarsi alle nuove condizioni. J. Delisle de Sales suggerì, da parte sua, che l'uomo era derivato da esseri simili all'orang-utan. Anche un abate come Étienne de Condillac (1715-1800) sosteneva che tra uomo e animali, sotto il profilo delle capacità intellettuali, vi era solo una graduale transizione quantitativa. In definitiva, con la storicizzazione della natura e l'idea dell'universale parentela di tutti i viventi, la lunga catena dell'essere biologico non è più vista come il frutto di un disegno "statico" del Creatore, ma come una realtà mutevole e dotata di forze proprie.

Darwin non parlò quasi mai dei suoi precursori, amando piuttosto apparire di fronte al grande pubblico come uno studioso dalle idee naturalistiche originali. Solo nella terza edizione deL'origine delle specie (1861) egli offre un succinto resoconto degli studiosi che lo avevano preceduto, tralasciando però di citare Edward Blyth (1810-1873), attento analista dei meccanismi della selezione naturale (cfr. tr. it. Roma 1989, pp. 33-40). Ricorda però la «legge dello sviluppo progressivo» formulata da G.B. Lamarck (1744-1829), sviluppo determinato da una spinta "interna" agli organismi e dal coinvolgimento di tre forze evolutive: l'azione delle condizioni fisiche di vita, l'incrocio con forme già esistenti e lo sviluppo o la regressione degli organi dovuti al loro corrispondente utilizzo, che si riteneva oggetto di trasmissione ereditaria. Darwin menzionerà poi studiosi, più o meno noti, come E.G. Saint-Hilaire; W.C. Wells, che enunciò il principio della selezione naturale applicandola però solo all'uomo; il reverendo W. Herbert, che ammetteva variazioni fra le specie; R. Grant e M.J. D'Omalius d'Halloy, sostenitori della derivazione di una specie dall'altra attraverso mutamenti che sono perfezionamenti; P. Matthew, fautore di idee simili a quelle dello stesso Darwin; il geologo e naturalista Von Buch, che riteneva le specie frutto della trasformazione delle varietà; H. Schaaffhausen, sostenitore della teoria del progressivo sviluppo delle forme organiche; il reverendo Baden Powell, il quale, pur essendo un ecclesiastico, pensava che la comparsa di nuove specie fosse un fatto naturale, e vari altri. È evidente che il concetto di evoluzione non era una novità, né si può dire che vi fosse un rifiuto generalizzato ad accettare una certa variabilità delle specie, con effetti "trasformistici", perfino tra gli esponenti religiosi. Ciò che poteva creare forti tensioni riguardava semmai l'origine dell'uomo.

Le idee evoluzioniste di Darwin emergeranno in particolare nelle sue due opere più famose, già prima citate, L'Origine delle specie per selezione naturale o la preservazione delle razze privilegiate nella lotta per la vita e L'origine dell'uomo e la scelta sessuale. La teoria di Darwin si caratterizza per il particolare meccanismo con il quale egli intende spiegare il divenire dei viventi: a suo parere tutta la varietà che oggi osserviamo in natura sarebbe derivata da pochi individui originari, o forse anche da uno solo, e si sarebbe formata attraverso il lento accumulo di piccole variazioni, insorte in alcuni individui e poi trasmesse alla prole. Queste sarebbero di due tipi: variazioni indotte dall'uso o dal non uso di un organo o di una funzione (eredità dei caratteri acquisiti, che egli condivideva con Lamarck) e variazioni del tutto casuali, di origine ignota (quelle che oggi chiamiamo «mutazioni»). Incidentalmente notiamo che Darwin, parlando delle «variazioni», faceva riferimento alle leggi di Etienne Geoffroy Saint-Hilaire e di Johann Wolfgang Goethe sulla compensazione o equilibrio dello sviluppo degli organismi. Secondo tali leggi, se la natura "spende" da una parte, deve economizzare dall'altra: è una concezione olista dell'organismo, che in realtà mal si concilierebbe con il meccanicismo "atomistico" del naturalista inglese. Su questa variabilità, secondo Darwin, avrebbe avuto ampio spazio d'azione (e lo avrebbe tuttora) la «selezione naturale», che promuove gli organismi dotati delle variazioni più funzionali per una migliore sopravvivenza nella competizione per procurasi le risorse (ad es. cibo) e, più in generale, maggiormente adeguate di fronte alle sfide (mutevoli) dell'ambiente. L'azione della selezione naturale, cieca e meccanicista, è radicalmente opportunistica, e ha potuto ottenere i risultati che oggi osserviamo perché essa disponeva di un lunghissimo periodo di tempo.

Sotto il profilo scientifico, Michael Denton individua correttamente tre premesse fondamentali del darwinismo: a) gli organismi variano; b) queste variazioni possono essere ereditate; c) tutti gli organismi sono soggetti alla "lotta per la vita" nella quale le variazioni favorevoli vengono preservate dalla selezione naturale, che riveste un ruolo "creativo" (cfr. Denton, 1986, p. 42). Mentre le prime due sono osservazioni obiettive con fondamento sperimentale, la terza assume una forte carica filosofica e resta alquanto discutibile. Altri autori, come Linneo, Buffon e de Candolle, avevano già parlato di «lotta per la vita», anche a proposito delle piante, sebbene nel mondo animale questa veniva principalmente ristretta ai rapporti di predazione. Darwin, da parte sua, estese in modo parossistico questo concetto, suggestionato dalle idee di Malthus, focalizzandolo in particolare sul problema della disponibilità delle risorse. Le principali obiezioni alla terza "premessa fondamentale" del darwinismo classico sono due: il "competizionismo" esasperato trascura la cooperazione esistente in natura a vari livelli; inoltre, come osservato da moltissimi biologi e naturalisti, sia contemporanei a Darwin che a lui successivi, attribuire alla selezione naturale un "ruolo creativo" resta una pura ipotesi, mai dimostrata. Di quest'ultima, Darwin ne "dilata" il peso, proponendo un meccanismo "selezionista" per spiegare la nascita di nuove specie attraverso la fase di "varietà" (teoria della speciazione) per poi applicarlo anche alla comparsa dei gruppi tassonomici superiori alla specie, quali generi, famiglie, ordini, classi (teoria generale), attraverso un'estensione del tutto gratuita: in altre parole egli intende spiegare la macroevoluzione con i meccanismi della microevoluzione.

La centralità del concetto di «lotta per l'esistenza» per tutto il darwinismo viene riassunta dalle stesse parole del suo autore: «tra tutti i viventi ed in tutto il mondo, [essa] scaturisce necessariamente dalla loro elevata capacità di moltiplicarsi in ragione geometrica. È, questa, la dottrina di Malthus applicata all'intero regno animale e vegetale. Gli individui di ciascuna specie, che nascono, sono molto più numerosi di quanti ne possano sopravvivere e quindi la lotta per l'esistenza si ripete di frequente. Ne consegue che qualsiasi vivente, che sia variato sia pure di poco, ma in un senso a lui favorevole nell'ambito delle condizioni di vita, che a loro volta sono complesse ed alquanto variabili, avrà maggiori possibilità di sopravvivere e, quindi, sarà selezionato naturalmente. In virtù del possente principio dell'ereditarietà, ciascuna varietà, selezionata in via naturale, tenderà a perpetuare la sua nuova forma modificata» (L'Origine delle specie, tr. it. Roma 1989, p. 43). Frequente sarà l'utilizzo di metafore belliche, il riferimento ai concetti di «lotta» e di «distruzione» operanti in natura, all'idea di una «guerra» tra le varie specie animali ove «i vigorosi, i sani e i felici sopravvivono e si moltiplicano» potendo superare difficoltà quali l'approvvigionamento di cibo e le più dure variazioni climatiche (cfr.ibidem, pp. 90-98); sull'argomento, però, Darwin riconoscerà di dover fare ricorso ad esempi basati su casi immaginari (cfr. ibidem, p. 109). Due sono i caratteri precipui della selezione naturale: provocare quasi inevitabilmente «l'estinzione delle forme di vita meno perfette», per cui «se una specie non si modifica e perfeziona parallelamente ai concorrenti, ben presto sarà sterminata» (ibidem, p. 114), e indurre la «divergenza dei caratteri», ossia la loro differenziazione e specializzazione, modo attraverso il quale certi individui possono occupare nuovi ambienti, nuovi habitat liberi o non perfettamente occupati da altri viventi (cfr. ibidem, pp. 43, 124). La competizione più aspra avviene tra le specie più affini per abitudini, costituzione e struttura (cfr. ibidem, p. 126). In vari punti dell'opera Darwin insisterà sui meccanismi di variazione dovuti all'uso e al non uso degli organi e sull'ereditarietà dei caratteri acquisiti, ribadendo che egli ha «sempre considerato della massima importanza» gli «effetti dell'aumentato uso o del non uso delle parti» (ibidem, p. 202).

Al fine di avere un quadro completo delle sue idee, un elemento rilevante del pensiero di Darwin, sebbene scarsamente sottolineato, riguarda la posizione nominalistica da lui assunta di fronte al concetto di specie. Per lo studioso inglese il termine «specie» è una definizione arbitraria di utilità pratica, in quanto fa riferimento a gruppi di individui simili, ma la specie non si differenzia di molto dalla varietà, che è solo più fluttuante e meno distinta (cfr. ibidem, p. 78). Come osserva Ernst Mayr, il concetto di specie in Darwin cambiò considerevolmente negli anni tra il 1840 e il 1860: nei taccuini, scritti prima del 1840, risulta che egli concepiva le specie come conservate attraverso l'isolamento riproduttivo, poi cambiò idea. «Quando si va a consultare L'Origine del 1859 e si legge ciò che egli dice delle specie, non si può evitare di pensare di avere a che fare con un autore del tutto diverso» (Mayr, 1990, p. 213). In una lettera a Hooker del 24 dicembre 1856 Darwin afferma che la definizione delle specie da parte del naturalista equivale al «tentativo di definire l'indefinibile» (ibidem, p. 214). Sempre Mayr (cfr. pp. 208-216) segnala che alcuni commenti di Darwin ricordano le asserzioni di Lamarck secondo cui non esistono le specie, ma solo gli individui. Però Lamarck, alla fine della sua vita, riconobbe l'importanza reale delle specie in natura. Anche Buffon, in un primo tempo, aveva affermato che le specie erano puri nomi convenzionali, dato che la natura passa con «sfumature impercettibili da una specie a un'altra»: è l'idea di continuum, poi ripresa da Darwin. Successivamente Buffon si allontanò da queste posizioni estremiste e introdusse il criterio della fertilità della prole per decidere se due animali appartengono alla stessa specie. Mayr ritiene che il cambiamento delle valutazioni di Darwin sia stato dovuto all'influenza degli studiosi di botanica, che in questo campo erano in maggioranza nominalisti, e riconosce che il concetto assolutamente convenzionale di specie, difeso da Darwin, fu una posizione assunta forse inconsciamente perché favoriva l'idea di una evoluzione lenta e continua, molto più di quanto non avrebbe fatto la concezione classica, essenzialista e platonica, di Linneo o di Cuvier, e anche della definizione biologica basata sulla interfecondità, che è quella prevalente ai nostri giorni.

Secondo Darwin le varietà sarebbero specie incipienti: esse si formano come conseguenza inevitabile della lotta per la vita che favorisce qualsiasi variazione, anche lieve e di qualunque origine, purché risulti utile a un individuo nei suoi rapporti con gli altri viventi e con il mondo esterno, variazione che viene ereditata, permettendo così anche ai discendenti di avere migliori possibilità di sopravvivenza (cfr. L'Origine delle specie, pp. 86-87). Nella maturazione del suo pensiero il concetto di «adattamento» subisce una modifica. In un primo tempo, Darwin pensava che l'adattamento costituisse la risposta automatica dell'organismo al mutamento ambientale (organismi ben adattati all'ambiente non muterebbero se non muta questo); successivamente, egli passa dal concetto di adattamento al solo ambiente fisico ad uno, più complesso, che tenga conto anche degli altri organismi. Abbandonata l'idea che possano esistere delle stasi, la trasformazione delle specie è vista come un processo sempre in atto, continuo e graduale, che per essere innescato non ha più bisogno di un mutamento ambientale. Il ricorso ad una metafora deista, quella che vede nella selezione naturale l'opera di un "grande allevatore" che accumula in una certa direzione le variazioni insorte negli organismi modificandone così le morfologie a suo piacimento, presente all'epoca dei suoi Notebooks (1836-1844) e probabile residuo di una visione in qualche modo teleologica dell'evoluzione (cfr. Sloan, 1985), scomparirà poi del tutto nella redazione de L'Origine delle specie.

Un punto centrale, qualificante, del darwinismo è infine il rifiuto assoluto non soltanto dell'idea di una "creazione immediata delle diverse specie" (creazionismo), ma anche di ogni tipo di cambiamenti improvvisi da una generazione all'altra, il cosiddetto «saltazionismo», ritenuto antiscientifico e miracolistico. La selezione naturale determina la spenceriana sopravvivenza del più adatto agendo con estrema lentezza, come i processi geologici: «il suo potere non ha limiti creativi» (L'Origine delle specie, p. 118). Infatti, attraverso la divergenza (radiazione adattativa), le specie si moltiplicano per formare poi generi, famiglie, ordini tassonomici, ecc. (cfr. ibidem, p. 128). Dalla microevoluzione si passa alla macroevoluzione senza soluzione di continuità. L'accumulo di variazioni conservate dalla selezione naturale «conduce inevitabilmente al graduale progresso dell'organizzazione» dei viventi e «porta verso l'alto», partendo da una condizione originaria in cui tutti i viventi erano «strutturalmente semplicissimi» (ibidem, pp. 136 e 138). Questo quadro, nettamente "progressista", non è più tipologico, ma radicalmente genealogico e viene simbolizzato dalla figura di un grande albero (cfr. ibidem, p. 130). Ogni classificazione naturale può essere solo genealogica, cioè derivazionista e storica.

Darwin era perfettamente cosciente delle difficoltà incontrate dalla sua teoria. Di alcune di esse giungerà a dire che «sono talmente gravi che attualmente non ci posso riflettere senza sgomentarmi» (ibidem, p. 167). Egli stesso le classifica in quattro gruppi: a) perché i viventi non presentano un gran numero di forme di transizione? b) Come possono essersi formati degli individui (ad es. il pipistrello) attraverso piccole variazioni da progenitori completamente diversi? O, anche, come possono essersi formati organi così perfetti come l'occhio? c) Come può la selezione naturale far acquisire o modificare istinti altamente raffinati (ad es. quello che guida l'ape a fare cellette di un'incredibile perfezione geometrica)? d) Come spiegare la non fecondità o la produzione di ibridi sterili tra specie diverse, mentre fra varietà non ci sono barriere riproduttive? (cfr. ibidem, p. 167). A queste obiezioni se ne aggiungeranno altre, che Darwin riporterà in un capitolo apposito, aggiunto nella sesta edizione del suo libro. Fra queste, l'osservazione dei suoi critici che molti caratteri non risultavano di alcuna utilità ai loro possessori (è la teoria neutralista); che la selezione naturale non è in grado di rendere conto delle fasi iniziali delle strutture utili (è il classico caso del mimetismo); e che, infine, è più probabile che le nuove specie si manifestino improvvisamente e per mezzo di modificazioni repentine (cfr. ibidem, pp. 199, 202, 217). Si tratta in buona parte di critiche ancora scientificamente valide. Vediamo alcune delle risposte fornite dal naturalista inglese.

Per quel che riguarda l'assenza di forme viventi intermedie tra le varie specie a noi note, Darwin ritiene che queste siano state eliminate dalla selezione naturale, che ha provocato i "vuoti" e la discontinuità che oggi osserviamo. Le varietà "intermedie" avrebbero in sostanza una vita media assai più breve delle forme che originariamente collegavano. L'assenza di anelli di congiunzione fossili tra i gruppi zoologici si spiegherebbe, sempre secondo Darwin, perché le forme di transizione erano composte di un ridotto numero di individui (donde un minor numero di occasioni per fossilizzarsi); perché gli strati geologici furono sottoposti a sconvolgimenti che li hanno alterati (erosione e processi metamorfici); e, infine, perché non di tutti gli organismi possono formarsi e conservarsi dei fossili, deducendone, come conclusione generale, che la documentazione fossile non è rappresentativa della vita sulla terra nel passato. Egli non sa però rispondere al perché si assista alla comparsa improvvisa di molti tipi di organismi viventi (è quella che oggi chiamiamo «esplosione cambriana»), mentre non esistono dei fossili più antichi, essendo gli strati precedenti a questa esplosione né erosi né metamorfosati, per cui avrebbero dovuto permettere la formazione e il mantenimento dei fossili corrispondenti (cfr. ibidem, p. 291). Proprio su questo punto egli dovrà ammettere che «se è vero che numerose specie, appartenenti agli stessi generi ed alle stesse famiglie, sono comparse improvvisamente, [allora] la teoria delle modificazioni lentamente prodotte della selezione naturale subirebbe un colpo mortale. Infatti lo sviluppo di un gruppo di forme, tutte derivanti da un solo progenitore, deve essere stato un processo lentissimo» (ibidem, p. 288). Ancora oggi il mistero permane: infatti, anche se sono stati trovati organismi fossili dei periodi antecedenti al Cambriano (fossili ignoti al tempo di Darwin), questi presentano una morfologia molto diversa da quella degli organismi successivi: non c'è alcuna continuità, ma un salto.

Per risolvere la difficoltà prospettata al secondo punto, cioè il passaggio da un quadrupede insettivoro a un pipistrello volante, non essendovi degli antenati in linea diretta Darwin prende a esempio i discendenti collaterali, quali gli scoiattoli e i lemuri, dove si trovano forme "volanti", sia pure in modo parziale (plananti), dotate tra gli arti di membrane che fungono da paracadute. A suo parere nulla vieta di pensare ad un lento processo di accumulo graduale di variazioni utili che avrebbe condotto, partendo da forme analoghe a queste tra i progenitori dei pipistrelli, fino agli individui volanti che conosciamo. Una volta affermatisi i pipistrelli, i loro progenitori plananti, cioè gli anelli intermedi con le forme solo quadrupedi, sarebbero stati sterminati nella lotta per la vita (cfr. ibidem, pp. 172-173). Il medesimo ragionamento "cumulazionista", unitamente, alla selezione naturale, viene utilizzato anche per spiegare forme complesse come l'occhio, ma aggiungendo in questo caso con una certa "imprudenza": «se si potesse dimostrare che esiste un qualsiasi organo complesso che non può essersi formato tramite molte tenui modificazioni successive, la mia teoria crollerebbe completamente» (ibidem, p. 178). La comparsa delle varie morfologie dei viventi, inutile dirlo, è vista solo come frutto di utilità e di adattamento, e non avrebbe senso alcuno valutare queste sotto l'aspetto della bellezza, della piacevolezza o della varietà gratuita: se una dottrina che attribuisse importanza a questi fattori fosse vera - egli riconosce - «sarebbe assolutamente fatale per la mia teoria» (cfr. ibidem, pp. 184-185). Analoga procedura logica viene usata per rispondere alla terza obiezione sul potere della selezione naturale di dare forma a istinti altamente raffinati, sebbene analizzando le caste delle formiche vi trova una tale perfezione organizzativa e strutturale da riconoscere di aver incontrato in questo ambito «la maggior difficoltà» per la sua teoria (ibidem, p. 241). Circa la quarta obiezione, essa risulta oggigiorno superata, per cui tralasciamo di riportare le risposte fornite.

In merito alle restanti critiche, Darwin negherà, senza risultare però convincente, ogni forma di "neutralismo" delle mutazioni, in quanto egli è fermamente convinto che la selezione naturale non accumulerebbe, né incrementerebbe delle variazioni realmente prive di utilità per l'individuo (cfr. ibidem, pp. 201-202). Cercando di spiegare il mimetismo, riporta l'esempio dell'insetto-foglia, supponendo che il processo sia nato con una iniziale somiglianza "accidentale" con un oggetto di questo tipo, somiglianza poi lentamente aumentata nel tempo dalla selezione naturale, che avrebbe conservato solo le variazioni spontanee sorte nella direzione "giusta" (cfr. ibidem, p. 206). Infine, egli nega ogni "forza o tendenza interna" evolutiva e ogni tipo di saltazionismo negli organismi, perché - a suo parere - servirebbero tra l'altro troppe coincidenze, del tutto improbabili, per giustificarne l'azione (cfr. ibidem, p. 217). E conclude, in chiave ottimistica, affermando: «Poiché le attuali forme viventi sono le discendenti lineari di quelle che vissero molto prima dell'epoca siluriana, possiamo essere certi che la successione ordinaria tramite generazione non è mai stata interrotta e nessun cataclisma ha devastato il mondo intero. Quindi possiamo guardare con una certa fiducia ad un avvenire sicuro, anch'esso di durata inconcepibile. E siccome la selezione naturale opera esclusivamente tramite e per il bene di ciascun essere, tutti gli arricchimenti corporei e psichici tenderanno a progredire verso la perfezione. [...] Dunque dalla guerra della natura, dalla carestia e dalla morte nasce la cosa più alta che si possa immaginare: la produzione degli animali più elevati» (ibidem, p. 428).

Logico coronamento di questa filosofia fu il suo libro sull'origine della specie umana, dal quale deriva la percezione più comune del darwinismo, riassumibile nella popolare affermazione che "l'uomo deriva dalla scimmia". Anche se si tratta di una semplificazione, nella sua essenza questa frase rispecchia molto bene un aspetto essenziale della teoria di Darwin. Più esattamente si dovrebbe affermare che la nostra specie sia derivata da progenitori con caratteri in gran parte scimmieschi, che però non sono identificabili con le scimmie a noi note, in quanto sarebbero estinti da tempo e quindi rinvenibili solo come fossili. Ne L'origine dell'uomo e la scelta sessuale, Darwin parla di «scimmie [...] dello stipite Catarrino o del continente antico [come] nostri progenitori» (tr. it. Milano 1997, p. 203), di antenati dell'uomo «simili alle scimmie» (ibidem, p. 205), di scimmie africane dalle quali, «in un periodo antichissimo, è derivato l'uomo» (ibidem, p. 214), di «una serie di forme che derivano gradualmente da qualche creatura simile alle scimmie fino all'uomo, come ora esiste» (ibidem, p. 232). Secondo lo schema già noto, egli presupponeva infatti una transizione lenta e progressiva fino a giungere all'uomo moderno, sostenendola mediante una comparazione, a più livelli, tra i vari aspetti anatomici, fisiologici e comportamentali dell'uomo e degli animali inferiori, per mostrare i quali Darwin si fa paleontologo dei primati, paletnologo, etnologo e antropologo, ma anche sociologo e psicologo.

Dall'opera non è estraneo il tema religioso. «Non vi è nessuna prova - egli scrive - che l'uomo in origine fosse dotato del nobile sentimento dell'esistenza di un Dio onnipotente» (ibidem, p. 90) e, seguendo Spencer, propugna un grossolano evoluzionismo religioso su base naturalistica e materialistica, al punto da identificare barlumi di devozione religiosa nel profondo amore del cane per il suo padrone, quasi una prefigurazione "evolutiva" del sentimento umano! Seguendo Thomas H. Huxley, e riprendendo l'analogia di emozioni ed espressioni tra uomo e scimmie superiori, Darwin sostiene che l'uomo differisce meno dalle scimmie più elevate che non queste dai membri inferiori dello stesso gruppo (cfr. ibidem, pp. 197-198). Poiché deve esserci stato un continuum tra i nostri progenitori e gli esseri umani, secondo Darwin è «impossibile definire il punto in cui si dovrebbe adoperare il vocabolo uomo» (ibidem, p. 232). Per uno sviluppo del tema, che ne riprende i nodi essenziali alla luce dei dati scientifici contemporanei, rimandiamo alla voce corrispondente.

V. La critica del darwinismo classico alla luce di alcuni studi recenti

Diversi uomini di scienza, contemporanei a Darwin, avevano già espresso dubbi e critiche, spesso radicali, sulla sua teoria, anche sotto il profilo della coerenza delle argomentazioni. Alcune di queste critiche sono state riportate dallo stesso Darwin, con i suoi tentativi di fornire delle risposte plausibili. Anche la biologia contemporanea ha sollevato delle forti perplessità in merito ad importanti elementi caratteristici del darwinismo. In alcuni ambiti, le idee del naturalista inglese sono state abbandonate anche dai suoi seguaci più "ortodossi": ci riferiamo alla convinzione che i caratteri acquisiti siano ereditabili, alla confusa teoria della pangenesi, alla concezione nominalistica e convenzionale delle specie viventi, per limitarci agli esempi più rilevanti. In linea più generale, la prima e principale obiezione riguarda la pretesa di far derivare tutta la ricchezza morfogenetica e fenomenica della natura vivente (che presenta, fra l'altro, un certo ordine ed armonia), da un puro meccanicismo basato su processi casuali oppure esclusivamente deterministici. Di fatto, né Darwin, né i suoi continuatori hanno mai potuto fornire in merito spiegazioni convincenti, come mostra oggi un'abbondante bibliografia (esempi in Hitching, 1982; Denton, 1986; Thompson, 1992; Chauvin, 1991 e 1995; Behe, 1996; Sermonti, 1999; Monastra, 2000; Wells, 2000).

L'ambizione esplicativa totalizzante del darwinismo - in modo particolare quella attribuita alla selezione naturale quale suo motore trainante - ha suscitato un comprensibile dibattito quando applicata anche alle facoltà, ai sentimenti e alle convinzioni dell'essere umano, incluse quelle di carattere religioso. Nella sua Autobiografia (cfr. tr. it. 1962, pp. 74ss) Darwin si chiede che valore abbia l'argomentazione con la quale la mente umana, ragionando in termini di causa-effetto e giudicando assai difficile che tutto sia frutto del "cieco caso" o della "cieca necessità", inferisce l'esistenza di Dio come Causa Prima che possa fondare l'esistenza dell'universo e della natura, uomo compreso. Egli risponde però che questo tipico modo di operare della logica umana potrebbe essere anch'esso il frutto di un processo evolutivo, e dunque non possedere un valore universale. L'idea di Dio, inoltre, potrebbe essere solo una credenza sorta ad un certo stadio dell'evoluzione della specie umana, dalla quale non è stato più possibile liberarsi. Di qui, l'origine del suo agnosticismo. Ma, sulla logica seguita da Darwin, si chiede giustamente Mary Midgley «perché la sfiducia di Darwin fosse così selettiva. Perché dubitava soltanto delle facoltà che lo rendevano propenso a credere e non di quelle che agivano in senso contrario? I motivi addotti a favore della sfiducia sono gli stessi in entrambi i casi. Tutte le credenze, comprese quelle che ci fanno dubitare dell'esistenza di Dio e quelle che la incoraggiano, si sviluppano in noi grazie alle facoltà che ci sono state trasmesse attraverso l'evoluzione e hanno origine nella nostra cultura. Se riteniamo, come faceva Darwin, che questi due fattori possano essere offuscati in modo impercettibile dall'eredità di caratteristiche acquisite culturalmente, la diffidenza deve estendersi a tutto, perché ogni nostro pensiero è oggetto in egual misura a una corruzione non individuabile» (Scienza come salvezza. Un mito moderno e il suo significato, Genova 2000, pp. 130-131). Come ha inoltre osservato anche Thomas Nagel, il funzionalismo utilitaristico, che sottende tutta la teoria darwiniana, finisce con lo svalutare inevitabilmente ogni capacità umana di giungere alla verità (cfr. Uno sguardo da nessun luogo, Milano 1990). Una volta che tutte le facoltà e i modi del pensiero umano sono compresi come conseguenze dell'evoluzione darwiniana, anche limitandoci alla sola sfera delle doti razionali, ci possiamo chiedere quale utilità rivestano, o abbiano rivestito nel corso dell'evoluzione, tutta una serie di facoltà complesse, come ad esempio il ragionamento di tipo matematico, che, tra l'altro, non possono essere "ridotte" a substrati elementari. Un'obiezione di questo genere era stata già avanzata da A.R. Wallace (vedi supra, III), il quale, diversamente da Darwin, era molto cauto nell'attribuire alla selezione naturale ogni genere di emergenza e rifiutava una spiegazione utilitaristica del sorgere e dell'affermarsi dell'etica in seno alla comunità umana, per cui non esitava a porre ben definiti "limiti interpretativi" alla teoria dell'evoluzione, della quale era peraltro anch'egli sostenitore (cfr. A.R. Wallace,Contribution to the Theory of Natural Selection, London 1870, e Darwinism, London 1889). Un discorso analogo è stato fatto per molti caratteri presenti nel mondo animale e che non rivestono alcuna "utilità", come ha dimostrato Adolf Portmann (1969), distinguendo i caratteri «funzionali» (se vogliamo "darwiniani"), da quelli «vettoriali», aventi un significato di autopresentazione dell'individuo e perciò liberi da ogni utilitarismo.

Non poche delle apparenze del mondo animale ricondotte da Darwin all'azione della selezione naturale si è poi visto che non ammettevano certamente questo tipo di lettura. Fra queste, la comparsa dei cosiddetti «sosia australiani» (cfr. L'Origine delle specie, p. 401), mammiferi marsupiali che riproducono la morfologia di mammiferi placentati (lupo, gatto, scoiattolo, ecc.) e che vivono in altri continenti. Oggi sappiamo che le due linee, dopo la biforcazione da un ipotetico progenitore comune, vissero separate per circa 100 milioni di anni in condizioni ambientali molto differenti, senza alcuna possibilità di incrocio (cfr. Koestler, 1980, p. 241). Il mimetismo animale e vegetale ci offre una tale ricchezza di forme che risulterebbe impossibile spiegare in un'ottica "opportunistica", mentre un obiettivo esame di tali morfologie lascia intravedere una rete di modelli geometrici sottostanti che, nella loro astoricità, rimandano a un mondo di forme e di proporzioni determinato da leggi di tipo strutturale. Cercando di spiegare la morfologia dell'insetto-foglia in termini di imitazione di una struttura vegetale con la quale mimetizzarsi, sfuggendo così ai predatori, Darwin ignorava che la comparsa dell'insetto-foglia precedette quella delle foglie sotto le quali esso si sarebbe poi mimetizzato. Analogamente, la sua convinzione che la selezione naturale desse ragione della infinita diversità strutturale e funzionale della bocca degli insetti, "adattatasi" col tempo alle strutture floreali, sarà superata da ricerche posteriori. Sulla base dei reperti fossili, Labandeira e Sepkoski hanno dimostrato che, in concomitanza con l'espansione delle varie famiglie degli insetti, quasi il 90% degli apparati boccali oggi noti si erano differenziati (cfr. Insect Diversity in the Fossil Record, "Science" 261 (1993), pp. 310-315). Questo avveniva cento milioni di anni prima che apparissero le angiosperme (piante con fiori), quasi che gli insetti avessero "costruito", in modo del tutto autonomo, le loro strutture atte ad assumere il nutrimento, ma "sapendo" già quali sarebbero state le future conformazioni dei fiori, in modo da essere "preparati" a usufruire delle nuove possibilità di alimentazione offerte dalla natura.

È anche opportuno notare la presenza di una certa implicita tautologia insita nel concetto spenceriano di "sopravvivenza del più adatto". La scarsa scientificità di questa idea è stata evidenziata, da differenti punti di vista, da vari studiosi. Fra essi, il citogenetista Antonio Lima-de-Faria (1988), il panbiogeografo Leon Croizat (1987), il matematico René Thom (1983), il genetista Giuseppe Sermonti (1999), lo zoologo Wolfgang Kuhn (1990). Secondo lo zoologo francese Pier-Paul Grassé, Darwin attribuisce alla selezione naturale doti di "divinazione", di "profezia", dato che per scegliere deve «prevedere il ruolo futuro dell'organo in formazione. In assenza di questa previsione, la coordinazione degli stati successivi diventa incomprensibile. Darwin ci ha pensato?» (Grassé, 1979, p. 156). L'osservazione critica, che vale per tutti gli organi assai complessi (occhio compreso), ha in realtà un carattere più generale, volendo mettere in luce che l'autore de L'Origine delle specie non ha mai preso in considerazione i processi che hanno dato vita alle relazioni tra le parti. L'approccio meccanicistico-casualista di Darwin cercava di spiegare (in modo insufficiente) la comparsa delle singole parti di un organismo, ma non il formarsi di una interazione armonica tra queste, interazione alla quale egli non può fare a meno di far riferimento quando afferma che il cambiamento di una parte dell'organismo comporta un cambiamento bilanciato di altre parti. Darwin si è fermato ad un approccio puntiforme, prendendo come dato di fatto la cornice relazionale di tipo organicista e olista, senza fornirle tuttavia un'adeguata spiegazione.

Alla concezione darwiniana della natura come cieco fluire continuo che, come osserva opportunamente René Thom, ha preteso di eliminare «la problematica della forma in biologia» (Thom, 1983, p. 18; cfr. anche Thom, 1980), si oppongono, oggi come ieri, anche i dati della paleontologia. La nostra conoscenza odierna in proposito, non più frammentaria e carente come all'epoca del naturalista inglese, ci assicura che i fossili contenuti negli strati geologici sono effettivamente rappresentativi degli organismi vissuti in passato sulla Terra, cioè che la documentazione fossile è sufficientemente adeguata da smentire l'idea di un lento processo lineare di «modificazioni ereditarie infinitesimalmente piccole», cioè di variazioni graduali, minime, cumulative degli organismi (cfr. ad es. M.J. Benton, M.A. Wills, R. Hitchin, Quality of the fossil record through time, "Nature" 403 (2000), pp. 534-537). Le argomentazioni impiegate da Darwin per rispondere ai suoi critici incontrerebbero oggi problemi assai maggiori. Infatti, le ipotetiche forme di transizione, per quanto poco numerose, non possono essere scomparse nel nulla e gli strati geologici non sono così diffusamente alterati come si riteneva all'epoca. Quanto i geologi osservano non sono cambiamenti graduali ma sussulti irregolari e rapidi, nei quali le specie compaiono improvvisamente, rimangono pressoché inalterate per l'intera durata della loro storia, e poi scompaiono all'improvviso (cfr. D. Raup, Conflicts between Darwin and Paleontology, "Field Museum of Natural History Bulletin" (Chicago) 50 (1979), n. 1, pp. 22-29). Superata la concezione gradualista di Darwin, riacquista credibilità il saltazionismo (evoluzione con pause e scatti improvvisi), motivo dell'assenza dei cosiddetti «anelli di congiunzione» tra i vari gruppi tassonomici. Si è fatta strada in biologia, negli ultimi decenni, una concezione della specie che ricorda quanto affermato tempo addietro dalla teoria organicista, che poneva una analogia tra "specie" e "macro-organismo" o "super-individuo": la specie, in sostanza, non sarebbe più vista come la semplice somma di tanti individui, ma come una realtà vivente e unitaria, costituita da organismi diversi, così come ogni organismo è composto da cellule. Per cui, al pari degli individui, le specie nascono, vivono più o meno a lungo e poi muoiono.

Già nella prima metà del Novecento, l'istologo e anatomista francese L. Vialleton aveva criticato l'interpretazione con cui Darwin indicava certe strutture presenti in embrioni animali come esempi di organi residuali o «vestigiali». Per il naturalista inglese si trattava di organi non più funzionali, ridottisi nel corso dell'evoluzione, ormai privi di utilità per l'animale, ma che consentivano allo studioso dell'evoluzione di ricostruire la genealogia della specie analizzata, cioè la derivazione filetica di certi individui dai loro progenitori. È il caso dei nuclei germinali dei denti osservabili nel feto delle balene (animali privi di denti allo stato adulto), o di quelli degli incisivi superiori di certi ruminanti, le cui gengive non vengono mai forate. Eppure, tali nuclei germinali svolgono in realtà una funzione importante nella formazione delle ossa delle arcate dentarie, alle quali essi forniscono un "punto d'appoggio" su cui modellarsi (cfr. L. Vialleton, L'origine degli esseri viventi. L'illusione trasformista, tr. it. Roma-Milano-Napoli 1935, pp. 141-142). Molto spesso queste presunte strutture vestigiali sono in effetti delle strutture altamente specializzate, il cui studio approfondito è stato non di rado inibito proprio dall'averli erroneamente considerati semplici "residui" evolutivi: istruttivo in proposito il caso dell'epifisi e dell'ipofisi, ghiandole complesse definite inizialmente come organi vestigiali, quando ancora non si sapeva quasi nulla sull'apparato endocrino.

Non è forse senza significato, infine, segnalare che l'insistente desiderio di trovare "anelli mancanti" in alcune genealogie evolutive ricostruite con criteri darwiniani abbia talvolta condotto ad interpretare reperti in modo affrettato e superficiale, quando non a proporre - in alcuni casi - dei veri e propri "falsi storici". Si possono ricordare, ad esempio, l'uomo-scimmia di Piltdown, costituito da ossa di uomo accostate a quelle di una scimmia (forse un orango), o il rettile-uccello battezzato col nome di Archaeoraptor liaoningensis, successivamente riconosciuto come un artefatto ottenuto unendo il fossile del corpo di un uccello a quello della coda di un rettile, e non a caso ribattezzato ironicamente "Piltdown bird" (cfr. J. Hecht,Piltdown bird, "New Scientist", 29.1.2000, p. 12). Sembrerebbe quasi che, non potendo la documentazione paleontologica fornire gli "anelli di congiunzione", occorresse crearli a tavolino. Atteggiamenti inconsciamente favoriti da quella singolare "logica delle possibilità" utilizzata dallo stesso Darwin e che, come messo in luce da Himmelfarb (1974), lo conduceva a convincersi che varie possibilità si sommassero insieme per generare delle probabilità, e che queste ultime, sommandosi ulteriormente l'una all'altra, generassero una certezza. Egli assumeva infatti che la mera "possibilità" di immaginare una serie di passaggi intermedi tra una condizione organica ed un'altra doveva essere accettata come ragione valida per ritenere "probabili" questi passaggi, portando così a far credere praticamente "certo" il loro verificarsi. Centrata sul meccanismo della selezione naturale, la capacità esplicativa della sua teoria veniva ritenuta da lui sufficiente per accettare i fatti che se ne mostravano in accordo e guardare con sospetto quelli che se ne distaccavano.

VI. Il darwinismo sociale: dalla sociobiologia all'etica evoluzionista

Fra le correnti di pensiero che traggono la loro origine dalle idee di Charles Darwin va annoverato quanto conosciuto col nome di "darwinismo sociale". Leggiamo in una pagina deL'Origine dell'uomo: «Il progresso della prosperità del genere umano è un problema intricatissimo; tutti quelli che non possono evitare una grande povertà per i figli dovrebbero astenersi dal matrimonio, perché la povertà non è soltanto un gran male, ma con la prole tende ad aumentare. D'altra parte, come ha notato Galton, se i prudenti si astengono dal matrimonio, mentre i negligenti si sposano, membri inferiori della società tenderanno a soppiantare i membri migliori. L'uomo, come qualunque altro animale, ha senza dubbio progredito fino alla sua condizione attuale attraverso una lotta per l'esistenza, frutto del suo rapido moltiplicarsi; e, per progredire ed elevarsi ancora di più, deve andar soggetto ad una dura lotta. Altrimenti egli in breve cadrebbe nell'indolenza, e gli uomini più dotati non riuscirebbero meglio nella battaglia della vita dei meno dotati [...]. Le leggi e i costumi non devono impedire ai più abili di riuscire meglio e di allevare un numero più grande di figli» (tr. it. Milano 1997, pp. 414-415). Vi troviamo enunciati i princìpi-base del darwinismo sociale, che alcuni attribuiscono riduttivamente al solo Francis Galton (cfr. Hereditary Genius, London 1869, Natural inheritance, London 1889) e ai suoi continuatori, teorici dell'eugenetica, forse volendo allontanare da Darwin questa pesante responsabilità. Non sfugge infatti il potenziale negativo in essi contenuto, al teorizzare una discriminazione sociale ove i poveri e i meno dotati sono considerati "inferiori" e l'uomo viene ricondotto alla pura dimensione animale, di un "animale", oltretutto, frutto esso stesso di una visione ideologica preconcetta. Siamo in presenza di una antropologia fortemente riduzionista, che caratterizzerà le varie forme di darwinismo sociale, il cui terreno più favorevole si riscontra purtroppo in quelle nazioni dominate da una visione fortemente competizionista della società e dei popoli. Non andiamo troppo lontano se affermiamo che l'idea della "sopravvivenza del più adatto" si è tramutata tristemente in un'ideologia con la quale alcuni hanno voluto giustificare l'espansionismo, l'imperialismo ed alcune forme di capitalismo. Parallelamente, i libri di Darwin riscossero un ampio successo tra il pubblico americano.

È in ambito anglosassone, ove non sono certo assenti forme di forte competitività economica e sociale, che si è principalmente sviluppata un'espressione assai sofisticata del darwinismo sociale: la sociobiologia. Nata ufficialmente nel 1975, e teorizzata in vari ambiti da autori quali Wilson, De Vore, Trivers, Lumsden (cfr. Christen, 1980), la sociobiologia è una forma radicale e coerente di darwinismo, il cui cardine ruota attorno al concetto di «gene egoista», secondo la definizione datane da Richard Dawkins nel suo omonimo volume (Il gene egoista, Milano 1994). Alcuni interventi nel dibattito scientifico ci sembrano molto significativi per comprenderne le potenziali, gravi ricadute sociali contenute in tale prospettiva. «In primo luogo - scrive R. Alexander - tutti gli organismi devono evolversi continuamente per massimalizzare il loro adattamento globale all'ambiente. In secondo luogo, la concessione di un vantaggio da parte di un qualsiasi organismo a un altro richiede sempre delle spese, per quanto limitate, da parte del donatore. Da questo deriva una diminuzione di adattamento a causa del tempo, dell'energia perduta e dei rischi corsi. Essa implica anche una relativa diminuzione di adattamento che consegue dall'aumento di adattamento dei partners che sono in competizione per la riproduzione. Così, ogni organismo dovrà evolversi in modo tale da evitare ogni atto di beneficenza o di altruismo che si manifesterà probabilmente mediante una spesa maggiore del guadagno ottenuto» (R.D. Alexander, The Search for a general Theory of Behavior, "Behavioral Science" 20 (1975), p. 90). In sintesi, altruismo e rispetto per il prossimo costituirebbero dei "difetti biologici" da evitare. Tre anni dopo, nel 1978, durante un importante convegno di economia tenutosi negli Stati Uniti, un gruppo di "bioeconomisti" affermerà con enfasi che «il capitalismo è insito nei nostri geni». Secondo la rivista Business Week (10.4.78), molto vicina a questo gruppo, la moderna ricerca scientifica avrebbe "dimostrato" che competizione e interesse personale, importanti in modo essenziale nell'economia di mercato "pura", stanno anche alla base dei processi della natura, per cui esisterebbe una forte analogia, un accordo di fondo assai stretto, fra concezioni iperliberiste e selezione naturale, tra capitalismo privo di ogni controllo e biologia evoluzionista.

Dall'interno di un'ottica scientista, il darwinismo sociale mescola "scienza" e "valori sociali", seguendo una concezione inaugurata dallo stesso Darwin. Come sappiamo, secondo la teoria evoluzionista classica la selezione naturale opera al livello dell'individuo, eliminando i soggetti con variazioni (in ambito genetico, mutazioni) sfavorevoli e favorendo l'affermarsi di coloro che posseggono le variazioni utili. Per la sociobiologia, invece, l'elemento centrale dell'evoluzione è il "gene", considerato come una struttura autonoma, coinvolto in una lotta costante per affermarsi contro altri geni che determinano caratteri differenti. In tale ottica gli organismi, gli stessi esseri umani, sarebbero solo delle strutture "inventate" dal materiale ereditario per potersi moltiplicare. In questa eterna competizione selettiva, l'unico tipo di solidarietà che potrebbe instaurarsi è quella fra geni che esprimono caratteri uguali o congruenti, presenti in individui diversi. In realtà non esisterebbe alcuna forma di comportamento sociale realmente altruistico e disinteressato: questo sarebbe limitato solo ad individui con una comunanza genetica, come nel caso dei parenti, o verso coloro i quali, a loro volta, ci potranno aiutare (i vicini, i membri della propria comunità, ecc.). In sostanza, noi crederemmo di agire autonomamente, secondo coscienza e giustizia, mentre invece seguiamo, come robot, le cieche strategie utilitaristiche dei nostri geni. Così facendo, l'individuo, per non parlare della persona, si dissolve nei costituenti della chimica della riproduzione.

È appena il caso di rilevare che molti dati scientifici hanno contraddetto un quadro così "misero", dove la natura viene ridotta al ruolo di arido contabile (cfr. Lindauer, 1994). Ancora di recente, nuovi teorici del darwinismo sociale hanno potuto proporre spiegazioni selezioniste per analizzare i più svariati comportamenti umani, dalla sfera politico-religiosa al predominio maschile nella cultura, dalle trasgressioni sessuali all'attrazione fisica sperimentata da parte di donne particolarmente feconde, per giungere fino ad un'interpretazione "parassitaria" del rapporto del feto nei confronti della madre (cfr. Horgan, 1995).

Un altro campo in cui il darwinismo ha incontrato nuovi teorizzatori è quello dell'etica sociale. Privata di qualsiasi reale valore in sé, tale disciplina è stata reimpostata in chiave evoluzionista, in perenne divenire, secondo quell'ottica funzionalista e utilitarista che trovavamo già presente in Darwin. Esponente di tali posizioni, Bentley Glass (1967) scriveva anni addietro: «L'etica di una società umana statica non può far fronte a una situazione evolutiva. Essa deve essere rimpiazzata da un'etica che tenga conto della natura umana in evoluzione sia biologica che culturale. La nostra crescente saggezza deve essere basata su una visione evolutiva del passato, del presente e del futuro dell'uomo, e su una conoscenza dei modi in cui il processo evolutivo può essere controllato» (The centrality of evolution in biology teaching, p. 705). Osservava in proposito, con toni intenzionalmente provocanti, Giuseppe Sermonti (1974): «Questo innocente discorso è in realtà una serie di disinvolte mistificazioni. Bentley Glass, e con lui tutti gli evoluzionisti contemporanei, sanno benissimo che la natura umana non è affatto in evoluzione biologica, e che per almeno cinquantamila anni rimarremo identici a quelli che siamo, sempre nell'ipotesi che non intervenga una degenerazione. Per quanto riguarda l'"evoluzione culturale", se essa deve significare la lotta per la vita trasferita sul piano delle ideologie, allora non resta che attendersi una catena di sopraffazioni spirituali senza altra misura che il successo, una trasformazione irresponsabile di idee e di costumi, sostenuta dalla pretesa che comunque si proceda si andrà verso il bene, purché si proceda [.]. L'evoluzione, come essi ci insegnano, sarebbe il nostro dovere biologico. Ma poiché il novantanove per cento degli "esperimenti evolutivi" finisce con un'estinzione, estinguerci è forse la via più ortodossa che ci resta da seguire. Le nostre straordinarie capacità di "dirigere la nostra evoluzione" possono permetterci di accelerare questo processo come nessun animale è riuscito a fare sinora. Questo è il destino che ci offre l'ultimo ribelle; costui, rifiutati gli archetipi di Adamo peccatore e di Prometeo maestro di frode, tolto dalla scena il Creatore, non si è accorto di offrire a se stesso come archetipo e modello di sviluppo verso il progresso e la razionalità un essere mansueto e sottomesso, l'animale da cortile o d'allevamento. Non si è accorto di preparare a se stesso come destino una prossima uscita dalla scena, per lasciare il posto a esseri più razionali e meno sentimentali di lui, le macchine» (pp. 34-35). Nonostante questi sensati ammonimenti, assistiamo oggi ad un ritorno di concezioni della vita e del mondo in cui i valori (vita dello spirito inclusa) sono considerati meri "prodotti storici", come nel caso di Peter Singer, autore di una recente proposta per rivitalizzare l'ideologia marxista - orfana di Marx ed Engels - con Darwin (cfr. P. Singer, Una sinistra darwiniana, Torino 2000), che pochi anni addietro aveva offerto, nella stessa linea, un saggio assai significativo e in certo modo preoccupante (cfr. Ripensare la vita, Milano 1994).

VII. Considerazioni conclusive

Darwin ha influenzato e continua a influenzare il pensiero di tutto l'Occidente in moltissimi campi. In accordo con le concezioni da lui suggerite, il darwinismo è entrato in settori al di fuori della biologia, come la psicologia, l'etica, l'economia, la sociologia, ecc. Darwin fu apprezzato da Marx ed Engels per aver demolito il modo di pensare teleologico e per aver fornito il fondamento storico-naturale del loro programma, anche se il rapporto tra lo studioso inglese e quello tedesco è controverso (cfr. Christen, 1982). Freud (1856-1939) paragonò il mutamento della concezione in merito al posto dell'uomo nella natura al passaggio dal narcisismo infantile all'amore oggettuale, introducendo nella sua antropologia il concetto di "orda primordiale darwiniana". La visione della natura di Charles Darwin è stata presentata, non a torto, come il coronamento del pensiero meccanicista di Descartes, come la bandiera del libero pensiero e del progresso contro l'"oscurantismo" di coloro che trasmettevano conoscenze in modo acritico e tradizionalista. Ma ha costituito anche il simbolo, occorre riconoscerlo, di un dogmatismo feroce, di una fede secolare, basata su una concezione materialista e meccanicista della natura e della vita. Come ammette Mauro Ceruti, evoluzionista eterodosso, con Darwin «furono poste le basi per una concezione atomistica degli organismi, intesi come entità riducibili alla somma delle loro parti e quindi scomponibili in singoli "caratteri" o "tratti" che possono variare indipendentemente da tutti gli altri caratteri» (Ceruti, 1995, p. 27). Alla luce del pensiero scientifico contemporaneo, sappiamo oggi che le variazioni ed i mutamenti posseggono dei vincoli imposti dalle interazioni fra tutte le parti dell'organismo, o meglio, dall'organismo inteso come un tutto e come un intero, nel quale si danno dinamismi e coordinamento funzionali, nel quale lo sviluppo, le variazioni e l'adattamento, paiono rispondere più a delle tendenze intrinseche che al caso o alla lotta per la sopravvivenza. Il sostantivo «evoluzione» resta certamente uno dei concetti centrali di tutta la biologia, ma l'aggettivo «darwiniano» è ormai oggetto di dibattito e di revisione sempre crescenti.

Come l'uniformitarianismo di Lyell fu influenzato dal monismo materialista, così l'evoluzionismo di Darwin risentì dello spirito del tempo, cioè delle idee filosofiche dominanti nella cultura di allora. Sul piano metodologico, ad esempio, l'ottimismo, che caratterizzava la mentalità del XIX secolo, spinse gli scienziati dell'epoca a pensare che tutti i fenomeni naturali potessero essere compresi in una semplice sintesi scientifica, in perfetto accordo con l'idea di un progresso continuo verso un mondo migliore, idea che rappresentava in fondo una versione materialista e secolarizzata della concezione escatologica cristiana. Analogamente, il generalizzato metodo riduzionista impiegato da Darwin era l'espressione, in biologia, di quel meccanicismo ottocentesco che aveva posto l'accento della conoscenza scientifica esclusivamente sulla quantità e sulla materia.

Riteniamo che il contributo di Darwin fu di carattere più "filosofico" che scientifico in senso stretto. Egli non fu autore di vere e proprie scoperte, ma propose una lettura completamente diversa di quanto altri avevano fatto in precedenza. Utilizzò, ad esempio, molti dei dati raccolti da un altro naturalista, lo zoologo Edward Blyth, ma mentre questi sosteneva la sostanziale inalterabilità delle specie, pur riconoscendo l'esistenza dei fenomeni di variazione, selezione ed eredità, Darwin li lesse alla luce dell'evoluzione delle specie. Secondo Blyth la selezione in natura avrebbe svolto e svolgerebbe un ruolo unicamente conservatore; Darwin, invece, finì col rovesciare le conclusioni alle quali Blyth era arrivato. Siamo probabilmente di fronte ad un classico caso di "rivoluzione scientifica" nel senso usato da Kuhn (cfr. La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Torino 1978): si impone un nuovo orizzonte teorico, e quindi emergono nuovi paradigmi esplicativi e interpretativi della realtà naturale che sostituiscono i precedenti, ritenuti meno efficaci nello spiegare l'insieme dei dati disponibili.

Nella formulazione della teoria evoluzionista di Darwin confluirono vari elementi, già analizzati in precedenza, che operarono a livelli diversi, a volte in modo diretto, altre implicito. Fra questi, la particolare psicologia del suo autore e la sua storia personale; l'influenza del nonno Erasmus di fede illuminista e deista; la lettura di libri di filosofi, economisti e sociologi, di indirizzo materialista e liberista; le idee dominanti nello spirito inglese dell'epoca vittoriana (ottimismo verso il progresso, competizionismo, scientismo incipiente, capitalismo); la prospettiva geologica "attualista" di Hutton e Lyell, secondo la quale nel passato agirono con gradualità le stesse forze operanti nel presente (opposta al catastrofismo). Ma il significato ultimo del messaggio darwiniano è che l'ordine e l'armonia non discendono da un'"autorità" predestinata o dalle leggi con cui essa governa la natura, bensì sorgono "spontaneamente" dalla lotta che gli individui intraprendono per la loro sopravvivenza. In questo si può cogliere un certo spirito di emancipazione dalla religione (e dall'autorità) di cui Darwin si sentì personalmente investito, anche a motivo delle sue vicende personali, il suo desiderio di non obbedire più a nulla e a nessuno e di competere liberamente con gli altri a modo proprio, obbedendo alla propria natura e alle proprie inclinazioni (ringraziamo, a questo proposito, Roberto Fondi per avere richiamato la nostra attenzione su alcuni aspetti, poco noti, inerenti alla particolare psicologia del naturalista inglese). La diffusione e la successiva, quasi generale, accettazione della teoria di Darwin fu anche favorita, a nostro avviso, dall'influenza di fattori extra-scientifici e di sottili "corrispondenze" con lo spirito del tempo. Ne segnaliamo tre: il concetto di gradualismo e di continuità, che permeano il darwinismo, erano in perfetto accordo con la concezione vittoriana caratterizzata da un moderato conservatorismo sociale, nemico di ogni sconvolgimento e di ogni cambiamento troppo repentino; la certezza che permea tutto il pensiero di Darwin circa il progresso inarrestabile del mondo vivente, da forme meno perfette verso forme più perfette, ben si accordava con l'ottimismo progressista del XIX secolo; l'importanza attribuita alla selezione naturale era in piena sintonia con la concezione competitiva legata alla concezione (quasi religiosa) del "libero mercato" preminente in Inghilterra. L'ambiente generale era in fondo già preparato e maturo per recepire un bagaglio di idee che egli stesso aveva contribuito a coagulare in modo implicito.

L'idea di fondo di Darwin sull'interazione organismo-ambiente era viziata da un approccio di tipo meccanicista, banalmente lineare, dove molta importanza rivestiva il concetto di "stimolo-risposta", cioè l'idea che l'uso e il non uso degli organi, delle funzioni e dei comportamenti, ne determinasse, rispettivamente, lo sviluppo o il regresso, e quindi potesse influire sui caratteri dell'individuo, facendone mutare il "fenotipo" con effetti ereditari sulla progenie. Ma, in modo più radicale, Darwin distrusse la concezione "creazionista" della natura, che era tipologica (cioè essenzialista in senso platonico), finalistica, fondamentalmente statica, basata sul concetto di armonia prestabilita tra i viventi e tra questi e l'ambiente. Ma così facendo egli contribuì in modo determinante ad operare una lettura assai riduttiva della nozione di creazione, impedendo che se ne valorizzasse una visione filosofico-teologica in accordo con le idee di trasformazione e di evoluzione - non necessariamente legate a quella di selezione naturale - e che pure erano implicite nella Scrittura e ben rintracciabili nella tradizione teologica cristiana, fin dall'epoca patristica. La sua opposizione ad ogni idea di "progetto" o "disegno" di origine divina presente in natura finì col condizionare anche l'immagine del Creatore, assimilato sempre più alla figura di un demiurgo legislatore, che non aveva ormai più ragione di essere scomodato per spiegare l'origine e le morfologie degli esseri viventi.

È difficile poter definire Darwin come un grande naturalista, quali furono un Linneo o un Cuvier. Animato da grandi curiosità scientifiche, ma anche da sensibili pregiudizi di fondo, sotto certi aspetti egli fu più dilettante dei suoi predecessori. Proprio questi pregiudizi non gli consentirono di osservare la natura con maggior obiettività, impedendogli di essere un evoluzionista equilibrato, capace di demolire alcune idee errate di tipo fissista e di tracciare con realismo un affresco del mondo vivente in perenne divenire. La sua influenza a livello filosofico è stata tuttavia della massima importanza, non solo per l'immagine della natura che dalla sua teoria è scaturita, ma anche per comprendere la vicenda dei rapporti fra pensiero scientifico e pensiero religioso nell'Ottocento e nel Novecento. Parlare di Darwin e delle sue idee significa parlare di noi stessi, del nostro tempo e delle sue radici ideologico-culturali. Non è affatto un puro argomentare astratto. Infatti, come ha giustamente scritto Arnold Gehlen (1983) «Il bisogno, avvertito da chi riflette, di interpretare la propria esistenza umana non è un bisogno meramente teoretico. Secondo le decisioni implicite in tale interpretazione, si rendono visibili o invece si occultano determinati compiti. Che l'uomo si concepisca come creatura di Dio oppure come scimmia arrivata implica una netta differenza nel suo atteggiamento verso i fatti della realtà; nei due casi si obbedirà a imperativi in sé diversissimi» (p. 35).

 

Bibliografia

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