I. Autonomia della natura ed autonomia della libertà umana: una prospettiva filosofica - II. L'autonomia delle realtà create alla luce della Rivelazione cristiana e del magistero del Concilio Vaticano II - III. Emancipazione del mondo da Dio e secolarizzazione: il cristianesimo ha desacralizzato il mondo? - IV. L'autonomia del sapere scientifico in relazione alla teologia e alla fede - V. Autonomia delle scienze e libertà di ricerca.
Sul versante filosofico-teologico la nozione di «autonomia» (dal gr. autós nómos, «essere legge a se stesso», o anche «governarsi da sé») rimanda alla consistenza del mondo di fronte a Dio, al valore delle sue leggi, esigenze o proprietà, alla verità della libertà umana e alla corrispondente capacità di costruire una propria storia. Per la teologia cristiana, la comprensione di cosa voglia dire autonomia non può essere disgiunta dal “principio di creazione”, alla luce del quale vengono letti i rapporti fra Dio e il mondo, e dal quale ricevono fondamento l’essere e i dinamismi propri di ogni creatura. Sul versante delle scienze, infine, l’autonomia richiama principalmente due temi: l'indipendenza metodologica del sapere scientifico rispetto ad altre forme di sapere, come la filosofia e la teologia, ed il modo in cui si debba intendere ed esercitare la libertà di ricerca.
I. Autonomia della natura ed autonomia della libertà umana: una prospettiva filosofica
Nella sua riflessione sull'Assoluto, la filosofia si chiede quale sia il rapporto fra l'essere di Dio e l'essere che non è Dio. Se l’Assoluto esaurisce tutta la realtà nella pienezza del suo essere e delle sue perfezioni, qual è allora il senso di qualcosa che sia diverso da Lui? Se Dio è l'Essere necessario, qual è la consistenza delle cose fuori di Lui? La domanda ricorda, in modo indiretto, quanto espresso da Leibniz e da Heidegger con la nota formulazione «perché esiste qualcosa invece che il nulla?», che potremmo così parafrasare: «perché esiste qualcosa che non sia Dio?». Il tema dell’autonomia ne risulta coinvolto, già a livello filosofico, non appena ci si interroga circa l’essenza e la verità di “ciò che viene posto da Dio fuori di Dio”, ovvero su quale ruolo Dio abbia nel dinamismo del mondo (autonomia della natura) e nell’auto-realizzazione della persona umana come creatura libera (autonomia del soggetto). L'affermazione dell'autonomia è stata spesso vista in conflitto con l’affermazione di Dio (cfr. Kasper, 1985, pp. 27-70): autonomia della natura vorrebbe dire in questo caso che non vi sarebbe bisogno di Dio per spiegare il mondo, mentre l’autonomia dell'uomo non sarebbe altro che la difesa della sua libertà, considerata incompatibile con l’esistenza di un Creatore onnisciente ed onnipotente.
1. La tentazione del panteismo e del deismo come “soluzioni” al problema dell’autonomia della natura. In termini generali, un modo frequente per affermare che la natura, e le scienze che la studiano, posseggono una propria autonomia è quello di riproporre, con Pierre-Simon de Laplace (1749-1827), che «l'ipotesi di Dio è superflua alla scienza». Questa asserzione sarà ben presto interpretata come una dimostrazione, da parte della scienza, che Dio semplicemente non esiste, un esito riscontrabile nel materialismo dialettico di F. Engels (1820-1895). Alla base di questa prospettiva, e di questi equivoci, vi è da un lato il convertire un principio metodologico in una tesi ontologica, e dall’altro una sensibile difficoltà, per la ragione, di concepire un’immagine dell’Assoluto che sia al tempo stesso trascendente ed immanente. Una testimonianza storica di come abbia operato questa difficoltà è rappresentata dal sorgere del panteismo e del deismo come “soluzioni” verso le quali la filosofia è scivolata, nel tentativo di comprendere l'autonomia del mondo rispetto a Dio.
A partire dall’epoca moderna, ebbe inizio la scoperta che la natura aveva delle leggi proprie, esprimibili in forma razionale, la cui azione era riconducibile al solo ambito dei fenomeni naturali. Ciò condusse alcuni filosofi ad attribuire progressivamente alla natura quelle proprietà tradizionalmente associate a Dio (come farà il panteismo della modernità), oppure a spostare l'azione di Dio fino ai margini della realtà mondana, a tal punto da renderlo inattivo (come nel deismo enciclopedista ed illuminista). Il panteismo, che esalta l'immanenza a spese della trascendenza, preparato dal pensiero tardo rinascimentale di Giordano Bruno (1548-1600), troverà nell'età moderna le sue espressioni più pronunciate con Baruch Spinoza (1632-1677), sebbene le sue radici rimontino alla filosofia classica dello stoicismo e del neoplatonismo, nonché al pensiero filosofico-religioso induista e orientale in genere. Per Spinoza, Dio si identifica con la natura (Deus sive substantia sive natura) risolvendo così il problema di trovare un senso a quanto esista fuori di Dio: in realtà non esiste nulla fuori di Dio, proprio perché tutto è Dio (e in Dio). Nato in Inghilterra con J. Collins (1625-1683) e M. Tindal (1653-1733) e divenuto subito dopo filosofia religiosa dell'illuminismo, il deismo esaltava invece la trascendenza a spese dell'immanenza, finendo col proporre un Dio architetto od orologiaio. Negli Stati nazionali le cui costituzioni si ispiravano all’illuminismo, il ricorso all'autorità naturale di un Dio-Ragione, immagine facilmente malleabile di una giustizia disincarnata e svincolata da qualsiasi rivelazione soprannaturale, poteva ora venire utilizzato in modo strumentale allo scopo di garantire il rispetto delle leggi stabilite. Nel deismo, a differenza del panteismo, il mondo può stare di fronte ad un Dio-Assoluto come qualcosa di indipendente da lui, ma il problema del “perché” del mondo viene risolto per altra via: il mondo è così diverso da Dio e il rapporto fra i due è così estrinseco, che il problema semplicemente non si pone, perde significato. Panteismo e deismo cedono ambedue alla tentazione di porre Dio e il mondo sullo stesso piano, in tal modo che ciò che si dà all'uno occorre toglierlo all'altro. La discussione si sviluppa così su un terreno erroneo, incapace di rappresentare in modo convincente i rapporti fra Dio e il cosmo. La stessa immagine filosofica di Dio viene svuotata, o perché Egli perde la sua trascendenza o perché diventa irraggiungibile, e quindi, in ultima analisi, superfluo.
2. La ricerca del senso dell’auto-trascendenza e della libertà umana. La medesima problematica riappare anche nelle diverse soluzioni fornite all'enigma della libertà umana e alla necessità di fondare la sua autonomia. Se è facile riconoscere nell’uomo un’auto-trascendenza come segno della sua emergenza sul resto della natura, al momento di spiegare quale sia il senso della sua libertà e verso dove essa si diriga, le prospettive filosofiche si dividono. Per una filosofia che riconosca la dipendenza dell'uomo, nel suo essere e nel suo operare, da un Creatore dal quale ha ricevuto tutto, la realizzazione della libertà umana starebbe nel conoscerlo e nel dirigersi verso di Lui. Tuttavia, non sarebbe immediato comprendere come, in questa tensione e in questo traguardo verso l'Assoluto, la propria libertà venga affermata e non annullata, l'identità dell'io personale conservata e non dissolta. Inoltre, andrebbe anche compreso come un Assoluto che sia l’Essere “necessario” e la causa di “determinazione” per tutta la realtà, possa dare origine a creature veramente libere. Per una filosofia che negasse invece la dipendenza dell'uomo da Dio e confinasse l'essere nel perimetro della sola materialità, l'affermazione della libertà del soggetto consisterebbe nell'auto-realizzazione storica dell'essere umano all'interno dell'orizzonte chiuso della sua immanenza. Nel primo caso, il senso della libertà si trova in Dio — anche se non si saprebbe spiegare come la libertà possa restare se stessa trovando il suo senso fuori di sé — mentre nel secondo caso la libertà è concepibile solo come ricerca di se stessi e include anche la libertà di essere ciò che non si è. In quest’ultima concezione restano però irrisolte le domande sui limiti e la finitezza della libertà umana, i cui desideri superano di molto quanto essa può ricevere dalla natura o realizzare nella storia.
Le posizioni filosofiche di L. Feuerbach (1829-1880), F. Nietzsche (1844-1900) e J.P. Sartre (1905-1980) costituiscono probabilmente l'espressione più radicale di una interpretazione in termini esclusivamente dialettici del rapporto fra libertà umana e affermazione di Dio; esse sono tutte riconducibili alla conclusione speculare «se Dio esiste, l'uomo non è libero; se l'uomo è libero, Dio non esiste». La linea di pensiero di questo prometeismo antropologico si affermerà in non pochi ambiti, dalla psicologia alla storia, dal diritto all’etica, tutti accomunati dal tentativo di interpretare in chiave esclusivamente immanente le aspirazioni della libertà, dichiarando pure proiezioni soggettive le istanze di trascendenza dello spirito umano e cercando poi di appagarle (o di narcotizzarle) nel solo orizzonte della sfera materiale o istintiva. Sta di fatto che una concezione di autonomia slegata dall'affermazione di Dio, perché incapace di comprendere correttamente come Dio possa essere allo stesso tempo fondamento necessario di tutto il reale e garante della libertà dell'uomo, ha condotto a risultati assai poco soddisfacenti. Le filosofie originatesi dall’idealismo della cosiddetta «sinistra hegeliana», dopo aver negato Dio per affermare l'uomo, sono sfociate nel nichilismo e nella crisi di senso che accompagna oggi buona parte del passaggio alla post-modernità. Ritenere che “l'uomo sia Dio per l'uomo” non risolve la dialettica fra la finitezza costitutiva dell'essere umano e l'infinitezza formale della sua libertà: ridurre il problema di Dio al problema dell'uomo lascia ancora insoluto il problema dell'uomo (cfr. Kasper, 1985, p. 46).
Notiamo infine che le incertezze del pensiero filosofico sul tema dell’autonomia possono riflettersi a volte anche sulla religione, qui intesa in senso ampio. Il rapporto “religioso” fra l'uomo e Dio può anch’esso oscillare tra due tentazioni: “umanizzare il divino” fino a negarlo per amore dell'uomo, confinando l'ambito della religione e dell'esercizio della libertà alla semplice prassi sociale; oppure “spiritualizzare l’umano” fino a negare l'uomo per affermare Dio, dissolvendo così la religione e la libertà nello spiritualismo, in una fede fiduciale ove la prassi e la storia non hanno più valore. La prima tentazione, sorge dal peso insopportabile dell'assenza di Dio, del suo silenzio, dal desiderio di adorarlo in ciò che è umano; la seconda nasce dal peso opprimente del mondo, dal quale si cerca di sfuggire desiderando di riconoscere il divino in ciò che non è più umano. Come vedremo (vedi infra, II), nel risolvere alcune aporie del pensiero filosofico, il cristianesimo sarà in grado di comporre anche quest’ultima opposizione polare, mutando le due “tentazioni” in due “tensioni” complementari e indissociabili, così legate che perdendo la verità dell’una si terminerebbe col perdere anche la verità dell’altra.
II. L’autonomia delle realtà create alla luce della Rivelazione cristiana e del magistero del Concilio Vaticano II
1. La prospettiva della Sacra Scrittura e della riflessione filosofica ad essa collegata. Una riflessione sulla nozione di autonomia che parta dal dato biblico non potrà riguardare, isolatamente, i rapporti fra il mondo e Dio, ma dovrà necessariamente coinvolgere anche il ruolo della persona umana, sia per il più alto significato che l’autonomia creaturale assume con la libertà, sia perché l’autonomia del mondo creato esprime massimamente il suo valore e le sue potenzialità attraverso la conoscenza umana ed il lavoro dell’uomo. L’uomo, creato a immagine e somiglianza di Dio, è in qualche modo rappresentante, vicario di Dio nella creazione; egli riceve in consegna un mondo che deve non soltanto custodire e far fruttificare (cfr. Gen 1,27-28; Sal 8), ma anche condurre verso il suo compimento (cfr. Gen 2,4b-7; 2,15; Sap 9,1-3). E potrà farlo, sempre secondo l’insegnamento biblico, in virtù di due considerazioni: a) la natura ha delle leggi proprie, che l’uomo è in grado di conoscere ed utilizzare; b) le azioni libere dell’uomo sono fonte di una storia vera e non apparente, con la quale egli in certo modo coopera alla creazione, convogliandola verso il progetto che Dio ha su di essa, obbedendo, mediante la sua risposta libera, alla volontà del Creatore. Ma tale progetto può essere ostacolato dal peccato, che allontana le creature dal fine che Dio ha loro assegnato, e per realizzare il quale l’autonomia è condizione non strumentale ma necessaria; è in forza, infatti, di tale autonomia che il mondo è affidato al suo tempo, e l’uomo può avere una storia. Il fallimento originario della libertà umana, datosi storicamente con la chiamata ad una prova il cui esito negativo la dottrina cristiana chiama «peccato originale» (cfr. Gen 3,1-17; DH 1512-1513; Gaudium et spes, 13), ha fatto sì che la cooperazione dell’uomo al disegno creatore di Dio — e la corrispondente autonomia che ne era condizione — non potessero più realizzarsi se non mediante un nuovo dono di grazia, la partecipazione ad una rinnovata ricapitolazione/riconciliazione di tutte le cose con Dio operata da Gesù Cristo, il quale, nel restituire la libertà umana al suo legame originale con la verità e con l’amore, rivela anche la nativa presenza di una mediazione cosmica del Verbo incarnato in principio e alla fine di tutta la creazione (cfr. Mt 19,4-6; Gv 8,32; Rm 5,11-20; Ap 5,13; 22,13; Ef 1,10; Col 1,19-20). Una libertà viziata dall’aver messo in sospetto il bene che presiedeva il piano creatore di Dio e motivava la sua autorità, sarà redenta da una libertà — quella di Cristo — capace di un affidamento totale, oltre l’abbandono, il silenzio e la morte.
In quali termini, partendo dal linguaggio della Scrittura, si può parlare di “autonomia del mondo”? Innanzitutto osservando che le leggi naturali che Dio ha impresso nelle cose, lungi dall’essere viste come una sorta di controllo strumentale o meccanicista del Creatore sulle creature, sono da queste possedute come “proprie”. La stabilità delle leggi, da non intendersi in modo determinista, è immagine della fedeltà/alleanza di Dio nei confronti del suo creato, nel senso che Egli, mediante le leggi autonome della natura, conduce ogni cosa soavemente verso il suo fine (cfr. Sap 8,1), senza bisogno di moltiplicare i suoi interventi in quei processi che sono propri del mondo fisico-biologico, né di correggerne in modo estrinsecista il cammino evolutivo. La dipendenza originaria ed originante di ogni cosa dal Creatore implica che si debba parlare di “autonomia relativa” e non “assoluta”; ma una simile specificazione — di cui il messaggio biblico nel suo insieme fa esplicita consegna — non deve intendersi in modo “riduttivo” o “limitativo” per il concetto di autonomia. Lo conferma la riflessione filosofica fatta da Tommaso d’Aquino alla luce della Rivelazione: l’essenza e la natura delle cose create, considerate “contingenti rispetto a Dio”, vengono nondimeno ritenute dall’Aquinate come “necessarie nel loro ordine specifico” e dunque, sempre in questo medesimo ordine, soggetto di necessità assoluta, senza che per questo Dio debba dirsi debitore ad alcuno. «Affermando che Dio ha prodotto le cose per volontà e non per necessità, non si esclude che egli abbia voluto che certe cose esistessero in modo necessario ed altre in modo contingente, così da produrre nelle cose una diversità ordinata. Perciò niente impedisce che alcune cose causate dalla volontà divina siano necessarie. […] Che queste realtà naturali venissero prodotte da Dio fu una cosa volontaria, ma una volta così stabilito è assolutamente necessario che ne nascano e che esistano certe conseguenze» (Contra Gentiles, II, c. 30; si veda in proposito il contesto dei cc. 29-30). Una volta donato l’essere al mondo, Dio non riprende il suo dono, ma rispetta l’autonomia che a quel dono era necessariamente legata.
Tutto ciò assume un valore ancor più profondo, ed in certo modo paradigmatico, nel caso della creatura umana. Anch’essa, analogamente a quanto avviene nel mondo inanimato, è depositaria di una “legge propria” e dunque di una propria autonomia. La Sacra Scrittura parla di una «legge impressa nel cuore dell’uomo», vivendo la quale si vive “secondo verità” e la persona procede verso la sua auto-realizzazione (cfr. Sal 19; Rm 2,13-16). Con essa si vuole indicare una legge che appartiene ad ogni essere umano in forza della sua creazione ad immagine di Dio, e che ciascuno può riconoscere nel giudizio della sua coscienza (cfr. Veritatis splendor, 54-64). La legge morale ricevuta dal popolo di Israele e rivelata da Dio nel contesto dell’alleanza sinaitica sarà espressione esplicita di quanto ogni uomo potrebbe conoscere anche per via naturale, sebbene non senza difficoltà, a causa di quell’offuscamento che il peccato provoca sulla ragione. L’idea di questa legge incontrerà uno sviluppo parallelo, in ambito etico, con la nozione di «legge morale naturale» o, anche, di «diritto naturale» (cfr. Maritain, 1985; Hervada, 1990; Di Blasi, 1999). A differenza delle altre creature, la cui natura conduce in modo inconsapevole verso il compimento del piano eterno di Dio sul mondo (sebbene sempre in un modo proprio e non strumentale), l’essere umano razionale vi tende in modo libero e cosciente, perché la sua autonomia si chiama libertà.
La “teologia dell’immagine”, e la conseguente abilitazione dell’uomo a cooperare all’opera della creazione, prevengono dall’errore di vedere in Dio un antagonista e si distanziano da quelle interpretazioni conflittuali della libertà umana, incapaci di comporla con l’esistenza di Dio e con la sua onnipotenza. La visione cristiana della libertà umana non resta certo confinata entro l’idea di una “libertà da” (o di una “libertà di”), ma la comprende necessariamente anche, e soprattutto, come una “libertà per”. Immagine di quella libertà presente nel seno della vita divina, essa va sempre unita alla verità e all’amore (cfr. Veritatis splendor, 84-87). Il legame fra libertà e verità spiega il fallimento di quei tentativi di intendere l’esercizio della libertà come sforzo prometeico di “voler essere ciò che non si è” invece di orientarsi a “diventare ciò che si è”: in tal modo la persona non potrà realizzare più se stessa, perché la sua auto-trascendenza finisce col restare frustrata in un orizzonte totalmente immanente il quale, non essendole proprio, non può dare ragione neanche della sua verità. Qui giace il senso di quell’inquietum est cor nostrum donec requiescat in Te così vividamente percepito da Agostino (cfr. Confessiones, I, 1) e della lezione di Tommaso sul nostro desiderium naturale videndi Deum (cfr. Summa theologiae, I-II, q. 3, a. 8; Contra Gentiles, III, cc. 25, 50). Nel suo legame con l’amore, la libertà si riconosce come facoltà posseduta in ordine al dono di sé, capace di uscire da sé per ritrovarsi pienamente nell’Altro. Sarà proprio l’immagine di un Dio trinitario, la cui vita consiste nella comunione feconda di un libero amore personale, a garantire che nel dono di sé la libertà umana non venga persa, ma realizzata. Se l'Assoluto verso il quale la libertà umana si dirige uscendo fuori da sé ed autotrascendendosi è il Dio cristiano, allora questa tensione non si traduce in una semplice alienazione (altro da sé), né in un annullamento (vedi supra, I.2). È, al contrario, un trascendere verso colui che è in grado di fondare ed attuare l’individualità-libertà della creatura, ritrovando il quale si ritrova pienamente se stessi. L'auto-trascendenza della libertà umana diviene allora il modo di possedere la propria “ipseità”, e dunque la propria autonomia. Un autore come Nicola Cusano, ad esempio, vedeva il cammino che conduce l’anima all’unione con Dio non (unicamente) in termini di annullamento e di perdita, ma suggeriva piuttosto l’idea che è nel suo auto-appartenersi che la creatura libera può uscire dal finito per accedere alla presenza del Dio infinito; in altre parole, Dio si darà pienamente a me quando io apparterrò a me stesso: «Tu, Signore, nel mio intimo più segreto, mi rispondi e mi dici: Sii tuo, ed Io sarò tuo (sis tu tuus, et Ego eris tuus). O Signore, soavità d’ogni dolcezza, hai posto nella mia libertà la decisione di essere di me stesso, se lo vorrò. Se io non sono di me stesso, Tu non sei mio: altrimenti costringeresti la mia libertà, poiché non puoi essere mio, se prima io non sono di me stesso» (De visione Dei, VII, in “Opere filosofiche”, Torino 1972, p. 557).
L’autonomia rappresenta pertanto un fondamentale aspetto della “dignità” dell’universo cristiano. Quest’ultimo manifesta una maggiore perfezione — e di conseguenza glorifica maggiormente Dio — quando il bene e il fine ultimi intesi e voluti dalla Causa prima sono raggiunti con il concorso delle cause seconde. Esse vi concorrono ciascuna secondo la loro propria natura — la persona umana con la sua libertà — e si perfezionano partecipando ad altri quanto posseggono. Dio non governa il mondo operando “immediatamente” su tutte le creature, oppure operando “attraverso” di esse, ma lasciando che ognuna sia causa di effetti che le appartengono come propri: «Poiché l’atto del governare ha il compito di condurre alla perfezione gli esseri governati, tanto sarà migliore il governo quanto maggiore sarà la perfezione comunicata, da chi governa, alle cose governate. Ora, si ha certo una maggiore perfezione nel far sì che una cosa sia buona in se stessa e insieme sia causa di bontà nelle altre, che non nel rendere la cosa buona soltanto in se stessa. Dio perciò governa le cose in maniera da rendere alcune di esse cause rispetto al governo di altre» (Summa theologiae, I, q. 103, a. 6; cfr. ibidem, a. 4; Contra Gentiles, III, cc. 69, 73).
Uno snodo della massima importanza per la comprensione della nozione di autonomia consegnata dalla filosofia cristiana è rappresentato dalla differenza sostanziale che intercorre fra “causalità seconda” e “causalità strumentale”. Utilizzate non di rado in modo erroneamente equivalente, esse sottendono in realtà contenuti assai diversi. Lo strumento non è il soggetto di un’azione che gli appartenga, ma deve tutta la sua causalità operativa all’azione diretta dell’agente principale; la causa seconda al contrario, sebbene sia “seconda” in quanto non ha concepito da sé il fine e il bene dell’intero, la cui priorità nell’intenzione spetta alla Causa prima, è nondimeno soggetto vero ed autonomo di effetti che da essa dipendono e per la cui produzione essa possiede, sul piano esecutivo, tutto il necessario. Se lo strumento fa pensare ad una dipendenza transitiva ed immediata, quasi meccanica, dall’agente principale, la causalità secondaria rimanda ad una dipendenza legata alla trascendenza dell’atto di essere con il quale la creatura ha ricevuto da Dio, con l’esistenza, un’essenza ed una natura che fondano la propria autonomia. È grazie alla trascendenza della causalità divina che tutto è della creatura e tutto è di Dio, tutto appartiene alla creatura e tutta la creatura appartiene a Dio.
2. Il valore delle realtà terrene e la loro autonomia nell’insegnamento della “Gaudium et spes”. In dialogo con un mondo di cui ha inteso cogliere non solo le domande e le ansie, ma anche le speranze ed i valori, il Concilio Vaticano II (1962-1965) ha offerto importanti e significativi insegnamenti sul concetto di autonomia e su alcune nozioni ad essa collegate, quali la secolarità, il senso dell’attività umana e il progresso. Conservando una certa analogia con quanto accade nella Sacra Scrittura, anche nel linguaggio conciliare il termine «mondo» si colora di molteplici significati. Esso non viene solo visto come qualcosa che si collochi “di fronte” alla Chiesa o al messaggio evangelico (come nelle abituali ed inevitabili espressioni Chiesa e mondo, Vangelo e mondo, o anche Vangelo e cultura, ecc.), ma è anche un mondo all’interno del quale i credenti vivono ed operano, e che dunque la Chiesa sente come suo; un mondo di cui essa fa propri i problemi e le aspirazioni, al quale si sa — come Cristo — inviata, e che desidera ardentemente condurre a Dio agendo nel suo interno a modo di fermento, perché il mondo stesso, pur stando “di fronte a Dio”, a Lui appartiene e a Lui necessariamente rimanda.
Innervato da una tale prospettiva, il Concilio ha raccolto nella Gaudium et spes (7.12.1965) una dottrina particolarmente sensibile al valore delle realtà terrene e al ruolo che esse, conservando la loro corrispondente autonomia, occupano nel piano salvifico di Dio. Sono realtà, tuttavia, che non cessano di presentarsi in tutta la loro dimensione “umana”, e dunque recano accanto al sigillo dell’immagine divina anche la debolezza e le ferite del peccato, e che per questo guardano a Gesù Cristo non solo come al rivelatore, ma anche come al restauratore del loro intrinseco valore. L’attività umana temporale (in saeculo) dell’uomo è valutata in termini manifestamente positivi: «l'attività umana individuale e collettiva, ossia quell'ingente sforzo col quale gli uomini nel corso dei secoli cercano di migliorare le proprie condizioni di vita, considerato in se stesso, corrisponde al disegno di Dio. L'uomo, infatti, creato a immagine di Dio, ha ricevuto il comando di sottomettere a sé la terra con tutto quanto essa contiene, e di governare il mondo nella giustizia e nella santità, e così pure di riportare a Dio se stesso e l'universo intero, riconoscendo in lui il Creatore di tutte le cose; in modo che, nella subordinazione di tutte le realtà all'uomo, sia glorificato il nome di Dio su tutta la terra. Ciò vale anche per gli ordinari lavori quotidiani. Gli uomini e le donne, infatti, che per procurare il sostentamento per sé e per la famiglia esercitano il proprio lavoro così da prestare anche conveniente servizio alla società, possono a buon diritto ritenere che col loro lavoro essi prolungano l'opera del Creatore, si rendono utili ai propri fratelli, e donano un contributo personale alla realizzazione del piano provvidenziale di Dio nella storia» (Gaudium et spes, 34). In un simile quadro non avrebbe pertanto senso vedere nell’uomo un antagonista di Dio, né in Dio un geloso custode di prerogative che sarebbero perdute se partecipate all’uomo: «I cristiani, dunque, non si sognano nemmeno di contrapporre i prodotti dell'ingegno e della potenza dell'uomo alla potenza di Dio, quasi che la creatura razionale sia rivale del Creatore; al contrario piuttosto, essi sono persuasi che le vittorie dell'umanità sono segno della grandezza di Dio e frutto del suo ineffabile disegno. E quanto più cresce la potenza degli uomini, tanto più si estende e si allarga la loro responsabilità sia individuale che collettiva» (ibidem).
Il documento affronta il tema dell’autonomia in modo diretto, conscio del clima culturale e filosofico presente nel “mondo” al quale la Chiesa si rivolge: «molti nostri contemporanei, però, sembrano temere che, se si fanno troppo stretti i legami tra attività umana e religione, venga impedita l'autonomia degli uomini, delle società, delle scienze» (Gaudium et spes, 36). E lo fa operandovi una necessaria distinzione semantica, spartiacque di due diverse concezioni filosofiche. La prima corrisponde all’accezione positiva del termine, della cui verità la pagina conciliare offrirà in chiusura una fondazione metafisica. «Se per autonomia delle realtà terrene intendiamo che le cose create e le stesse società hanno leggi e valori propri, che l'uomo gradatamente deve scoprire, usare e ordinare, allora si tratta di una esigenza legittima, che non solo è postulata dagli uomini del nostro tempo, ma è anche conforme al volere del Creatore. Infatti è dalla stessa loro condizione di creature che le cose tutte ricevono la loro propria consistenza, verità, bontà, le loro leggi proprie e il loro ordine; e tutto ciò l'uomo è tenuto a rispettare, riconoscendo le esigenze di metodo proprie di ogni singola scienza o arte» (ibidem). Il riferimento al rispetto di una «legge propria» presente nelle creature è esplicito e puntuale. Si tratta di un’autonomia che coinvolge anche «il metodo di ogni singola scienza», il cui essere vincolato alla verità non si traduce in restrizione o confinamento, ma in fedeltà al proprio oggetto formale e in onestà di ricerca. Sul versante opposto si trova un’accezione ben diversa, così riepilogata dal documento: «Se invece con l'espressione “autonomia delle realtà temporali” si intende che le cose create non dipendono da Dio, che l'uomo può adoperarle senza riferirle al Creatore, allora non vi è chi riconosca Dio e non avverta quanto false siano tali opinioni. La creatura, infatti, senza il Creatore svanisce. Del resto tutti coloro che credono, a qualunque religione appartengano, hanno sempre inteso la voce e la manifestazione di Lui nel linguaggio delle creature. Anzi, l'oblio di Dio priva di luce la creatura stessa» (ibidem). La non percorribilità di una nozione di autonomia intesa come totale indipendenza e autofondazione non viene stabilita su basi bibliche, ma ancorata alla rivelazione naturale comune a tutte le religioni, alla capacità che l’uomo ha di cogliere l’Assoluto come ragione ultima del contingente, una riflessione disponibile ad ogni filosofia che possegga un’istanza metafisica.
Il Concilio si muove con equilibrio fra le due correnti teologiche in quel momento dominanti: quella «incarnazionista», che attribuiva valore e dignità ad ogni realtà della città degli uomini sic et simpliciter a motivo dell’incarnazione del Verbo, e quella «escatologista» che tendeva a rimandare questo valore alla fine dei tempi, nella città di Dio ormai trasfigurata. Il realismo dell’esperienza del peccato mostra che l’attività umana ha bisogno di essere elevata e redenta dal mistero di Cristo, e che dunque i frutti dell’Incarnazione, accolti nella libertà e non senza conversione personale, giungeranno a pienezza solo nella Pasqua celeste (cfr. Gaudium et spes, 38); ma è anche vero che tutto quanto la carità edifica nella storia sarà conservato nei nuovi cieli e nella nuova terra (cfr. ibidem, 39). Si parla così di una «legge fondamentale dell’economia cristiana», quella della convergenza fra il Vangelo e quanto concorre al vero bene dell’uomo, un’economia all’interno della quale «la giusta autonomia della creatura, specialmente dell'uomo, nonché tolta, viene piuttosto restituita nella sua dignità e in essa consolidata» (ibidem, 41).
Altri documenti riprendono il tema dell’autonomia delle realtà terrene con speciale riferimento alla missione dei fedeli laici. A proposito del loro compito si afferma che il progetto divino di unificare in Cristo tutte le cose «non solo non priva l'ordine temporale della sua autonomia, dei suoi propri fini, leggi, mezzi, della sua importanza per il bene degli uomini, ma anzi lo perfeziona nella sua consistenza e nella propria eccellenza e nello stesso tempo lo adegua alla vocazione totale dell'uomo sulla terra» (Apostolicam actuositatem, 7). Nell’esercitare la loro “funzione regale”, con la quale i laici partecipano alla regalità di Cristo su tutte le cose, essi «devono riconoscere che la città terrena, a ragione dedita alle cure secolari, è retta da propri princìpi» (Lumen gentium, 36). Ci troviamo in sostanza di fronte ad un insegnamento in cui l’approfondimento della nozione di autonomia non pare affidato tanto alla meticolosa definizione di ambiti, competenze o domini di influenza, quanto ad una più profonda intelligenza del “principio di creazione”, mediante il quale la creatura, vincolata a Dio, acquista la sua consistenza e, con essa, la capacità di operare con leggi proprie, che nella persona umana diviene esercizio responsabile e risposta libera ad una vocazione del Creatore.
III. Emancipazione del mondo da Dio e secolarizzazione: il cristianesimo ha desacralizzato il mondo?
Il pensiero filosofico e scientifico ha talvolta imputato alla visione religiosa cristiana alcune conseguenze negative che l’affermazione dell’autonomia del mondo avrebbe in certe occasioni comportato. Esisterebbero conseguenze interne alla fede stessa, quelle di una deriva dell’autonomia verso la secolarizzazione e l’ateismo, ed altre in rapporto alle diverse concezioni della natura, perché in un mondo staccato da Dio avrebbero buon gioco l’idea del dominio tecnologico e dello sfruttamento del creato. In sede filosofica il tema si collega con quella “critica alla società tecnologica” operata nel XX secolo in particolare da M. Heidegger (cfr. Introduzione alla metafisica, 1953; Nietzsche, 1961) e da H. Jonas (cfr. Il Principio responsabilità, 1979), la quale, seppur indirizzata al pensiero occidentale in genere, intendeva coinvolgerne in qualche modo anche le radici cristiane. Per Heidegger, le concettualizzazioni prima platonica e poi aristotelica dell’idea (eîdos) e della sostanza (ousía), e poi della filosofia e della teologia cristiane — secondo lui responsabili di avere esteso tale concettualizzazione a Dio stesso —, hanno terminato smarrendo il rispetto per l’Essere in favore di una sua reificazione. Così anche per Jonas, la tecnologia ha condotto l’“uomo creato” a mutarsi in “uomo creatore”, un uomo capace di produrre una natura non reale, ma artificiale, che finisce per rivoltarglisi contro, apprestandosi ormai a essere egli stesso materia di ulteriori manipolazioni, per ulteriori realtà artificiali.
Per quanto riguarda i rapporti con il pensiero cristiano, oggigiorno la tematica viene posta, più o meno, nei termini seguenti. Promuovendo l’idea di una consistenza della natura di fronte a Dio, il cristianesimo non avrebbe solo spodestato il mondo del suo statuto intrinsecamente divino: la distinzione del mondo da Dio, nel favorire l’affermarsi del pensiero scientifico mediante la rivalutazione dell’induzione, del realismo conoscitivo e della fiducia in un ordine razionale, avrebbe anche incrementato il progresso della tecnica, e dunque spianato, con esso, la strada che dal controllo conduce alla manipolazione e all’abuso. Sul versante della fede, l’autonomia del mondo originatasi con la sua desacralizzazione, si sarebbe poi tramutata in totale indipendenza da Dio, aprendo così le porte alla secolarizzazione, guidata da un uomo sempre più fiducioso nei suoi poteri demiurgici. Il cristianesimo porterebbe dunque dentro di sé il seme della perdita della “visione religiosa del mondo”. Si assiste pertanto alla proposta di cercare il recupero di un’autentica visione religiosa della natura e delle cose lungo percorsi alternativi. Ciò spiegherebbe la provenienza non cristiana di una parte non trascurabile dei movimenti ecologisti odierni, quasi tutti depositari di una certa “carica spirituale”. Sinteticamente: il superamento del panteismo primitivo (primi secoli dell’era cristiana), sfocerebbe presto o tardi nel deismo (all’inizio della modernità), il cui esito finale è rappresentato dall’ateismo (fine della modernità), preludio di un nuovo politeismo/panteismo (post-modernità).
Un simile itinerario lo si potrebbe ripercorrere anche seguendo la trasformazione subita dalla nozione di leggi naturali nel corso del tempo. Nel medioevo cristiano, fino all’inizio del XVII secolo, tali leggi venivano viste come il riflesso diretto dell’intelligenza e della razionalità di un Dio Creatore, leggi di valore assoluto ed universale nel loro ordine, sebbene contingenti rispetto a Dio (superamento teista del panteismo). Successivamente, nei secoli XVIII e XIX tali leggi divengono progressivamente espressione del “funzionamento autonomo” della natura, la quale, pertanto, non ha più bisogno di alcun Creatore, sebbene essa sia ancora vista come fonte di determinazione e di legalità (deriva deista e poi atea). Nel secolo XX si farebbe infine strada, con l’indeterminismo, la complessità e l’impredicibilità, la negazione di ogni principio di legalità della natura. Il Dio legislatore è definitivamente sconfitto. A Dio resterebbe soltanto la possibilità di agire “nelle pieghe” della natura. La natura sarebbe ora finalmente libera (autonoma) e capace di rivelare le sue vere energie nascoste. Ma queste energie — è significativo segnalarlo — cominciano ad essere oggi viste, almeno da alcuni, come energie spirituali nel senso neo-panteista del termine.
In entrambi i casi viene posta una questione: parrebbe che la visione/rivalutazione cristiana della consistenza del mondo (secolarità) porti con sé, come esito finale, l’estromissione di Dio dal mondo (secolarizzazione); tale estromissione comporta però dei “guai” (dispotismo della tecnica), che andrebbero risolti mediante il recupero di una visione religiosa alternativa, non cristiana. Ambedue i precedenti itinerari sono certamente suscettibili di critica, sia dal punto di vista filosofico che da quello dell’epistemologia scientifica, ma essi meritano nondimeno, anche a motivo della loro ampia diffusione, alcune necessarie precisazioni.
Innanzitutto va ricordato che l’originario messaggio biblico non presenta l’uomo come arbitro del creato. Il mandato di assoggettare la terra (cfr. Gen 1,26-28) rimanda ad un dominio intelligente e responsabile, perché compreso come conseguenza dell’immagine di Dio nell’uomo. L’azione del «soggiogare la terra» non esprime una sottomissione dispotica, ma il compito di popolarla, diffondendovi la vita e la presenza del genere umano. La fonte biblica Jahvista, al notare che non vi era erba verde perché il Signore non aveva fatto piovere, e che non c’era nessuno che lavorasse il terreno, né che facesse salire dalla terra l’acqua nei canali per poter irrigare il suolo (cfr. Gen 2,4-6), introduce il contesto di un lavoro richiesto all’uomo: «lo pose nel giardino di Eden perché lo coltivasse e lo custodisse» (Gen 2,15). Siamo di fronte ad un’attività tecnica intelligente (costruzione di canali, conoscere le leggi dell’agricoltura, ecc.) associata ad una «custodia», non solo materiale ma anche morale, come rivela il fatto che il verbo «custodire» (eb. samar) sia il medesimo usato quando la Bibbia parla di custodire la vita umana e di custodire la legge di Dio nel proprio cuore (cfr. Gen 4,9; Dt 4,9; Prv 13,3). La benedizione-mandato della Genesi abilita al compito di “umanizzare la terra”, cioè di rendere il mondo sempre più adatto ad ospitarvi la vita umana, a trasmetterla e a custodirla. Il NT rivelerà che il senso di quel “dominio” è la partecipazione ad una regalità, quella di Cristo su tutte le cose, una regalità che si traduce in servizio, nella logica della nuova legge della carità.
Se l’idea di una desacralizzazione della natura non pare evincersi dal messaggio biblico, possiamo suggerire che la visione di un controllo e di uno sfruttamento del creato confluisce nel pensiero cristiano-occidentale attraverso due diverse correnti filosofiche: il dualismo e lo storicismo. La prima, nelle sue radici classiche (platoniche, neoplatoniche e manichee), conduceva ad una svalutazione della materia in favore delle realtà dello spirito, rendendola pertanto maggiormente disponibile ad un’attività umana di manipolazione e di consumo. Ma saranno le sue radici moderne, soprattutto con F. Bacone e con Cartesio, a determinarne le maggiori conseguenze. L’empirista inglese, consolidato nella convinzione che «sapere è potere», affida alla scienza il compito di instaurare il regnum hominis sulla terra, sostituendo alla contemplazione l’azione, mentre il filosofo francese esalterà in chiave razionalista il dualismo fra pensiero e materia, immagine di quello fra Dio e mondo. In entrambi influisce il nominalismo di Ockham, il cui volontarismo teologico negava consistenza alla natura delle cose preparando la strada ad una relazione meramente “tecnica” fra Dio e il mondo. Circa la seconda corrente, le sue multiformi manifestazioni saranno accomunate da una similare tensione verso il futuro, che fa cercare la verità delle cose nel domani dell’escathon, inducendo una certa disattenzione per l’oggi dell’habitat. Pur con tutte le semplificazioni del caso, queste concezioni hanno coabitato con il pensiero cristiano, incidendo su di esso lungo la sua storia.
Osserviamo che il cristianesimo possiede una visione “religiosa” del mondo, di cui proclama l’autonomia, senza fare per questo del mondo una religione, perché vede il mondo alla luce di Cristo, soggetto di una mediazione fondativa per tutta la creazione. Ma tale associazione non si presenta con i caratteri di un “pancristismo” (Cristo è nel mondo e il mondo è in Cristo), cosa che rimanderebbe ad una forma di panteismo camuffato. Il Dio che sostiene il mondo e ne fonda l’autonomia è un unico Dio in tre Persone. La mediazione/ricapitolazione del Verbo incarnato va compresa con un respiro trinitario: il Padre vuole il mondo per il Figlio, e se il mondo ha nel Figlio il suo ubi consistat è perché il mondo sia abilitato a manifestare l’Amore, quello Spirito-Amore nel quale il Figlio può ricondurre il mondo al Padre. Se il mondo tende a Cristo, lo fa dirigendosi a Lui come al suo télos, non come ad una sua parte: lo stesso Verbo che ha voluto “coinvolgersi” nella creazione, la trascende, perché Egli è «in principio» (Gv 1,1).
Nelle sue forme che hanno caratterizzato l’epoca moderna, l’ateismo non pare dipendere da una particolare concezione della natura, di cui se ne ponderava la consistenza più o meno autonoma rispetto a Dio, quanto, piuttosto, da una concezione dell’uomo. Non è il riconoscersi libero dell’uomo, e dunque autonomo, a determinare il rifiuto di Dio, ma il particolare impiego che della libertà si intenda fare. L’ateismo si presenta come una volontà di agire, decidere o usare delle cose prescindendo da Dio: è questa opzione — che matura nel cuore dell’uomo — a condizionare il suo “sguardo sulla natura”, uno sguardo che può nascere dall’umiltà e dallo stupore oppure da una volontà di potenza. In merito poi a quel “recupero”, cercato lungo itinerari alternativi al cristianesimo, di una visione religiosa della natura capace di salvaguardarla da usi desacralizzanti e dannosi, va ugualmente segnalato che buona parte delle proposte tradiscono un certo panteismo, riconoscibile quando la ragione ultima che deve guidare il corretto comportamento dell’uomo viene ricercata nella natura stessa e non al di là di essa, obbligando la ragione ad oscillare fra un cosmocentrismo incapace di autofondarsi ed un antropocentrismo prometeico o faustiano.
Sulla scorta delle vicende storico-filosofiche del XX secolo (inclusi i ripensamenti ed il dibattito aperto sulla società tecnologica) e confortata dalla dottrina del Concilio Vaticano II, la teologia contemporanea è chiamata a sviluppare maggiormente la comprensione della nozione di autonomia. Riteniamo tuttavia che ciò non debba essere fatto solo all’interno di una riflessione sul problema ecologico — il cui spazio nei trattati sulla creazione è costantemente in crescita — ma debba rivolgersi anche ad un necessario approfondimento della nozione di “secolarità”, collegata a quel «senso dell’attività umana nell’universo» — attività temporale, in saeculo — cui la Gaudium et spes ha voluto dedicare un intero capitolo (cfr. nn. 33-39). Limitandosi alla prospettiva ecologica, la teologia può correre il rischio di muoversi su un piano meramente orizzontale, per domandarsi come uomo e natura debbano convivere nel rispetto dei piani di Dio; la prospettiva della secolarità valorizzerebbe invece un piano verticale, interrogandosi su come l’uomo, vivendo in Cristo e partecipando della sua capitalità/regalità, debba tributare il giusto valore all’autonomia della natura, alle sue leggi proprie, per ricondurla a Dio mediante l’esercizio della sua autonomia, cioè quella del suo agire libero.
IV. L’autonomia del sapere scientifico in relazione alla teologia e alla fede
1. Autonomia della scienza e sapere filosofico. La differenziazione fra le varie discipline, ancor più che per la diversità dell’oggetto, si consolidò storicamente soprattutto a motivo della fondazione di un metodo proprio per ciascuna di esse. Nelle epoche classica e medievale le prime incipienti manifestazioni di tale differenziazione non implicavano una speciale percezione dell’autonomia metodologica come “problema”, in quanto l’esistenza di una comune visione della natura pacificamente accettata e regolata tanto dalla filosofia (filosofia naturale e logica), come dalla teologia (Sacra Scrittura), non assumeva il carattere di una “visione egemone” dalla quale occorresse emanciparsi. Il platonismo e l’aristotelismo, che persistevano in vari modi anche nella sintesi della teologia cristiana, offrivano un quadro di riferimento unitario, capace di inglobare lo studio del reale nelle sue diverse forme, grazie soprattutto ad un’opportuna impalcatura metafisica (partecipazione dell’essere, gradi di perfezione, dottrina della causalità, ecc.). La matematica, la geometria, la statica o la botanica, per fare solo degli esempi, esistevano con oggetti propri e metodologie proprie ben prima di Bacone o di Galileo, e così anche le pratiche dell’osservazione e dell’esperimento. Ma quando l’epoca moderna porrà il tema della “autonomia della scienza”, lo farà intendendo sottolineare, in modo particolare, il “distacco” delle scienze naturali dalla filosofia; tale distacco, però, non si localizza in un momento e in un ambito determinati — sebbene vi siano stati degli eventi che lo abbiano fatto risaltare in modo paradigmatico — ma si realizzò in un periodo di tempo piuttosto lungo. Buona parte delle categorie, delle nozioni e della logica aristoteliche, saranno ancora impiegate nel linguaggio della scienza a cavallo fra il Seicento e il Settecento, e la comprensione della fisica come “filosofia naturale” durerà ancora più a lungo. In tal senso, nel caso particolare dell’aristotelismo, il superamento della sua “fisica”, perché non più capace di render conto dell’analisi accurata e della predizione dei fenomeni, non implicava di per sé un rifiuto della sua “filosofia”: se ciò avvenne fu perché la progressiva eclissi della prima finì per trascinare con sé anche la seconda.
Nella valutazione della separazione fra scienze naturali e filosofia, con la quale si identifica in sostanza la nascita del metodo scientifico, e dunque l’autonomia della scienza, occorre mettere in luce alcuni importanti elementi. Certamente preparata dal crescente uso delle matematiche nell’analisi e nella previsione dei fenomeni naturali, prima con Ruggero Bacone, poi con Galileo, Keplero e Descartes, la trattazione delle discipline scientifiche in modo indipendente dalla filosofia — dapprima per le scienze fisiche ma poi anche per la biologia — implicava una certa “riduzione” dell’oggetto in studio alle sue dimensioni empiriche, prima fra tutte la misurabilità, mediante il ricorso a modelli ideali ed approssimativi, entro i limiti di tolleranza richiesta a seconda dei casi. Il metodo scientifico poneva così il suo accento sulla causalità efficiente, trascurando, per i fini quantitativi e predittivi della propria analisi, la causalità formale e quella finale. Il punto in questione è che le scienze naturali non potevano tuttavia prescindere, nel loro studio, da una serie di nozioni primitive e da un esercizio della razionalità (spontanea o riflessa) che erano ancora di origine filosofica, le cui giustificazioni ultime non si trovavano, né si trovano, all’interno del metodo scientifico. Tali premesse, logiche e ontologiche, presenti sia nel metodo che nell’oggetto delle scienze, diverranno sempre più implicite ed inespresse, al punto tale da non avvertire più la necessità di dovervi riflettere sopra. A farlo sarà appunto una filosofia, la “filosofia” della scienza, mentre la scienza in quanto tale cesserà progressivamente di occuparsene. Occorrerà attendere gli esiti del Novecento, quando il sorgere di nuove problematiche scientifiche ed epistemologiche di frontiera come l’indeterminismo e la complessità, il problema dei fondamenti e dell’intero, la rivalutazione della forma, della direzionalità e dell’emergenza, ecc., spingeranno la scienza a volgersi “dal suo interno” verso una nuova riflessione sul proprio metodo e sui propri fondamenti. Non a caso, tali riflessioni segneranno proprio un recupero delle “causalità dimenticate”, quella formale e quella finale, oltre ad un attento riesame dei problemi legati al linguaggio, alle definizioni assiomatiche, al rapporto fra soggetto e oggetto.
Autonomia delle scienze dalla filosofia non vuol dire pertanto separazione o indipendenza, ma distinzione e operatività metodologica. La filosofia, nelle sue varie forme regolatrici legate alla logica e alla metafisica, ma anche al senso comune, continua ad offrire di fatto i presupposti che rendono possibile ogni attività scientifica anche se, nella maggior parte del suo lavoro ordinario, la scienza non ha necessità di tematizzare tale aspetto in modo esplicito. Un modo corretto di indicare lo snodo fra scienze naturali e sapere filosofico, proprio sulla scorta di quei problemi di ordine filosofico che la scienza percepisce e non può formulare in modo compiuto né risolvere con gli strumenti a sua disposizione, sarebbe allora non tanto quello di insistere sui “limiti” della scienza, ma piuttosto quello di parlare dei suoi “fondamenti”: il sapere filosofico si colloca primariamente nel centro del sapere scientifico, e solo secondariamente sulla sua frontiera.
2. Risposte della scienza, risposte della fede. Di carattere più articolato è l’affermazione dell’autonomia delle scienze in rapporto al sapere teologico. La conoscenza medievale ruotava in gran parte attorno alla Sacra Scrittura, che ne rappresentava una delle fonti più complete, e certamente la più autorevole. Documento di gran lunga più commentato di tutti gli altri negli studi e nelle prime università, dalla Scrittura si estraevano non solo insegnamenti di carattere sapienziale e religioso, ma anche conclusioni di carattere naturalistico, fisico e cosmologico. Ciò condusse a ritenere per molto tempo che la descrizione della natura elaborata dalla Sacra Doctrina rappresentasse una fonte autorevole di insegnamento anche in questi campi. Ma non certo l’unica, come ben dimostrano, ad esempio, l’attività scientifica e lo spirito sperimentale di Alberto Magno e l’utilizzo della filosofia aristotelica da parte di Tommaso d’Aquino, fonti diverse dalla Scrittura che offrivano conoscenze anche sul mondo naturale. Non vi è però alcun dubbio che il crescente sviluppo di una propria metodologia da parte delle scienze naturali determinò la necessaria emancipazione di queste ultime dalla conoscenza onnicomprensiva del reale che ne dava la teologia, basata principalmente sulla fonte biblica. Ne derivò come conseguenza un vantaggio per la teologia stessa, che cominciò ad interpretare progressivamente il dato biblico alla luce delle conoscenze provenienti anche dalle scienze naturali, dalla storia e dalle scienze umane, servendosene poi successivamente come scienze ausiliarie: processo lento e ponderato a motivo della delicatezza dell’oggetto della Scrittura (la parola di Dio) e dell’eccellenza della sua finalità (la salvezza degli uomini). E proprio per questo non scevro di significativi contraccolpi, trattandosi di discipline che acquisivano nuove conoscenze in tempi assai più rapidi rispetto a quelli che la teologia impiegava per maturare nuove sintesi.
L’autonomia delle scienze nei confronti del sapere teologico non implica che la teologia rinunci a dare una visione totalizzante della natura. Essa deve poterlo fare perché la comprende alla luce di un principio unitario e coerente, il “principio di creazione”, e ne segnala pertanto le cause più alte e fondanti, rivelando il ruolo che le diverse creature e le loro reciproche relazioni hanno nei piani di Dio, e quale sia il senso ultimo della creazione stessa. Le soluzioni che la teologia fornisce al riguardo, il cui nucleo legge nella Rivelazione biblica ma la cui formulazione elabora secondo linguaggi e sintesi che ammettono progressi e sviluppi, non si sovrappongono a quelle della scienza, perché interessano ordini diversi di risposte. Non riteniamo che confinare la teologia e la fede religiosa nell’ambito delle risposte ai “perché”, riservando alle scienze l’ambito delle risposte ai “come”, sia un modo adeguato di interpretare la loro distinzione ed autonomia. Sebbene assai diffusa, ed in prima approssimazione facilmente intuitiva, tale separazione non dà pienamente ragione della scienza come uno scire per causas, capace di rispondere ai “perché” legittimamente posti dal suo metodo: così facendo essa sarebbe nuovamente circoscritta entro i confini di una causalità efficiente e meccanicista, negandole la possibilità di segnalare la presenza di formalità e di princìpi finalisti.
La teologia e la riflessione religiosa rispondono ad un ordine di perché più alto e fondante, che in parte oltrepassa quanto può tematizzare la stessa filosofia. Le risposte di senso offerte dalla Rivelazione biblica riguardano l’origine ed il fine della storia, ai quali — come osservava opportunamente Joseph Pieper (cfr. Über das Ende der Zeit, München 1950, p. 22) — non si può accedere con una riflessione razionale interna alla storia, ma solo ascoltando la Parola di Colui che la trascende. Ma ancor più la Rivelazione offre risposte a quei perché che coinvolgono la singola persona, con il proprio nome. Anche se le discipline storiche e scientifiche fossero in grado di ricostruire sorprendentemente tutti i passaggi che hanno condotto l’evoluzione del cosmo e della vita dai suoi inizi remoti fino all’apparizione dell’uomo sulla terra, inclusa la determinazione della sua natura biologica e dei suoi comportamenti psicologici o sociali, la catena causale individuata da questi innumerevoli “perché” non risponderebbe al perché più importante: perché nell’universo ci sono io. È quanto percepiva lucidamente Blaise Pascal: «Io non so chi mi ha messo al mondo, né cosa è il mondo, né che cosa sono io stesso: io sono in una ignoranza terribile circa tutte le cose; non so cosa è il mio corpo, i miei sensi, la mia anima e questa parte di me che pensa ciò che dico, che riflette su tutto e su se stessa e non conosce sé più di quanto non conosca il resto. Vedo questi spaventevoli spazi dell’universo che mi rinchiudono e mi trovo attaccato ad un angolo di questa vasta distesa, senza che io sappia perché sono stato collocato piuttosto in questo luogo che in un altro, né perché questo poco tempo che mi è dato di vivere mi è assegnato a questo punto piuttosto che ad un altro di tutta l’eternità che mi ha preceduto e che mi seguirà... tutto quello che io conosco è che debbo morire, ma quel che ignoro di più è proprio questa morte che non saprei evitare» (Pensieri, n. 194). Sul fenomeno della vita e della morte le scienze indagano, sulla loro carica esistenziale la filosofia si interroga, sul loro senso ultimo la fede dona una risposta: «Prima di formarti nel grembo materno ti conoscevo, prima che tu uscissi alla luce, ti avevo consacrato» (Ger 1,5), perché «in lui [Cristo] ci ha scelti prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità, predestinandoci ad essere figli suoi adottivi» (Ef 1,4-5).
3. Autonomia, non divorzio. All’interno delle proposte con le quali vengono messe fra loro in relazione scienze e teologia, la difesa di una reciproca autonomia è associata non di rado al modello della «separazione», chiamato talvolta anche del «divorzio», che avrebbe come vantaggio il superare lo stadio della conflittualità, tenendosi opportunamente distante dai modelli più impegnativi (e apparentemente più problematici) del dialogo e dell’integrazione. Analogamente a quanto prima osservato a proposito dell’insufficienza di una distinzione fra un ambito del come ed uno dei perché, anche il modello della separazione, sebbene possa sembrare a prima vista plausibile, non interpreta il giusto senso del termine «autonomia» (vedi supra, II). Scienze e teologia, pur distinte dal loro oggetto formale, hanno spesso in comune il medesimo oggetto materiale (la natura creata, l’uomo, la vita) e le rispettive conoscenze possono e devono interpellarsi ed aiutarsi reciprocamente ai fini di una migliore comprensione di quanto ciascuna asserisce ed argomenta. Autonomia vuol dire possedere se stessi e saper essere se stessi; vuol dire stimolare l’altro con la propria specificità e identità, non ignorarlo o giudicarlo di scarso interesse per la propria riflessione. In realtà, soggetto ultimo di questo venir interpellato e stimolato da conoscenze provenienti da campi diversi è lo scienziato, dunque l’uomo, non le scienze o la teologia in quanto discipline, cosa che mette maggiormente in luce l’inadeguatezza di un modello fondato sul divorzio, perché sarebbe espressione di un’intima personale scissione.
Fra sapere scientifico-filosofico, che fonda le sue conoscenze sull’esperienza che parte dalla natura, e sapere teologico, che le fonda primariamente sulla Rivelazione biblica, si instaura una “circolarità” che Tommaso d’Aquino additava come risultato di un doppio moto: ascendente, dalla natura verso Dio, e discendente, da Dio verso la natura. Ricordando qui che nel suo linguaggio i termini «filosofo» e «filosofia» si riferiscono alla razionalità in genere, ed includono quindi anche lo studio della natura, ne riproponiamo un significativo passaggio: «Il filosofo e il credente considerano nelle cose aspetti differenti. Infatti il filosofo ne considera le proprietà che loro convengono secondo la propria natura […], invece il credente considera nelle creature il loro riferimento a Dio: ossia il fatto che sono create da Dio, che a lui sono soggette, ecc. […]. Ed ecco perché codeste due discipline non seguono il medesimo ordine. Poiché in filosofia, la quale considera le creature in se stesse per giungere alla conoscenza di Dio, il primo oggetto da considerare sono le creature e l’ultimo è Dio. Invece nella dottrina della fede, la quale non considera le creature che in ordine a Dio, prima va considerato Dio e poi le creature. Di qui la maggior perfezione di quest’ultima: perché somiglia di più alla conoscenza di Dio, il quale conosce le cose conoscendo se stesso» (Contra Gentiles, II, c. 4).
Una retta comprensione dell’autonomia delle scienze nei confronti della fede religiosa, infine, si distanzia anche da una visione che releghi la fede al terreno delle convinzioni private, totalmente soggettive ed incomunicabili, lasciando alle scienze il compito di trattare un sapere universale ed oggettivo, razionalmente condivisibile e comunicabile. Ciò non darebbe ragione di due importanti dimensioni della fede. Da un lato la sua valenza antropologica ed esistenziale, capace di accomunare, e quindi di riconoscere come razionalmente significative e comunicabili, le esperienze che ogni uomo partecipa riguardo i grandi temi, in ultima analisi religiosi, dell’esistenza e dei valori; dall’altro, la sua capacità, ancor più la sua intrinseca necessità, di mantenere un riferimento alle conoscenze provenienti dalla ragione: sono infatti anche queste ultime a giustificare la ragionevolezza dell’assenso di fede. Il Dio verso cui muove la fede è lo stesso Dio a cui accede una riflessione razionale sull’uomo e sul mondo, seppur in modo limitato e parziale.
4. L’autonomia del sapere teologico. Analogamente a quanto accade per le altre discipline, e alla luce del suo statuto epistemologico come “scienza”, anche per la teologia si può parlare di un proprio ambito di autonomia. Le conoscenze trasmesse dalla Rivelazione biblica ed interpretate dalla Tradizione e dal Magistero della Chiesa rappresentano per la teologia il necessario quadro di riferimento per ogni sua argomentazione (cfr. Donum veritatis, 21-31). Essa le legge e le considera all’interno di un orizzonte di comprensione che non può prescindere dalla fede, pena la perdita della sua specificità. È in questo, infatti, che essa si differenzia da altre discipline, storiche, letterarie o filologiche, che si accostano alla Sacra Scrittura e alla tradizione viva della Chiesa secondo altri approcci, esclusivamente storici, antropologici, documentali od ermeneutici. Un primo aspetto della sua autonomia giace dunque nella precisa identità del suo metodo, quello di una disciplina che parte dalla Rivelazione, accolta nella fede, e che non rinuncia a leggere la realtà da questa prospettiva. Ciò la condurrà anche ad un inevitabile discernimento al momento di utilizzare strumenti o approcci di natura filosofica, potendosi essa rivolgere — per esigenze interne al suo metodo, non per forzature estrinseche — solo a quelli che restano aperti alla trascendenza e alla possibilità di un discorso su Dio (cfr. Fides et ratio, 80-99). Il momento interdisciplinare, necessario per la teologia quanto per le altre fonti di sapere, deve realizzarsi con un adeguato rigore epistemologico, senza che la teologia venga per questo “assorbita” all’interno di altri metodi o di altre scienze.
Un secondo aspetto della sua autonomia riguarda le modalità della sua ricerca il cui fine, all’interno del metodo e dell’oggetto che le sono propri, è di approfondire il significato delle verità contenute nella Rivelazione biblica, o anche di offrire una soluzione, a partire da quelle, ai nuovi problemi posti dal progresso della cultura, della storia e delle scienze. Possedere già le risposte agli interrogativi fondamentali dell’esistenza umana o dei rapporti fra il mondo e Dio non la esime da uno studio paziente, perché la profondità e la ricchezza contenute in quelle risposte devono essere continuamente riproposte con un linguaggio significativo per la cultura di ogni tempo, ed in certa misura “rilette” alla luce del progresso delle conoscenze che corrisponde ad ogni epoca. In questo esercizio di approfondimento e di rilettura essa si assume la responsabilità e la fatica delle proprie scelte, la necessità di tornare a volte sui propri passi, di lasciare alcune strade per intraprenderne di nuove.
L’autonomia di cui essa gode nel suo lavoro scientifico, quando svolto correttamente, non entra in conflitto con il Magistero, perché funzione di quest’ultimo è interpretare in modo autentico il contenuto della Rivelazione, custodita e trasmessa, e dunque chiarire ciò che appartiene alla fede ecclesiale e ciò che con fede va accolto. Registrare posizioni contrastanti rispetto a quanto il Magistero intende segnalare in modo formale ed autorevole non sarebbe più, per la teologia, un esercizio di autonomia, ma semplicemente una perdita della propria specificità metodologica, perché starebbe offrendo una lettura della realtà non più all’interno della fede — cosa che la caratterizza, appunto, come disciplina — ma ponendosi fuori di essa. Seguendo un’analogia con il rapporto esistente fra le scienze naturali e la filosofia, in modo particolare i loro presupposti metafisici, si potrebbe dire che come quei presupposti non rappresentano per le scienze un mero limite, ma soprattutto un fondamento (cfr. supra, n. 1), così la fede rappresenta per la teologia il fondamento qualificato del proprio argomentare, non una semplice limitazione. Se, in rapporto alla Rivelazione biblica e al Magistero, si può parlare per la teologia di “limite”, è per indicare un cammino da percorrere, come nel caso dei bordi di una strada che resta aperta sul progresso delle conoscenze e della storia, non perché rappresenti un ostacolo all’autonomia del proprio itinerario di ricerca. A sua volta, la teologia collabora con il Magistero offrendogli i risultati del proprio studio ed approfondimento, e talvolta gli strumenti scientifici per poter meglio interpretare le dichiarazioni e gli insegnamenti da questi elaborati in epoche ed in contesti diversi dal presente.
V. Autonomia delle scienze e libertà della ricerca
Uno dei fattori che ha maggiormente influito sul progresso della scienza è stata la sua libertà da condizionamenti esterni, e dunque la capacità di approfondire l’oggetto del proprio studio prescindendo da imposizioni derivanti dalla cultura, dalla tradizione, dall’ambiente. La storiografia scientifica ha spesso evidenziato il carattere di “rottura” o di “rivoluzione” di una determinata scoperta o teoria scientifica rispetto a quanto, fino a quel momento, era comunemente accettato o perfino creduto. L’importanza della libertà di ricerca trova un suo importante riflesso storico nell’autonomia delle università come elemento caratterizzante di queste Istituzioni, fin dal loro sorgere, volto a proteggere il lavoro ed il servizio prestato da esse alla società nel suo complesso. Oltre al dibattito sorto in merito ai rapporti con i poteri legislativi ed amministrativi dello Stato, e a quello, più ampio, con la società civile e l’opinione pubblica, la libertà di ricerca scientifica è stata talvolta oggetto di discussione anche nei suoi confronti con il pensiero religioso. Se, in epoca contemporanea, i rapporti con la società e l’opinione pubblica hanno avuto per oggetto questioni quali l’uso pacifico dell’ energia nucleare, i rischi della tecnologia, il problema della salute pubblica o l’ ecologia, il pensiero religioso è stato più spesso chiamato in causa — tralasciando alcuni nodi storici altrove già trattati — soprattutto nell’ambito della bioetica, a motivo del suo stretto collegamento con tematiche esistenziali (e dunque religiose) come la vita e la morte, che coinvolgono da vicino la morale. La necessità di una regolamentazione della ricerca scientifica, e dunque di una comprensione dell’autonomia della scienza che sia al contempo in accordo con determinati princìpi o valori fondativi, è testimoniata anche dal recente sviluppo di un’etica filosofica la quale, prescindendo da una specifica confessione religiosa, intende individuare delle vie da percorrere in una società pluralista.
Nei suoi rapporti con la fede religiosa — ci riferiremo qui al cristianesimo in modo particolare — il problema della libertà di ricerca deve essere visto in continuità con quanto suggerirebbero in proposito la filosofia e l’etica. Considerare la fede cristiana in alternativa o in opposizione a quanto detterebbe la retta ragione, contraddirebbe quell’armonia che deve esistere fra teologia e filosofia, fra fede e ragione, espressione in ultima analisi di quella convergenza fra cristologia e antropologia che il cristianesimo colloca nel nucleo della sua fede religiosa e del suo servizio all’uomo (cfr. Gaudium et spes, 22; Redemptor hominis 13-18). Poiché molti degli interventi del Magistero ecclesiale sulle questioni etiche collegate con la ricerca ed il progresso delle scienze hanno ricevuto sviluppi nelle voci corrispondenti di quest’opera, ci limiteremo qui ad offrire alcune considerazioni generali. Può essere significativo segnalare, a riprova della delicatezza del tema, che nella coscienza di molti scienziati credenti permane l’erronea percezione di una possibile conflittualità fra libertà di ricerca e verità della fede, e la tendenza, interrogati su questo punto, a porre la libertà della scienza al vertice più alto delle priorità da seguire (cfr. Ardigò e Garelli, 1989).
Alla base di ogni riflessione sulla libertà di ricerca dovrebbe situarsi una corretta comprensione del rapporto fra libertà e verità. La libertà di ricerca scientifica non è libertà della scienza, ma libertà del soggetto. Essa partecipa pertanto di quelle caratteristiche che rivelano il significato della libertà personale come auto-determinazione che trova il suo pieno compimento nell’opzione per la verità e per il bene. Non è libertà normativa, ma libertà normata da una natura e da una verità che devono essere lette nelle cose e non poste a priori dal soggetto (vedi supra, I.2). Ad essa è collegata la percezione di una corrispondente responsabilità: come per la persona umana la libertà non può comprendersi come libertà di essere ciò che non si è, ma di diventare e di realizzare ciò che si è chiamati ad essere, così la libertà di ricerca non può comprendersi come libertà di fare tutto ciò che sia scientificamente possibile e tecnicamente praticabile, ma come libertà di orientare la scienza verso quei fini che le sono propri. Un nuovo senso profondo dell’“autonomia” della scienza sta qui nel fatto che tali fini non divengano mai per essa fini “eteronomi”, cioè imposti dal di fuori, ma possano essere letti, certo non senza lo sforzo di una riflessione personale, dall’interno dell’attività scientifica stessa. Essi vanno riconosciuti nel legame con la verità e con il servizio all’uomo.
A proposito dell’autonomia o dell’eteronomia della ricerca scientifica, e nel quadro di un’ampia riflessione sulla dimensione umanistica dell’attività dello scienziato, facendo appello alla ragione e non ad una visione confessionale, Giovanni Paolo II ricordava che parlare di umanesimo nella scienza non vuol dire «temere che si prospetti una sorta di “controllo umanistico sulla scienza”, quasi che, sul presupposto di una tensione dialettica tra questi due ambiti del sapere, fosse compito delle discipline umanistiche dirigere ed orientare in modo estrinseco i risultati e le aspirazioni delle scienze naturali, protese verso la realizzazione di sempre nuove ricerche e l’allargamento dei loro orizzonti applicativi» (Discorso alla Pontificia Accademia delle Scienze, 13.11.2000, n. 2). La scienza possiede gli strumenti per riconoscere l’esistenza di verità che divengono normative per il proprio lavoro, non ultima la singolarità dell’essere umano, e dunque la sua trascendenza sul resto della natura. Ciò fa sì, continua il citato discorso, che «le responsabilità etiche e morali collegate alla ricerca scientifica possono essere colte, perciò, come un’esigenza interna alla scienza in quanto attività pienamente umana, non come un controllo, o peggio un’imposizione, che giunga dal di fuori. L’uomo di scienza sa perfettamente, dal punto di vista delle sue conoscenze, che la verità non può essere negoziata, oscurata, o abbandonata alle libere convenzioni o agli accordi fra i gruppi di potere, le società o gli Stati. Egli, dunque, a motivo del suo ideale di servizio alla verità, avverte una speciale responsabilità nella promozione dell’umanità, non genericamente o idealmente intesa, ma come promozione di tutto l’uomo e di tutto ciò che è autenticamente umano» (ibidem, n. 3).
Una scienza che rinunciasse al suo legame con la verità, perché la ritenesse qualcosa di provvisorio o di troppo ideale, ed accettasse così una visione puramente strumentale e funzionalista della sua attività, perderebbe per questo proprio la sua autonomia, lasciando che le finalità del suo operare vengano determinate dall’economia, dal gioco dei consensi o dalla politica (cfr. Giovanni Paolo II, Discorso agli scienziati e agli studenti nella Cattedrale di Colonia, 15.11.1980, n. 3). A ciò va aggiunto che la ricerca della verità scientifica — cui la libertà di ricerca è in ultimo termine orientata e per la quale difende la sua autonomia — non procede semplicemente indagando tutte le strade tecnicamente percorribili, indipendentemente da questioni di altro genere, a volte assai rilevanti, che la scelta di tali percorsi potrebbe implicare; non è alla continua “novità” della sperimentazione o dell’applicazione a qualunque costo che si affida normalmente il compito di rivelare i segreti più profondi della natura. L’esistenza di criteri morali che possono consigliare o sconsigliare la scelta di particolari itinerari di ricerca non è per lo scienziato qualcosa di inedito, perché egli è comunque abituato a realizzare il suo studio in conformità con numerosi altri criteri limitativi: disponibilità di risorse materiali o umane, competenze adeguate, fattori ambientali o naturali legati all’occorrenza dei fenomeni da studiare, legislazione esistente in materia, ecc.; i quali, senza essere avvertiti come vincoli coercitivi alla propria libertà di ricerca, condizionano inevitabilmente le strade da intraprendere nel proprio lavoro.
In realtà, la componibilità della legittima libertà di ricerca con una dimensione etica e morale presente nell’attività della scienza non andrebbe interpretata nei soli termini di un’“etica del limite”, come risultato di un accordo su esperimenti, applicazioni o procedimenti che debbano essere evitati o del tutto esclusi. Sebbene a livello pragmatico e legislativo ciò si renda necessario e divenga la prima strada percorribile, un’etica del limite presenta essa stessa i propri limiti. Una volta compresa come partecipazione alla libertà “della persona”, la libertà di ricerca è chiamata a manifestare anch’essa quella dimensione virtuosa che deve illuminare l’esercizio della libertà personale. La virtù non si muove né si sviluppa “entro i confini imposti da un limite”, sia esso posto dall’esterno o riconosciuto come ragionevole dall’interno dell’attività dello scienziato: essa si dirige al bene in modo illimitato, perché “libero” e ricerca dunque le strade verso la verità e il bene secondo un criterio di crescita virtuosa, non di limitazione. Si può allora parlare della ricerca scientifica come «una grande esperienza di libertà», che non viene affatto diminuita dal riconoscimento di criteri etici che ne indirizzano l’esercizio: «Colta in questa chiave, la scienza risplende in tutto il suo valore, come un bene capace di motivare un’esistenza, come una grande esperienza di libertà per la verità, come una fondamentale opera di servizio. Attraverso di essa, ogni ricercatore sente di poter crescere lui stesso ed aiutare gli altri a crescere in umanità» (Discorso alla Pontificia Accademia delle Scienze, 13.11.2000, n. 3). E a questa crescita in umanità guida principalmente l’esercizio della virtù, non l’accordo sul limite.
La Rivelazione cristiana si pone in continuità con la percezione della dimensione etica e personalistica presenti nell’attività scientifica. Essa sottolinea che l’orientamento della libertà di ricerca verso la verità del servizio all’uomo trova fondamento nella dignità trascendente della persona umana come immagine di Dio, dignità alla quale la sua emergenza sulla natura ed il suo valore sempre di fine, mai di mezzo, ultimamente rimandano. Tutto ciò aiuta a non dimenticare in cosa consistano la vera autonomia della natura e la vera autonomia e libertà dell'uomo, l’oblio delle quali ha generato preoccupanti conseguenze specialmente evidenti nella società contemporanea. Ne sono esempio lo smarrimento dell'istanza di verità della scienza, non poche volte ridotta ad un ruolo di puro funzionalismo pragmatico che ne facilita l’impiego in termini di mero profitto economico; lo studio, la produzione e l’utilizzo delle risorse del pianeta secondo modalità che non rispondono al progresso materiale e spirituale dei popoli; ma soprattutto la legittimazione di interventi arbitrari sulla vita umana, specie nella fase del suo concepimento, segno eloquente di un modo di comprendere l’autonomia e libertà dell’uomo ormai separate dalla verità sull'uomo. Dal pensiero cristiano, fondato sul messaggio biblico, la cultura odierna può ancora trarre notevoli ispirazioni per superare le conflittualità fra etica e tecnica, per riassegnare a tutte le cose, alla persona umana in primo luogo, il significato che queste posseggono nei piani del Creatore, e dunque restituirle alla loro verità e, con essa, alla propria autonomia.
Documenti della Chiesa Cattolica correlati:
Concilio di Firenze, DH 1333; Pio IX, DH 2850-2859; Lumen gentium, 36; Gaudium et spes, 34-36, 41; Apostolicam actuositatem, 7; Laborem exercens, 25. Giovanni Paolo II: Catechesi del mercoledì, 2.4.1986, Insegnamenti IX,1 (1986), pp. 900-903; Discorso agli scienziati e agli studenti nella Cattedrale di Colonia, 15.11.1980, Insegnamenti III,2 (1980), pp. 1200-1211; Discorso alla Pontificia Accademia delle Scienze, 13.11.2000, OR 13-14.11.2000, p. 6.
FABRO, Introduzione all'ateismo moderno, 2 voll., Studium, Roma 1964; R. GUARDINI, L’opposizione polare (1925), in “Scritti filosofici”, vol. I, Centro Studi Filosofici di Gallarate - Fabbri Editori, Milano 1964, pp. 135-172; IDEM, Mondo e persona (1939), in ibidem, vol. II, pp. 3-133; J. MARITAIN, Distinguere per unire. I gradi del sapere (1932), Morcelliana, Brescia 1974; C. FABRO, L'uomo e il rischio di Dio, Studium, Roma 1975; H. DE LUBAC, Il dramma dell'umanesimo ateo, Morcelliana, Brescia 1978; E. GILSON, Dio e la filosofia, Massimo, Milano 1984; W. KASPER, Il Dio di Gesù Cristo, Queriniana, Brescia 1985; J. MARITAIN, Nove lezioni sulla legge naturale, Jaca Book, Milano 1985; J.J. SANGUINETI, La filosofia del cosmo secondo san Tommaso d’Aquino, Ares, Milano 1986; J. DANIELOU, La Trinità e il mistero dell'esistenza, Queriniana, Brescia 1989; A. ARDIGÒ, F. GARELLI, Valori, scienza, trascendenza, 2 voll., Fondazione Agnelli, Torino 1989-1990; M.J. BUCKLEY, Ateismo. Origini, in DTF, 1990, pp. 83-91; J. HERVADA, Introduzione Critica al Diritto Naturale, Giuffrè, Roma 1990; J.L. ILLANES, Secolarità, in “Dizionario Enciclopedico di Spiritualità”, a cura di E. Ancilli, Città Nuova, Roma 1990, vol. III, pp. 2278-2282; J. ALFARO, Dal problema dell'uomo al problema di Dio, Queriniana, Brescia 1991; R. GUARDINI, La fine dell'epoca moderna (1951), Morcelliana, Brescia 1993; J. RATZINGER, Natura e compito della teologia, Jaca Book, Milano 1993; R. MARTÍNEZ (a cura di), Unità e autonomia del sapere. Il dibattito del XIII secolo, Armando, Roma 1995; J. FINNIS, Legge naturale e diritti naturali, Giappichelli, Torino 1996; F. DI BLASI, Dio e la legge naturale. Una rilettura di Tommaso d'Aquino, ETS, Pisa 1999; D. GRAZIANI, L’autonomia del mondo: esposizione del principio e dei suoi fondamenti secondo il Concilio Vaticano II, in “Sui sentieri della speranza”, a cura di F. Morrone e G. Currà, Rubbettino, Catanzaro 1999, pp. 167-199.