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Panteismo

Anno di redazione: 
2002
Giuseppe Tanzella-Nitti

I. Il pensiero antico ed il suo confronto con la teologia cristiana: breve prospettiva storico-filosofica - II. Alcune prospettive panteiste del pensiero rinascimentale e moderno ed il loro rapporto con il pensiero scientifico - III. La presenza di risonanze panteiste in alcune visioni della natura della scienza contemporanea - IV. La distinzione Creatore-creatura e l'armonia del creato: riflessioni conclusive.

Il termine «panteismo» deriva dalle parole greche pân (tutto) e Théos (Dio) e si applica a tutte quelle dottrine secondo le quali è Dio tutto ciò che è, ovvero che identificano in vario modo Dio e il mondo. Di panteismo parla per la prima volta J. Fay nella sua Defensio religionis (1709), nella quale, nel tentativo di difendere il teismo, accusa le posizioni teoriche di J. Toland che nell'opera Socinianism Truly Stated (1705) si era definito «panteista» e che per altro intitolerà poi Pantheisticon (1720) la sua ultima opera (cfr. Böhmer, 1851). Ma la dottrina panteistica è ben più antica del nome che la identifica. Si deve comunque distinguere tra i diversi significati che, nel corso del tempo, si daranno alla parola panteismo. Il primo di essi si riferisce al «panteismo trascendente» e tende a risolversi nella concezione più generale per cui il mondo è una mera manifestazione di Dio. Essa vede il divino solo nell'intimo delle cose, e in particolare nell'anima, per cui la creatura diviene Dio a condizione che essa si liberi del suo involucro sensibile. Questa visione risale molto indietro nel tempo, alle dottrine vediche dell'India, e ha trovato in Occidente la sua massima espressione nel neoplatonismo. Il secondo significato lo intende come «panteismo ateistico o immanente» (o monismo) e considera invece il divino come una "energia vitale" che anima il mondo dall'interno, pervenendo per questo a conclusioni naturalistiche e materialistiche. Vi è infine l'accezione del «panteismo trascendente-immanente», secondo cui Dio non solo si rivela, ma anche "si realizza" nelle cose: tale sarà ad esempio il panteismo di Spinoza e quello che, in forme diverse, interesserà varie correnti idealiste della modernità.

Ci proponiamo qui di richiamare le radici classiche del panteismo riportandone poi alcuni esempi illustrativi dell'epoca rinascimentale e moderna. Segnaleremo successivamente quali concezioni della natura, implicitamente favorite o talvolta sostenute dal pensiero scientifico contemporaneo, paiono oggi mantenere un certo rapporto con la visione panteista, per ricordare infine quanto la Rivelazione cristiana e il Magistero della Chiesa affermino in proposito.

    

I. Il pensiero antico ed il suo confronto con la teologia cristiana: breve prospettiva storico-filosofica

1. Concezioni orientali arcaiche e buddismo. In molte religioni e nelle filosofie orientali è già possibile trovare il germe originario di una visione panteista dell'Universo. In molti di questi sistemi di pensiero, infatti, non esiste l'idea di un Dio personale: al tempo stesso Dio è interpretato come l'unica realtà esistente, di cui il mondo non è che un'apparenza, un'immagine che deve essere alla fine, in qualche modo, riassorbita. Ciò è particolarmente evidente nell'antica religione del Veda, che ebbe il suo sviluppo in India tra il 1500 e il 900 a .C., anche se l'effettivo periodo vedico fu ben più esteso. La conoscenza che abbiamo di questa religione deriva dal Rig-Veda (Veda in sanscrito indica «conoscenza»), una collezione poetica distribuita in dieci libri. La religione induista che ne deriva non si può esattamente definire una religione politeista, né tanto meno una religione nel senso più letterale del termine. In questa forma di religiosità «il fedele pur pienamente accettando e fermamente credendo nell'esistenza di una Deità suprema e unica, sceglie di venerare, fortemente personificandoli, un suo aspetto particolare o una sua energia speciale o magari una sua manifestazione quanto mai benefica» (Poli e Rizzi, 1997, p. 85). Di fatto, nella religione vedica il dio viene identificato con un oggetto naturale, fosse esso il sole, il cielo luminoso o la pioggia. Sono esseri divini che hanno la funzione di proteggere i loro devoti, ma che non assumeranno mai le sembianze antropomorfiche. A causa di ciò le divinità vediche-induiste non raggiungeranno mai la forma mitica, plastica e concreta degli dèi della Grecia antica.

Dall'induismo dei Veda si staccarono due diversi correnti che potrebbero considerarsi, per alcuni versi, come sue eresie: lo Jainismo e il Buddismo. Il Buddismo nasce in India nel VI-V sec. a.C. e poi, grazie ai suoi missionari, si diffonde in tutto l'Oriente. Per Budda, l'osservazione del mondo rivela che tutto è un perpetuo "fluire": la nostra coscienza ci attesta solo lo scorrere di sensazioni, di emozioni e di concetti che mutano rapidamente. Negata in tal modo l'anima individuale il Budda (il cui nome vuol dire «illuminato») sostiene che non è possibile conoscere altro se non il perpetuo divenire, al di sotto e alla base del quale è impossibile trovare un dio immutabile. Per il buddismo, il reale è ridotto ad un'armonica corrispondenza di elementi obbiettivi e soggettivi, gettando così le basi di un «panteismo acosmico» che sarà sviluppato da alcune sue specifiche scuole. Esso afferma che «nessuna cosa è in sé esistente; è, in quanto correlata ad altre. Il suo essere è in rapporto ad un altro: è soltanto concettuale. La sua individualità e singolarità sono una supposizione erronea; esse non sono nulla fuori dell'identità assoluta: la quale identità è "il vuoto", l'inesprimibile, il non concettuale» (Puech, 1992, p. 19). Conduce questa concezione del buddismo ad una necessaria "negazione" del mondo? Difficile rispondere. È però certo che da un punto di vista empirico il mondo è così come appare, e che oltre questo velo di apparenze c'è l'inqualificato e l'inqualificabile, il vuoto.

Il buddismo, per sua specifica struttura, non è una religione codificabile in regole precise e ciò ha permesso la formazione di una notevole quantità di scuole buddiste, praticamente una per ogni paese dove esso si è impiantato. Nato in Cina e sviluppatosi in Giappone a partire dal XII secolo, è interessante per i nostri fini menzionare qui il buddismo Zen, in quanto è ad esso che non pochi scienziati contemporanei paiono voler fare riferimento per alcune loro concezioni dei fenomeni naturali e nella costruzione dei loro sistemi (emblematica, per tutti, l'opera di F. Capra, The Tao of Physics. An exploration of the Parallels between Modern Physics and Eastern Mysticism, 1975). Zen vuol dire «meditazione» e la sua pratica è un esercizio che tenta di liberare il "principio fondamentale" presente in ciascuno di noi dalla "zavorra" impura delle passioni. La liberazione di questo principio può avvenire sia attraverso lo studio approfondito delle scritture sacre del buddismo, sia attraverso pratiche ascetiche od esoteriche. Il buddismo Zen diventò molto popolare nella cultura americana degli anni '50 del XX secolo grazie alle sue concezioni filosofiche, che si inserivano perfettamente in un clima di relativismo filosofico e di pragmatismo utilitarista (cfr. Watts, 1973, p.71).

2. Il pensiero greco e la distinzione dell'essere nell'Essere . Ben diverso il contesto che portò a certe forme di panteismo nella Grecia antica. L'epica greca, che vide il suo periodo d'oro nei primi secoli del primo millennio a.C. e che ebbe in Omero il suo massimo cantore, diede agli dèi un carattere personale, diversamente da quanto avevano fatto le mitologie primitive, ove la divinità era essenzialmente legata ai fenomeni della natura. Antropomorfizzati dall'epica greca, gli dèi vennero così resi più accessibili alle necessità esistenziali degli esseri umani, favorendo lo sviluppo di un culto in chiave religioso-civile. Accanto all'epica omerica, le Teogonie di Esiodo ricostruiscono la storia degli dèi anteriori a Zeus e si spingono a ritroso fino a descrivere l'origine stessa delle diverse figure divine. Per Esiodo, tutti gli dèi presero forma, secondo diverse separazioni e successive generazioni, dal Cháos originario, una parola che significa innanzitutto l'immensità dello spazio, ciò che non è misurabile, l'illimitato. IlCháos riveste nel pensiero greco antico un significato così ampio da potersi facilmente accostare al significato filosofico del «Tutto», richiamando dunque anch'esso una certa idea di panteismo. La teogonia pone lentamente le basi per una successiva cosmogonia, fornendo una serie di elementi arcaici per la speculazione sull'origine di tutte le cose; se ne potranno ancora rintracciare alcuni nella filosofia naturale dei pensatori ionici, come nel caso di Empedocle, che della formazione di tutte le cose riterrà ultimamente responsabile l'interazione delle due forze cosmiche dell'amore e dell'odio.

Il pensiero filosofico greco nasce da una domanda che è "fisica" e "religiosa" al tempo stesso e che si interroga sulla totalità e sulla molteplicità: qual è l'origine di tutte le cose (pánta)? E, subito dopo: di cosa sono fatte tutte le cose? La soluzione che dettero i pensatori pre-socratici, cercando un "principio unificatore" (arché), non sarà esente da derive panteiste. In tale ricerca, essi tengono a precisare che c'è "una sola sostanza" all'origine di tutto, sia essa l'acqua di Talete, o l'illimitato (ápeiron) di Anassimandro o il fuoco di Eraclito. Certo non manca una distinzione tra gli esseri particolari e l'Essere come tale, come in Parmenide e in Eraclito, ma l'Essere non si pone mai di fronte al particolare come "altro dalle cose", quanto piuttosto come la loro stessa sostanza. Già per Talete, come è noto, l'osservazione che in tutti i corpi vi fosse sostanzialmente dell'acqua terminava con la constatazione che tutte le cose erano in realtà "piene di dèi". Per Parmenide la natura (physis) è l'Essere stesso, il Tutto: al di là del Tutto non esiste alcunché, perché il Tutto è l'essere e al di là dell'essere non vi è che il nulla. Se nei pensatori che precedettero Parmenide e nei grandi testi della saggezza orientale, pur parlando del Tutto e della Totalità delle cose, non si escludeva per questo la possibilità di tematizzare "qualcos'altro" di diverso, con il pensatore di Elea ciò diviene non più possibile. Nella filosofia parmenidea si giunge per via logica all'Essere del Tutto scartando tutti gli esseri particolari, che diventano solo apparenze: non sapendo spiegare il loro rapporto con la realtà come Essere, essi finiscono col perdere la loro individualità e autonomia.

La possibilità di assicurare separazione e consistenza agli enti particolari si farà strada con Platone e Aristotele. Affermando la trascendenza delle Idee rispetto al mondo sensibile e la trascendenza del Bene rispetto alle idee stesse, Platone sottolinea che gli enti particolari sono divenienti e mutevoli, mentre le Idee sono immutabili ed eterne. All'apice di tutte le Idee, l'idea del Bene - significativamente chiamata anche l'Uno - agisce sulla molteplicità illimitata e caotica come principio limitante e determinante. Se per Parmenide e i suoi seguaci l'Essere è, al tempo stesso, sia il Divino che domina le cose, sia la totalità delle cose dominate, Platone ammette invece che tra il Divino e le cose esista un certo distacco. Grazie all'opera del Demiurgo, la materia-madre viene ridotta all'ordine (kósmos) ed organizzata in uno spazio (chóra) che fa da ricettacolo, sebbene la materia preesista a tale azione ordinatrice. Ma anche in Platone il mondo forgiato e diversificato dal Demiurgo non cessa di essere un «grande organismo vivente», dotato di una sua Anima (cfr. Timeo, 30b; cfr. anche Filebo, 30a-c).

Una seconda via per attribuire consistenza individuale alle cose si deve ad Aristotele. Egli vi perverrà anzitutto grazie al principio della «analogia dell'essere» e alla distinzione tra il modo di essere divino (che è atto puro senza traccia di potenza) e il modo di essere delle realtà particolari (che sono invece un composto di atto e potenza). Ciascun ente possiede una propria «essenza» ed una propria «natura» metafisiche, garanzie della sua autonomia e della sua indipendenza e princìpi intrinseci della sua specificità nell'essere e nell'operare. Poiché gli enti che si manifestano alla nostra esperienza sono in genere enti divenienti, Aristotele si chiederà - domanda metafisica per eccellenza - se oltre ad essi esistano anche enti immutabili ed eterni. A questa domanda daranno una risposta positiva sia i libri della Fisica che della Metafisica, fino a concludere l'esistenza di un Ente Immutabile, la cui vita somma è la conoscenza di Se stesso: Dio e il mondo non sono la stessa cosa, ma dal mondo si può giungere a Dio.

Si va così delineando una visione dualista della realtà, di carattere gnoseologico, nella quale si riconoscono una parte "sensibile" ed una "intellegibile". La distinzione, emblematicamente indicata dalla "seconda navigazione" intrapresa da Platone in rottura con la tradizione filosofica precedente (cfr. Fedone, 99d-101d), interessa anche Aristotele: per quest'ultimo l'intelligibilità del reale si raggiunge elevandosi al di sopra della natura sensibile, sebbene essa non appartenga, come voleva Platone, al mondo delle idee, ma sia invece inerente all'essenza delle cose. Nonostante questa differenziazione, nel pensiero greco sussisteranno tendenze panteiste, sia nel ridurre l'immaterialità dell'intelletto o del divino alla natura della materia stessa (panteismo materialista), sia nello spiritualizzare il mondo riassorbendone la consistenza nella sfera del divino (panteismo panpsichista).

3. Il panteismo plotiniano. Oltre al panteismo di radice materialista professato dai filosofi stoici, i quali ritenevano che la divinità consistesse in una materia finissima che animava il grande organismo del cosmo (considerato come il "corpo" di Dio), in epoca ormai già cristiana fu soprattutto il "panteismo emanazionista" di Plotino (205-270 d.C.), massimo esponente del cosiddetto neo-platonismo, ad esercitare la maggiore influenza sul pensiero posteriore. I principali elementi del panteismo plotiniano sono la derivazione del mondo dall'Uno, come necessaria emanazione di questi ed espansione della sostanza del proprio essere, e il ruolo dell'Anima, terza ipostasi del Divino plotiniano, quale anima cosmica del mondo, che vivifica e lega in armonica "simpatia" tutte le cose dell'universo, preservandole dalla tendenza della materia a disperderle e dissolverle. La stretta corrispondenza fra l'Anima cosmica e l'anima umana, e le relative relazioni fra macrocosmo e microcosmo che da essa deriveranno, forniranno gli elementi per molte concezioni animistiche e vitalistiche che giungeranno fino al romanticismo, attraversando il medioevo e il rinascimento.

Plotino sosteneva che se la materia fosse del tutto indipendente da Dio, con questi coeterna e coesistente, allora a Dio mancherebbe qualcosa e si cadrebbe pertanto in un'aperta contraddizione. Dio non potrebbe più essere l'Atto puro come inteso da Aristotele, ma solo un "essere in potenza", e quindi non immutabile, ma diveniente (cfr. Enneadi, III, 7, 5). Non potendosi però negare, per motivi di fondazione ontologica, l'esistenza di un ente Immutabile, è allora necessario che Dio sia in qualche modo il "produttore" della materia. La sostanza del mondo non poteva dunque essere coeterna al Divino e con Esso cooriginaria, come sostenuto da Platone e Aristotele, per i quali l'una non poteva esistere senza l'altro, ma occorreva che fosse prodotta da Dio, cosa che per Plotino avverrebbe per "emanazione".

Alla sommità del sistema plotiniano vi e l'Uno, che vuole e determina se stesso così come è. Perfettamente semplice ed infinito, l'Uno trascende ogni separazione (presente invece in Aristotele e Platone), contiene in sé tutte le cose e dunque le può porre in essere. Nell'Uno plotiniano esistono dunque due attività: una che consiste nel suo "autoporsi" ed una che fa in modo che dall'Uno emanino tutte le cose. I processi di questa emanazione portano per primo alla formazione del Noûs o Intelletto, dal quale, sempre per emanazione, deriva l'Anima. Questa terza ipostasi (dopo l'Uno e l'Intelletto) è l'ultima realtà del mondo incorporeo procedente dall'Uno, ed è a sua volta la generatrice della materia, ovvero della prima realtà del mondo corporeo. La materia è un puro ricettacolo in cui si trasformano e si corrompono le forme e gli enti del mondo. Nella concezione plotiniana, la materia è l'ultima tappa del processo emanativo dell'Uno, prodotto dell'esaurimento totale e dunque della massima privazione dell'Uno. Ma identificando l'Uno con il Bene, la materia è vista come privazione, come qualcosa di negativo, sebbene non si giunga, come nel dualismo radicale gnostico, ad identificarla col male. Nel dare origine al mondo, però, l'Uno di Plotino non si "rivolge verso quanto produce": il mondo non è originato con un atto di libertà (e dunque neanche amato come tale), bensì prodotto per necessità della sovrabbondanza dell'Uno medesimo, così come appartiene alla natura della luce effondersi ed illuminare tutte le cose. Il mondo, sebbene giunga dopo la generazione dell'Intelletto e dell'Anima, è in continuità con la sfera del Divino ed è parte della sua sostanza.

4. La creazione dal nulla: Dio partecipa l'essere alle creature. Sebbene rappresentativo anche di un itinerario filosofico, il panteismo del mondo antico esprime in primo luogo una concezione religiosa: il nucleo di tale concezione, specie nella sua matrice orientale, è che la sacralità della natura viene convertita in divinità. A questa prospettiva si opporrà la dottrina della «creazione ex nihilo » ad opera di un unico Dio, presente nei testi sacri della religione ebraica e che il cristianesimo arricchirà nei secoli successivi di uno specifico spessore filosofico-teologico. Una sua prima sistematizzazione apparirà già nei primi secoli dell'era cristiana, a motivo della critica nei confronti dello gnosticismo. In dialogo con la filosofia platonica, Teofilo di Antiochia (ca. 120-185) ne traccia un rapido schizzo: «Dio creò tutte le cose facendole passare dal non-essere all'essere [.]. Platone e i platonici riconoscono che Dio è non-generato, che è padre e artefice di tutte le cose; ma poi immaginano che anche la materia sia non-generata e che pertanto sia coeterna a Dio. Ma, se Dio è non-generato e la materia è anch'essa non-generata, allora per i platonici Dio non è affatto il Creatore assoluto di tutte le cose [.]. Che cosa ci sarebbe di straordinario se Dio plasmasse il mondo a partire da una materia pre-esistente? Questo è quanto fa un artigiano, un uomo che prende una materia da un altro e la plasma a suo piacimento. Invece, la potenza di Dio si vede in questo, che Egli fa tutte le cose a suo piacimento, a partire dal loro non-essere» (Ad Autolicum, I, 4 e II, 4). La dottrina della creazione dal nulla - e dunque della chiara separazione fra Dio e il mondo - compare anche in altri autori cristiani: Origene, Atanasio, Ippolito romano e, con tratti espliciti, nel Pastore di Erma, opera del II secolo: «Devi credere che c'è un solo Dio che ha creato e portato a termine ogni cosa, e che ha fatto dal nulla quel che esiste» (Mandata, I, 1).

Soprattutto grazie ad Agostino di Ippona (354-430) la creazione dal nulla e l'irriducibilità metafisica fra Dio e il mondo vengono impostate su basi filosofiche rigorose, specie nel contesto del problema della natura del tempo. La nostra anima razionale rende testimonianza della percezione che abbiamo del "trascorrere" e del "durare" (cfr. Confessiones XI, 20); ma quello che vale per la nostra anima deve valere anche per tutto il cosmo, che deve quindi essere compreso in termini temporali. La creazione non può essere concepita se non a partire da una successione di eventi temporali. Il mondo, afferma Agostino, è stato creato con il tempo e non nel tempo (cfr. Confessiones, XII, 29,40; De civitate Dei, XI, 6), prova di una separazione ontologica tra Dio e il creato. Il Dio eterno, l'Essere e il Bene supremo (cfr. De natura boni, 19; De Trinitate, VIII, 3,4), è contrapposto alle cose da Lui create nel tempo, e quindi pienamente distinto da esse. Data la sua impostazione neoplatonica, Agostino presuppone una partecipazione dell'Essere e del Bene, mediante la creazione, alle creature; ma egli prende le dovute distanze dalla dottrina neoplatonica dell'emanazione e non ammette che una tale partecipazione si attui nella forma di un "effluvio" necessario, quasi che Dio non potesse esistere senza la creazione. La critica alla visione panteista di coloro che adorano la Natura ritenendola l'anima o il corpo di Dio è, in questo senso, esplicita; dopo aver biasimato coloro che adorano l'Anima o l'Intelletto, considerate dai neoplatonici le prime creature di Dio, oppure i vari elementi della creazione, primi fra tutti i corpi celesti, Agostino aggiunge: «fra costoro ritengono di essere più religiosi quelli che pensano che tutta quanta la creazione, cioè il mondo intero con ogni cosa che vi è in esso, e la vita, per la quale respira ed è animata - che alcuni credettero essere corporea, altri incorporea - dunque che tutto ciò nel suo insieme sia l'unico grande Dio, del quale tutte le altre cose sono parti. Non conoscono, infatti, l'Autore e il Creatore dell'universo. Perciò si gettano sugli idoli e precipitano dalle opere di Dio giù fino alle proprie opere» (De vera religione, 37, 68).

Sulla stessa linea anti-dualista e anti-panteista si pone anche Tommaso d'Aquino (1224-1274), nel quale confluiscono la dottrina agostiniana e la riflessione aristotelica. Per l'Aquinate Dio è l'«Essere semplice, colui che esiste per se stesso», ma è anche un Essere che si partecipa e si dona. Creando ogni cosa, Dio comunica se stesso e il proprio Essere con libertà sovrana. Gli esseri creati sono essenzialmente diversi dal Creatore, ma in un certo senso gli somigliano, dato che partecipano - ciascuno al proprio livello di esistenza - all'essere che è stato donato da Dio, come verrà più volte spiegato all'interno della dottrina della «partecipazione dell'essere» (cfr. Summa theologiae, I, qq. 44-45). La creatura partecipa dell'essere che Dio possiede in pienezza, prendendone parte senza esserne una parte. Se si predica di Dio come l'essere di ogni cosa, non è perché Egli ne sia il costitutivo essenziale, ma perché ne è la causa radicale. In merito alla nota concezione che Dio è presente in tutte le cose per potenza, per presenza e per essenza, Tommaso preciserà che Dio «è in tutte le cose con la sua essenza perché egli è presente a tutte le cose quale causa universale dell'essere», aggiungendo che «si dice che Dio è in tutte le cose per essenza non certo delle cose, come se facesse parte della loro essenza, ma per la Sua essenza, essendo la Sua sostanza presente a tutte le realtà come causa dell'essere» (Summa theologiae, I, q. 8, a . 3; cfr. In I Sent., d. 8, q. 1, a. 2). Con la sua dottrina della assoluta semplicità di Dio, egli esclude alla radice ogni panteismo, confutandone in particolare quelle forme presenti negli insegnamenti di alcuni filosofi a lui contemporanei, come nel materialismo di Davide di Dinant (cfr. Summa theologiae, I, q. 3, aa. 6-7 e a. 8, ad 3 um), che in parte ispirerà il panteismo di Giordano Bruno.

     

II. Alcune prospettive panteiste del pensiero rinascimentale e moderno ed il loro rapporto con il pensiero scientifico

Come teoria della natura, il panteismo è legato principalmente al pensiero neoplatonico. In un periodo storico come quello rinascimentale, che vide la riscoperta di questa corrente filosofica, si ebbe di fatto un risorgere anche del panteismo. Nel contesto naturalistico-scientifico rinascimentale, ove lo studio dei fenomeni naturali non godeva ancora di un metodo autonomo e rigoroso, il pensiero panteista si manifesta nella tendenza a concepire Dio come l'"universale animazione della natura", e dunque ad identificarlo con essa. Personaggi di spicco di questa nuova corrente furono Giordano Bruno e Tommaso Campanella. Per i pensatori rinascimentali la natura è vista come un organismo vivente, le cui parti sono reciprocamente dipendenti l'una dall'altra, come una successione di fenomeni che, spinti da un principio interiore, si muovono verso un loro fine. Questo principio fondamentale informa tutta la filosofia della natura del XVI secolo, a partire da Agrippa di Nettesheim in poi (cfr. De occulta philosophia, 1510), il quale ritiene che si possa pensare l'universo solo se dotato di un'anima indipendente. Il recupero di un'idea di anima mundi, che prepara l'affermarsi di un nuovo concetto di natura, sarà la porta di ingresso per nuove forme di panteismo.

1. Campanella e Bruno. In questo percorso si colloca il pensiero di Tommaso Campanella (1568-1639), la cui filosofia prende spunto dalla fisica di Bernardino Telesio (1509-1588) anche se poi finirà col distaccarsene. Un singolare rapporto empatico con il mondo emerge già dalla filosofia della conoscenza di Campanella. Egli ritiene che l'unico modo di conoscere sia il "contatto diretto" con tutte le cose. La nostra possibilità di comprendere e capire la realtà si realizza, in modo "sensibile", attraverso un sapere : soggetto di un sapit, l'uomo fa proprio il "sapore della cosa". L'idea di senso/sensibilità che qui soggiace non è quella dell'empirismo, ma «si presenta come intrinsecazione, e quindi partecipazione con la cosa, e cioè con quell'intimità della cosa che è lo stesso processo espressivo di Dio, il fare divino, che è l'Essere che adegua Potenza ed Amore. Non è un vedere, quindi, o specchiare, riproducendo immagini, ma un compenetrare il processo vitale del tutto, un gustare insomma la soavità della vita universale» (E. Garin, L'Umanesimo italiano, Bari 1965, p. 249). Coerente con questa visione, Campanella afferma che ogni cosa possiede una "sensibilità" ed è soggetto di una seppur confusa conoscenza di sé e del mondo, che le permette di amare gli altri esseri e di restare in sintonia con loro mediante un universale "consentire". Fautore di un caratteristico animismo magico, sostiene che il mondo sia retto, al di sopra di questa sensibilità individuale, da una sua propria Anima, uno strumento con il quale Dio ne dirigerebbe tutte le operazioni (cfr. Del senso delle cose e della magia II, 32). Il compito di quest'Anima del mondo è proprio quello di determinare l'accordo, il consenso, che tutte le cose hanno tra di loro e di disporle verso un unico fine: seppure in un'ottica panteista, Campanella non vuole pertanto negare una causa finale, anzi le assegna la supremazia su tutte le altre. Per quanto paradossale, il sistema campanelliano vuole restare teologico e cercare nella natura una dimostrazione della presenza e dell'azione di Dio.

La posizione panteista della filosofia di Giordano Bruno (1548-1600) è a dir poco complessa. Il suo schema si avvicina a quello plotiniano, ammettendo un Intelletto universale, compreso però in chiave totalmente immanentistica, un'Anima del mondo che informa ogni cosa ed una materia che funge da ricettacolo per tutte le forme. Scavalcata la teoria aristotelica della composizione fra materia e forma e quella fra potenza e atto, seguendo il sentire del tardo Cinquecento ed i prodromi di quella che di lì a poco sarà la "nuova fisica", è proprio la nozione di «forma» ad essere riletta in una nuova luce. Le forme assomiglieranno sempre più a dei princìpi vitali cangianti e mutevoli e la materia non sarà più vista come elemento di limitazione e di indeterminatezza, bensì come viva potenzialità. L'essere finito, dice Bruno, non può essere simultaneamente tutto ciò che è nella sua natura e nella sua essenza, ma ha però in sé la forza e il germe di tutte le forme future e questa è la garanzia della sua infinità. Sostenendo la "capacità di infinito" di ogni essere finito, il pensatore nolano intende proporre una nuova concezione filosofica della materia, la quale non riceve più la sua forma dal di fuori, ma da una forza insita nel suo interno. Non la forma abbraccia e costringe la materia, quanto piuttosto è la materia stessa che si espande e sviluppa in forme sempre nuove. La materia non è quindi solo un rapporto tra potenza e atto, ma un "seme" vivente che si sviluppa in tutte le cose. La vera realtà non spetta, dice Bruno, a nessuna delle forme in particolare, anzi non spetta nessuna cosa, ma è soltanto di quell'essenza che unifica in sé la molteplicità illimitata di tutte le misure, di tutte le figure e di tutte le dimensioni. È il superamento del concetto aristotelico di «sostanza individuale», legata a limitazioni spaziali e temporali, ovvero di una sostanza che non può racchiudere in sé la totalità delle possibili manifestazioni dell'essere (cfr. De immenso et innumerabilibus, libro VIII).

Ed è proprio nella sua teoria circa il rapporto fra infinito e finito che la visione panteista di Bruno emerge forse in modo più chiaro. Dall'infinitezza della Causa Prima deriva per lui l'infinitezza dell'effetto, cioè dell'universo. Il mondo, anzi un'infinità di mondi procedono ab aeterno da Dio. L'universo è uno, infinito e immobile, la sua vita è vita divina perché effusione della vita di Dio in tutte le sue parti. Sebbene Dio e l'universo non siano "infiniti nello stesso modo", in quanto Dio è tutto infinito e totalmente infinito (cioè presente in ogni parte del tutto come sua causa) mentre l'universo è tutto infinito ma non totalmente infinito (perché non è totalmente in tutte le sue parti), nulla impedisce al finito di poter incorporare in sé ciò che è proprio dell'infinito: gli attributi dell'universo bruniano finiscono così per coincidere con quelli dell'Essere parmenideo, giungendo a confondersi con gli attributi di Dio. Il panteismo di Bruno ingloba inoltre una motivazione gnoseologica. Ciò che in Galileo sarà l'universalità del linguaggio della matematica, cui tutto l'universo soggiace senza limitazione alcuna, in Bruno è l'universalità della sostanza, la cui unità ed eternità non vengono colte dalla sensibilità, ma dall'Intelletto. Ciò non è però sinonimo di astrazione o di immaterialità, perché l'intelligibilità non appartiene più, precipuamente, all'atto o alla forma, in quanto forma e materia sono due aspetti della medesima sostanza, la natura.

2. Il panteismo di Spinoza. Il tentativo di Baruc Spinoza (1632-1677) sarà quello di ridare unità all'essere infranto da Cartesio. Alle "tre sostanze" del filosofo francese, la res cogitans, la res extensa e la res divina (cioè Dio come fondamento della conoscenza), Spinoza opporrà un'unica sostanza, inseguendo una sintesi estrema tra pensiero metafisico-teologico e quello geometrico-scientifico. La res cogitans e la res extensa sono due degli infiniti "attributi" dell'unica sostanza che, in Spinoza, non indica altra realtà che Dio stesso. Le singole concrezioni con cui si presentano le idee e le cose sono invece "modi" della sostanza, tali che il carattere universale di questa fonda l'intelligibilità di quelle, cioè del particolare. Nulla può esistere all'infuori di Dio se non come "modo" e "attributo" di Dio. Dio diventa "la fonte e la realtà di tutta la realtà", solo Lui è quell'unità (in senso neoplatonico) capace di garantire tutta la molteplicità (cfr. Ethica, lib. I).

Voler ammettere un'altra forma di divenire è voler supporre un altro Dio (cfr. Ethica, I, 33). Così facendo, la filosofia della natura si identifica con la metafisica. La famosa equazione spinoziana del Deus sive natura trova qui la sua posizione esatta. Negata la contingenza, la natura assume i caratteri della "necessità divina", elemento chiave di tutto il sistema spinoziano, di cui essa riflette non la somma infinita delle singole cose, quanto piuttosto la necessità che le lega le une alle altre. Dio è la sostanza con tutti i suoi infiniti attributi, il mondo è l'insieme di tutti i modi, finiti e infiniti, di essere della sostanza (cioè, in definitiva, di Dio). In questo universo non vi è dunque spazio per la contingenza: tutto diviene necessaria conseguenza della necessità di Dio. Il panteismo di Spinoza ammetterà però la persistenza di una debole divisione fra Dio e il mondo: se il primo gode di necessità libera, il secondo possiede una necessità determinata, se il primo è il soggetto di attributi infiniti, il secondo è l'espressione di questi negli infiniti modi di essere della sostanza, se il primo è natura naturans, il secondo è natura naturata . Non si tratta però affatto di un distacco metafisico: la natura è un effetto presente nella causa e contenuto all'interno di essa, secondo il principio che "tutto è in Dio".

Se il pensiero di Spinoza, a motivo del referente cartesiano e per un certo dialogo con il pensiero scientifico, è più propenso a "divinizzare la materia", il panteismo che prenderà forma dall'idealismo tedesco di Hegel, Fichte e Schelling si orienterà in chiave storicista e romantica, procedendo invece a divinizzare la forma come modo di essere per eccellenza. Anche in tempi recenti Spinoza sarà uno dei filosofi più citati dagli scienziati, sebbene conosciuto da essi con poca profondità. Riferimenti espliciti al Dio di Spinoza ci sono stati lasciati, fra gli altri, da Albert Einstein (cfr. Come io vedo il mondo, Roma 1993, p. 32).

3. Gli attributi "assoluti" dello spazio in Newton. La concezione del rapporto fra Dio e natura presentata da Isaac Newton (1642-1727) è stata valutata in modo diverso, oscillando tra un giudizio di deismo ed uno di panteismo. Nelle pagine in cui tratta esplicitamente del problema di Dio, nei Principia mathematica philosophiae naturalis e nell' Opticks, lo scienziato inglese parla più spesso del Dio ordinatore e organizzatore di quanto non faccia del Dio creatore. Appellandolo frequentemente col nome di «Signore di tutto» (Pantocrator), nel tentativo di spiegare il senso di questo attributo Newton afferma che Dio-Signore è un termine relativo che fa riferimento ad una sudditanza servile: «la divinità è la signoria di Dio, non sul proprio corpo, come viene ritenuto da coloro per i quali Dio è l'anima del mondo, ma sui servi», e prosegue: «La voce Dio significa sempre signore, ma non ogni signore è Dio. La denominazione di un ente spirituale costituisce Dio [...]. È eterno e infinito, onnipotente e onniscente, ossia dura dall'eternità in eterno e dall'infinito è presente nell'infinito: regge ogni cosa e governa ogni cosa che è o può essere. Non è l'eternità o l'infinità, ma è eterno e infinito; non è la durata e lo spazio, ma dura ed è presente ovunque, ed esistendo sempre e ovunque fonda la durata e lo spazio» (Princìpi matematici della Filosofia Naturale, tr. it. Torino 1965, p. 793). Il Dio di Newton appare distinto dalla sua creazione che Egli sostiene e giustifica senza immedesimarsi in essa.

Astraendo dal problema di quale fosse il teismo di Newton e quale la conformità fra la sua nozione di Dio e l'immagine biblica di Dio consegnata dalla Rivelazione, va qui ricordato che alcuni autori hanno intravisto nell'idea di «spazio assoluto» di Newton una certa forma di panteismo: lo spazio della fisica newtoniana sarebbe cioè da intendersi come un "attributo" o una "estensione" di Dio (cfr. Jammer, 1963). In questa interpretazione, lo spazio e il tempo assoluti sarebbero in fondo il « sensorium di Dio», stabilendo così un'equivalenza tra assoluto e divino. Tuttavia, come precisa Max Jammer, «sembra che egli [Newton] si renda conto di poter essere facilmente travisato e collocato tra i panteisti del tempo, i quali nei circoli ortodossi erano identificati con gli atei». Inoltre «Newton usava il termine "sensorio" come un mero paragone e non identificava lo spazio con un organo di Dio» (ibidem, p. 99, 101).

Riteniamo, poi, che si debba precisare che lo spazio assoluto di Newton non è l'estensione cartesiana, che si identificava con i corpi, bensì qualcosa di distinto dalla materia, ed ha come funzione principale quella di spiegare l'azione di attrazione dei corpi a distanza. In una lettera a Richard Bentley (1692), Newton riconosce che «la gravità deve essere causata da un agente che agisce costantemente in accordo con determinate leggi», ma al tempo stesso egli non sa cosa essa sia esattamente, preferendo lasciare «al giudizio dei miei lettori stabilire se questo agente sia materiale o immateriale» (Antologia, a cura di A. Pala, Torino 1963, pp. 88-89). Si può anche ritenere che il Dio newtoniano "occupi lo spazio del mondo" per assicurare che in esso si compiano in modo assoluto le leggi della fisica, ma questa presenza pare avere come scopo principale quello di giustificare - non essendo ancora nota la nozione di «campo» -, la trasmissione di un'azione a distanza, come era appunto la gravitazione.

       

III. La presenza di risonanze panteiste in alcune visioni della natura della scienza contemporanea

In merito alle diverse concezioni della natura, la filosofia e le scienze hanno sperimentato reciproci influssi. Il pensiero scientifico è stato più volte sorgente di pensiero filosofico (si pensi all'eliocentrismo, alla scoperta della quantizzazione della radiazione, alle teorie della relatività o al principio di indeterminazione, solo per fare alcuni esempi), ma anche la filosofia, a sua volta, ha fornito al discorso scientifico categorie concettuali e quadri sistematici. In genere, quest'ultima implicazione si è verificata più facilmente in quegli ambiti della scienza ove i rapidi sviluppi teorici ed un minore collegamento con osservabili vincolanti lasciavano maggiore libertà alla speculazione. Più che cercare influssi diretti del panteismo filosofico sulle formulazioni della scienza, pare quindi più opportuno indagare quali "visioni della natura", fra quelle che trovano riscontro in alcune speculazioni scientifiche, possano essere debitrici, in modo implicito ed indiretto, ad una certa concezione dell'Assoluto e dei suoi rapporti con il mondo.

Delle due classiche direzioni intraprese dal panteismo filosofico lungo la storia - quella spiritualista e panpsichista, in cui la natura è vista come un grande spirito che anima la realtà trasfigurandola (anima mundi), e quella materialista in cui la natura, esaurendosi nella materia, coincide con l'Assoluto o col divino fino ad assumerne completamente gli attributi -, se ne riconosce la presenza anche in alcune concezioni della natura oggi veicolate dalla scienza contemporanea. Riteniamo che ciò sia evidente in tre ambiti che qui richiamiamo brevemente: il neo-vitalismo cosmico (cui appartengono il programma della "Gnosi di Princeton" e altre forme di "misticismo della fisica"), l'idea del "codice cosmico" come risposta alla domanda sull'intelligibilità del reale, ed infine l'ambito che corrisponde ad alcune interpretazioni del Principio antropico. Il primo è riconducibile ad una prospettiva spiritualista, mentre il secondo e il terzo paiono in maggiore sintonia con la prospettiva materialista. Un ulteriore spunto di confronto col pensiero scientifico riguarda infine l'idea del mondo come un "tutto in Dio", cui corrisponderebbe un coinvolgimento di Dio stesso nel mondo, una visione talvolta qualificata come «panenteismo».

1. La Gnosi di Princeton ed il neo-vitalismo cosmico. Si persegue oggi la ricerca di nuove interpretazioni del reale che seguano principalmente due intuizioni: a) la necessità di superare logiche di tipo "occidentale", generalmente basate sui princìpi di identità e di non contraddizione, sull'opposizione dialettica e l'irriducibilità degli opposti, in favore di logiche mutuate da filosofie orientali, maggiormente aperte alla composizione degli opposti, alla trasformazione delle identità e alla possibilità di sintesi inedite; b) privilegiare la relazione e l'interazione come chiavi per comprendere le proprietà del singolo, che cessano in realtà di essere proprietà del singolare per divenire proprietà unicamente dell'insieme, la cui logica, ma anche "vita" globali, determinano il comportamento e il significato delle parti; in tal modo l'essere umano, sia come osservatore scientifico che come vivente, non trascenderebbe l'ordine cosmico ma ne risulta in qualche modo inglobato. Sviluppatesi storicamente in modo bizzarro e creativo partendo dalla teoria dei giochi, poi divenuta teoria dei paradossi, queste forme di pensiero - chiamate dai loro stessi avversari a Princeton e a Pasadena verso la fine degli anni 1960 «Gnosi di Princeton», o anche «Nuova Gnosi» - hanno trovato una prima applicazione nell'ambito della meccanica quantistica, per diffondersi poi rapidamente - con un atteggiamento oscillante fra la riservatezza e la segretezza - in biologia e in cosmologia, esponendosi a numerose critiche, talvolta non troppo convinte, da parte della scienza "ufficiale" (cfr. Ruyer, 1980).

La tesi fondamentale della Nuova Gnosi è simile a quella di tutte le gnosi: il mondo è dominato dallo Spirito a cui si contrappone la materia; ma lo Spirito, dicono gli gnostici di Princeton, non trova nella materia un'opposizione, in quanto essa è vista piuttosto come una sua creatura. I corpi materiali sono come il "sottoprodotto" dello Spirito, sono la "stoffa" (stuff) che permette di contenere, unito in tutte le parti del cosmo, lo Spirito. L'universo non è formato né di entità materiali, né di energie, quanto piuttosto di "domini di coscienza". L'universo consiste delle "forme coscienti di sé" e delle interazioni che si stabiliscono tra queste forme grazie ad una loro mutua informazione. Le "vere" informazioni sarebbero quelle presenti nella "coscienza interiore" di ogni essere. L'osservazione scientifica coglierebbe solitamente il "rovescio" di queste informazioni, cioè la loro dimensione corporea e materiale, non il loro "diritto", rappresentato dalla dimensione spirituale e relazionale. La Nuova Gnosi intende superare questa barriera concettuale, nella quale resta intrappolata la scienza convenzionale, per accedere invece alla dimensione più intima dell'oggetto: ma per poterlo fare occorre riconoscere che ogni oggetto che osserviamo ha una sua propria vita e una sua coscienza. Alcune entità, come gli esseri umani e gli animali, sarebbero in grado di comunicare questa loro coscienza, questo loro lato "diritto", mentre altri esseri non sarebbero capaci di fare altrettanto, ma non per questo non dev'essere riconosciuta a questi ultimi una loro dimensione più intima, un loro proprio "diritto". Solo le cose artificiali o fortuite non avrebbero una dimensione cosciente, che possiedono, invece, i singoli elementi e perfino le singole particelle elementari. Il vero mondo è quello generato da tutti questi infiniti processi e relazioni, ignorando i quali non si arriverebbe pertanto a conoscerlo in profondità, perché si ignorerebbe la sua "anima".

Nasce così la visione di un vitalismo cosmico, il cui largo impiego oltrepassa i confini degli "gnostici di Princeton", dove autoregolazione, coordinamento ed omeostasi divengono vere e proprie manifestazioni di vita (cfr. Lovelock, 1981): non solo i vari elementi materiali e la biosfera avrebbero una propria vita, ma l'intero universo risponderebbe in definitiva alla personalità di un vivente, capace di costruire la propria storia (cfr. Smolin, 1998). La progressiva ed irreversibile crescita dell'informazione nel cosmo assume nella mente di alcuni autori il ruolo di un'Anima o di uno Spirito cosmici, cui viene affidato il compito non solo di regolare i processi della materia trascendendola (o per lo meno disaccoppiandosi da essa), ma anche di guidare l'intera evoluzione dell'universo verso l'immortalità (cfr. Tipler, 1995).

È difficile formulare un giudizio complessivo su tali visioni della natura, sia per l'eterogeneità (e talvolta l'ingenuità) delle proposte, sia perché esse nascono da un'esigenza che non va sottovalutata, quella di un superamento "post-moderno" di alcune forme di razionalità "moderna" (come lo sono state ad esempio il riduzionismo e il materialismo) rivelatesi oggi insufficienti. La ricerca di nuovi paradigmi filosofici non è scevra, inoltre, da una certa ambiguità. Lo mostra ad esempio il fatto che la maggiore importanza tributata all'evoluzione "creativa" dei sistemi complessi venga da alcuni autori indicata come il necessario superamento di una visione teista che ci liberi finalmente dall'idea di un Dio che regga le sorti del mondo (cfr. Smolin, 1998, pp. 246-247, 382), mentre per altri sarebbe in sintonia con l'esistenza di un progetto e dunque di un Creatore (cfr. Davies, 1989, p. 261; Davies, 1993, pp. 5-7). Può essere invece più facile notare l'esistenza di evidenti collegamenti fra molte concezioni neo-vitaliste ed alcuni elementi caratteristici del New Age, di cui la "Gnosi di Princeton" pare essere quasi una fedele applicazione in ambito scientifico. Impliciti anche i legami con l'ermetismo e il vitalismo rinascimentali (vedi supra, II.1) e l'emergentismo moderno, i cui paradigmi scompaiono e ricompaiono sotto varie forme anche nelle riflessioni della scienza, forse anche a dimostrazione del fatto che essi contengono istanze significative, che la razionalità positivista moderna aveva ritenuto di poter dirimere in modo forse troppo semplicistico. Tuttavia, riteniamo che il superamento di approcci di tipo analitico, riduzionista ed essenzialista, in favore di nuove visioni della natura caratterizzate da un approccio sintetico ed olistico, maggiormente attento alle proprietà relazionali, alla sintesi e all'armonia del tutto, non debba condurre al rifiuto di una "logica di base" o di una "filosofia prima" che in fondo unisce sia il pensiero filosofico occidentale che quello orientale, i quali non possono essere visti in modo antagonista, pena la perdita d'identità dello stesso filosofare e, in ultima analisi, dell'universale comunicabilità del pensiero scientifico.

2. Il codice cosmico e l'evoluzione immanente verso l'emergere della coscienza . Accanto a coloro che parlano di un'Anima cosmica, non mancano oggi numerosi riferimenti ad una "mente" cosmica. Si tratta di una riproposizione che, inconsapevolmente, segue da vicino il ruolo delle due ipostasi plotiniane generate dall'Uno (vedi supra, I.3) e che, altrettanto inconsapevolmente, mantiene un legame costante con i due classici modi di vedere il divino nel mondo: come Intelletto e come Spirito. Il richiamo ad una «mente cosmica» o anche ad un «codice cosmico» (cosmic code) viene presentato di solito nel contesto dell'intelligibilità e della razionalità delle leggi naturali, dell'armonia fra le varie parti dell'universo e della discussione circa il delicato coordinamento (fine tuning) esistente fra i parametri e le costanti numeriche che ne determinano la struttura e l'evoluzione.

Se a livello scientifico tale osservazione è pienamente lecita e si colloca nel solco di un'inevitabile tradizione pitagorica associata ad ogni matematizzazione della natura che legge il cosmo come espressione di armonia e di ordine (kósmos), a livello filosofico ed in prospettiva realista essa può prendere due strade diverse (in prospettiva idealista - osserviamo - tutto ciò sarebbe facilmente qualificato come ordine soltanto apparente, imposto dalle categorie mentali del soggetto). La prima strada è ritenere che tale razionalità sia un riflesso, sul piano oggettivo del mondo e dei suoi fenomeni, di un'Intelligenza ordinatrice che, trascendendo l'universo, ne possiede e ne esplica l'intero progetto. Anche se soggetta a sviluppi diversi - ci si può infatti arrestare ad una sorta di Dio architetto ed impersonale tipico del deismo, oppure aprirsi alla rivelazione di un Dio, di certo ordinatore e sapiente, ma anche personale e salvifico -, tale prospettiva rimanda comunque a qualcosa che è al di là di se stessa: l'osservazione nel mondo delle tracce di un'intelligenza conduce ad interrogarsi sulla loro causa. La seconda strada, nel riconoscere anch'essa l'esistenza di un ordine e di una delicata sintonia nella struttura del cosmo, non ritiene per questo necessario invocare alcuna Intelligenza che trascenda l'universo, ma registra semplicemente l'autoesplicarsi di una legge necessaria ed immanente insita nelle condizioni stesse di esistenza del cosmo in quanto tale. L'universo non è nulla più delle sue leggi o del suo "progetto": se vi sono riferimenti ad una nozione di Dio o del divino, questa finisce con l'identificarsi con le leggi di natura le quali, a loro volta, si identificano con l'universo stesso. La mente di Dio è, in sostanza, la mente dell'universo. L'Intelletto cosmico si traduce nella riproposizione moderna di un panteismo materialista nel quale, se vi è la possibilità teorica di riconoscere una qualche forma di lógos, agli effetti pratici questo appartiene alla materia stessa, riassorbendo un debole dualismo materia-spirito o materia-ragione in uno stretto monismo materialista.

Qualcosa di analogo accade anche per le possibili interpretazioni del Principio antropico. Il dato scientifico che le delicate condizioni di esistenza del cosmo sono anche le stesse che consentono di ospitarvi la vita può essere letto filosoficamente in due modi: come "consonanza" con l'idea che esista un progetto originante, distinto dal mondo, avente per fine il creare le condizioni necessarie perché l'uomo possa esserne l'osservatore intelligente, oppure come dimostrazione che l'evoluzione cosmica e biologica abbia al suo interno un "codice" (analogamente a quanto avviene per il DNA nello sviluppo di un organismo vivente) il cui programma consiste nello strutturare l'universo conducendolo alla comparsa dell'uomo affinché l'universo stesso prenda finalmente "coscienza di sé". Nel primo caso l'universo sarebbe fatto per l'uomo, nel secondo l'uomo per l'universo. In quest'ultimo caso ci troviamo di fronte ad una nuova visione panteista di indole materialista: la coscienza - in particolare quella umana - sarebbe il risultato finale necessario e sufficiente dell'evoluzione della materia; e la materia, dal momento della comparsa dell'intelligenza, ne verrebbe da questa totalmente permeata e compresa.

Dal punto di vista concettuale, l'affermazione di un panteismo materialista legato alla presenza di una mente cosmica presenta, riteniamo, un'interna contraddizione, quella di cancellare il problema della causa dell'intelligibilità del reale, problema dal quale la riflessione sulla mente o sul codice prendevano avvio. L'intelligibilità diviene il semplice frutto dell'evoluzione e non più la possibilità di ergersi sopra di essa, problematizzando ed interrogando. Esistono inoltre argomenti a favore del fatto che l'intelligibilità della natura non rappresenti una caratteristica facilmente riconducibile alle leggi della selezione naturale o dell'evoluzione cosmica. Si tratta di una problematica che conserva una certa analogia con l'irriducibilità del rapporto mente-corpo. In merito ad un'interpretazione del Principio antropico che leggesse la comparsa dell'uomo come il prodotto necessario di un'autoesplicazione determinista dell'universo, va ricordato che le osservazioni scientifiche sulle quali si basano le riflessioni sulla "sintonia" fra l'universo e la vita riguardano condizioni necessarie ma non sufficienti : perché la vita fiorisca occorra necessariamente che l'universo sia così com'è, ma l'essere così com'è non è sufficiente a generare deterministicamente il suo fiorire, le cui cause originanti ci sono, almeno fino a questo momento, ancora ignote.

3. La proposta del panenteismo. Quella maggiore consistenza, ontologica e dinamica, che il pensiero scientifico intende tributare alla natura nei confronti di un suo possibile Creatore, conduce talvolta ad ipotizzare una sorta di feed-back della natura nei confronti di Dio. Può così affermarsi l'idea di un ruolo più attivo del mondo, e dunque di una certa "polarità" fra Dio e il mondo, giungendo fino a postulare un coinvolgimento di Dio nella dinamica della natura e dei suoi processi. Ciò porta, in linea generale, a vedere il mondo come "parte di Dio", più precisamente come "un tutto in Dio", da cui il termine «panenteismo». Probabilmente già presente nella filosofia di Eraclito (550 ca. -480 ca. a.C.) e favorita più tardi dal pensiero di Spinoza (vedi supra, II.2), dall'idealismo di G. Hegel (1770-1831) e dall'evoluzionismo cosmico di H. Spencer (1820-1903), questa concezione è stata implicitamente riproposta, di recente, in alcune forme di pensiero ispirate alla filosofia del processo di A.N. Whitehead (1861-1947).

Il panenteismo vede il mondo inserito nella natura di Dio, nel suo essere e nella sua vita. Dio mantiene certo una priorità su di esso, come il tutto sulla parte, ma non può evitare di dipenderne a qualche livello. Le perfezioni e gli altri attributi divini "crescono" insieme al mondo; Dio deve "tener conto" delle proprietà, delle potenzialità e dei processi del mondo se vuole condurre a termine non solo il suo progetto creativo, ma anche ciò che manca al compimento di Se stesso. Ne risulta certamente offuscata l'idea di una creazione dal nulla e la sovranità di Dio su tutte le cose, i cui rapporti con l'universo assomigliano più a quelli di un nocchiere al comando di una nave in tempesta che a quelli di un Creatore trascendente. La creatività di Dio dipenderebbe così dalla creatività del mondo, i cui sviluppi futuri potrebbero non essere noti neanche al suo stesso Creatore. Non vengono negate la natura personale di Dio né la libertà umana (partecipata in qualche modo all'intero universo) - cose che il panenteismo afferma esplicitamente - ma ne risulta stravolta la comprensione teologica della perfezione della libertà di Dio. Favorevole ad una revisione dell'idea filosofica dell'immutabilità di Dio, il panenteismo non ha gli strumenti teologici per indirizzarne e ricondurne la riflessione verso il mistero dell'Incarnazione (o di una qualche theologia crucis all'interno di esso) o verso il significato biblico di categorie quali la misericordia e la fedeltà divine, ma ne cerca una facile soluzione fisicista, attraente per il ruolo di protagonismo riservato all'evoluzione del cosmo e alle sue leggi, ma penalizzante per l'immagine di Dio e, in ultima analisi, per la corretta comprensione della realtà stessa dell'universo. Il legittimo desiderio di conferire alla natura una propria autonomia che le consenta al tempo stesso di partecipare in qualche modo di attributi divini, una volta svincolato da una metafisica dell'essere (di cui i fautori del panenteismo spesso ignorano tutta la portata "dinamica") e dall'affermazione di una creazione ex nihilo, conduce all'idea di un mondo che "crescendo insieme a Dio", finisce prima o poi col rimpiazzarlo.

     

IV. La distinzione Creatore-creatura e l'armonia del creato: riflessioni conclusive

Nell'affermare una separazione sostanziale, e dunque metafisica, tra Dio e il mondo, la Rivelazione giudeo-cristiana non desacralizza la natura. Può esistere cioè una visione "sacra", ma non "religiosa" della natura, una sacralità di cui la natura non è la fonte ultima, perché riflesso della santità e della bellezza di Dio. In molti testi del Genesi si legge come Dio benedica la sua creazione (cfr. Gen 1,22-28; 8,17; 9,1 ecc.), una creazione più volte riconosciuta come «cosa buona», da intendersi anche come «bella», una creazione che il peccato originale dell'uomo ha in parte sfigurato alterandone l'armonia primitiva, ma che la salvezza operata da Gesù Cristo ricapitolerà e riconcilierà in una nuova economia salvifica alla quale lo stesso creato è chiamato a partecipare, ma le cui primizie sono fin d'ora presenti e disponibili nell'evento storico ed insieme meta-temporale della sua resurrezione dai morti (cfr. Rm, 8,19-22).

Come si è già osservato, la separazione del Dio di Israele dal creato e la sua totale diversità ontologica espressa dalla dottrina della creazione dal nulla (vedi supra, I.4), non impedisce né che il creato assomigli a Dio, né che Dio sia presente nelle sue creature. Si tratta di una "novità filosofica" possibile grazie ad un significato biblico delle nozioni di «immanenza» e «trascendenza» più ricco rispetto a quello abitualmente utilizzato dal pensiero filosofico, di cui la metafisica cristiana di Tommaso d'Aquino si fece intelligente interprete, specie nella formulazione della dottrina della partecipazione e dell'intensività dell'atto di essere. La prospettiva teologica dei rapporti fra Dio e il mondo è stata così riepilogata da Giovanni Paolo II in una sua catechesi sulla creazione: «Quale Creatore, Dio è in certo modo "al di fuori del mondo" e il creato è "al di fuori" di Dio. Nello stesso tempo il creato è completamente e pienamente debitore a Dio della propria esistenza (di essere ciò che è), perché ha origine completamente e pienamente dalla potenza di Dio. Si può dire che anche mediante questa potenza creatrice (l'onnipotenza) Dio è nel creato e il creato è in Lui . Tuttavia quest'immanenza di Dio non intacca in nulla la trascendenza che gli è propria nei riguardi di ogni cosa alla quale egli dà l'esistenza» (Giovanni Paolo II, Catechesi del mercoledì, 15.1.1986, n. 6).

L'universo cristiano assomiglia al suo Creatore non perché ne sia una necessaria emanazione (Plotino), né perché un Demiurgo ne legga le forme dal mondo delle Idee per poi riprodurle nel mondo reale (Platone). A differenza delle ipostasi plotiniane o del Demiurgo platonico, il Verbo e lo Spirito Santo non fanno da "cerniera" fra il divino ed il terreno, né sono le prime creature dell'Uno. La logica con cui la Trinità cristiana dà origine al mondo risiede totalmente nella libertà della sua vita immanente, ove l'opposizione filosofica fra necessità e libertà viene superata nel mistero di una comunione personale, libera donazione di Persone distinte resa possibile dalla necessaria identità di una medesima natura divina. L'aver voluto ogni cosa "nel suo Verbo e per mezzo del suo Verbo", ma anche "per Amore e con Amore" consente al Dio uno e trino di dare origine ad un mondo in cui la logica delle processioni trinitarie funge da causalità esemplare, senza che alcuna delle Persone divine entri in "composizione" con le creature. Le processioni delle Persone divine (generazione e spirazione) sono viste da s. Tommaso come la causa e la ragione (ratio) della produzione delle creature, più precisamente: «Exitus Personarum in unitate essentiae est causa exitus creaturarum in essentiae diversitate» (In I Sent., d. 2, divisio textus ; cfr. ibidem, d. 14, q. 2, a . 2).

Il fatto che l'universo sia chiamato ad essere "cristificato" dalla ricapitolazione che vi opera mistericamente il Figlio, o che lo Spirito vivifichi continuamente la creazione santificandola, non trova mai nella Sacra Scrittura espressioni che facciano pensare al mondo come al "corpo di Dio" o allo Spirito Santo come alla sua "anima". Il Magistero della Chiesa ha più volte puntualizzato il contenuto della fede proprio nei confronti di possibili derive panteiste. Fu così condannata la tesi, attribuita a Pietro Abelardo (1079-1142), che lo Spirito Santo fosse l'anima del mondo (cfr. DH 722) e quelle, attribuite a Meister Eckhart (ca. 1260-1327), che Dio avesse creato il mondo contestualmente alla generazione del Figlio o che l'anima umana possedesse qualcosa di increato e di comune ad un intelletto divino (cfr. DH 953, 977). Il chiarimento più organico e completo nei riguardi del panteismo giungerà con il Concilio Vaticano I (1870), quando, pur senza far riferimento esplicito a specifici autori, se ne condannano le visioni panteiste di tipo emanatista (Plotino), sostanziale (Spinoza), essenziale (Schelling) ed universale o indefinito (Hegel), insieme alle cause (ontologica, psicologica ed etica, rispettivamente) delle erronee comprensioni della creazione che vi soggiacciono: negare la distinzione fra Creatore e creatura, negare la libertà di Dio, ignorare il vero fine della creazione stessa (cfr. DH 3024-3025).

Il cristianesimo guarda con sincero interesse la necessità, emersa con urgenza negli ultimi decenni, di riscoprire una maggiore "sintonia" fra uomo e natura, perché ciò appartiene al messaggio biblico ed alla sua tradizione di pensiero. Siamo certamente di fronte ad un trend che investe molti ambiti della cultura contemporanea, reclamato non solo dalle nuove epistemologie scientifiche, ma anche dall'ormai inevitabile contesto planetario delle politiche sociali, economiche e tecnologiche. Al tempo stesso si tratta di un'attenzione che non deve tramutarsi in "cosmocentrismo". La fede cristiana ricorda che l'uomo non trova il suo télos nell'armonia con la natura, né la ricerca di questa necessaria sintonia - sia sul piano personale che sociale - contiene le risposte agli enigmi della sua esistenza o può fornire il senso ultimo del suo ruolo nell'universo. L'uomo e la natura, pur nella loro autonomia, dipendono entrambi da Dio. In chiave teologica occorrerebbe aggiungere - distanziandosi dalle prospettive tipiche del buddismo o di filosofie che ad esso si ispirano - che la natura, da sola, "non salva". Essa può contribuire alla salvezza dell'uomo esclusivamente nella misura in cui porta a Dio, indicandogli attraverso il suo appello estetico e razionale, l'esistenza di un Creatore (rivelazione naturale) e, dunque, solo nella misura in cui resta capace di rimandare al di là di se stessa. In tal senso, si potrebbe dire che il cristianesimo non si accorda tanto con l'idea di una Natura-Madre, quanto piuttosto con quella di una Natura-sorella, alla quale siamo legati perché vediamo in essa la comune dipendenza dal Creatore (cfr. Giovanni Paolo II, Catechesi del mercoledì, 26.1.2000). Intuizioni presenti da sempre nel profondo della cristianità e che hanno trovato in Francesco d'Assisi (1182-1226) uno dei suoi migliori interpreti. Se il Cantico delle creature chiamerà madre soltanto la terra, e nel preciso contesto della produzione di frutti necessari al sostentamento, tutte le realtà naturali sono comprese con uno sguardo "fraterno" che le riconosce partecipi di una comune filiazione da Dio: «Laudato sii, mi' Signore, cum tucte le tue creature, specialmente messer lo frate sole [.] Laudato sii, mi' Signore, per sora luna e le stelle [.] Laudato sii, mi' Signore, per sora aqua [.]. Laudato sii, mi' Signore, per frate focu...».

La contemplazione della natura e la ricerca del divino presente in essa rivestono un ruolo di fondamentale importanza nel dialogo inter-religioso e la teologia cristiana è destinata a dedicarle, in tal senso, una riflessione più matura ed articolata rispetto a quanto abbia forse fatto in passato. Nella lode a Dio nel creato si incontrano ebraismo e cristianesimo, Corano e tradizioni religiose orientali, pensiero filosofico e religioni naturali (cfr. Giovanni Paolo II, Catechesi del mercoledì, 2.8.2000). Il cristianesimo partecipa a questo dialogo con la sua specificità: la natura è il primo stadio della Rivelazione divina (cfr. Fides et ratio, 19), essa è opera della Trinità e, in quanto tale, muove il credente alla lode del Dio Uno e Trino, senza fermarsi all'idea di una sacralità anonima ed impersonale. È comunque vero che ad orientare tale contemplazione - e dunque a guidare anche il dialogo con le altre religioni a partire dalla natura - resta pur sempre lo Spirito, quale però Spirito del Padre e del Figlio, terza Persona della Trinità divina. «Alla luce della fede cristiana, la creazione poi evoca in modo particolare lo Spirito Santo nel dinamismo che contraddistingue i rapporti tra le cose, all'interno del macrocosmo e del microcosmo, e che si manifesta soprattutto là dove nasce e si sviluppa la vita. In forza di questa esperienza, anche in culture lontane dal cristianesimo si è in qualche modo percepita la presenza di Dio come "spirito" che anima il mondo [.]. Il cristiano sa bene che una tale evocazione dello Spirito sarebbe inaccettabile se riferita ad una sorta di " anima mundi " intesa in senso panteistico. Ma, escludendo questo errore, resta vero che ogni forma di vita, di animazione, di amore, rimanda in ultima analisi a quello Spirito, di cui la Genesi dice che aleggiava sulle acque all'alba della creazione» (Giovanni Paolo II, Catechesi del mercoledì, 2.8.2000, n. 5).

Documenti della Chiesa Cattolica correlati:
Leone I, DH 285; Innocenzo II, DH 722; Giovanni XXII, DH 953, 977; Pio IX, DH 2901; Concilio Vaticano I, DH 3023-3025; Pio XI, Mit brennender Sorge, 14.3.1937, EE 5, 1153; Giovanni Paolo II: Catechesi del mercoledì, 15.1.1986, Insegnamenti IX,1 (1986), pp. 111-114, n. 6; Catechesi del mercoledì, 2.8.2000, OR 3.8.2000, p. 4. Fides et ratio, 80.

  

Bibliografia: 

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Aspetti interdisciplinari e concezioni della natura: A.N. WHITEHEAD, Il processo e la realtà (1929), Bompiani, Milano 1965; R. RUYER, La Gnosi di Princeton. La scienza alla ricerca di una nuova religione, Nardini Editore, Firenze 1980; J. LOVELOCK, Gaia: nuove idee sull’ecologia, Boringhieri, Torino 1981; J. BARROW, F. TIPLER, The Anthropic Cosmological Principle, Clarendon Press, Oxford 1986; P.C. DAVIES, Il cosmo intelligente, Mondadori, Milano 1989; R. PENROSE, La mente nuova dell’imperatore, Rizzoli, Milano 1992; F. CAPRA, D. STEINDL-RAST, L’universo come dimora. Conversazioni tra scienza e spiritualità, Feltrinelli, Milano 1993; F. CAPRA, Il tao della fisica (1975), Adelphi, Milano 1993; P.C. DAVIES, La mente di Dio, Mondadori, Milano 1993; S. MURATORE, L'evoluzione cosmologica e il problema di Dio, AVE, Roma 1993; D.C. LINDBERG, R.L. NUMBERS (a cura di), Dio e natura. Saggi storici sul rapporto fra cristianesimo e scienza, La Nuova Italia, Firenze 1994; F. TIPLER, La fisica dell’immortalità, Mondadori, Milano 1995; L. SMOLIN, La vita del cosmo, Einaudi, Torino 1998; M. ARTIGAS, The Mind of the Universe, Templeton Foundation Press, Philadelphia-London 2000; N.L. GEISLER,Panentheism, in “Baker Encyclopedia of Christian Apologetics”, Baker Books, Grand Rapids (MI) 2000.