I. Introduzione - II. Le scienze geologiche nell'età antica - III. La geologia nel medioevo e nel rinascimento - IV. La geologia nell'epoca dello sviluppo del metodo scientifico - V. Lo sviluppo ed i risultati delle scienze geologiche nei secoli XVIII e XIX - VI. Il problema della datazione dell'età della Terra - VII. Aspetti del confronto fra geologia e riflessione teologica nell'epoca contemporanea - VIII. Considerazioni conclusive.
La geologia è la disciplina che studia composizione, struttura e forma della Terra ed i fenomeni che vi si svolgono, in particolare alla superficie, là dove l'accesso è più immediato. Essa è in parte una scienza fisica che, studiando le vicende ed i mutamenti della Terra, ne ricerca le cause e le correlazioni nell'intento di pervenire a leggi generali; ed è anche storica, in quanto cerca, partendo dall'osservazione del presente, di ricostruire le trasformazioni della Terra nel tempo sino alla sua forma attuale. In questa prospettiva è una disciplina non sperimentale, che ha a che fare con una successione di eventi unici ed irripetibili nel tempo.
I. Introduzione
Fra le discipline naturalistiche la geologia è una delle ultime nate. Il termine «geologia» è ben più vecchio e risale al 1473, quando fu introdotto da Richard di Bury, vescovo di Durham, per indicare la giurisprudenza come dottrina “terrestre”, distinta dalla teologia, scienza divina. Il termine compare per la prima volta nel senso prossimo a quello attuale nell'opera postuma Geologia ovvero de fossilibusdi Ulisse Aldrovandi (1522-1605). I pionieri di questa disciplina sono numerosi. L'alba delle discipline geologiche viene posta da alcuni storici nelle opere di Agricola (1494-1555), che per i suoi contributi innovativi viene considerato padre della mineralogia e avo della geologia. Fundator geologiae è ritenuto il danese Niels Steensen (1638-1686), in italiano Stenone, per aver dato la prima descrizione geologica di una regione, la Toscana, e definito per primo i criteri interpretativi della geologia stratigrafica nell'opera De solido intra solidum naturaliter contento dissertationis prodromus (1669). Lo sviluppo della stratigrafia è invece attribuito a Giovanni Arduino (1714-1795). Chi elevò la geologia al rango di scienza fu Abraham Gottlob Werner (1749-1817), che negli anni 1786-91 propose una teoria della Terra che dominò fino al 1820 circa. Con lui nasce e si afferma la «geologia fisica o causale». La paternità della geologia moderna è attribuita da alcuni a James Hutton (1726-1797) per i due volumiTheory of the Earth (1795). Altri invece vedono la pietra miliare della geologia moderna nei tre volumi Principles of Geology (1830-33) di Charles Lyell (1797-1875).
È dunque sul finire del XVIII secolo che la geologia diventa disciplina autonoma, con propri oggetti e metodi di studio. È da precisare che, se è vero che la geologia è sorta di recente, da sempre l'uomo ha avuto da risolvere problemi pratici di carattere geologico-geografico: dove fondare città, dove trovare materiali litici e metallici utili, come estrarli e lavorarli, come evitare frane, come sfruttare le correnti, come catturare le acque, ecc. E accanto a problemi pratici, le questioni teoriche: che forma ha la Terra? Come si è generata? In che rapporto sta con gli altri corpi dell'Universo? Qual è l'origine delle montagne, degli oceani, delle valli, dei minerali?
Il cammino della geologia per diventare scienza fu molto lungo e faticoso, sia per la complessità e difficoltà della materia, sia perché lo studio dei fenomeni terrestri era condizionato da fattori culturali in cui si intrecciavano concezioni filosofiche e teologiche. Echi di questi condizionamenti si avranno sin verso la fine del XIX secolo. Infatti lo studio della Terra comporta problemi di “genesi”, su cui si erano espresse da tempo le religioni umane con le loro tradizioni e «narrazioni delle origini» ed il pensiero filosofico con ipotesi più o meno razionalmente fondate. Oggetto principale della presente trattazione sarà proprio la presentazione del confronto storico tra le concezioni religiose o teologiche, in particolare quella ebraico-cristiana, e lo studio scientifico della Terra. La scelta della tradizione giudaico-cristiana è imposta da ovvie ragioni di tipo storico-culturale: la scienza geologica, più in generale la scienza, nasce nell'Europa culturalmente condizionata dall'incontro tra concezione giudaico-cristiana e pensiero greco. Utilizzando il metodo storico, incominceremo proprio dal mondo greco, ove per la prima volta si pose il problema di tale confronto.
II. Le scienze geologiche nell'età antica
1. Le scienze geologiche nel mondo greco-romano. Circa nello stesso periodo in cui operavano Budda in India, Lao-Tse e Confucio in Cina e i grandi profeti in Israele, sulle coste ioniche dell'Asia Minore pensatori di origine greca cominciarono a riflettere sulle concezioni mitologiche allora dominanti, secondo cui la natura era il luogo della manifestazione della libera volontà di una pluralità di dei. La riflessione critica portò progressivamente alla nascita del pensiero razionale, che vide nei fenomeni naturali sempre meno l'arbitrario capriccio di qualche divinità gelosa degli uomini, e sempre più la manifestazione di leggi immanenti, inscritte nella natura stessa.
Questa impostazione, che vedrà solo più tardi, con il cristianesimo, la definitiva spoliazione della natura dai suoi attributi divini, favorì l'indagine libera e spregiudicata dei fenomeni naturali, in particolare di astronomia, zoologia e botanica. Minore fu l'attenzione per le scienze geologiche, che vedono nei trattati De mineralibus e Meteorologica di Aristotele l'espressione più compiuta del tempo. Dei temi legati a questa disciplina l'interesse viene rivolto ai fossili (descritti da Empedocle, Aristotele, Senofane), ai terremoti (causati da acqua, o fuoco, o terra o aria, secondo, rispettivamente, Talete, Anassagora, Anassimene, Archelao), alle pietre (sulla cui origine Aristotele avanzò la teoria delle influenze celesti e Teofrasto scrisse un trattato) e marginalmente alle montagne (Pitagora, citato da Ovidio nelle Metamorfosi; Aristotele; Plutarco). Spiegazioni naturalistiche, contrapposte a quelle mitiche, si trovano già in Erodoto: le inondazioni del Nilo sono attribuite al moto annuale del sole e non all'azione degli dei; la gola del monte Peneo all'azione di un terremoto, e non di Poseidone. Enunciazioni di tipo evolutivo si ritrovano in Anassimandro.
Quanto all'origine della Terra essa viene ricondotta all'origine del cosmo. Le cosmogonie mitiche dei primi tempi lasciano il posto alle cosmologie razionali fondate su osservazioni astronomiche. Si impone quella di Claudio Tolomeo (100-178 d.C.), che, appoggiata sul pensiero di Aristotele, dominerà il quadro culturale d'Europa per oltre 15 secoli, fino all'epoca moderna. Al centro dell'Universo che è finito e sferico sta la Terra immobile, intorno a cui ruotano su sfere concentriche dieci corpi ancillari della Terra, uno dei quali è il Sole. Esiste un mondo sublunare, imperfetto, e uno sovralunare, luogo della perfezione e sede della quinta esssenza. La materia è eterna, come eterno è l'Universo, e la vita di questo si svolge per cicli. Il tutto è retto dalla Causa Prima, che è anche il Motore Immobile, il Bene o la Vita Supremi, cioè Dio.
Il pensiero romano non aggiunse molto alle speculazioni ed osservazioni greche o del periodo ellenistico. Argomenti di carattere geologico, come formazione di montagne e depressioni, cambiamenti di paesaggio, cause dei vulcani, fenomeni erosivi, ecc. si trovano negli scritti di Plinio il Vecchio (23-79 d.C.), di Vitruvio e si leggono anche in opere poetiche (Ovidio, Lucrezio) o letterarie (Seneca). Rigoroso e duro l'atteggiamento di Lucrezio (98-55 a.C.) contro la religione, vista come superstizione che schiaccia la vita degli uomini (cfr. De Rerum Natura, I, 70-80).
Ben diversa è la visione biblica. La formazione dell'Universo, della Terra e dell'uomo sono descritte nei primi due capitoli della Genesi. La cosmologia ebraica è in parte debitrice delle concezioni mitiche allora diffuse nel mondo sumero-babilonese, ma se ne distingue perché concepisce l'universo come libero atto creativo di un Dio unico, distinto dalla sua creazione. L'Universo ha avuto un inizio e non conosce “eterni ritorni”. L'AT raccoglie la concezione di una Terra con forma piatta, sovrastata dal firmamento che divide le acque superiori da quelle inferiori. Queste concezioni si scontrarono con il pensiero greco in Alessandria d'Egitto, al tempo dell'ellenismo, e fu l'ebreo Filone di Alessandria (20 a.C. -54 d.C.) il primo a cercare una conciliazione tra rivelazione biblica e filosofia greca.
2. L' avvento del Cristianesimo e la scienza. Se si considera il NT, rarissime sono le allusioni alla natura fisica del mondo, ma la cosmologia implicitamente accolta era quella veterotestamentaria. Distaccatosi dall'ambiente giudaico, nel suo processo di evangelizzazione, il Cristianesimo si confrontò con il pensiero ellenistico, che conteneva sia dottrine conciliabili con la fede, sia dottrine che lo erano assai meno. Ci vollero circa quattro secoli perché l'elaborazione teologica arrivasse ad una prima sintesi con il pensiero greco, sebbene fin dall'inizio un criterio guida fosse stato già espresso da s. Giustino (100-165 ca.), secondo il quale tutti gli autori hanno avuto un barlume della verità, perché in essi era stato posto il seme del Logos. Problema fondamentale era l'interpretazione delle Scritture, che la scuola di Alessandria affrontò a partire dal II sec. d.C. pervenendo alla conclusione che il messaggio biblico non era sempre espresso con senso letterale, ma richiedeva anche la ricerca di un significato allegorico e di uno mistico.
Sui fenomeni naturali Basilio di Cesarea (329-379) scrive nell'Exaemeron: «molto c'è da scoprire attraverso i ragionamenti sulla grandezza e la distanza del sole e della luna, da parte di chi si dedichi ad osservare non superficialmente […]. Non voler misurare la luna con l'occhio, ma con la forza del ragionamento, che per giungere a scoprire la verità è molto più esatto degli occhi» (VI, 11, 4-5). S. Agostino (354-430) rifiutò il senso letterale dell'affermazione biblica secondo cui Dio aveva disteso i cieli come una tenda, contribuendo all'assimilazione della concezione sferica dell'Universo, propria del pensiero greco. Agostino si fece promotore di un'esegesi teologicamente rispettosa sia del dato biblico che delle conoscenze naturali. Se un passo della Bibbia sembra assurdo, affermava, ciò può capitare «o perché il testo è erroneo, o perché l'interprete si è sbagliato, o perché tu non l'hai capito» (cfr. Epistulae, 82, 1, 3; Contra Faustum 11, 5). Commentando la Genesinel libro delle Confessioni, insegna: «A proposito della Creazione, altra cosa è la ricerca sulla realtà dell'avvenimento, e altra quella su ciò che Mosè, egregio famiglio della tua fede, volle far intendere in questo racconto al lettore o ascoltatore» (Confessiones, XII, 23). Si pronuncia per la molteplicità delle interpretazioni: «Ora considera quale sia la stoltezza di chi afferma avventatamente, tra tanta abbondanza di idee verissime ricavabili da quelle parole, che Mosè ne ebbe in mente una in particolare; e offende con dispute dannose la carità, che è il fine preciso per cui disse tutto ciò che disse colui, del quale ci sforziamo di spiegare il discorso» (XII, 25); per concludere «Se perciò qualcuno mi domanda quale fu tra queste l'intenzione di Mosè, tuo grande servitore, non posso rispondere con le mie confessioni. Non te lo confesso perché lo ignoro, pur sapendo che sono tutte opinioni vere, ad eccezione di quelle materialistiche, su cui ho parlato quando ritenni necessario» (XII, 30). E, infine, aggiunge nel De Genesi ad litteram: «Accade assai spesso che riguardo alla terra, al cielo e agli altri elementi di questo mondo […] anche un pagano abbia tali conoscenze da sostenerle con ragionamenti indiscutibili e in base ad esperienza personale» (I, 19, 39).
III. Le geologia nel medioevo e nel rinascimento
1. Le scienze geologiche nel Medio Evo. Nell'Europa dell'alto Medio Evo, caratterizzata dalla disgregazione dell'Impero Romano e dalle migrazioni di popoli diversi, non vi erano condizioni favorevoli per lo sviluppo di alcun tipo di studio o di ricerca. Il Cristianesimo aveva però diffuso una diversa concezione della natura, che avrebbe meglio favorito quello sviluppo nei secoli posteriori. Il mutato assetto politico, l'incremento dei traffici, il contatto con il mondo arabo, la conoscenza delle opere dei pensatori greci e arabi saranno alla base del successivo risveglio culturale e intellettuale. È il periodo delle grandi sintesi culturali, realizzate in filosofia e teologia da Tommaso d'Aquino (1225-1274) e in letteratura da Dante Alighieri (1265-1321).
Si ravviva l'interesse per le pietre e i minerali, in conseguenza anche della ripresa attività estrattiva, soprattutto nell'Europa centrale e in Italia. Abbondano i lapidari, trattati sulle proprietà terapeutiche, sovente magiche, delle pietre preziose, di cui il più noto è quello di Marbodo, vescovo di Rouen (1035-1123). Con Alberto Magno (1200 ca.-1280) spira un vento nuovo: egli sostiene il metodo sperimentale: «Occorre che l'esperimento sia condotto non in un modo soltanto, ma provato in circostanze diverse […] Solo così l'esperimento può avere valore probativo»; esprime criteri chiari sul rapporto tra filosofia (che include la scienza) e teologia: «Quando filosofi e teologi sono in disaccordo, bisogna credere ad Agostino in ciò che concerne la fede e i costumi. Ma se si tratta di medicina, io crederei piuttosto ad Ippocrate o Galeno; e se si tratta di fisica, credo ad Aristotele, perché è lui che conosce ottimamente la natura» (cfr. G. Saitta, Alberto Magno, Enciclopedia Italiana, 1929, vol. II, p. 195). Mostra un vivo interesse per le scienze della natura e nello scrivere il trattato De mineralibus non si accontenta più delle autorevoli opinioni degli antichi, ma si reca nelle miniere per osservare di persona. Anche il francescano Ruggero Bacone (1214-1292) basa il suo metodo sull'osservazione della natura e quanto alla Sacra Scrittura ne sottolinea alcune imprecisioni scientifiche e propone una revisione critica della Vulgata.
Risalgono a questa epoca i primi interessi geologico-naturalistici. Il monaco Ristoro d'Arezzo, animato da un non comune spirito di osservazione, nella Composizione del mondo (1282) sostiene l'ipotesi che la Terra abbia forma di guscio con al centro una massa fusa da cui si sprigionano forze responsabili della formazione delle montagne; attribuisce alle alluvioni la degradazione dei monti e il riempimento delle valli; riconosce sedimenti di origine marina dai fossili, che considera relitti del diluvio — in questo, riprende un'idea già espressa da Tertulliano (160-230) nel De Pallio. Di fossili si occupano anche il Boccaccio (1313-1375) nel Filocolo e Alessandro Alessandri (1461-1523). Alberto Magno si interessa di vulcani e dell'azione erosiva del mare. Dante nel trattato Quaestio de terra et aquainterpreta il meccanismo delle piogge e discute dell'origine delle acque meteoriche. Della salinità del mare si occupa Iacopo Dondi (1298-1355), che affronta anche il problema delle maree (da lui già attribuite all'effetto congiunto di sole, luna e pianeti); l'evoluzione del paesaggio ad opera di acque e venti è studiata da L.B. Alberti (1404-1472); i terremoti sono l'interesse di Corrado di Megenburg (1309-1374), che li attribuisce all'azione di vapori compressi in cavità sotterranee e mossi dal potere delle stelle.
La concezione tolemaica sino ad allora dominante comincia ad essere messa in discussione da tre ecclesiastici, Thomas Bradwardine (1290-1349), Nicola di Oresme (1323-1382) e Nicolò di Cusa (1401-1464), in base a considerazioni essenzialmente filosofiche e teologiche. Il primo sostiene che l'Universo deve essere infinito ed il secondo avanza idee che precorrono Copernico. Il terzo afferma che, essendo l'Universo infinito, la Terra non può occuparne il centro ed è una “stella nobile” in movimento; per questo è considerato il padre del principio cosmologico. Si arriva così alle soglie del mondo moderno con l'Europa in pieno fermento. Il processo di rinnovamento è avviato, le novità sono mescolate a idee tradizionali, l'opera di chiarificazione sarà lunga e faticosa. Ne uscirà l'Europa moderna non senza duri scontri e penosi travagli.
2. Le scienze geologiche nel Rinascimento. L'avvenimento culturale probabilmente più significativo del Cinquecento, di portata immensa per la scienza e per le conseguenze che si manifesteranno nel secolo seguente, è la stampa nel 1543 dell'opera De revolutionibus orbium coelestium di Copernico (1473-1543), in cui si espone la teoria dell'eliocentrismo, che da lui prenderà nome. L'interesse del Rinascimento non si arresta alla astronomia, ma si volge con passione ad astrologia, alchimia e magia, queste ultime ritenute scientifiche o comunque affini all'indagine scientifica; anche le scienze geologiche ricevono crescente attenzione. Le tematiche ricorrenti riguardano l'origine dei giacimenti, la classificazione dei minerali, le cause dei terremoti, la natura dei fossili, la formazione delle sorgenti e delle montagne. Si tratta spesso di osservazioni acute, intuizioni anche moderne, per lo più svolte in modo non sistematico, né organico, viste comunque in un contesto che si accorda con la narrazione biblica del Genesi. Un ruolo chiave in questa visione assume il diluvio di Noè, ritenuto universale e a cui si fa risalire tutta una serie di fenomeni naturali (formazione di montagne, valli, fossili).
È proprio lo studio dei «fossili» a sollecitare la fantasia degli studiosi, che propongono le spiegazioni più disparate, riprendedole in parte dagli antichi: oggetti caduti dal cielo, aborti della creazione, scherzi della natura, frammenti di giganti o draghi, creature di satana, resti del diluvio. Pochi sono coloro che cercano di vedere le cose con occhio critico, diremmo scientifico. Tra questi si possono ricordare Leonardo da Vinci (1452-1519), G. Fracastoro (1478-1553), G. Cardano (1501-1576), B. Palissy (1510-1590), A. Cesalpino (1519-1603), i quali arrivano a riconoscere la reale natura dei fossili. Fracastoro osserva che i fossili marini non possono essersi formati al momento del diluvio di Noè, chè dovrebbero essere di acqua dolce e trovarsi sui rilievi, e non inglobati nelle rocce. Di simile avviso è Leonardo da Vinci, che interpreta i fenomeni naturali sulla base delle proprie osservazioni e del ragionamento, indipendentemente delle opinioni correnti. Dallo studio dei terreni fossiliferi egli arriva a chiedersi «se il diluvio venuto al tempo di Noè fu universale o no, e qui parrà di no per le ragioni che si assegneranno» e sottolinea il ruolo del tempo nei processi geologici, tuttavia le sue intuizioni, affidate a manoscritti che saranno pubblicati solo a partire dal secolo scorso, rimangono ignorate. L'ecclesiastico G. Falloppio (1523-1562) dice essere in errore chi vede nel diluvio l'origine delle montagne. Comincia ad affacciarsi il problema del confronto tra le osservazioni scientifiche e la narrazione biblica, che si porrà in termini drammatici alcuni secoli più tardi, quando la massa dei dati e delle osservazioni non potrà più essere elusa.
Intanto, nell'ambito delle scienze della Terra, la mineralogia compie un balzo in avanti verso una descrizione di stampo moderno, con la pubblicazione di due fondamentali opere di Giorgio Bauer, latinizzato in Agricola (1494-1555): De natura fossilium (1546) e De re metallica (1556). Esse saranno, rispettivamente, la prima descrizione sistematica dei minerali fino ad allora conosciuti sulla base non di qualità arbitrarie, magico-terapeutiche, ma di criteri razionali e proprietà empiriche (solubilità, colore, durezza,...), ed il primo compendio originale moderno dell'arte mineraria: prospezione, coltivazione delle miniere, estrazione e lavorazione dei minerali, con considerazioni di natura geologica (specie la formazione delle montagne). Con queste due opere, che brillantemente riassumono le conquiste tecniche dell'attività mineraria delle generazioni precedenti, sfrondate di miti e leggende, la mineralogia e la metallurgia diventano scienze moderne.
IV. La geologia nell'epoca dello sviluppo del metodo scientifico
1. Le scienze geologiche nel Seicento. È di questo secolo la prima grande frattura tra teologia e scienza, verificatasi in ambito astronomico con la nota vicenda del caso Galileo, che assumerà carattere emblematico. Caricato di forti valenze ideologiche a partire dall'Ottocento, il caso avrà ripercussioni negative sui rapporti tra Chiesa e modernità, in alcuni casi senza nemmeno servire ad evitare malintesi ed incomprensioni successive.
In campo geologico e naturalistico i rapporti fra scienza e fede sono buoni, nel senso che la grande maggioranza degli studiosi considera di genere strettamente storico quasi tutti i libri della Bibbia, in particolare — per quel che qui ci riguarda — i primi capitoli del Libro della Genesi su creazione e diluvio. La Terra ha preso origine da una fase caotica acquosa, infatti «Dio fece il firmamento e separò le acque, che sono sotto il firmamento, dalle acque che sono sopra il firmamento» (Gen 1,7). Da queste acque si deposero per gravità le parti solide che andarono a costituire la Terra. Questa visione ben si accordava, tra l'altro, con l'ipotesi aristotelica della formazione dei minerali ad opera di esalazioni e in genere con il ruolo assegnato all'acqua nel mondo classico. Il diluvio trovava poi conferma nelle tradizioni di popoli di culture diverse e nei risultati delle prime ricerche geologiche sul terreno, che mettevano in evidenza una serie di fenomeni (ridissoluzione e rimescolamento di materiale terrestre con rideposizione più o meno stratificata, formazione di fossili e di montagne) che ben si conciliavano con l'azione di un diluvio.
Queste considerazioni e la particolare situazione storica indussero a tentare una cronologia degli eventi terrestri a partire dal racconto biblico della creazione. Secondo lo storico Delumeau, si ebbero in Europa sul finire del XVI secolo grandi rivolgimenti politici, religiosi, demografici, che favorirono la convinzione della prossima fine del mondo (cfr. Gohau, 1990, p. 82). La convinzione di un tempo breve per la vità dell'umanità e del mondo sollecita l'interesse per le datazioni ed è probabilmente all'origine dello sviluppo degli studi storici che si registra in questo periodo.
Molti si cimentarono a questo genere di calcoli, ma si trattava di un'impresa non facile, che richiedeva più competenze (bibliche, astronomiche, storiche) e alla quale diede il suo contributo anche Newton. Sulle base dei passi biblici di Sal 90,4: «Ai tuoi occhi, mille anni sono come il giorno di ieri che è passato» e di 2Pt 3,8: «davanti al Signore un giorno è come mille anni e mille anni come un giorno solo», si calcola che tra la Creazione ed il Giudizio universale debbano passare non più di 6-7000 anni. Per il tempo trascorso tra Creazione e nascita di Cristo le date calcolate oscillano tra 3900 e 5389 anni, secondo che si prenda come testo di riferimento per la Sacra Scrittura quello della Vulgata o la traduzione dei Settanta. Nel 1541 Lutero calcola in 3960 gli anni dalla Creazione alla nascita di Gesù ed essendo persuaso che a Roma regni l'Anticristo, ne deduce che entro un centinaio d'anni avverrà il giudizio universale. Cristoforo Colombo, secondo cui intercorrono invece 5343 anni tra i due avvenimenti, non lascia al mondo che 155 anni per il compimento a 7000. Le determinazioni più accurate sulla data della Creazione sono dovute a John Lightfoot, vicecancelliere a Cambridge, e a J. Ussher, arcivescovo protestante di Armagh. Questi nel 1654 arriva a stabilire che la Terra fu creata il giorno 26 ottobre 4004 a.C., alle ore 9. Questa data fu stampata sulla Bibbia di re Giacomo nel 1701, decisione che sarà criticata da Lyell nel 1850. Sempre Ussher calcolò che l'arca di Noè si depose sull'Ararat il 6 maggio 2349 a.C.
È all'interno di questa cronologia che i naturalisti del Seicento inseriscono e comprendono i risultati delle loro indagini. Così, ad esempio, l'osservazione dell'esistenza di più mari e laghi separati rispetto all' originaria unica distesa d'acque biblica solleva il problema dei loro rapporti, che viene risolto con l'ipotesi di canali sotterranei comunicanti. Le montagne prediluviane sono state create direttamente da Dio e sono immutabili, quelle postdiluviane sono dovute a cause naturali (A. Kircher, Mundus subterraneus, 1664). Mentre le indagini sull'origine delle sorgenti acquose, sulla formazione dei giacimenti minerari e sulle correnti oceaniche, che si vanno approfondendo, non sollevano particolari problemi, interessanti novità vengono dallo studio dei fossili.
2. Il dibattito sulla natura dei fossili. Tre sono gli autori di fine Seicento i cui contributi pongono le basi per la fondazione della paleontologia come scienza: Fabio Colonna (1567-1640), Robert Hooke (1635-1703) e Nicola Stenone.
Il primo, nell'opera De glossopetris dissertatio (1616), dimostra l'origine organica delle glossopetre (denti fossili di squalo), confuta l'opinione che anche gli altri fossili (definiti allora «pietre figurate») siano di natura petrosa e affronta il problema di quella che si chiama oggi la fossilizzazione. Ma non va oltre: gli sfugge il significato geologico dei fossili, perché non li vede nel contesto di formazione. Il passo in avanti è compiuto da Stenone, che non solo interpreta correttamente la natura dei fossili con lo stesso metodo comparativo, ma ne collega la genesi a quella degli strati in cui sono contenuti. Non solo i fossili, ma gli stessi strati possono funzionare da “archivi della Terra”, perché includono in sé la storia passata. Dalle osservazioni e dai dati raccolti, consegnati nel Prodromus (1669), «libretto veramente rivoluzionario» (Gohau, 1990, p. 105), giunge alla convinzione che la Terra è andata soggetta a continui cambiamenti dal momento della creazione: «tutti i monti odierni non esistettero dall'inizio delle cose». Anticipa così i concetti di ciclo e di «tempo geologico», che tanta importanza avranno per le scienze della Terra; introduce i princìpi della stratigrafia ed implicitamente applica il principio dell'attualismo, secondo cui nel passato agirono le stesse forze del presente. Riconosce la necessità di tempi lunghi per il verificarsi degli eventi geologici, ma la cronologia rimane nell'ambito biblico, anzi si compiace del fatto che le osservazioni confermino e convalidino il racconto sacro. Il che è all'origine di un errore: ritiene che le grandi ossa fossili scoperte nelle campagne di Arezzo siano i resti degli elefanti di Annibale.
Hooke condivide con Stenone la stessa concezione su natura e origine dei fossili, e affronta il problema posto da quelli che non hanno il corrispettivo attuale. Quello che fa problema però non è tanto la scomparsa delle specie, perché si trovano nella Scrittura «tante espressioni che denotano una decadenza continua e una tendenza alla dissoluzione finale», quanto la formazione di specie nuove, che richiederebbero la ripetizione dell'atto creativo. Per Hooke si tratta di varietà dovute al clima e alla nutrizione. Anche per lui, molto religioso, il mondo è ancora quello della Bibbia, anche se la lettura che ne fa non è rigorosamente letterale e riconosce la necessità di una lunga durata per i fenomeni naturali.
Pure G.W. Leibniz (1646-1716) si interessa di fossili, di cui tratta nel lavoro Protogaea (1749, postumo). Egli si dice convinto che «le figure dei pesci impresse nell'ardesia provengono da veri pesci e non sono scherzi di natura», e sa che nei tempi lontani c'erano pesci che non sono più ora, ma sostiene che «nei grandi cambiamenti del globo, un grande numero di forme si è trasformato». Numerosi altri studiosi si occupano di fossili. Sul finire del secolo vengono scoperti resti integri di mammuth in Siberia, di cervo megacero in Irlanda, di elefante fossile a Gotha. Questi e gli altri vengono messi in relazione con il diluvio, concepito come avvenimento soprannaturale (J. Woodward, 1695; W. Whiston, 1699). Dal coro pressoché unanime si levano alcune voci dubbiose: le conchiglie fossili non possono essere state trasportate dal diluvio sulle cime dei monti, perché troppo pesanti (N. Quirini, 1676); non c'è legame diretto tra fossili e diluvio (G.W. Wedel, 1672). Quanto alla genesi, ci sono ancora studiosi che considerano i fossili lusus naturae, o prodotti di una «virtù lapidica» combinata con uno «spirito plastico» (Kircher, 1664), altri che li ritengono generati da semi sparsi nelle rocce (E. Lhwyd - Luidius, 1699).
Intanto nel 1681 esce Telluris theoria sacra, la prima «teoria della Terra» ad opera del Rev. Thomas Burnet (1635-1715), il più popolare trattato geologico del Seicento, che Carlo II fa tradurre e pubblicare tre anni più tardi in inglese. In realtà è una storia della formazione della Terra a partire da una massa caotica fluida iniziale, secondo uno schema già proposto dai Principia philosophica (1644) di Cartesio L'interpretazione letterale del testo biblico comincia ad essere messa in discussione: Burnet esprime perplessità circa la durata delle piogge torrenziali del diluvio e calcola che il volume di acque necessario per coprire le montagne avrebbe dovuto essere circa otto volte quello degli oceani attuali, il che porta ad una concezione poco seria dell'operare di Dio. Il pensiero di fondo è che Dio ha sì creato Cielo e Terra, ma ha poi lasciato che la Natura facesse il suo corso, per cui il diluvio non è il risultato di cause soprannaturali, ma naturali. Importa notare che Burnet dà l'avvio ad una inversione: non la scienza conferma il racconto di Mosè, cioè la Bibbia — è la tesi del concordismo —, ma è in questa che si trova la conferma delle proprie idee scientifiche.
Altre opere filosofico-letterarie guarderanno alla Bibbia con occhio critico. Nel Tractatus theologico-politicus (1670) Spinoza sostiene che la Bibbia deve essere considerata alla stregua di un qualunque documento storico, come praticamente si era già espresso Thomas Hobbes nel Leviathan (1651). Le opere dell'oratoriano Richard Simon (1638-1712) Histoire critique du Vieux Testament (1678) e Histoire critique du texte du Nouveau Testament (1689) applicano i canoni della filologia e della critica storica al testo biblico, giungendo a negare l'autorità mosaica del Pentateuco e proporre un'edizione critica della Bibbia. I tempi non sono ancora maturi: le due opere sono messe all'indice per iniziativa di Bossuet.
Tuttavia l'autorità del testo biblico in materia di datazione storica è ancora altissima, anche in ambito scientifico. Ma è vivo il timore di irreligiosità, empietà ed ateismo, visti come conseguenze dell'incredulità nella Bibbia. Nel 1690 lo scienziato anglicano Robert Boyle lasciò per testamento 50 sterline per organizzare delle conferenze (Bolyle's Lectures) volte a «dimostrare la verità della religione cristiana contro gli infedeli», associando a questa iniziativa — primo esempio di ecumenismo — tutti i cristiani. Nel 1691 il botanico e zoologo John Ray, amico di Stenone, scrive un libro di successo, dal chiaro titolo The Wisdom of God Manifested in the Works of the Creation (La sapienza di Dio manifestata nelle opere della creazione): sono gli inizi dell'Apologetica anglicana, una forma di Teologia naturale talvolta indicata come «Fisico-teologia», che svolgerà un ruolo importante durante l'Iluminismo.
V. Lo sviluppo ed i risultati delle scienze geologiche nei secoli XVIII e XIX
Nel Settecento lo studio della Terra, pur essendo ancora strettamente collegato alla cosmologia, si arricchisce di contributi specifici e significativi. Viene risolto il problema dell'origine delle sorgenti (Vallisnieri, 1715), viene fondata la moderna oceanografia (Marsili, 1725), prendono origine la cristallografia e mineralogia moderne (Haüy, 1780), nasce la paleontologia stratigrafica (Arduino, 1759; W. Smith, 1796).
I temi che più ritengono l'attenzione dei geologi sono ancora i fossili, l'età della Terra, l'origine delle montagne e, come problema generale, il rapporto tra le osservazioni scientifiche e il testo biblico. Non bisogna dimenticare che siamo in pieno Illuminismo, dove molto forte è la critica delle religioni positive. È il secolo di Voltaire, Hume, Diderot, Rousseau, de Condillac, d'Holbach, Lessing, Kant. Lo spirito razionale penetra lo studio delle scienze e si viene affermando anche in ambiente religioso. Mentre nei secoli precedenti il racconto biblico era servito da supporto ai tentativi di ricostruzione della storia del mondo, nel Settecento esso viene ancora preso in considerazione, ma razionalizzato, tanto che sul finire del secolo un geologo, J.A. de Luc, cerca ancora nella storia della Terra «nuove prove geologiche e storiche della missione divina di Mosè». Si esamineranno qui di seguito alcuni punti caldi del rapporto fra geologia e pensiero teologico.
1. L'origine di rilievi. Può sembrare strano che un tema così apparentemente neutro possa contenere implicazioni teologiche. Di fatto ne aveva assunte fin dai primi secoli, quando si era incominciato a riflettere su creazione, diluvio e fenomeni naturali. Era convinzione diffusa che le montagne datassero dalla creazione. Nel 1708 J.J. Scheuchzer annota: «Dio con la sua potente mano ha innalzato le montagne». Le montagne preesistevano dunque al diluvio e ne riemersero quando si ritirarono le acque. Dove finirono queste acque? Secondo alcuni autori medievali (Severiano, Gabala, il Venerabile Beda, Pietro Lombardo), esse si portarono in valli appositamente create dal Creatore, per altri (Giovanni Filopono) si raccolsero sul fondo degli oceani precedentemente svuotati. Le montagne attuali sono quelle presenti all'inizio creazione? Già nel Seicento Stenone, cui si deve il primo lavoro scientifico sulla genesi delle montagne, aveva sostenuto sulla base delle sue osservazioni che le montagne attuali non sono esistite sin dall'inizio, né crescono per vegetazione, ma si possono formare per cedimenti sotterranei. Nel Settecento, pur essendo d'obbligo il riferimento al racconto biblico, aumentano i tentativi di spiegazioni naturali, come si può desumere dalle esemplificazioni seguenti.
Nel 1740 Lazzaro Moro (1687-1740), abate veneziano, indica princìpi molto chiari nello studio dei fenomeni naturali: osservare le operazioni della natura e basare le conclusioni sui soli fatti osservati; ritenere che le leggi naturali siano uniformi e invariabili e che la natura scelga la via più diretta. Con questi criteri egli arriva a distinguere montagne primarie (non stratificate) e montagne secondarie (stratificate). Spiega la formazione dei vulcani sulla base dell'ipotesi che la Terra consista di una crosta e di una cavità interna piena di materiale fuso, rivelandosi un plutonista ante litteram. Ha una chiara idea su natura ed origine dei fossili, confuta le idee diluvialiste di Burnet e Woodward, ma da buon credente si conforma al testo biblico per la cronologia: «Piacque al grande Creatore di tutte le cose, quando le terre emerse apparvero il terzo giorno secondo il sacro racconto, che fossero accesi i grandi fuochi sotterranei».
Nell'opera Telliamed (1748) B. De Maillet fa derivare tutte le rocce da un oceano primitivo, che avvolgeva tutta la Terra. Affronta anche il problema dell'origine della vita, ma è assente ogni riferimento alle Sacre Scritture: se diluvio ci fu, non fu universale, ma locale. Era un'opera decisamente “materialistica”, come riconobbe lo stesso Voltaire. Nel 1749 escono i primi tre volumi della monumentale opera di Buffon Histoire naturelle. Egli tenta una sintesi della storia della Terra, che suppone originata per impatto di una cometa con il Sole. Le montagne si formarono per raffreddamento della massa infuocata che se ne era staccata. Anche nella sua teoria non c'è posto per il diluvio universale. Nel 1757 il carmelitano C. Generelli difende le idee di L. Moro sull'origine dei fossili e il sollevamento delle montagne, ne discute la compatibilità con il testo sacro ed osserva che spesso il ricorso alla Bibbia è un abuso per spiegare teorie incapaci di reggersi da sole. Negli stessi anni (1756) J.G. Lehmann sosterrà invece che le montagne primitive, prive di fossili, sorsero per deposizione di materiale terroso dalle acque che avvolgevano la Terra al momento della creazione. Quando venne il diluvio, “inesplicabile enigma”, nacquero le montagne secondarie che contengono fossili. Cataclismi locali formarono le montagne terziarie, anch'esse ricche di fossili. Della stessa idea è P.S. Pallas (1777): le montagne primitive di granito si formarono al momento della creazione, e calcola che le acque del mare arrivarono ad una altezza di 640 piedi.
Si vengono così delineando due teorie sull'origine delle montagne: per l'una si sono formate dall'acqua («teoria nettunista», da Nettuno, dio del mare), per l'altra dal fuoco, cioè da masse fuse, lava o magma («teoria plutonista», da Plutone, dio degli inferi). Non si trattava di teorie indifferenti, perché la concezione nettunista sembrava più conforme alla visione biblica, che parlava di distese di acque, e non di fuoco: Gen 1,9 recita infatti: «Dio disse: le acque che sono sotto il cielo si raccolgano in un solo luogo e appaia l'asciutto». Il successivo diluvio permetteva di spiegare la formazione dei fossili ed il loro reperimento sulle montagne anche alle alte quote.
Il rappresentante più insigne della scuola nettunista fu A.L. Werner (1750-1817), che fece dell'Accademia Mineraria di Freiberg (Sassonia) il centro europeo più importante della ricerca geologica negli anni 1775-1830. Egli sviluppò la prima trattazione sistematica sulle formazioni geologiche. Partendo dalla osservazione diretta dei fatti e dallo studio sistematico delle regioni limitrofe alla Sassonia, arrivò a proporre una classificazione stratigrafica. L'originalità fu che egli integrò questa classificazione in una teoria generale di concezione nettunista, che ne spiegava l'origine (1787). All'inizio la Terra era avvolta e sommersa dalle acque dell'oceano primordiale, che contenevano disciolte o in sospensione quelle sostanze che successivamente si depositarono, originando le montagne. La storia della Terra è una successione continua di trasformazioni. In questo processo il ruolo del tempo è essenziale: «La nostra Terra è figlia del tempo e si è formata gradualmente». Egli valuta ad un milione di anni l'età della Terra. Werner era un deista, e per le sue idee che prescindevano dalla Bibbia fu tacciato di ateismo.
Un argomento di forte contrasto fra le due teorie era l'origine del basalto: si era formato per precipitazione chimica dall'oceano universale, come dicevano i nettunisti, o per raffreddamento da una lava, come suggerivano studiosi francesi (Desmarest, Soulavie, Dolomieu) ed italiani (Breislak, Arduino), definiti per questo «vulcanisti»? Quanto al granito, era convinzione comune che fosse una roccia primordiale. Ma di quale origine? Il problema fu affrontato, tra gli altri, dallo scozzese, James Hutton (1726-97), che riassunse i risultati nel trattato Teoria della Terra (1788), dimostrandovi, in base alle sue osservazioni sulle rocce della Scozia, che basalto e granito sono di origine ignea. Essi sono sospinti allo stato fuso negli strati sovrastanti da una forza originatasi nell'interno della Terra ad opera del calore ivi sviluppato. Per questa concezione Hutton e seguaci furono chiamati «plutonisti». Interpretando le sue osservazioni sulla base dell'ipotesi che i meccanismi della natura siano uniformi e costanti, Hutton elabora un modello ciclico stazionario della storia della Terra, in cui si alternano cicli di erosione e sollevamento di durata “indefinita”. È in nuce il principio dell'«attualismo», così importante in geologia, peraltro già intuito da altri, come Fuchsel, Moro, Carpenter, Linneo ed enunciato dal russo M.V. Lomonosov (1711-1765). Dai suoi studi egli trae la convinzione che «non c'è motivo di ricorrere a ipotesi di peccato o ad altro accidente distruttivo o all'opera di una causa sovrannaturale per spiegare quanto si vede» e che nelle rocce «non troviamo segni di un inizio, né prospettive di una fine». Per la concezione indefinita dei tempi geologici e del carattere ricorrente dei fenomeni terrestri egli è considerato il fondatore della geologia moderna.
La teoria di Hutton sollevò critiche di carattere religioso ed anche scientifico. Si distinse il mineralogista R. Kirwan (1733-1812), convinto nettunista e credente, che mise in dubbio la concezione ignea del granito e contestò la teoria perché era in disaccordo con il racconto biblico della Creazione. Inoltre, l'affermazione che non si riscontravano segni di inizio era per lui «contraria alla ragione e al senso della storia di Mosè, e portava verso un abisso da cui rifugge l'umana ragione». L'ipotesi poi di cicli di durata indefinita equivaleva per Kirwan ad ammettere l'eternità del mondo e quindi a fare professione di ateismo (1793). Hutton difenderà le sue idee scientifiche e contesterà l'accusa di ateismo (in realtà Hutton era deista), sostenendo che il suo principio attualistico implicava un progetto divino: «nella storia della Terra — aveva scritto — siamo indotti a riconoscere un ordine non indegno della saggezza divina». Quanto alla «mancanza di segni di inizio», essa era semplicemente il risultato della sua ricerca: nel lavoro di ricostruzione del passato geologico, dice, «arriviamo ad un periodo, oltre il quale non riusciamo a vedere... La mia preoccupazione era dimostrare come la composizione di questo mondo risponde efficacemente al fine della sua intenzione, cioè preservare la vita animale, di cui non possiamo dubitare». Kirwan passò al contrattacco con l'opera Saggi geologici (1799), in cui dimostrava che la teoria nettunista da lui proposta, rielaborazione della teoria di Werner, era in accordo con le Sacre Scritture.
È interessante qui menzionare la posizione di J.A. de Luc (1727-1817), uno dei pionieri della geologia dinamica. Nel 1809 scrisse un trattato in cui divide la storia della Terra in due «ere»: la prima comprende i processi che portarono alla formazione dei rilievi, la seconda prende origine circa 4000 anni fa con un evento catastrofico, una immensa inondazione delle terre emerse. Pervenuto a questo risultato indipendentemente dal racconto biblico, de Luc se ne rallegrò per aver trovato conferma nel testo sacro.
La disputa tra nettunisti e plutonisti fu molto accanita, soprattutto nel centro intellettualmente molto vivo di Edinburgo. Le indagini successivamente condotte in Gran Bretagna e sul continente, insieme con i primi esperimenti di geologia sperimentale ad opera di J. Hall (1761-1832), determinarono il successo della «teoria plutonista», che venne quasi universalmente accolta a partire dal 1820. La polemica si chiuse, anche perché lo studio dei fossili, ignorati da nettunisti e plutonisti, stava portando a risultati che aprivano nuovi orizzonti alla geologia: la possibilità di correlazione degli strati che includono i fossili e l'enunciazione del principio del catastrofismo.
2. Nuovi studi sui fossili. Nel Settecento era opinione ormai condivisa che i fossili fossero resti di organismi vissuti nelle epoche passate, alcuni ancora attuali, altri estinti. Ben pochi son quelli che continuavano a crederli dovuti all'azione di una forza plastica operante nella roccia (J. Beringer, 1726). È in questo periodo che il termine fossile viene riservato a questa categoria di materiali, distinguendoli così da minerali e rocce.
I fossili di organismi estinti pongono un angosciante problema ai credenti dell'epoca, che ritenevano perfetta la creazione uscita dalle mani di Dio: come aveva potuto Dio permettere l'estinzione di una specie vivente da Lui creata? Superata questa difficoltà facendo ricorso al concetto di onnipotenza e sapienza divina, si presentava l'altro problema: quando e come si sono originati i fossili? Essi sono il risultato dell'opera del diluvio, anzi ne sono la più evidente testimonianza. Questa è l'opinione della maggior parte degli studiosi del Settecento. La convinzione è così solida che un grande paleontologo, J.J. Scheuchzer, scambia nel 1726 una gigantesca salamandra fossile, che sarà riconosciuta come tale solo nel 1787, per i resti di un uomo perito nel diluvio! Per tutto il secolo continueranno le indagini con scoperte e descrizioni di nuovi fossili — se ne interessò persino Voltaire; nel contempo progrediscono gli studi anatomici, essenziali per il riconoscimento della natura dei fossili.
Un contributo determinante viene sul finire del secolo da un grande scienziato, Georges Cuvier (1769-1832), con cui nasce la paleontologia come scienza. Egli si occupa in modo specifico dei vertebrati fossili, anche di quelli estinti, di cui riesce a ricostruire le forme grazie a profonde conoscenze di anatomia comparata e al principio dell'organizzazione degli esseri viventi, concepiti come sistema formato di parti correlate e interdipendenti (Discours sur les révolutions de la surface du globe, 1812). La paleontologia degli invertebrati è invece opera di Jean-Baptiste de Monet, cavaliere di Lamarck (1744-1829).
È interessante osservare come lo studio dei fossili porti questi due studiosi a sviluppi e risultati differenti. Nello studio dei terreni fossiliferi del bacino sedimentario di Parigi, Cuvier osserva che ciascuno strato che li compone si distingue dagli altri per il diverso contenuto di fossili, alcuni dei quali corrispondono a specie estinte. Il cambiamento di fauna e flora viene attribuito all'azione di cataclismi repentini. È la «teoria del catastrofismo», che riprende idee di studiosi dei secoli precedenti (Burnet, Whiston, Woodward): la scomparsa di fauna e flora sarebbe dovuta a cause improvvise e violente, dopo le quali nuove specie appaiono. L'ultima di queste avrebbe avuto luogo circa 5000 anni fa, come risulta anche dalla testimonianza della storia umana. Cuvier, che era protestante, ammette la veracità del diluvio biblico, che non è l'unico evento catastrofico, ma è l'ultimo in un periodo di «migliaia di età». Quanto all'origine delle nuove specie, egli non si pronuncia in modo chiaro: «non pretendo che sia stata necessaria una nuova creazione — egli affermerà — per produrre le specie oggi esistenti» (cit. in Gohau, 1990, p. 309). Tuttavia per lui, come per Linneo, le specie sono fisse e non trasmutano (fissismo).
Dallo studio delle conchiglie fossili dei dintorni di Parigi, Lamarck trae invece la convinzione che le specie si possano trasformare le une nelle altre nel corso dei tempi. Sorge l'idea di evoluzione che Lamarck espone nell'opera Philosophie zoologique (1802), in cui egli attribuisce all'azione dell'ambiente ed alle capacità adattative degli organismi le modificazioni che possono subire le specie nel corso dei tempi e che si trasmetteranno per eredità. È la dottrina del «trasformismo», termine coniato dallo stesso Lamarck in opposizione al fissismo di Cuvier, di notevole importanza per la biologia.
3. Il dibattito sulle modalità del cambiamento della superficie terrestre. Lo studio dei fossili aveva portato Cuvier a formulare la teoria del catastrofismo, mentre Hutton si era espresso per l'uniformità e ciclicità dei meccanismi della natura: si tratta di due concezioni opposte, su cui si scontreranno i geologi negli anni tra il 1790 e il 1830. La disputa fu anche uno scontro tra concezione scientifica e visione religiosa del mondo, in quanto la teoria catastrofista sembrava meglio accordarsi con il testo biblico. La posta in gioco era grossa, come si può rilevare dalle parole di J. Towsend, geologo e pastore metodista: «La scienza geologica acquista importanza infinita se la consideriamo in relazione alle nostre speranze immortali. [...] L'intero sistema della religione rivelata è legato alla veracità di Mosè. L'eredità divina di Cristo e quella del legislatore giudeo devono stare o cadere insieme. […] Se il racconto della creazione e del diluvio dovesse risultare falso, noi dovremmo rinunciare alle nostre speranze» (The character of Moses established for veracity as an historian, ... 1813).
Come procede dunque la natura? Una risposta era: “per cataclismi”. La teoria del catastrofismo di Cuvier ricevette conferme dalle ricerche effettuate in Francia da validi studiosi (Alexandre e Adolphe Brongniart, Elie de Beaumont) e, conosciuta in Gran Bretagna fin dal 1817, fu subito accolta, perché la maggioranza dei geologi inglesi credeva nel diluvio e vedeva nel catastrofismo una conferma dello stesso. Alcuni dei più insigni geologi dell'epoca (Buckland, Conybeare, Sedgwick) erano anche membri influenti del clero anglicano, altri (Whewell) convinti credenti.
Il più noto “diluvialista” inglese fu il mineralogista e geologo di Oxford, W. Buckland (1784-1856), il cui primo libro porta un titolo significativo: “Vindiciae Geologicae”, ovvero La connessione della geologia con la religione. Egli è convinto della veracità del racconto biblico, ma si distingue da Towsend e dagli altri che diremmo oggi “fondamentalisti”, perché non ne dà una interpretazione letterale. I sei giorni della creazione sono da intendersi in senso figurato e quindi la Terra può essere molto vecchia. Il diluvio è realmente avvenuto, è stato universale ed è confermato da prove geologiche irrefutabili, che egli andò cercando nelle caverne d'Europa, Ande e Himalaya. Una sintesi delle sue scoperte è consegnata in un libro appassionante, che fu molto popolare, Reliquiae diluvianae (1823).
Sorsero critiche isolate a questa interpretazione concordista. Nel 1826 un geologo, anch'esso membro del clero, J. Fleming, analizzando il testo della Genesi dimostra che non c'è corrispondenza tra il racconto biblico e i fatti geologici quali la scienza viene configurando: ad esempio, la descrizione mosaica del diluvio non è di un evento catastrofico, ma piuttosto di un quieto sollevarsi d'acque. Anche Hutton rigettò il catastrofismo, non solo perché contraddiceva la sua esperienza di geologo, ma perché gli sembrava indegno del progetto divino: i cambiamenti dovevano essere graduali ed ordinati. G.P. Scrope (1797-1876), anch'egli critico del “diluvialismo”, fu molto severo nei riguardi del tentativo di riconciliare scienza geologica e visione biblica, vedendone un attacco all'integrità della geologia e un freno ad ulteriori ricerche. Il catastrofismo tuttavia dominò pressochè incontrastato la scena geologica fino al 1830, quando uscì il primo dei tre volumi di Principi di Geologia di Charles Lyell (1797-1875).
In questi volumi, in cui Lyell raccolse i risultati delle sue ricerche, frutto di esperienze dirette in Francia e in Italia, è presentata la seconda risposta alla domanda sul modo di procedere della natura: i cambiamenti avvengono “gradualmente”. Essa è contenuta già nel sottotitolo del primo volume: «tentativo di spiegare i precedenti cambiamenti della superficie terrestre con riferimento a cause operanti ora». La geologia infatti per Lyell non è “la storia della Terra”, ma «la storia dei cambiamenti avvenuti alla superficie di questa», l'unica realtà accessibile. Le sue ricerche lo portano a concludere che «dai tempi più antichi non hanno mai operato altre cause che quelle operanti ora, e queste non hanno mai agito a livelli di energia diversi da quelli attuali». È il principio dell'attualismo. Inoltre i cambiamenti che avvengono alla superficie terrestre sono graduali e «l'energia dei movimenti sotterranei è sempre stata uniforme». È il principio dell'uniformitarismo. Questo comporta che i tempi per le trasformazioni devono essere stati molto lunghi. Lyell non è interessato né all'origine, né all'età della Terra, ma vuol mostrare la vastità dei tempi geologici. Egli calcola, ad esempio, che un deposito marmoso spesso oltre 130 metri deve aver richiesto oltre centomila anni per la sua formazione. Sulla base di questi princìpi e dell'assunto che le leggi di natura sono permanenti e immutabili, è possibile procedere, per analogia con il presente, alla ricostruzione del passato.
Nel primo volume, che è anche il primo libro completo di storia della geologia, Lyell esamina le cause che ritardano gli studi geologici, e vede una di queste nel pregiudizio sulla corta durata del tempo passato. La Bibbia non è nominata, ma l'attacco è portato. Non solo contro l'età, ma anche contro la concezione del diluvio universale come evento catastrofico. Il libro conobbe subito un grande successo. Le reazioni non si fecero attendere. Gli ecclesiastici del King's College, cui Lyell rivolse domanda per coprire la cattedra di Mineralogia e Geologia, riconobbero che «non c'erano nel libro sentimenti ostili contro la Rivelazione», ma uno di loro ne pose il veto perché non voleva che fosse indebolita la fede nella creazione e nel diluvio universale. Lyell, che era deista, rispose che «non intendeva fare a meno dell'intervento diretto della Prima Causa nella creazione delle specie» (di cui trattava nel secondo volume), né «dubitava dell'opinione sulla creazione dell'uomo entro il tempo assegnato»; quanto al diluvio, c'erano prove abbondanti che non aveva ricoperto tutta la terra. In una conferenza al King's College, dove fu in seguito accolto, precisò il suo pensiero: «è impossibile che la vera religione possa essere lesa dall'accertamento di un qualunque fatto» e «nessuna scienza offre un numero maggiore di illustrazioni del potere e della saggezza manifestate nella creazione che la Geologia» (per i termini del dibattito, cfr. Klaver, 1997, pp. 47-50). Obiezioni varie di carattere scientifico vennero dall'ambiente geologico.
Ma ormai la concezione del diluvio biblico universale era insostenibile: Conybeare, Buckland e Sedgwick, che avevano sostenuto la teoria diluvialista, la abbandonarono, anzi Sedgwick fece pubblica ritrattazione di quella che era diventata ormai “un'eresia filosofica”. Nel 1834 il giovane J.H. Newman, poi cardinale, condannava «l'errore di voler dedurre teorie geologiche dalla Scrittura». I tre volumi dei Principi di Geologia di Lyell avevano ormai segnato una svolta nella storia della geologia. Essi ebbero una influenza enorme, essenzialmente per il principio euristico che li animava. Charles Darwin (1809-1882), rompendo il voto di non leggere più un libro di geologia dopo le lezioni di Jameson, allievo di Werner, portò con sé una copia del primo volume nel viaggio sul Beagle (1831-1836) e ne riconobbe l'utilità per le sue concezioni. Incorporò infatti nella sua teoria molte idee di Lyell, tra cui, essenziali, l'antichità della Terra e il gradualismo. È degno di nota il fatto che Lyell rimase contrario alla trasmutazione delle specie. Di fronte alla comparsa di nuove specie registrate dalla stratigrafia, confessò la sua ignoranza: «Per creazione di una specie intendo l'inizio di una nuova serie di fenomeni organici. Se questi inizi si siano verificati per intervento diretto della Prima Causa, o per qualche ignota Seconda Causa o Legge fissata dall'Autore della Natura, è un punto su cui non mi avventuro a fare suggerimenti» (cit. in Hallam, 1987, p. 62; cfr. anche Klaver, 1997, cap. V). È interessante osservare che nella polemica contro i diluvialisti gli attualisti respinsero non solo l'ipotesi del diluvio, ma l'insieme delle loro teorie, alcune delle quali decisamente valide (come la tettonica e la stratigrafia), con gravi ripercussioni sullo sviluppo della stessa geologia.
La concezione attualista sembrò essere messa in discussione dalla teoria delle glaciazioni enunciata nel 1837 dallo scienziato svizzero L. Agassiz per spiegare la presenza di enormi massi erratici ed altri fenomeni nelle valli e pianure svizzere. La formazione di grandi estensioni di ghiaccio che aveva ricoperto tutta la superficie terrestre era stato un evento catastrofico che aveva causato la scomparsa di specie. Con il ritiro dei ghiacciai nuove forme di vita erano apparse. La teoria, mitigata nei suoi elementi più catastrofici, poté essere integrata nella visione attualista di Lyell. Un più serio attacco alla teoria attualista venne invece dalla fisica, precisamente da W. Thomson (1824-1907), noto come barone Kelvin di Largs. Fu il suo quarantennale interesse per l'età della Terra a mettere in crisi le valutazioni temporali elaborate dagli attualisti. Il problema dell'età della Terra diventò un punto cruciale non solo per il rapporto scienza e Bibbia, ma anche per il rapporto fra fisica e geologia. Fu uno scontro tra due metodi di datazione.
VI. Il problema della datazione dell'età della Terra
La cronologia biblica risultava ormai inadeguata nel rendere conto dei dati che si venivano accumulando da geologia e paleontologia. Nuovi metodi di valutazione vengono tentati. Uno dei primi calcoli dell'età della Terra su base empirico-sperimentale è dovuto a Buffon. Ammettendo che la Terra si sia formata per raffreddamento da una massa fusa, nel 1778 egli calcola in 75000 anni il tempo necessario alla Terra per arrivare alla temperatura attuale. Per evitare le critiche che gli erano state dirette dalla Facoltà di Teologia della Sorbona al momento della pubblicazione nel 1749 dei primi volumi della sua Storia naturale, premetterà che i sei giorni della creazione biblica non potevano essere presi in senso letterale (cfr. Gohau, 1990, p. 199). Gli abati geologi suoi contemporanei, Needham e Girault-Soulavie erano dello stesso avviso, anzi quest'ultimo valutava a oltre trecento milioni di anni l'età della Terra. L'abate Barruel invece denuncia le loro “empietà” e l'abate Maupied insorge contro coloro che non prendono la Bibbia alla lettera. Era questa l'interpretazione allora corrente.
Cuvier e gli altri “catastrofisti” avevano parlato di “migliaia di anni”. Scrope e Lyell avevano concluso che era necessario un tempo molto lungo per l'erosione e la deposizione degli strati. La concezione ciclica rendeva questo tempo praticamente illimitato. Darwin (1859) cercò di darne una valutazione, calcolando in 300 milioni di anni il tempo necessario per la denudazione di una regione inglese (il Weald). J. Phillips, geologo di Oxford, aveva ottenuto nel 1860, per la formazione della crosta terrestre calcolata in base alla velocità media di sedimentazione, un valore ben inferiore: 96 milioni di anni. Nel 1852 entra in scena Lord Kelvin con un articolo in cui sostiene che, se la Terra funziona come una macchina termica secondo l'ipotesi di Hutton, deve perdere energia con il passare del tempo, per cui entro un periodo di tempo finito la Terra sarebbe diventata inabitabile. Nel 1862 affronta il problema del calore del sole, attribuito all'energia gravitazionale, e nel 1863 il problema del calore della Terra e del suo raffreddamento nel tempo, asserendo qualche anno più tardi che la crosta terrestre non poteva essere rimasta come essa è ora, mentre tutta la Terra andava disperdendo nel tempo una così grande quantità di calore. Partendo da ipotesi fisiche diverse, Kelvin stimò che l'età della Terra dovesse essere compresa tra un minimo di 24 milioni di anni ed un massimo di 400 milioni, con un valore più probabile di 98. I presupposti da cui partiva costituivano un attacco alla concezione stazionaria di Lyell ed anche alla teoria catastrofista, ed apparivano favorevoli ad una concezione “direzionalista”. I valori da lui calcolati erano troppo bassi soprattutto per la teoria dell'evoluzione delle specie, appena proposta da Darwin (L'origine delle specie, 1859), che richiedeva un molto più lungo. Nel 1868, rivolgendosi alla Società geologica di Glasgow, Kelvin si complimentò con i geologi per essersi liberati dal condizionamento biblico nella cronologia, ma osservò che avevano oltrepassato il segno nella valutazione degli anni.
Fu l'inizio di un dibattito acceso tra geologi e fisici sui metodi più opportuni di datazione, gli uni rimproverando agli altri l'ignoranza dell'altrui disciplina. I geologi misero a punto più tecniche indipendenti di calcolo, basate sulla teoria glaciale, sulla dissoluzione chimica dei minerali, sui cambiamenti climatici, sulla salinità degli oceani, ecc.. Dall'insieme dei dati, pur disparati, risultava sempre un tempo decisamente più lungo di quello proposto da Kelvin. In loro aiuto vennero il pioniere della geofisica, il Rev. O. Fisher (1817-1914) e T.C. Chamberlin-F.R Moulton. Il primo (1881) ventilò l'ipotesi di masse fluide nell'interno della Terra, i secondi (1899) avanzarono l'ipotesi planetesimale dell'origine della Terra: in entrambi i casi i calcoli di Kelvin erano da rivedere. Chamberlin osservò: «negli atomi possono essere rinchiuse energie del primo ordine di grandezza». Fu buon profeta: nel 1896 Becquerel scopriva la radioattività, la cui importanza per la geologia fu intesa solo nel 1903, quando Marie e Pierre Curie scoprirono che la disintegrazione avviene con liberazione di calore. Nel 1904 Rutherford sostenne che il calore della Terra era attribuibile alla presenza di elementi radioattivi, e quindi la Terra non era in via di raffreddamento. Dunque Kelvin aveva torto. Questi tuttavia si mantenne fermo nelle sue idee e si oppose alle nuove concezioni, invocando per il calore una fonte di energia eterna.
A R.J Strutt spetta il merito di aver effettuato negli anni 1908-1910 le prime datazioni radioattive per un gran numero di minerali e di averle messe in relazione con la stratigrafia. Nel 1913 A. Holmes (1890-1965) compilò il primo resoconto completo dei metodi usati per la misura del tempo geologico, ma bisognò attendere il 1917 perché, grazie al libro di Y.J. Barrell (1869-1919), la comunità scientifica dei geologi accettasse il nuovo metodo di datazione. Con il passare degli anni i metodi di datazione aumentarono, si perfezionarono le tecniche di analisi e, partendo dal principio di Haughton: «La corretta misura relativa dei periodi geologici è lo spessore massimo degli strati che si sono formati durante questi periodi», si datarono con sufficiente attendibilità i più importanti eventi biologici e geologici, la durata di epoche e periodi geologici. Oggi si valuta che la Terra abbia circa 4,5 miliardi di anni, mentre le rocce più antiche risalgono a circa 3,8 miliardi di anni fa. L'età dell'Universo si aggira fra i 12 e 15 miliardi di anni.
VII. Aspetti del confronto fra geologia e riflessione teologica nell'epoca contemporanea
La disputa fra geologia e teologia si può considerare formalmente terminata con l'opera di Lyell. La geologia aveva conquistato completa indipendenza e si poteva muovere autonomamente nella sua ricerca. Con questo si riconosce che il racconto biblico sulla formazione della Terra non ha pretese di descrizione scientifica e viene così restituito alla sua originaria intenzione, che era quella di essere essenzialmente un messaggio religioso. Il confronto, in termini ben più accesi, si spostava ora, con Darwin, sul tema dell'evoluzione delle specie e sull'origine dell'uomo.
Mentre le discipline naturalistiche si avviavano con slancio ed entusiasmo lungo il cammino aperto dalla teoria darwininana, che si rivelò di grande e feconda portata euristica, la teologia si dibattè inizialmente in un'opera di retroguardia e di difesa, con forti tensioni interne. La difficoltà maggiore risiedeva nel fatto che il grandioso sistema teologico costruito in secoli di speculazione, incapace di recuperare con frutto altre visioni che nella teologia patristica e nella stessa sacra Scrittura erano ugualmente disponibili, aveva privilegiato una visione della realtà di tipo essenzialmente statico e fissista, mentre il quadro concettuale entro il quale si muovevano le nuove scienze era dinamico ed evolutivo. La concezione di una creazione iniziale perfetta doveva lasciare il posto ad una, nella quale il limite e il male sembravano presenti sin dall'inizio. Si trattava di assumere un atteggiamento mentale profondamente diverso, che coinvolgerà sempre più i concetti di verità e di natura. Era necessaria una profonda spassionata riflessione, da una parte, sui contenuti scientifici e sul significato delle nuove teorie e, dall'altra, sui fondamenti della fede. Lo scontro fu duro soprattutto all'interno del mondo ecclesiale. Gli strascichi e le polemiche continuarono per tutto il secolo XIX in Gran Bretagna, Italia, Francia, Germania. Sorsero numerosi apologisti, raggruppabili in due categorie: tradizionalisti (la Bibbia dice il vero, la scienza non può contestarla) e concordisti (la scienza non può che confermare la Bibbia). Contro questi sistemi, definiti «pericolosi e fatali, egualmente contrari alla verità» dal geologo e sacerdote Antonio Stoppani (1824-1891), il ben noto autore de Il Bel Paese (1875), si levarono studiosi che riportarono il discorso sulla corretta via. Nel 1884 il vescovo anglicano F. Temple ricordava ai “tradizionalisti” che «il motivo per cui si voleva mettere da parte la geologia, poichè essa non si accorda con la descrizione letterale del Genesi, non è più valido di quello per cui si vorrebbe mettere da parte l'astronomia, per il fatto che nel Vecchio Testamento si dice che il Sole ruota intorno alla Terra» (cit. in Pedersen, 1993, p. 118). In Italia lo stesso Stoppani avvertì il bisogno di scrivere nel 1886 un libro di oltre 400 pagine Il dogma e le scienze positive, ossia la missione apologetica del clero nel moderno conflitto tra la Ragione e la Fede, cui fece seguire due densi volumi, usciti postumi a Torino nel 1893, L'exemeron. Nuovo saggio di una esegesi della Storia della Creazione secondo la ragione e la fede. In questi volumi il problema dei rapporti tra geologia e pensiero teologico è affrontato in profondità, con chiarezza di idee, amplissima visione storica e dovizia di particolari e dati. È indubbio che è ad opere come queste che si deve il mutato atteggiamento della teologia nei riguardi del pensiero scientifico moderno.
Anche nei riguardi della teoria dell'evoluzione non mancarono tentativi di corretta comprensione. Già nel 1874 J.H. Newman (1801-1890), cui si devono acute illuminanti posizioni su Christianity and Scientific Investigation (1855), scriveva ad un vescovo: «Nella teoria dell'evoluzione non vedo alcunchè di incompatibile con un Creatore Onnipotente e Provvidente». Il tentativo più organico e noto è quello di Teilhard de Chardin (1881-1955), che, partendo dal suo lavoro di scienziato, ingloba la nuova prospettiva dell'evoluzione nella sua riflessione filosofica e teologica. Esiste peraltro una minoranza ridotta, ma dinamica, di credenti, appartenenti generalmente alle confessioni cristiane evangeliche e riformate, che si ostina a difendere le tesi tradizionaliste di creazione e diluvio, soprattutto negli USA.
Dal canto suo il magistero della Chiesa, lasciando alla riflessione teologica il compito di approfondire in qual modo la Rivelazione potesse accordarsi con i dati scientifici, aveva progressivamente offerto elementi di chiarezza alla tematica. Nell'enciclica Providentissimus Deus del 1893 Leone XIII proclama che la Bibbia non pretende insegnare le scienze umane. Nel 1909 una dichiarazione della Pontificia Commissione Biblica, sotto il pontificato di s. Pio X, aveva precisato che il termine «giorno» che compare nel primo capitolo del Libro della Genesi (eb. jôm) non doveva essere preso in termini letterali (DH 3519) e, cosa ancor più importante, aveva risposto negativamente all'interrogativo se in quella medesima narrazione fosse «necessario cercarvi scrupolosamente e sempre le proprietà del linguaggio scientifico» (DH 3518). Prima Pio XII (cfr. Humani generis, 1950, DH 3896) e poi in modo più esplicito Giovanni Paolo II (Messaggio alla Pontificia Accademia delle scienze, 22.10.1996, EV 15, 1346-1354) hanno segnalato in qual modo, dapprima l'“ipotesi” e finalmente la “teoria” dell'evoluzione non contraddicevano il messaggio biblico. Nella Catechesi sulla creazione, Giovanni Paolo II aveva già ricordato nel 1986, a proposito del testo biblico sulla creazione e delle conseguenze di ordine scientifico (datazioni incluse) che se ne volessero trarre, che «questo testo ha una portata soprattutto religiosa e teologica. Non si possono cercare in esso elementi significativi dal punto di vista delle scienze naturali» aggiungendo poi, riguardo l'evoluzione biologica, che «le ricerche sull'origine e sullo sviluppo delle singole specie “in natura” non trovano in questa descrizione alcuna norma “vincolante”, né apporti positivi di interesse sostanziale» (Catechesi del mercoledi, 29.1.1986, n. 3).
Resta comunque vero che il tema della storia scientifica della Terra contiene senza dubbio implicazioni filosofiche ed etiche, oltre che teologiche, e che il difficile processo di approfondimento — e forse in alcuni aspetti di revisione — richiesto ad alcune formulazioni della teologia è tuttavia ben lungi dall'essere terminato. Il fatto che anche nell'epoca del sorgere del dibattito sui risultati della geologia esistessero numerosi ecclesiastici impegnati nell'ambito delle scienze — basti ricordare gli italiani Spallanzani, Stoppani, Borson, Secchi, Denza e per tutti, prima di loro, Stenone — depone a favore di una soluzione non conflittuale del confronto fra pensiero teologico e ricerca scientifica, che può valere anche oggi.
Quanto alle scienze geologiche, negli ultimi decenni esse hanno registrato progressi notevoli con importanti scoperte. Nuove teorie sono sorte: deriva dei continenti, tettonica a placche, espressioni di una «ipotesi mobilista» delle masse continentali, affermatasi intorno al 1970. I grandi tempi introdotti dalle datazioni radiometriche hanno ridato vitalità all'attualismo di Lyell, che sembrava dover dominare incontrastato. Invece negli ultimi anni la conquista dello spazio, le nuove frontiere della cosmologia, la scoperta delle estinzioni di massa hanno portato alla formulazione del “neocatastrofismo” (cfr. O.H. Schindewolf, Neokatastrophismus?, 1963, cit. in Albritton, 1989, p. 175). Vari fenomeni geologici continuano a restare inesplicati, il dibattito rimane dunque aperto a nuovi contributi e nuove sintesi.
Una novità interessante, affacciatasi sulla scena negli anni 70 del XX secolo è «l'ipotesi Gaia», formulata dal chimico J. Lovelock (Gaia: nuove idee sull’ecologia, Torino 1981; Le nuove età di Gaia, Torino 1991). Da ricerche condotte per incarico della NASA per la progettazione di strumenti volti a scoprire eventuali forme di vita su Marte, egli pervenne a formulare l'idea che la Terra è un sistema vivente capace di auto-organizzazione. La Terra cioè non è da considerarsi un pianeta morto, fatto di rocce, oceani e atmosfera, ma un «sistema che comprende tutta la vita e tutto il suo ambiente strettamente accoppiati, in modo da formare un'entità che si autoregola». L'ipotesi fu chiamata Gaia, dal nome dato alla dea Terra venerata nella Grecia pre-ellenica. L'idea non era del tutto nuova: già Hutton aveva sostenuto la concatenazione dei processi geologici e biologici ed aveva paragonato la circolazione della acque terrestri a quella del sangue (Hutton era anche medico), e il naturalista A. von Humboldt (1769-1859) aveva parlato del globo terrestre come di «un grande tutto, di un corpo organizzato». L'ipotesi Gaia trovò, e trova una certa resistenza nel mondo accademico, sia perché coinvolge e richiede la competenza di più discipline (geologia, microbiologia, geochimica, chimica dell'atmosfera), sia perché viene da alcuni considerata teleologica, cioè sembrerebbe implicare l'intenzionalità dei processi naturali, anche se essa, affermando impropriamente una certa personificazione o un vitalismo della natura, ne mette semplicemente in luce dei processi di auto-adattamento e di omeostasi a vari livelli.
Indipendentemente dalla validità dell'ipotesi Gaia, il significato sembra chiaro: le scienze sono oggi arrivate ad un punto di specializzazione tale che ciascuna nella sua autonomia coglie solo una piccola parte della realtà: se si vuole attingere una porzione maggiore della realtà e trovare un senso al tutto, è necessario tenere conto della complessità del reale, superare la frammentazione delle discipline, e tendere ad una integrazione delle stesse in una visione più ampia. A questo modo di sentire non sono del tutto estranee alcune suggestioni interdisciplinari provenienti dal Principio antropico.
VIII. Considerazioni conclusive
Proponiamo al termine del nostro itinerario, di natura principalmente storica, alcune considerazioni conclusive.
L'uomo ha sempre sentito il desiderio, anzi il bisogno di comprendere se stesso, la vita, il mondo che lo circonda. Ne ha la necessità, come ha bisogno dell'ossigeno per respirare e del cibo per vivere. Non c'è cultura che non abbia affrontato e risolto questo problema in un qualche modo. Le prime soluzioni proposte si poggiavano sul mito, sulla poesia, ed avevano un carattere unitario: l'uomo si sentiva parte di un tutto, che è animato e popolato di dèi, spiriti, gnomi, ninfe; la natura è il libero campo di gioco di queste forze capricciose, che l'uomo può ingraziarsi con sacrifici, doni, atti magici. Indipendentemente dai contenuti delle varie credenze, il significato è chiaro: nel suo rapporto con la natura, l'uomo riconosce la sua contingenza e la dipendenza da una Realtà che lo trascende. Lo sviluppo del pensiero razionale determina un diverso atteggiamento nei confronti della natura, che va progressivamente perdendo il suo carattere divino ed animato per diventare sempre più oggetto di studio obiettivo: a questo processo il cristianesimo darà un contributo significativo, sebbene a partire dalla modernità, specie con la concezione meccanicistica di Cartesio, l'uomo stesso diventerà oggetto di studio disincantato.
Per quello che riguarda il confronto fra Rivelazione cristiana e sorgere del pensiero scientifico, la narrazione biblica delle origini, quale è consegnata dalla Genesi (narrazioni della creazione e del diluvio), funzionò come una teoria — anche se non è una teoria scientifica nel senso proprio del termine. Questo appare evidente nel Seicento, quando comincia ad affermarsi lo spirito naturalistico: essa non solo si presenta come una spiegazione coerente e in fondo soddisfacente del mondo quale allora conosciuto, ma stimola ed orienta la ricerca. Lo studioso è convinto della verità del testo biblico e cerca conferme nella natura. Ma a differenza di tutte le altre teorie, essa fa parte di un testo sacro, ispirato da Dio, e si comprende pertanto l'ostinata difesa di questa concezione da parte soprattutto di coloro che ne davano un'interpretazione letterale. La complicazione nasceva anche dal fatto che le prime ricerche geologiche si svolgevano su formazioni sedimentarie, cioè su depositi che si originano in ambiente acquoso, e sembravano ben accordarsi con le narrazioni della Genesi. Il fattore che determina la crisi di fiducia nel testo biblico sarà la consapevolezza della durata del tempo. È questo il risultato dello studio delle formazioni sedimentarie e dei fossili. I tempi di cui parla la Bibbia (quaranta giorni di piogge torrenziali più centocinquanta per il ritiro delle acque) non potevano essere stati sufficienti al verificarsi di tutta la ricca fenomenologia che si stava scoprendo. Non ci furono però, almeno inizialmente, prove dirette, ma solo indizi.
Il protrarsi del confronto mostra che si possono dividere gli studiosi della natura in due gruppi: quelli che operano svincolati dalla concezione biblica e quelli che cercano di salvarla, reinterpretandola. Questi ultimi procedono come qualunque scienziato cui sta a cuore la teoria in cui crede. Così i sei giorni della creazione vengono intesi come altrettanti periodi di età imprecisata, per cui l'intervallo di tempo che va dalla creazione al diluvio può essere allungato a piacere, in modo da poter dar ragione dei fenomeni osservati. È il sistema del concordismo, un modo di voler conciliare a tutti i costi scienza e fede, ora meno in auge che in passato, ma che esercita sul credente una tentazione sempre forte.
Dando uno sguardo d'insieme alla vicenda plurisecolare del rapporto fra tesi teologiche e geologia (più in generale, scienza), appare evidente come l'uomo non si sia mai accontentato di una conoscenza parziale, ma abbia sempre cercato di pervenire ad un sapere che abbia i caratteri della totalità ed esaustività. A partire dall'esperienza personale, pur sempre limitata, che poggia su una serie di osservazioni o di esperimenti, l'uomo tende alla generalizzazione, cercando di includervi tutti i fenomeni e prevederli. È la potenza dell'intelligenza e della creatività umana, messe al servizio del desiderio (o dell'esigenza) di totalità. Questo modo di procedere appare evidente in Werner, Hutton, Lyell, per limitarci ai geologi. Werner costruisce la sua teoria sulle osservazioni relative alla regione della Sassonia e delle zone limitrofe, Hutton sulle formazioni rocciose della Scozia. Il campo di indagine personale di Lyell è più vasto, perché egli vi aggiunge il bacino sedimentario di Parigi e le formazioni vulcaniche dell'Auvergne e d'Italia. Per queste ragioni le loro teorie non potevano avere validità onnicomprensiva e saranno soggette a revisioni, aggiornamenti, integrazioni.
Il ruolo del ragionamento per analogia e per ipotesi è maggiore nelle discipline geologiche che in quelle fisiche o chimiche, perché la geologia studia fenomeni irreversibili del passato a partire dal presente. Si può paragonare ad un grande romanzo giallo, in cui da indizi sparsi si deve risalire alla ricostruzione logica e coerente dell'intera vicenda. La sperimentazione può essere utilizzata solo per analogia, a ben precise condizioni. La verifica non può che essere indiretta. Il ruolo della teoria, anche se carente e limitata, è tuttavia fondamentale per lo sviluppo di una scienza. La storia ricorda volentieri gli autori delle teorie, molto meno gli sperimentatori, che pure svolgono un lavoro indispensabile accumulando dati. Una teoria infatti è innanzitutto unificante, in quanto dà una interpretazione generale dei dati e delle osservazioni; poi vuole e deve essere predittiva ed euristica, stimolare cioè l'indagine. In questo senso si è accennato sopra alla concezione biblica come a una teoria.
Nella formulazione di una teoria hanno spesso un peso decisivo considerazioni estetiche o etiche, intuizioni filosofiche o religiose, cioè fattori extrascientifici. Si pensi al fascino esercitato dalla figura geometrica del cerchio sul pensiero di Aristotele e le conseguenze che ne sono derivate! Un punto chiave della concezione di Hutton, ad esempio, è che la Terra non è una macchina, ma un “corpo organizzato”, il cui scopo è quello di mantenersi abitabile. Le considerazioni finaliste impregnano i testi huttoniani: «Questo globo di terra è evidentemente fatto per l'uomo». Hutton è animato da una profonda religiosità e fede nell'Autore della natura. Come si è detto, Hutton rifiuta il catastrofismo perché indegno del progetto divino. La sua epistemologia diffida inoltre degli esperimenti concepiti al di fuori di un quadro teorico: «è solo la filosofia o la conoscenza generale che è adatta a dirigere il significato dell'esperimento» (Laudan, 1987, p. 126). Anche Lyell condivide con Hutton l'esistenza di un piano divino: «È pertanto chiaro alla dimostrazione che tutte, a qualunque distanza di tempo siano state create, sono parti di un piano interconnesso. Tutte sono procedute dallo stesso Autore, e portano indelebilmente impresse le tracce progettate da Una Mente» (Klaver, 1997, p. 23). La sua scienza era fondata su principi religiosamente antropocentrici. È stato sostenuto (cfr. Laudan, 1987, p. 202) che Lyell prese in considerazione il principio attualistico di Hutton perché anch'egli era deista e come Hutton vedeva riflessa nel mondo la saggezza ordinatrice dell'Autore della vita e credeva nella posizione privilegiata dell'uomo nella natura. Furono considerazioni filosofiche e morali, oltre che scientifiche, a trattenerlo fino all'ultimo dall'aderire all'evoluzione darwiniana, che per lui rappresentava un attentato alla dignità umana (Klaver, 1997, p. 67): la differenza tra la specie umana e le altre è di qualità, non di grado.
Gli scienziati dei tempi passati erano animati da una profonda convinzione, religiosa o filosofica, della razionalità e intelligibilità del reale. Questa convinzione li stimolava alla ricerca della verità, che costituiva il senso riconosciuto e proclamato del loro operare scientifico. Oggi un senso di smarrimento coglie l'uomo di fronte alla insondabile vastità del tempo e dello spazio che le scienze geologiche e cosmologiche hanno dischiuso e di fronte ai ripetuti cicli di vita e di morte che la paleontologia ci dice essersi succeduti nelle epoche passate. Lo smarrimento diventa sgomento di fronte alla prospettive future, su cui non si ha alcuna rassicurazione. «L'uomo moderno ha paura, quanto i suoi antenati, di rasentare l'ignoto» (Ellenberger, cit. in Sacchi, 1985, p. 668)
Ma allora è proprio vera la conclusione di S. Weinberg, premio Nobel per la fisica nel 1979, secondo cui «quanto più l'universo ci appare comprensibile, tanto più ci appare senza scopo?». Quale la via d'uscita? È forse solo la ricerca, che così da mezzo diventa fine? Weinberg aggiunge infatti: «Ma se non c'è conforto nei risultati della nostra ricerca, c'è almeno qualche consolazione nella ricerca stessa. […] Lo sforzo di capire l'universo è fra le pochissime cose che innalzano la vita umana al di sopra del livello di una farsa, conferendole un po’ della dignità della tragedia» (I primi tre minuti, Milano, pp. 170-171). Quest'ultima frase — forma di consolazione elitaria per un pessimismo radicale — si trova in esergo al testo di geologia di un brillante e valente geologo italiano. Il fatto che un geologo richiami le riflessioni di un fisico per esprimere il disagio esistenziale prodotto dai progressi nelle conoscenze scientifiche mostra che tale disagio non è circoscritto ad una disciplina, ma è generale. È però un disagio che ha motivazioni e radici extrascientifiche, e non può essere superato se non sulla base di opzioni filosofiche o religiose. La scienza infatti vuole essere, ed è, una descrizione razionale della realtà; essa suscita interrogativi, pone problemi, ma non pretende di trovare né può dischiudere il senso della vita e dell'universo. Il senso di smarrimento che coglie l'uomo moderno riecheggia, curiosamente, un lontano interrogativo del salmista: «Se guardo il cielo, opera delle tue dita, la luna e le stelle che hai fissate, che cosa è l'uomo perché te ne ricordi, il figlio dell'uomo perché te ne curi?» (Sal 8,4-5). Il salmista credeva però nel senso della vita perché credeva in Dio, e voleva con quelle domande esprimere lo stupore per il fatto che l'uomo fosse al centro di tanta attenzione e predilezione. C'era alla sua base un'altra lettura della realtà, che prescindeva dalle scoperte scientifiche: lettura che può essere ancora valida e fatta ragionevolmente propria anche dall'uomo di oggi, a oltre duemila anni di distanza.
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