Epistemologia

Anno di redazione
2002

I. Alcune concezioni dell’epistemologia: un’identità problematica - II. Epistemologia delle scienze naturali - III. Epistemologia delle scienze umano-sociali - IV. Strutture e criteri generali della scientificità - V. Problemi attuali e future prospettive - VI. La questione epistemologica nel dialogo fra fede e cultura scientifica - VII. Uno sguardo al futuro del dialogo fede-scienza.

I. Alcune concezioni dell’epistemologia: un’identità problematica

Il termine «epistemologia» deriva dall’unione di due parole greche: epistéme (scienza) e lógos (discorso). Il senso etimologico è, quindi, un discorso sulla scienza. Nel senso attuale indica una disciplina filosofica che riflette sull’insieme delle conoscenze positive e delle teorie scientifiche di una data epoca. Si occupa, quindi, dei presupposti, strutture, metodi, ecc. della scienza in generale e delle diverse discipline scientifiche. Ciò solleva, tuttavia, le prime difficoltà. Di tali argomenti ci si può occupare a due livelli. Uno è più specificamente filosofico e sostanziale, poiché si ricollega ai grandi temi classici della filosofia, quali la conoscenza (gnoseologia), la critica (criteriologia), l’etica, ecc. L’altro è più tecnico e formale, poiché si occupa delle teorie, metodi, modelli, ecc. posti in atto dalle diverse scienze. Inoltre, poiché l’oggetto delle scienze tende sempre ad ampliarsi, pure l’epistemologia tende ad ampliarsi. Le più recenti tendenze critiche, tuttavia, espresse nel Dictionnaire d’Histoire et de Philosophie des sciences ne riconoscono il livello filosofico come più significativo e decisivo (cfr. Lecourt, 1999, pp. VIII-IX). Essa, quindi, non fu sempre intesa nello stesso modo.

Fu un insieme di circostanze a fare dell’epistemologia la coscienza sempre più vigile, critica e autocritica della scienza, reinserendo la filosofia nel discorso scientifico, dopo che ne era stata arbitrariamente estromessa. Perciò, non ebbe mai un cammino facile, perché la sua nascita e il suo sviluppo sono legati ai fatti e alle ragioni che, a partire dal XIX secolo, resero molti problemi della scienza sempre più complessi e talora insolubili. Ciò spiega perché il suo ruolo si sia rivelato subito ingrato e abbia subìto giudizi tutt’altro che benevoli. Musgrave la riconobbe afflitta da una “epidemia di problemi” e Canguilhem, facendone il bilancio, vi trovò più manifesti e programmi che risultati (cfr. Baldini, 1990, p. 45). Toulmin (1977) la giudicò una “disordinata velleità disciplinare”. Skolimowski (1976) la trovò in condizioni peggiori dell’astronomia tolemaica ai tempi di Copernico, il che è tutto dire (cfr. p. 205).

Pertanto, furono numerose le proposte di sostituirla con altre discipline: storia, psicologia, sociologia della scienza ecc. I tentativi di collaborazione fra epistemologi e storici ne misero in luce la fragilità: se l’epistemologia “descriveva” diveniva conformista, se “prescriveva” era considerata paternalista, se faceva entrambe le cose ne peggiorava la sostanza. Secondo uno dei giudizi meno negativi: «L’epistemologia ha già imparato molte cose dalla storia delle scienze e viceversa. Gli epistemologi, in particolare, hanno appreso a formulare regole metodologiche più permissive e gli storici della scienza hanno usufruito di nuove e interessanti ipotesi di lavoro storiografiche. Questa collaborazione, tuttavia, è esposta a pericolosi rischi. Gli epistemologi tendono ad essere i monatti della scienza, costringendo la prassi scientifica, attraverso ricerche storiche volutamente non troppo precise, a coincidere con le loro ricette metodologiche» (Baldini, 1990, p. 54). Il richiamo a ricerche storiche «volutamente non troppo precise» appare alquanto polemico, ma non del tutto ingiustificato.

Le difficoltà si ritrovano pure nei nomi e nelle definizioni che ne danno i dizionari. Alcune, troppo dettagliate, diventano limitate, come quelle che la definiscono: «studio dei fondamenti, della natura, dei limiti e delle condizioni di validità del sapere scientifico che si estende alle scienze esatte (logica e matematica), ed empiriche (fisica, chimica, biologia, psicologia, sociologia, storiografia ecc.)». Altre definizioni sintetizzano troppo quando si riferiscono a un’«indagine critica intorno alle scienze naturali e matematiche». Per gli inglesi l’epistemologia è «filosofia della scienza»; per i francesi è «filosofia delle scienze»; per i tedeschi «filosofia della natura» o «teoria della scienza». Sono tutti termini più o meno ambigui. Qualcuno vorrebbe limitare l’epistemologia allo studio critico della “forma”, lasciando i “contenuti” alla filosofia. In tal caso, però, il termine «epistemologia» per alcuni diviene troppo vago, e quello di «filosofia della scienza» troppo confuso. Numerosi sono gli autori che lamentano tale confusione (cfr. ad es. Agazzi, 1974; McMullin, 1979).

Alcuni storici sorridono di questa situazione che “fa a pezzi” l’immagine di un’epistemologia “padrona della razionalità scientifica” e la costringe a interrogarsi più profondamente sulla sua natura meta-teorica e a rinunciare ai prontuari di regole da ammannire alle comunità scientifiche. Scrive Baldini (1990): «La repubblica degli epistemologi è scossa da inquietanti paradossi e da scandali teorici. Lo storico della scienza ha mostrato come nell’armadio dell’epistemologo vi siano alcuni scheletri e come sia ormai giunto il tempo di fare le dovute pulizie» (p. 66). Egli descrive l’epistemologo con l’immagine tratta dal Barone di Münchausen, e cioè un lupo (lo storico), che salta in groppa al cavallo (l’epistemologo) che tira la carrozza del barone (lo scienziato), e comincia a divorarlo dall’interno, fino a consumarlo totalmente. A questo punto, però, si trova al posto del cavallo per trascinare la carrozza, sotto le frustate del barone. Anche a questo riguardo, tuttavia, le più recenti tendenze critiche notano la necessità di «unire indissolubilmente la riflessione filosofica e l’indagine storica nell’investigare la realtà scientifica» (Lecourt, 1999, p. VIII).

Tuttavia, gran parte delle ambiguità e difficoltà dell’epistemologia derivano dalla crescita della scienza, che è divenuta un fenomeno sempre più vasto, complesso e multiforme, in cui è difficile fare chiarezza. Pertanto gli epistemologi hanno dovuto procedere a una serie di distinzioni, imperfette quanto si vuole, ma comunque indispensabili. La prima distingue la scienza in “prodotto finale” e “produzione”. Il “prodotto” è dato da tutte le informazioni scritte che si trovano nei resoconti scientifici (il cosiddetto «terzo mondo» di Popper). La “produzione”, invece, è l’insieme delle attività logiche e sperimentali che consentono di ottenere i risultati (o prodotto). Esse sono molteplici e attingono al di fuori dell’ambito scientifico (filosofia, tecniche, ecc.) o dall’interno. Pertanto l’epistemologia o “filosofia della scienza”, a seconda dei suoi contenuti, si distingue in “esterna” e “interna” alla scienza, più o meno come la storia della scienza. L’epistemologia “esterna” s’interessa ai “procedimenti razionali” (filosofia, metafisica, logica), necessari per valutare gli aspetti generali della scienza o di suoi ampi settori. Pertanto prescinde dai “procedimenti pratici” seguiti dagli scienziati. L’epistemologia “interna”, al contrario, studia gli elementi interni alla scienza (metodi, leggi, ipotesi, convalide, previsioni ecc.) e le loro funzioni, riferendosi alla “pratica degli operatori scientifici” più famosi. Tuttavia considera solo ciò che fanno, ma non ciò che dicono o credono di fare. Queste necessarie distinzioni non sono facili da applicare né dagli storici né dagli epistemologi, per cui Popper ha concluso che «la storia della scienza, come quella di tutte le idee umane, è storia di sogni irresponsabili, di ostinazioni e di errori» (Conoscenza oggettiva, Roma 1975, pp. 233-234).

II. Epistemologia delle scienze naturali

Per capire l’attuale epistemologia è indispensabile accennare, sia pure brevemente, al percorso storico-culturale di questa complessa disciplina. La sua nascita, solitamente, è indicata negli anni 1920-1930, ad opera dei neopositivisti dei circoli di Vienna e Berlino (M. Schlick, H. Reichenbach, O. Neurath ecc.). In realtà, acuti pensatori, quali H. Poincaré (1854-1912), P. Duhem (1861-1916), E. M. Boutroux (1845-1921) e altri, avevano già sviluppato importanti riflessioni. La moderna riflessione metodologica sulle scienze risale addirittura al 1600, con Cartesio, Discorso sul metodo(1637), Newton, Philosophiae Naturalis principia mathematica (1687) e altri. Il primo grande dibattito epistemologico, tuttavia, si ebbe attorno agli anni ’30 del secolo XX, attorno alla “liberalizzazione dell’empirismo” (cfr. S. Cremaschi, 1966, p. 266).

Data l’ampiezza e la complessità della materia, il nostro esame si concentra ora soltanto su quei mutamenti epistemologici, verificatisi tra la fine del secolo XIX e gli inizi del XX, che sconvolsero la mentalità scientista (positivista, neo-positivista e razionalista). In quel lasso di tempo, Emile Boutroux contestava il determinismo delle leggi scientifiche e dimostrava la contingenza annidata al centro della scienza (cfr. Sulla contingenza delle leggi di natura, 1874). Ernst Mach (1838-1916) e Richard Avenarius (1843-1896) mettevano in luce la sotto-struttura metafisica della scienza positivistica e del meccanicismo determinista. Edouard Le Roy (1870-1954) dimostrava che i “fatti” e i “dati” scientifici sono costruzioni puramente arbitrarie. Poincaré, in seguito all’emergere delle geometrie non euclidee, negava a quella euclidea il carattere di verità, riconoscendole solo l’utilità e la comodità. Pierre Duhem giudicava la scienza un simbolismo matematico convenzionale. I filosofi anglo-americani elevavano il concetto pragmatico della scienza a sistema filosofico. John, Dewey (1859-1952) riteneva che i concetti scientifici fossero soltanto strumenti utili per regolare gli eventi, senza pretesa di verità.

La fisica, regina delle scienze, scopriva la relatività delle determinazioni spazio-temporali, l’indeterminismo, la discontinuità dell’energia, il dualismo corpuscolo-onda, e la matematica cominciava a dubitare dell’intuizionismo con cui trattare le sue nozioni elementari. Tutte queste acquisizioni filosofiche e scientifiche spezzavano il legame con la precedente “ragione scientifica”, facendo passare gli operatori scientifici da una condizione di certezza a una di grande problematicità, che esigeva modelli più duttili di pensiero. Si sviluppava, così, una crescente riflessione critica e autocritica. L’epistemologia doveva misurarsi con l’ideale positivista del “massimo di datità”, che esigeva una scienza unificata, quantitativa, matematizzata e assiomatica.

1. Il problema del rapporto tra teoria e osservazione. Tuttavia i rivolgimenti causati dalla teoria della  relatività e dalla meccanica quantistica, allontanando il pensiero scientifico dall’esperienza comune, sollevavano il problema del rapporto fra la forma logica della scienza e la sua verifica sperimentale. Gli “esperimenti decisivi” (experimentum crucis) apparivano impossibili, dopo che Duhem (cfr.La teoria fisica, 1906) aveva dimostrato la possibilità di contrapporre ipotesi ausiliarie alle confutazioni sperimentali, al fine di salvare i princìpi confutati. Questa tesi “convenzionalista”, già sviluppata da Henri Poincaré in alcune sue opere (cfr. La scienza e l’ipotesi, 1900; Il valore della scienza, 1911), sarebbe stata confermata anche da Imre Lakatos (1922-1974) che più tardi avrebbe dimostrato come ogni esperimento negativo possa essere “riassorbito” attraverso opportune “convenzioni” (cfr. La falsificazione e la metodologia dei programmi di ricerca scientifici, 1970).

Il programma hilbertiano dell’assiomatica, in base al quale qualsiasi sistema teorico può essere ricavato deduttivamente dai termini primitivi e dagli assiomi, venne drasticamente ridimensionato, nel 1932, quando Gödel dimostrò che per ogni sistema assiomatico esistono formule la cui verità o falsità è indimostrabile. I tentativi di G. Frege (cfr. I fondamenti dell’aritmetica, 1884;I princìpi dell’aritmetica, 1893-1903) e soprattutto quello di B. Russell e () A.N. Whitehead (cfr. Principia Mathematica, 1910-1913) per trasformare la matematica in logica formale, capace di ricavare asserti da altri asserti, avrebbero incontrato insormontabili difficoltà.

In breve, l’enorme sforzo per collegare teorie scientifiche, osservazione ed esperimento, rivelò l’insuperabile complessità del rapporto fra protocolli osservativi e teorie, e fra i dati dell’esperienza e i sistemi concettuali che cercano d’inquadrare in modo logico e unitario tali dati. Lo sforzo della prima metà del Novecento, volto a trovare un rapporto tra logica ed esperienza che fosse univoco e conciliabile con gli sviluppi delle scienze umane e teoretiche, fallì. Tuttavia, consentì importanti acquisizioni per la filosofia del discorso e del linguaggio, specialmente con E. Cassirer (cfr. Il problema della conoscenza nella filosofia e nella scienza del nuovo tempo, 1906-1920).

Per superare le difficoltà di tale rapporto, Rudolf Carnap (1891-1970) proponeva una libera costruzione di linguaggi atti a ricevere i contenuti empirici, riformulando gli elementi dell’empirismo e positivismo in forma di “convenzionalismo” (cfr. La sintassi logica del linguaggio, 1934). Mediante l’analisi dell’espressione linguistica egli voleva dimostrare la tesi empiristica. Pertanto dichiarava vuota o tautologica ogni proposizione che non riferisse contenuti di esperienza. L’introduzione dell’interesse semantico e dei rapporti tra sintattica (parte della semiologia che studia i rapporti fra i segni, astraendo dal loro significato) e semantica (studio delle relazioni fra i segni e ciò che essi significano), arricchì l’epistemologia, ma vi introdusse nuovi problemi di non facile soluzione, quali l’integrazione dell’analisi formale del linguaggio con la sua funzione significante. Perciò rendeva necessaria una teoria del significato e dell’interpretazione.

Alfred Tarski (1902-1983), per definire la verità delle proposizioni in riferimento all’oggetto da loro denotato, introduceva la nozione di «modello»per distinguere gli insiemi di proposizioni vere o false rispetto al modello dato (cfr. Il concetto di verità nei linguaggi formalizzati, 1934; Introduzione alla logica matematica, 1937). In senso generale, la nozione di modello indica nelle scienze un insieme di ipotesi e di costruzioni complesse, ideali, intuitive e creative, con cui viene rappresentato l’oggetto di una ricerca; con l’espressione «modello matematico» si indica un insieme di relazioni quantitative, usate per formulare le teorie e verificarle, che descrivono in modo semplificato un certo numero di fenomeni. Ne risultava, però, che l’insieme delle proposizioni vere non era definibile all’interno di un dato modello. La semantica veniva a interferire pure con gli sviluppi dell’assiomatica che, nella scienza del Novecento, costituiva uno dei capitoli più ricchi di implicanze filosofiche. In particolare la teoria degli insiemi pose l’assiomatica di fronte ai problemi dell’infinito.

Il pensiero di Karl Popper (1902-1994) sulle teorie scientifiche costituisce uno dei punti salienti dell’epistemologia del XX secolo. Egli respinse l’idea che esse fossero sia sistemi di proposizioni vere, che semplici strumenti per prevedere i fenomeni. Le definì, invece, ipotesi o congetture fallibili per descrivere il mondo, la cui verità non può essere mai provata in via definitiva (verificazione). Poneva, quindi, il ruolo della razionalità nel criticarle ed identificarne limiti, errori, e difficoltà (falsificazione). Sono pure fondamentali le sue critiche al positivismo logico, la dimostrazione che, per il pensiero scientifico, la metafisica è essenziale e “consustanziale” e, infine, la difesa del realismo critico. A partire dalla metà del secolo scorso, il suo pensiero ebbe risonanza internazionale e fece concentrare sul suo“falsificazionismo”il dibattito epistemologico sulla fisica e le scienze naturali.

Si arrivò, tuttavia, a dubitare della possibilità di dimostrare definitivamente falsa un’affermazione scientifica, perché, con qualche “stratagemma” convenzionalista, sembrava fosse possibile salvare ogni teoria da qualsiasi critica. Anche il falsificazionismo venne così sottoposto a critica e l’attenzione si spostò dalla “oggettività” dei fatti alla “soggettività” e “storicità” del conoscere.

Mentre l’opera di Popper si restringeva all’ambito logico, quella di Thomas S. Kuhn (1922-1996), fisico, storico e filosofo della scienza si estese pure all’ambito storico. Egli confutò le principali correnti epistemologiche del XX secolo, come l’empirismo logico e il razionalismo critico. Il suo saggio La struttura delle rivoluzioni scientifiche (1962) costituì un tornante dell’epistemologia. Sottolineò l’importanza dell’elemento storico e scosse gli inveterati canoni empiristi e positivisti, dimostrando che: le osservazioni non sono mai pure; il progresso delle scienze non è mai cumulativo; l’unificazione della scienza è illusoria; la scienza avanzerebbe mediante sconvolgimenti e rivoluzioni, passando da un “paradigma” (modo di vedere il mondo) ad un altro.

Nel 1965, Popper e Lakatos si confrontarono, insieme con Kuhn, sulle loro opposte convinzioni in un convegno promosso dalla British Society for the Philosophy of Science e dalla London School of Economics. Kuhn insistette nel chiedere a Popper se la falsificazione fosse un confronto fra enunciati e osservazioni o piuttosto un confronto fra enunciati. Popper non rispose, accusando Kuhn di relativismo e negando l’esistenza delle sue «teorie dominanti» nella «scienza normale». Lakatos sorvolò questi punti, proponendo la sua «metodologia dei programmi scientifici» e tacciando il falsificazionismo di Popper d’insufficiente razionalità. Perciò propose la scienza come una «dialettica» fra ragione dinamica e ragione statica. Soprattutto, chiese di eliminare ogni preclusione pregiudiziale contro la  metafisica e di favorire tutto ciò che aumenta l’estensione e l’ordine del conoscere. Infine, reclamò maggiore unione tra filosofia e storia della scienza, giudicando che la filosofia della scienza è vuota senza la storia e la storia della scienza è cieca senza la filosofia (cfr. Lakatos e Musgrave, 1976, p. 336).

Sempre verso la metà degli anni Sessanta del XX secolo, Lennart Åqvist formulava la sua «teoria logica degli interrogativi» mettendo in luce che la scienza, con le sue domande, determina in partenza sia le risposte che il loro significato, escludendo così molte domande importanti, col pretesto di negare che esse abbiano senso. Egli notò inoltre che tutte le domande e i problemi hanno senso solo in riferimento a un contesto metafisico. Quindi i problemi migliori sono proprio quelli capaci di far cambiare i punti di vista ed aprire nuovi problemi metafisici o inaugurare differenti modi di guardare l’universo.

All’inizio del decennio successivo, Paul Feyerabend (1924-1994), sostenendo che il “falsificazionismo” di Popper aveva gli stessi difetti del “verificazionismo neopositivistico”, propose di sostituire entrambi con una «simmetria biunivoca fra enunciato e osservazione» o «controinduzione» (cfr. Contro il metodo, 1970; I problemi dell’empirismo, 1971). Essa consisteva nell’inventare teorie “volutamente” incompatibili con i fatti, per smascherare i contenuti ideologici delle conoscenze e delle osservazioni scientifiche. Ma questo ricorso alle conseguenze estreme, per «fare esplodere le contraddizioni del pensiero scientifico», oltre che tipico del periodo della “contestazione”, apparve teoricamente fragile e privo di sufficiente senso critico.

2. Le novità epistemologiche recate dalle nuove scienze. Fra le nuove tematiche impostesi nella seconda metà del XX secolo, il problema della mente o del “razionale” ha costituito un punto dolente del quadro epistemologico. La mente era il “fantasma nella macchina”, soggettiva e oggettiva. Razionalisti e positivisti temevano che compromettesse il carattere “positivo” della conoscenza, reintroducendo un elemento animistico nella natura; perciò volevano coordinare la mente con la natura o eliminarla. Ludwig Wittgenstein (1889-1951), nel Tractatus logico-philosophicus (1922), cercò di unificare i due itinerari e sollevò perciò un interesse eccezionale. Però, nel 1930, passato da Vienna a Cambridge, egli cambiò impostazione. Il linguaggio, visto fino a quel momento unicamente nelle sue dimensioni formali e sintattiche, veniva adesso percepito come espressione di una funzione significante più particolare, il cui fine non era più soltanto quello di rappresentare, ma anche di comunicare. Inoltre, il “mentale” non poteva scomparire, perché legato alle “origini delle assiomatiche” o, nei termini di Wittgenstein, dei «giuochi linguistici». La mente continuava a inquietare, manifestando ovunque la sua molteplice presenza.

Come poi sottolineò pure Carl Hempel (1905-1997), ipotesi e teorie scientifiche apparivano non più “derivate” dai fatti osservati, ma “inventate” per spiegarli, per cui lo scienziato doveva sbrigliare la sua immaginazione. La spiegazione scientifica veniva identificata con un modello deduttivo. Un evento diveniva spiegabile, deducendone la descrizione da asserti di leggi generali e di condizioni antecedenti. Il sistema di asserti costituiva l’unità di significanza (cfr. Hempel1961 e 1968). In questo dibattito, l’«epistemologia genetica» di Jean Piaget (1896-1980) offriva il tramite fra soggetto e oggetto (cfr. Introduzione all’epistemologia genetica, 1950). Il mentale, però, anziché scomparire, si rifletteva sul reale, tanto che, alla fine, Piaget ammise di aver raggiunto una posizione addirittura antitetica al neopositivismo. Pertanto, mutò il «gestaltismo» in «strutturalismo», dando rilievo a una delle più significative espressioni teoriche della scienza e sottolineando la consapevolezza creativa dello scienziato. Intanto, alcune scuole neurofisiologiche e cibernetiche “oggettivavano” il mentale. Ossia, i ricercatori riferivano i problemi logici e linguistici, emergenti dalla ricerca, alla realtà fisica in sé, o a livelli meta-convenzionali della conoscenza, e ritenevano che quanto era segnalato dai loro apparati conoscitivi corrispondesse a qualcosa di reale.

Mentre l’epistemologia filosofica stentava a superare il fisicalismo al cui programma, pochi, ormai, credevano, andavano affermandosi le “nuove scienze”, che affrontavano problemi sempre più avanzati. Le nuove scienze del secondo Novecento — cibernetica, etologia, ecologia, ecc. — richiamarono la necessità di nuove assiomatiche qualitative e strutturali. Volendo recuperare l’esemplarità conoscitiva della scienza, misero in luce che finora erano stati considerati soltanto gli aspetti più parziali e artefatti dell’impresa scientifica. Perciò le epistemologie più recenti si sforzarono di colmare la lacuna valorizzando la storiografia delle scienze.

La svolta semantica del “secondo” Wittgenstein aveva comunque sottolineato che il rapporto fra logica ed esperimento era mediato dall’azione (operazione) prima che dalla convenzione, per cui occorreva un giusto equilibrio tra segno verbale ed evento. In continuità con questa prospettiva, Popper aveva criticato l’oscurantismo specialistico e l’atteggiamento antimetafisico del Circolo di Vienna, intendendo superarli entrambi mediante una riunificazione del pensiero filosofico e scientifico. Kuhn, da parte sua, aveva messo in luce che il ruolo della comunità scientifica era più significativo di quello dell’individuo. Nel frattempo gli studi sulla “logica della scoperta scientifica” esploravano i retroterra delle congetture e delle ipotesi. La difficoltà maggiore consisteva, ora, nel trasformare i dati della percezione in elementi teorici. Data l’importanza e il prestigio attribuiti alle “macchine” e la difficoltà di collegarle alla mente, vennero sviluppandosi sempre più le ricerche cibernetiche sui rapporti fra mente e macchina, mente e informazione.

Dopo la metà del secolo XX, le analisi logiche e sociologiche della scienza si arricchivano di nuovi strumenti. Alle analisi epistemologiche dei filosofi si aggiungevano quelle di uomini di scienza, decisi a valorizzare la propria esperienza scientifica come vitale fattore culturale nella scuola, nella programmazione sociale e nel dibattito delle idee. P.C. Snow (1964) aveva proposto di creare un tramite tra cultura umanistica e scientifica, ma gli fu obiettato che due “mezze culture” non fanno una cultura intera, come due mezze verità non fanno una verità (cfr. Koestler, 1967). Ormai il dibattito epistemologico coinvolgeva operatori scientifici di ogni disciplina (in particolare biologi e psicologi) e aumentava le richieste di «una scienza che dialettizzi l’epistemologia dei filosofi in nome dell’autoconsapevolezza». Ricordiamo qui solo alcuni dei nomi più importanti quali H. Weil, M. Wertheimer, K. Lorenz, S. Eddington, M. Polanyi, A. Portmann, F. Jacob, A. Lwoff, L. Bertalanffy.

Recentemente, per la preponderante attenzione riservata alle scienze fisiche, l’epistemologia è stata accusata di eludere i problemi più importanti della biologia e di considerare quelli delle scienze umano-sociali solo di sfuggita. È stata invitata perciò a capovolgere tale atteggiamento.

III. Epistemologia delle scienze umano-sociali

1. Le scienze umane richiedono un concetto analogico di scienza. Il vecchio paradigma epistemologico aveva, più o meno fondatamente, suddiviso le scienze in diverse classi e gruppi: a) Scienze “empirico-analitiche” (naturali), che utilizzano la logica formale e matematica e si costruiscono partendo da una base empirica (osservazioni sperimentali e induzioni) oppure partendo da leggi e teoremi assunti in via ipotetico-provvisoria. Esse cercano di formulare previsioni e appaiono come sistemi ipotetico-deduttivi, parziali, provvisori e falsificabili; b) Scienze “storico-ermeneutiche”, volte a scoprire il significato dei documenti passati, per cogliere le continuità e le rotture nel campo storico. Esse perseguono la comprensione del passato (tradizioni) e del futuro (anticipi progettuali). Il loro metodo ermeneutico cerca di spiegare il tutto con la parte e la parte col tutto, per cogliere le correlazioni degli eventi, fra loro e con la totalità del processo; c) Scienze “umano-sociali” (psicologia, sociologia, antropologia ecc.), che intendono cogliere le fondamentali espressioni della vita personale e sociale, per regolare l’agire umano e sociale. Fra le scienze umane aventi una componente sperimentale, la medicina e l’economia, soprattutto, appaiono casi complessi e istruttivi.

Le scienze del gruppo che qui abbiamo chiamato “umano-sociali”, sono tuttora alla ricerca della loro identità e dei loro metodi, non avendo ancora potuto compiere una decisa scelta epistemologica e metodologica. Perciò esse continuano ad oscillare tra le esigenze formalizzanti, analitiche ed empirico-oggettive delle scienze naturali e quelle ermeneutiche delle scienze storico-umane. I loro tentativi di armonizzare i due diversi quadri metodologici, in mancanza di una chiarificazione di fondo, non hanno ancora dato buoni risultati. Perciò aumenta la convinzione che non potranno risolvere il loro problema, fino a che rimarranno ingabbiate nel paradigma scientifico delle scienze naturali. Pertanto, il traguardo delle scienze umano-sociali appare la conquista di una propria identità che consenta loro un legittimo pluralismo metodologico.

Ciò comporta, in primo luogo, riconoscere che i fatti umano-sociali, da loro analizzati, non costituiscono mai delle “cose”, ma sono degli “eventi” umani, caratterizzati dai valori e dai significati. Tali eventi possono essere “trattati” soltanto con metodi fenomenologici ed ermeneutici, rivolti non solo alla loro spiegazione ma, soprattutto, alla loro comprensione (cfr. Possenti, 1979, pp. 9-19). Una volta riconosciuta questa irriducibile diversità di oggetto, l’epistemologia dovrà sottolineare due fondamentali esigenze. La prima è che nessuna disciplina, da sola, può esaurire la conoscenza di una data realtà, ma può indagarne soltanto una dimensione e porzione infinitesime. La seconda è che ogni disciplina deve determinare la propria scientificità in armonia col suo specifico approccio alla realtà. Ciò vale non solo per le scienze umane, ma anche per tutte le scienze e per tutte le discipline di ogni ambito.

Questa convinzione è tanto più preziosa, in quanto consente di superare un vicolo cieco per tutte le scienze. Infatti, la scienza moderna sorta, fin dai suoi inizi, come meccanica classica, non poteva percepire i limiti del proprio modello determinista. Da allora, però, le scienze e i loro oggetti specifici si sono talmente sviluppati da rendere necessario un concetto di scienza non più univoco (meccanica classica), ma “analogico”, tale da consentire innumerevoli “modelli specifici di scientificità”. Ciò avrebbe richiesto la fissazione di alcuni criteri epistemologici della scientificità, molto generali e “analogici”, quali il “rigore” e l’“oggettività” (vedi infra, IV). Il vecchio paradigma scientista, invece, legato alle scienze della natura e al presupposto dell’assoluta certezza del sapere scientifico (meccanicista e determinista), scelse dei criteri “univoci” molto restrittivi, quali la deduttività, l’universalità e la necessità, che riducevano drasticamente e indebitamente i confini della scientificità, rendendola un concetto “univoco”. Di qui le notevoli difficoltà per le scienze umano-sociali, in particolare, e per tutte le discipline in generale.

Pertanto, le discipline umano-sociali dovettero attendere l’inconfutabile dimostrazione del carattere parziale, provvisorio, congetturale e fallibile di tutto il sapere scientifico, per recuperare lo spazio necessario alle loro legittime esigenze. Attualmente, l’emergere dei problemi della complessità sposta l’interesse dell’epistemologia ulteriormente a loro favore. Pertanto, non si può escludere che le scienze della natura, in futuro, debbano ispirarsi a un’epistemologia della complessità, sviluppata proprio per le scienze umano-sociali.

2. La peculiarità delle scienze economiche. Fra le varie discipline, come si è detto, l’economia costituisce un caso molto interessante e forse unico, per la sua particolare natura epistemologica. Nata nel contesto di un’imitazione pressoché totale delle scienze naturali, nel secolo XX vide crollare ripetutamente le sue sicurezze scientiste, scossa dalle crisi dei dopoguerra, dal malessere degli anni Sessanta e dalle stagnazioni, inflazioni e recessioni dei decenni successivi. Nonostante ciò, è rimasta fra le ultime ad avviare una propria riflessione epistemologica, ritenendo che essa non potesse risolvere i suoi problemi.

Di conseguenza, alla fine degli anni Ottanta non era ancora disponibile un testo «introduttivo, chiaro e comprensibile» di metodologia dell’economia (cfr. Pheby, 1991, pp. 5-6). Gli economisti non ritenevano “adatte” le epistemologie di Popper, Kuhn, Feyerabend, Lakatos, Laudan, ecc. Ne criticavano le induzioni approssimative e poco affidabili, l’insufficienza degli approfondimenti teoretici, la costruzione di grandi sovrastrutture su elementi virtuali. Esse, in realtà, avevano consentito di muovere riserve alle formule matematiche, come modelli irreali senza utilizzi, verifiche empiriche e informazioni significative; di vedere la macroeconomia come una misurazione senza teoria, di notare i pregiudizi naturalisti-meccanicisti che rendevano incompatibili microeconomia e macroeconomia. Nonostante ciò, pochi economisti accettarono le critiche di Popper e continuarono a verificare anziché falsificare le teorie (cfr. Pheby, 1991, pp. 36-39; 52-61). Di Kuhn accettarono la critica del falsificazionismo popperiano, ma non l’idea che la scienza operi per “paradigmi”, che giudicarono vaghi e inadatti alla sottigliezza e complessità economica (cfr. Lakatos e Musgrave, 1976).

Lakatos, quindi, tentò una sintesi delle precedenti epistemologie proponendo un falsificazionismo “sofisticato”, volto a salvare i gruppi di teorie mediante i programmi di ricerca, ma negando la fine dei paradigmi. Non riuscì, comunque, a unire i criteri di demarcazione e falsificazione, perché in economia: mancano definizioni rigorose dei concetti chiave; mutano le realtà cui si riferiscono; non si possono riconoscere in anticipo le anomalie; è difficile distinguere “assiomi fondamentali” ed “euristiche positive”. Laudan propose, allora, le “matrici disciplinari” o insiemi ordinati di elementi condivisi in una data disciplina. Tale disputa eccessivamente metodologica trascurò i temi più generali e fondamentali del significato e dell’etica dell’economia, proprio quando le scoperte dei condizionamenti occulti della scienza, della complessità dei processi e delle dipendenze socioculturali avevano confutato le pretese di assolutezza del discorso scientifico e confermato l’etica come una dimensione ineliminabile dell’attività scientifica (cfr. Gismondi, 1997).

Nel secolo XX grandi crisi economiche e mali endemici (pauperismo, diseguaglianze, disoccupazione, ecc.) confermano i limiti ed errori di una pretesa razionalità economica, mostratasi bisognosa di nuove prospettive e profonde revisioni. Urge l’analisi dei caratteri ermeneutici, retorici, comunicativi del suo discorso e la critica delle sue teorie dalla vita media assai bassa. Le occorre un’epistemologia aperta alle grandi questioni della convivenza sociale e politica alle quali è ancorata. Sono quanto mai interessanti, al riguardo, i nuovi modelli della “razionalità solidale”, basati su relazionalità, solidarietà e reciprocità, ispirati a una visione integrale dell’uomo e più adeguati alle esigenze della società civile (cfr. Gismondi, 2000).

IV. Strutture e criteri generali della scientificità

1. Pluralismo metodologico e scientificità analogica. Le precedenti note sul caso tipico delle scienze economiche mettono in luce che il semplice riconoscimento del “pluralismo epistemologico” non basta, poiché occorre ridefinire, prima, i criteri generali della scientificità e, quindi, di questo metodo scientifico. Oggi ciò sembra possibile, a partire da tre esigenze fondamentali per ogni disciplina. La prima è la “coerenza logico-programmatica”, ossia la capacità di adeguare le osservazioni e le verifiche alla realtà. La seconda è la “capacità di spiegare e anticipare”, ossia di formulare previsioni attendibili. La terza è la “capacità di auto-riorganizzazione”, ossia di adeguarsi continuamente alle crescenti necessità delle proprie ricerche. Queste esigenze provvedono una “struttura generale della scientificità”, che consente ad ogni disciplina di elaborare una rigorosa scientificità intrinseca, appropriata alla sua identità e sempre riadeguabile ai suoi compiti nuovi o accresciuti. Infatti, la “coerenza logico-programmatica” risponde all’esigenza di rigore e di oggettività e la “competenza” e “capacità di auto-riorganizzazione” consentono di riadeguare la scientificità a ogni nuova emergenza. Adottando tali esigenze, il cui valore per l’attività scientifica è del tutto generale, si avrebbe anche il vantaggio di non costringere più le scienze umano-sociali a elaborare teorie eteronome, “oggettivate” e “orientate al potere”, copiandole dalle scienze naturali. Potrebbero, invece, elaborare proprie teorie autonome, adatte alla comprensione dei loro oggetti e capaci di elevare l’auto-comprensione dell’uomo, per renderlo più consapevole del suo agire, in piena aderenza al loro “specifico”.

Occorre dunque sviluppare un “pluralismo epistemologico”, che legittimi la “pluralità di modelli e di tipi di scientificità” adeguati alle esigenze delle diverse ricerche. Tale pluralismo, fondato sul carattere analogico dei concetti di scienza e di scientificità, ben si addice alla crescente gamma delle scienze contemporanee e dei loro metodi, di cui facilita ogni sviluppo. Poiché si basa su un ideale di scienza molto esigente, costringe le diverse discipline ad elaborare congrui modelli di scientificità. Questo aspetto è molto importante, perché evita ogni frammentazione metodologica e consente di sviluppare un concetto di analogia della scientificità e delle scienze, non arbitrario, ma basato sull’analogia fondamentale dell’essere.

L’analogia fondamentale dell’essere è un concetto classico della filosofia, che sottolinea l’esistenza di tratti comuni fra tutti gli esseri e i loro elementi. Su di essa si fondano i rapporti, le somiglianze e le qualità che la mente umana coglie nelle più diverse realtà ed esprime nei suoi concetti. Perciò fu ampiamente utilizzata dalla filosofia e anche dalla teologia cristiana. Nel loro ambito ha consentito di cogliere ed esprimere l’infinita perfezione del Creatore, che si rifrange nella gamma indefinita delle creature. Pertanto su di essa si fonda quella intelligibilità delle cose che non viene esaurita da un unico modello di conoscenza (scienza), ma si svela alle molteplici e autonome forme del sapere.

L’analogia dell’essere offre all’epistemologia la possibilità di una fondazione metafisica e gnoseologica, che consente di riconoscere l’essere come unitario e pluralistico, gerarchizzato su più livelli distinti, ma unito da una fondamentale relazione che è, appunto, l’analogia dell’essere. Su questa base, l’epistemologia sarà in grado di riconoscere l’analogia, il pluralismo e la polivalenza delle realtà che le competono e di esprimerle mediante i modelli e le forme più appropriate. Pertanto, il riconoscimento della scientificità analogica e del pluralismo epistemologico può garantire l’autonomia, la libertà e la competenza specifica di ogni disciplina e di ogni ambito di conoscenza: scienze, filosofia, etica, religione, teologia. Inoltre, consente di superare quell’opposizione fra conoscere e valutare, che faceva escludere dal discorso scientifico i valori etici e le norme morali.

Una simile nuova epistemologia esclude ogni concordismo riduttivo e confronta le risultanze piùsignificative delle ultime ricerche scientifiche, con l’enorme patrimonio di esperienze, intuizioni e pensiero, accumulato dall’uomo attraverso l’arte, la filosofia e la religione. Da quando lo «scandalo dell’episteme impedita», denunciato da Henri Bergson e Gaston Bachelard, è stato rimosso, l’attività simbolica non è più considerata un residuo di superstizione, di barbarie, d’inciviltà, di “oscurantismo religioso” o di primitività preistorica e “teologica”. La filosofia contemporanea la riconosce come l’espressione più specifica e congeniale all’homo sapiens e perciò ne autorizza la collocazione al centro dell’attività di ominizzazione, di umanizzazione e di autocostruzione cosciente, dei più elevati processi razionali.

Trattando di scientificità, occorre ricordare che l’idea di scienza come sapere autentico ormai è penetrata profondamente nella mentalità contemporanea. Tuttavia, il senso comune riferisce la scientificità non tanto ai contenuti, ma agli atteggiamenti, ai pensieri e ai discorsi improntati a rigore e oggettività, qualunque sia l’ambito cui essi si riferiscono (cfr. Agazzi, 1979, pp. 57-59). Tale atteggiamento appare più realistico di quello degli specialisti, insabbiati nelle interminabili e inconcludenti discussioni sulle distinzioni delle scienze (idiografiche, nomotetiche, della natura, dello spirito, dell’uomo, della società o di quant’altro si voglia). La corretta intuizione dell’uomo comune consente di liberare il “modulo della scientificità” dal riduzionismo metodologico che appiattiva radicalmente i metodi su un unico modello. Il pluralismo esige il rispetto soltanto di ciò che è essenziale ed evita tanto d’imprigionare il metodo nella rigida gabbia di una o poche scienze privilegiate, quanto di diluirlo in generici ed eterogenei atteggiamenti intellettuali. Nel primo caso, uno solo sarebbe discorso scientifico, nel secondo caso lo sarebbero tutti. Ciò chiarito, passiamo alle esigenze poste dal “rigore” e dall’“oggettività”.

2. Il rigore scientifico. Nel discorso sul rigore scientifico va osservato che, negli ultimi decenni, le tecniche di quantificazione e matematizzazione sono retrocesse in seconda linea, mentre sono avanzate al primo posto le componenti fondamentali: dati, ipotesi, spiegazioni, verifiche e previsioni. Questo mutamento ha attenuato alcune difficoltà delle scienze umane, permettendo di focalizzarne meglio i punti che le rendevano vaghe e insoddisfacenti.

A differenza delle scienze naturali, nelle scienze umane è innanzitutto il concetto di “dato” a soffrire di una notevole imprecisione. Parlando di dati, i fisici non sono quasi mai in disaccordo, mentre psicologi e sociologi lo sono quasi sempre. Per questo trovano estremamente difficile riconoscere se certe regolarità (non i semplici fatti isolati) siano un dato o meno, e questa incertezza condiziona tutto il resto. Pertanto, raramente riescono ad evitare le contraddizioni tra le ipotesi, considerate soltanto congetture plausibili, e i dati disponibili. La loro difficoltà consiste nel passare da una vaga plausibilità, a una spiegazione logica e coerente dei dati, basata su ipotesi ben formulate. Manca loro un albero logico, corretto e privo di smagliature, che consenta tale dimostrazione. A maggior ragione le ipotesi concorrenti dovrebbero confrontarsi, non su una generica compatibilità con i dati, ma sulla correttezza di tutto l’itinerario logico, che va dalle ipotesi ai fatti, per mezzo delle spiegazioni. Un altro punto critico delle scienze umane è la loro difficoltà di “corroborare” le ipotesi mediante previsioni e verifiche (o falsificazioni) indipendenti. Da ciò risulta che la difficoltà non riguarda, in primo luogo, i metodi matematici, ma l’adozione di “cornici metodologiche” più generali, che consentano il rigore proprio di una vera scientificità.

In breve, tutte le scienze potrebbero convenire sulla base metodologica comune di: a) raccogliere dati in modo rigoroso e oggettivo per giungere a determinare i parametri essenziali; b) formulare proprie ipotesi interpretative; c) corroborarle con ulteriori indagini di campionatura, per ottenere dati da interpretare e spiegare nel quadro di una determinata teoria; d) programmare efficacemente determinati obiettivi, architettando concatenazioni di nessi logici che conducano dalle ipotesi agli eventi desiderati. Questo schema generale del rigore scientifico appare attuabile, sostanzialmente, anche dalle scienze umane (cfr. Agazzi, 1979, pp. 67‑69).

3. L’oggettività scientifica. Il discorso sull’oggettività, a sua volta, è più complicato. Il termine riveste due significati: il primo è la «non dipendenza dal soggetto» o, più esattamente, la «inerenza all’oggetto»; il secondo indica «riferimento solo a determinati oggetti» (cfr. ibidem, pp. 69 e 73). L’inerenza all’oggettoesprime il senso forte dell’oggettività, mentre la non dipendenza dal soggetto ne esprime il senso debole. Infatti, una caratteristica inerente all’oggetto vale per tutti i soggetti, ma non viceversa. Quindi, l’intersoggettività, o indipendenza dai soggetti, è assai più debole dell’inerenza e non può caratterizzare l’oggettività.

Il passaggio filosofico dall’oggettività forte dell’inerenzaa quella debole dell’intersoggettività avvenne da Cartesio a Kant, che compromisero la speranza di poter conoscere l’oggetto. Infatti, dopo che Kant sostenne l’inconoscibilità della cosa in sé, i suoi successori si accontentarono dell’oggettività minima, ossia del puro superamento della soggettività. Lo stesso avvenne nella scienza che, da Galilei fino agli inizi del secolo XIX, si propose come forma decisiva di “inerenza”. Il suo ripiegamento sull’intersoggettività è recente e si deve alle discussioni epistemologiche sollevate dalle teorie della relatività e dall’indeterminismo, dalla disputa sui fondamenti, dall’esigenza di affrancare le scienze umane e sociali da quelle fisiche, dai problemi della complessità, dai dibattiti sulla scientificità della psicanalisi, dalla critica della Scuola di Francoforte ecc. Oggi, in conseguenza di questo nuovo stato di cose, si può parlare degli «oggetti scientifici» non come di «qualcosa che esiste» ma come di «qualcosa che si conosce». Il discorso scientifico diviene un modo di conoscere che non può fare a meno dei soggetti. Intersoggettività significa, quindi, che ciò che si dice su «qualcosa che si è conosciuto» deve essere riconoscibile da tutti e non soltanto da chi lo dice.

Il ruolo dell’intersoggettività può essere chiarito da un noto esempio. La nozione di «nero» risulta intersoggettiva quando, in un gruppo, un soggetto che invita gli altri a prendere gli oggetti neri contenuti in una sala vede prendere gli stessi oggetti che avrebbe preso lui. L’intersoggetività quindi, si attua mediante “definizioni operative” (o nozioni d’uso) che consentono azioni visibili e controllabili (scegliere il nero). Senza definizioni operative, ai soggetti non resterebbe che raccontarsi i contenuti interiori delle proprie esperienze individuali, cosa che, per alcune scienze, risulta impossibile o irrilevante. Questo dimostra pure che l’oggettività scientifica è contingente e relativa a un determinato contesto socio-culturale, che la conoscenza non parte mai da zero, ma da un dato livello di conoscenza e che la sua comunicazione è possibile solo in un preciso contesto culturale. Ogni scienza, quindi, elabora i suoi criteri operativi per le intese intersoggettive conformi alle sue esigenze, nel rispetto del contesto socio-culturale (culturalità del fenomeno “scienza”).

Chiarito ciò, torniamo al secondo senso dell’oggettività, riguardante i discorsi “riferiti a oggetti precisi”. Qui il problema di ogni scienza è di caratterizzare i suoi oggetti. Inizialmente gli oggetti potevano coincidere con le “cose”: astri per l’astronomia, piante per la botanica, animali per la zoologia ecc. In seguito la stessa “cosa” divenne oggetto di molteplici scienze. Perciò gli “oggetti” vennero distinti in base al punto di vista (prospettiva) di ogni scienza. L’espressione “punto di vista”, però, risulta imprecisa. Appare sintomatico, quindi, che la meccanica esordì precisando che il suo oggetto consisteva nel «parlare delle cose ricorrendo esclusivamente a tre predicati» (massa, spazio, tempo) e a pochi altri predicati definibili in base ad essi. Questo modo di esprimersi apparve corretto e preciso. Perciò possiamo dire che ogni scienza determina il proprio oggetto, determinando i predicati specifici in base ai quali intende parlare di una determinata cosa, attenendosi sempre ad essi. Quindi, il compito fondamentale di ogni disciplina consiste nel costruire proposizioni vere, attenendosi esclusivamente ai propri predicati fondamentali e a quelli definibili a partire da essi. La verità di tali proposizioni potrà essere accertata, unendo i predicati e le nozioni d’uso a definizioni operative, che consentano di verificare la loro coerenza.

In sintesi: una scienza definisce la propria scientificità elaborando i predicati-base operativi che, partendo dalle cose, le consentono di determinare il proprio oggetto e di formulare i suoi “dati”, ossia le “proposizioni immediatamente vere sugli oggetti”. Con questo, si recupera il “senso forte” dell’oggettività, nel discorso scientifico che, tuttavia, riguarda solo gli “oggetti” della scienza, che non vanno confusi con le “cose” dell’esperienza quotidiana. Gli oggetti, infatti, sono “costruiti metodologicamente”, nel modo appena descritto, che elimina la distanza fra il discorso scientifico e il suo oggetto, ma non fra il discorso scientifico e le cose. Questa impostazione fa coincidere le due “forme” di oggettività, perché i predicati vengono introdotti “operativamente”, grazie alle stesse operazioni che consentono l’accordo intersoggettivo. In altre parole: le condizioni che determinano gli oggetti di una scienza, sono le stesse che consentono di conoscere tali oggetti inter-soggettivamente.

Quel che più conta, in tutto questo discorso, è che esso vale per tutte le scienze, perché costituisce uno schema generale applicabile a ogni disciplina. Perciò ogni scienza particolare dovrà soltanto provvedere a esplicitare i predicati del “suo” punto di vista (psicologico, sociologico, storico, politico, teologico, ecc.) e corredarli degli strumenti d’intesa operativa, che consentano di riconoscere vere o false le proposizioni contenenti quei predicati. Dovrà, poi, formulare ipotesi esplicative, contenenti quei predicati, finalizzate a una relazione semantica fra la teoria e gli oggetti di cui parla. Pertanto, le scienze dovranno dedicarsi prima alla «formazione dei concetti», poi alla «costruzione delle teorie», perché i problemi delle teorie sono risolvibili solo dopo aver risolto quelli dei concetti.

V. Problemi attuali e future prospettive

Queste considerazioni sui problemi del passato c’introducono a quelli del presente e alle prospettive per il futuro. In quest’articolazione s’inseriscono le questioni sollevate, nel periodo postmoderno, dal pensiero debole, che propone pure un “pluralismo debole”. Pensiero e pluralismo debole ritengono che la realtà sia irriducibile ad un’unità astratta. Non volendo essere costrittivi, né compromettere la diversità e complessità, respingono ogni classificazione, giustificazione e fondazione (cfr. Deleuze, 1971, pp. 59, 66-68; Derrida, 1969, pp. 67-68, 77-78). Per questo, il pensiero debole è considerato un figlio di quell’ermeneutica che relativizza le differenze ma non supera la contingenza, che considera un fenomeno positivo e ultimo. Alcuni apprezzano la sua confutazione delle assolutizzazioni del pensiero forte e delle sue pretese di essere privilegiato o esclusivo e aggiungono che, comunque, lascerebbe spazio a una verità tendenzialmente assoluta ma sempre aperta. Difenderebbe, quindi, contro il pensiero forte, la ragionevolezza dell’argomentazione e la razionalità della fondazione. Di conseguenza, la conoscenza scientifica non potrebbe più pretendere di esaurire interamente la percezione, né di sostituirsi ad essa, né di superarla definitivamente o renderla superflua.

Così inteso, il pensiero debole faciliterebbe, alla scienza, la consapevolezza che il vissuto e lo spontaneo sono irriducibili ai vari progetti di ordine, di metodo o di sistema, mentre a tutti i saperi ricorderebbe i rischi e i limiti a loro inerenti (cfr. Brena, 1995, pp. 282-285, 287). Quest’attenzione al concreto, al corporeo, al vissuto e all’inesauribile verrebbe pure rafforzata, spingendo a guardare la dimensione non solo oggettiva, ma anche personale, etica e religiosa della verità, di fronte alle quali nessun discorso può mai essere neutrale, neppure quello scientifico. Per le scienze umano-sociali la neutralità, quindi, si configura solo come rispetto dei valori e delle esperienze di ogni persona. Per la filosofia e soprattutto per la teologia, invece, la neutralità significherebbe la rinuncia a pronunciarsi su ciò che è veramente significativo e conta al di sopra di tutto. Il presunto dilemma fra neutralità o intolleranza può essere superato in un contesto di dialogo, di ricerca comune della verità e d’illuminazione delle scelte di fondo.

Che questi diano le maggiori garanzie e risultati, lo dimostra lo stesso ateismo metodologico, che esigeva di escludere ogni rilevanza di Dio per la comprensione della realtà. Pure questo, infatti, si è mostrato un forte fattore di tolleranza. A esigerne il superamento, tuttavia, non è questo limite né la sua degradazione in ideologia, bensì il chiaro emergere, a livello epistemologico e gnoseologico, che nessuna realtà può essere compresa correttamente e pienamente, tralasciandone o escludendone le relazioni con l’ulteriore, il trascendente, Dio e la vita umana (cfr. Brena, 1995, pp. 290-296). Lo stesso Habermas ha dimostrato che l’interesse delle scienze non può essere puramente conoscitivo, ma si estende a quello etico, che è ineliminabile dalle scienze perché, essendo universalmente umano, è del tutto rilevante pure per l’interesse teorico (cfr. Habermas, 1970, pp. 46-66; 1971, pp. 48-56).

Ciò che risulta maggiormente dal dibattito degli ultimi anni è che il problema dell’unificazione epistemologica non può ignorare il fatto che in tutti i gruppi di scienze — fisico-naturali (fisica, chimica, biologia ecc.), formali (logica, matematica), umano-sociali (antropologia, psicologia, economia, sociologia ecc.) e riflessive (filosofia, teologia) —, si trovano, in grado maggiore o minore, gli elementi e i momenti conoscitivi che costituiscono il metodo, anche se ogni singolo gruppo e disciplina sviluppa in modo ottimale solo quelli che più li riguarda. Gli strumenti e i modelli fondamentali che fondano l’unità della conoscenza, infatti, non sono esclusivi di nessun gruppo di scienze, né di nessuna disciplina. In definitiva la loro unità è fondata più su quelli che sul metodo, mentre la loro diversità deriva dal loro specifico fine conoscitivo che ne costituisce gli oggetti. Le scienze, dunque, sono legate al loro contesto che comprende, da un lato la conoscenza prescientifica della realtà che, in quanto sensata, va rispettata, dall’altro la pluralità correlata di interessi e saperi conoscitivi. Le verità scientifiche sono, insieme, assolute e incomplete, vale a dire, in parte innegabili e definitive e in parte da completare e superare (cfr. Brena, 1995, pp. 300-304).

Quanto all’aspetto, o dimensione ermeneutica, della conoscenza scientifica la recente epistemologia cerca una risposta alla difficoltà sia di dimostrarla che di circoscriverla e differenziarla da un’ermeneutica universale del sapere. A tal fine è stata proposta un’epistemologia che ponga nell’applicabilità tecnica il criterio peculiare e distintivo delle proposizioni scientifiche (cfr. Buzzoni, 1995, pp. 8,71; Hacking, 1987; Tiles, 1993). La soluzione si troverebbe nel nesso intrinseco fra mediazione teorica (significati) e riproducibilità tecnica (apparati tecnologico-strumentali). Il circolo ermeneutico sarebbe dato dal fatto che le applicazioni passate di un termine, di una teoria e di una regola metodologica, rimangono essenziali per comprendere il senso di ogni nuova applicazione e, a sua volta, ogni nuova applicazione di un termine, teoria o regola, costringe a reinterpretare, dal punto di vista di queste, tutte le applicazioni del passato.

Questa proposta riguarderebbe pure la storia della scienza, poiché la natura storiografico-ermeneutica delle scienze empiriche deve rimanere sempre strettamente connessa con la natura tecnica del sapere scientifico. La dimensione ermeneutica del progresso scientifico consisterebbe nel fatto che la scienza può approfondire la conoscenza della realtà empirica solo se è in grado di ricostruire e riassumere la storia scientifica precedente. La riproducibilità tecnologica, pertanto, è essenziale per non ridurre tale sintesi o ricostruzione a una semplice storiografia. La dimensione ermeneutica della scienza risiede nel raffinare e determinare, con crescente precisione, il significato dei termini fondamentali. Essa, però, è inseparabile dall’esigenza di espandere pure le possibilità tecniche dell’azione umana. Per essere migliore, quindi, una teoria deve offrire una sintesi migliore, non solo della storia passata della scienza, ma anche delle passate applicazioni tecniche.

A queste nuove proposte epistemologiche se ne aggiunge un’altra, i cui caratteri e aspetti hanno un certo rilievo. Essa sottolinea l’esigenza di un discorso epistemologico che si colleghi al cuore della tradizione filosofica e ne valorizzi l’immenso patrimonio. Auspica, quindi, un discorso che sia pure qualitativo e libero dai vincoli postmoderni, sociologizzanti, analitici, formalistici, quantitativi, logico-linguistici, ecc. A tal fine, dovrebbe unire la dimensione epistemologica a quella gnoseologica (filosofia della conoscenza), privilegiando il mondo della vita rispetto alla pura logica e metodologia che, da sole, non consentono mai risposte definitive e convincenti (cfr. Boniolo, 1999, pp. 6-13). Ricordando la fase di stallo, nel dibattito fra le teorie prima descritte, sottolinea che il suo superamento può aversi se, invece di analizzare le teorie, si sposterà l’attenzione sul modo di comportarsi nei loro confronti (cfr. ibidem, pp. 36-41). Per giungere a ciò, tuttavia, occorrerà superare un altro comportamento negativo, quello che giudica proposizioni, tematiche e problematiche di ordine etico e metafisico non rilevanti per la scienza.

Che tale atteggiamento sia superficiale e acritico è dimostrato dallo stesso linguaggio usato dagli operatori scientifici, che ha portato gli epistemologi ad accantonare questo tipo di proposizioni, usando sbrigativamente due categorie: scienza e “tutto il resto”, ossia “non scienza”; nella “non scienza”, tuttavia, vi sono pure le proposizioni che costituiscono le condizioni incondizionate delle proposizioni scientifiche. Esse sono assai più che semplice “non scienza”. Sono esse, infatti, che consentono le teorie scientifiche come rappresentazioni “ipotetiche” del mondo, utili per conoscerlo e viverci e variabili nelle diverse epoche e situazioni culturali. Prima e sopra di queste vi sono le filosofie personali, che forniscono le rappresentazioni doxastiche, ossia che danno un senso al mondo e alle stesse teorie scientifiche. Esse non adempiono a quest’unica funzione, poiché presiedono pure ai programmi di ricerca epistemologica e scientifica e danno spazio agli insiemi di presupposti logici (classici o altri) che determinano le regole per strutturare logicamente le proposizioni scientifiche e non scientifiche.

Le teorie scientifiche, infatti, sono connesse-a, o attraversate-da, reti di presupposti che le spingono a dotare le loro rappresentazioni dei caratteri volti a dare un senso alla realtà che rappresentano, come pure a se stesse. Dalle rappresentazioni doxastiche dipendono pure i modelli costruiti come riproduzioni di relazioni ipotetiche fra i dati, per dare loro una comprensione globale e uniforme e consentire previsioni. Gli esperimenti globali esplorativi, infine, sono ragionamenti chiarificatori, volti a esplorare zone non ancora chiare di un certo ambito teorico, o chiarire il significato e la portata teorica dei concetti o dei loro insiemi (cfr. Boniolo, 1999, pp. 62-85, 130, 164). Questa proposta epistemologica formula pure, su queste basi, una teoria dell’avanzamento o progresso della conoscenza scientifica. Come si vede, queste ultime proposte affrontano numerosi nodi dolenti, dilemmi irrisolti, debolezze, limiti e vicoli ciechi delle epistemologie elaborate nel secolo XX. A un primo sguardo appaiono promettenti, tuttavia, i loro sviluppi, conseguenze, limiti e risultati emergeranno dal dibattito del XXI secolo.

VI. La questione epistemologica nel dialogo fra fede e cultura scientifica

Dal punto di vista dell’epistemologia, nella seconda metà del XX secolo, il pensiero scientifico sembrava più disposto a ridimensionare le vecchie pretese di totalità, esclusività e assolutezza e a superare l’eredità dello scientismo. Sembrava pure più aperto a riconoscere la consapevolezza dei propri limiti. La cautela degli operatori scientifici sembra aumentare pure riguardo alla critica degli altri saperi e all’esclusione di mediazioni razionali, quali la conoscenza analogica, la metafora, il simbolo e il mito ecc. Molti cominciano a considerarle invece insostituibili e basilari per ogni attività razionale, compresa la scienza. Sembrano infine crescere quanti riconoscono che l’uomo potrà dirsi ancora sapiens, solo valorizzando le sue prerogative e qualità di homo symbolicus e religiosus. Inoltre, l’analisi delle componenti della scienza ha mostrato le ragioni storiche e logico-concettuali del continuo variare dei modelli di scientificità. Tutto ciò spiega perché la scienza moderna, agli inizi del secolo XX considerata ancora come un blocco monolitico, alla fine di esso sia apparsa come un fluido perennemente alle prese o in lotta con le proprie difficoltà e contraddizioni. Per arrivare a superarle le occorrono sforzi, affinamenti e ricerca di sempre nuovi modelli di scientificità.

Sono emerse, tuttavia, le nuove sfide della complessità e del suo significato culturale, per le quali questi ulteriori passi non bastano, ma esigono un’epistemologia aperta a nuove esigenze assai più impegnative di quelle considerate finora. Senza tali aperture l’epistemologia non potrà divenire la “filosofia della scienza” che molti auspicano, ma che è rimasta finora inattuata. Una riflessione veramente filosofica sulla scienza, infatti, deve affrontare compiti critici assai più ampi e profondi di quelli metodologici, ai quali ci si è finora quasi esclusivamente limitati. Anche questi sono indispensabili, tuttavia la riflessione filosofica ne esige altri, ancor più essenziali e di profilo più elevato. Non si tratta solo dei problemi fondazionali ma anche di quelli gnoseologici, etici, antropologici, metafisici, e teologici, che stanno al centro di ogni vera cultura. Essi riguardano i temi specifici dell’umanesimo scientifico e della cultura scientifica, e quelli legati alla maturazione delle coscienze e alla soluzione dei grandi problemi socio-culturali dell’umanità. Occorre, quindi, una filosofia della scienza che assuma, come impegno urgente e prioritario, lo sviluppo di una viva sensibilità e responsabilità del mondo scientifico verso gli interrogativi, le problematiche e le istanze di approfondimento dei valori trascendenti ed etico-morali, che emergono dal continuo avanzamento delle ricerche e dalle loro applicazioni.

Grazie agli sviluppi del “pensiero sulle scienze” (epistemologia, storia, filosofia) che completa e supera i limiti invalicabili dal “pensiero delle scienze”, le condizioni attuali appaiono più favorevoli a questi approfondimenti rispetto al passato. Il pensiero sulle scienze, quindi, deve concentrarsi sempre più sull’immenso patrimonio di esperienze-delle e riflessioni-sulle scienze, accumulato finora. Esso è stato valorizzato soltanto in minima parte, come ammettono i più avveduti uomini di scienza. Secondo le loro significative autocritiche, la scienza: a) non ha prodotto cultura; b) assieme alla logica non è entrata nel patrimonio culturale dell’umanità; c) ha permesso allo scientismo di deformare totalmente la propria immagine e alla cultura dominante di stravolgere i propri valori; d) ha contribuito a notevoli mistificazioni culturali (cfr. Zichichi, Perché io credo in Colui che ha fatto il mondo, Milano 1999, pp. 98-99). Una, ad esempio, è quella di far credere che la scienza moderna derivasse da una rigorosa razionalità opposta alla fede. I suoi fondatori, invece, da Galilei a Newton, fino a molti scienziati contemporanei, furono tutti sinceri credenti, spinti dalla loro fede a cercare l’impronta della straordinaria potenza e intelligenza del Creatore, in tutte le cose del creato. All’inizio si trattò di oggetti semplici e volgari, come pietre, legni, spaghi, ecc. studiati da Galilei (cfr. Il Saggiatore, in Opere, vol. VI, p. 232); più tardi si trattò di quelli più complessi e sofisticati, come quarks, antimateria, superstringhe ecc. Una seconda mistificazione fu la pretesa che la scienza fosse in grado di spiegare tutto ciò che vi è nel mondo, mentre i massimi scienziati riconobbero che, nella sua totalità, l’immensa e complessa Logica espressa dal Creatore, supera sempre ogni comprensione scientifica.

Questa riscoperta umiltà intellettuale, come via maestra per indagare il disegno divino nel gran libro della natura e cercarne la verità, tenendosi sempre ancorati alla realtà, può ricevere interessanti sviluppi (cfr. Zichichi, 1999, cit., pp. 118-122). Occorre, però, passare dalle ormai logore e obsolete dispute sulle mistificazioni delle scienze, le loro conseguenze, e i presunti conflitti fra scienza, Sacra Scrittura e fede, a un più preciso impegno per sviluppare e valorizzare il significato culturale del grande patrimonio delle scienze. Si tratta di passare dalla critica dei discorsi, teorie e immagini scientifiche dell’universo e del loro carattere parziale, provvisorio, mutevole, storicamente datato e condizionato, o del loro aspetto strumentale, al loro significato di orizzonti e scenari culturali, in cui l’uomo attua le sue esperienze artistiche e religiose, le sue riflessioni filosofiche e le ricerche scientifiche. Si tratta di analizzarne i collegamenti con le realtà della fede, senza mai confonderle con esse. Si tratta di approfondirne i problemi gnoseologici, metafisici, etici e religiosi sollevati dalla crescita esponenziale delle scienze, per ricavarne i “valori” e i significati autentici della scienza. Su tutto ciò la fede e la lunga esperienza del pensiero cristiano hanno molto da offrire.

Sempre nella prospettiva umanistica e culturale della scienza, svanito il fascino delle “rivoluzioni” epistemologiche, appare più fecondo l’approfondire i modi in cui il pensiero scientifico, più che rivoluzionare le acquisizioni passate, tenda a correggerle, integrarle e completarle. Egualmente fruttuosa può essere la riflessione sul fatto che le leggi fondamentali a valore universale esistono veramente e non sono arbitrarie astrazioni. A un livello superiore si pone il problema delle ragioni per cui il discorso scientifico: a) limitato all’Immanente non può ignorare il Trascendente; b) impegnato a rifiutare dogmatismi e ideologie dell’Immanente, non può negare le verità del Trascendente. Un altro fenomeno sempre più imponente è rappresentato dai nuovi problemi che gli sviluppi scientifici sollevano ogni giorno per l’umanità. Molti non si sanno ancora risolvere e saranno forse risolti fra molto tempo. Alcuni, forse, non lo saranno mai. Essi non sono puramente epistemologici, ma pure gnoseologici, antropologici, etici, religiosi e metafisici.

La scienza come insieme di problemi umani, importanti, ma irrisolti, costringe ad una profonda umiltà intellettuale, che sta agli antipodi di ogni arroganza ideologica e supponenza filosofica. In più, gli storici della scienza rilevano che menzogne e inganni non sono rari neppure nei ricercatori (cfr. Di Trocchio, 1995, pp. 311-335 e 1998, pp. 245-270). Ciò avviene nonostante la scienza educhi a riflettere, a non giudicare affrettatamente, a verificare continuamente, a pensare in termini oggettivi e non emotivi, ad ammettere come compatibili e necessari elementi che apparentemente sembrerebbero escludersi (la luce come onda e particella), ecc. Gli sforzi per superare i pregiudizi e tutti questi problemi fanno dell’attività scientifica una vera ascesi verso i più autentici atteggiamenti umani. Occorre riflettere, quindi, sulle ragioni per cui, nei quattro secoli di esperienza scientifica moderna, i relativi valori non si siano affermati nella cultura, intesa nella sua dimensione antropologica più profonda.

Oltre a tali valori, la scienza trasmette pure numerosi messaggi. Il primo è che l’uomo è l’unica forma di materia vivente che esprima l’esigenza di decifrare la logica della Natura e sia pure la sola a riuscirvi veramente, anche se soltanto in parte. Il secondo è che la Natura (che il credente riconosce come Creato) supera talmente la fantasia e l’immaginazione di tutti gli uomini, da renderli consapevoli di non poter mai proferire al riguardo l’ultima parola. Il terzo messaggio è che, mentre la scienza immatura si chiedeva quando sarebbe arrivata alla sintesi o unificazione di tutte le forze fondamentali, quella attuale, che ha maturato un’eccezionale sintesi fra forze e strutture, si chiede se mai vi potrà arrivare. Il quarto è che per arrivare a tale unificazione gli scienziati sono costretti a pensare l’esistenza di un “supermondo” che, paradossalmente, nessuno può dire se esista veramente. Il quinto messaggio è che la scienza galileiana ha costretto gli scienziati a pensare e verificare col massimo rigore, non solo i fenomeni accessibili ai nostri sensi o ai nostri strumenti, ma anche quelli totalmente inaccessibili o invisibili (fenomeni virtuali). Più di uno fra essi, quindi, ritiene che «la risposta la conosca solo il Creatore» (cfr. Zichichi, 1999, cit., pp. 63, 74-78).

La scienza appare pure l’unico strumento di cui l’uomo dispone per scoprire e dimostrare che la Natura è scritta secondo un preciso disegno e che le sue leggi sono valide in ogni angolo dell’universo e che queste, fra tutte le innumerevoli possibili, costituiscono la logica scelta dal «Creatore di tutte le cose visibili e invisibili» (cfr. DH 150). Oltre a diffondere questi e altri messaggi di particolare importanza e profondità, essa svolge il ruolo ancor più significativo di ampliare, incessantemente e indefinitamente, gli orizzonti della conoscenza e comprensione umana. È quello che abbiamo già sottolineato come “inesauribile capacità di problematizzazione”, ovvero che ogni passo scientifico apre nuove serie di problemi da risolvere, sia entro i confini della scienza che oltre. Il valore umanistico, culturale e antropologico di questo fatto è immenso, poiché fa scoprire all’uomo che, pur sapendo moltissimo e potendo capire sempre più, si trova sempre più lontano dal sapere e capire tutto. Ogni avanzamento della scienza svela un’immensità di problemi, sempre più vasti e complessi, che sfuggono totalmente alla sua comprensione. Questa consapevolezza mostra quanto la scienza di oggi sia diversa da come appariva anche solo venti o trent’anni fa. Essa mostra che se la nostra ragione e conoscenza soggiacciono a tali limiti di fronte alla limitata realtà Immanente, sono ovviamente ancor più limitati nei confronti di una realtà Trascendente, irriducibile e inesprimibile in puri e semplici termini di spazio, tempo, massa, energie, cariche, ecc.

Anche le più rigorose scienze formali offrono significativi messaggi umanistici, filosofici e culturali. Tra essi figurano le affermazioni che: una verità aritmetica non può essere dedotta dagli assiomi propri dell’aritmetica; una verità matematica può esistere pur senza poter essere dimostrata; le più rigorose costruzioni della logica portano pure a conclusioni indecidibili e a teoremi indimostrabili. La dimostrabilità, quindi, è molto inferiore e più debole della verità. Inoltre, se la nostra conoscenza dell’Immanente è così limitata, appare irragionevole meravigliarsi o scandalizzarsi se le realtà trascendenti superano di gran lunga la nostra conoscenza e comprensione. Ulteriori conferme vengono dalle teorie della razionalità sviluppate in questi ultimi anni. Esse hanno accertato che le idee illuministe di una ragione umana sufficiente a risolvere tutti i problemi sono confutate dal fenomeno delle “illusioni cognitive”, ossia dei giudizi che convincono, pur essendo errati. Lo studio di tali illusioni mostra che la razionalità è un ideale che unisce elementi molto diversi, complessi e conflittuali. Il suo esercizio, quindi, non può prescindere dai suoi limiti reali. Oggi è emerso pure che il divario fra la pretesa razionalità ideale e la sua effettiva realtà non cessa mai di crescere. Tutto ciò invita alla massima cautela, senza facili ottimismi o pessimismi (cfr. Piattelli Palmarini, 1993, pp. 14, 165, 186-187).

VII. Uno sguardo sul futuro del dialogo fede-scienza

In questo modo, caduto lo “scandalo” per i pseudo-conflitti del passato, l’interesse può spostarsi su temi più urgenti e decisivi. Quelli sopra indicati sono solo alcuni di tipo più generale, per cui occorre pensare pure a quelli sollevati dalla bioetica, bioingegneria, genetica, intelligenza artificiale, ecc. e a quelli relativi alla complessità. In tali ambiti, l’affacciarsi imperioso dei problemi etico-morali e di temi legati alla trascendenza rende l’attuazione di una cultura tecnoscientifica un compito decisamente significativo per il dialogo fra fede e scienza. Esso sembra facilitato se la scienza si identificherà sempre meno con un insieme di “formalismi” e sempre più con una “strategia conoscitiva orientata in senso realistico”; sempre meno con un “ostacolo metodologico” e sempre più con una “capacità inventiva” dinamica e aperta al futuro; sempre meno con un “sapere eidetico” dai fondamenti inattaccabili e sempre più con un “sapere dialettico” in perenne revisione e ricerca di maggiore idoneità conoscitiva (cfr. Gismondi, 1993, p. 86).

Per ottenere ciò l’attenzione deve decisamente spostarsi dai “prodotti” della scienza, ossia le scoperte e le applicazioni, alle trasformazioni e le capacità umanizzanti da essa indotte. Esse, infatti, riguardano quelle “radici” — che l’enciclica Evangelii Nuntiandi (1975) ha correttamente individuato nei criteri di giudizio, valori determinati, punti di interesse e linee di pensiero —, che costituiscono le fonti ispiratrici della cultura e presiedono alla formazione dei modelli umani di vita (cfr. nn. 19-20). Esse esprimono le inesauribili potenzialità della persona umana nel pensare la realtà e attuarla in modi sempre nuovi, originali e diversi. I credenti impegnati in tale dialogo finalizzato a una cultura e a un umanesimo scientifici dovranno conoscere i dinamismi e comprendere le potenzialità culturali e umanistiche dell’impegno scientifico, per avanzare convincenti proposte etiche e teologiche. Anche a questo riguardo vi sono motivi di speranza. Alcune analisi degli atteggiamenti attuali degli operatori scientifici hanno rilevato, infatti, il crescere di una sensibilità etica e di significative aperture ai problemi trascendenti, agli antipodi del vecchio scientismo (cfr. Ardigò e Garelli, 1989-1990).

Ciò significa che quanto si è detto in passato e finora, a proposito del dialogo fra fede e scienza, dovrà venire applicato al dialogo fra fede e cultura scientifica. È questa infatti il vero interlocutore che include e accomuna il pensiero della scienza, quello sulla scienza (epistemologia, filosofia e storia della scienza) e le “radici della cultura”. Questa impostazione è quella che in modo più implicito e meno formalizzato hanno attuato numerosi fra i maggiori scienziati di ogni tempo, che coniugarono una profonda religiosità con un genuino umanesimo scientifico, alimentando ricerche innovatrici e creative. Il loro esempio appare più valido se ricordiamo che essi dovettero operare in contesti culturali chiusi e appesantiti da immanentismo, razionalismo, empirismo e positivismo. Nonostante ciò, essi seppero armonizzare la loro religiosità con la consapevolezza dei limiti, ma anche delle inesauribili potenzialità umanistiche ed etiche delle loro ricerche. La loro apertura ai valori etici, spirituali e trascendenti, la convinta religiosità e la fede sentita li immunizzarono dalle degenerazioni ideologiche dello scientismo. È ormai tempo che questi atteggiamenti non rimangano più puro appannaggio dei grandi scienziati, ma si diffondano fra tutti gli uomini di scienza. A tal fine, occorre offrire loro tempi, spazi di confronto e occasioni di dialogo, che ne convoglino la creatività, ne sostengano le tensioni etiche e ne rafforzino le istanze di valori trascendenti, orientandole a sbocchi spiritualmente, culturalmente e socialmente rilevanti. Non va dimenticato, infatti, che società e cultura attendono quel nuovo spirito e quel nuovo atteggiamento scientifico di cui parlava profeticamente Paolo VI: «La scienza non basta a se stessa, né può essere fine a se stessa. Essa non è che da e per l’uomo, perciò deve uscire dal cerchio della sua ricerca e aprirsi all’uomo e di lì alla società e alla storia intera» (Discorso alla Pontificia Accademia delle Scienze, 23.4.1966, Insegnamenti, IV (1966), p. 199).

La riflessione tesa a conferire maggior fondamento e significato alla scienza ha consentito numerose acquisizioni, quali: il maggior riconoscimento del ruolo attivo del soggetto nella ricerca; la valorizzazione degli elementi simbolici, intuitivi, emotivi, immaginari e congetturali del discorso scientifico; la rivalutazione delle connessioni fra pensiero scientifico, metafisico, religioso e filosofico. Inoltre, ha permesso di precisare la parzialità, provvisorietà e fallibilità delle conoscenze scientifiche; la mutevolezza delle immagini scientifiche dell’universo e della natura (meccanicismo, determinismo, evoluzionismo, organicismo); l’insufficienza delle spiegazioni esclusivamente causali (necessità) o casuali (caso); l’elusività del presunto rigore formale delle procedure; l’importanza della complessità e della finalità. Come abbiamo già osservato, ciascuna di queste acquisizioni è stata il frutto di lunghe ricerche e riflessioni critiche, che hanno profondamente rinnovato la scienza contemporanea, potenziando la sua capacità di confronto e di dialogo con altre forme di conoscenza.

Ma è forse ancor più importante il fatto che la scienza metta in luce non solo le forme, le strutture di significazione, le leggi e i princìpi che presiedono alla realtà, ma anche l’inesauribile ricchezza della “natura-creazione” e dei suoi contenuti, sensi e significati, i quali superano infinitamente le nostre capacità di spiegazione, di comprensione e d’immaginazione. Essa non manca di sollevare incessanti problemi, nuovi e decisivi, sull’universo, sull’uomo e sulla storia, che non può risolvere e deve rinviare alla filosofia, all’etica, alla religione e alla teologia. Tutti questi aspetti sono fondamentali per un nuovo dialogo fra fede e cultura scientifica.

Tutto questo ci dice che la fede cristiana può trovare nella cultura scientifica postmoderna un interlocutore completamente diverso rispetto al passato: più cauto e maturo, possibilista e pluralista. Di conseguenza, il dialogo potrà assumere una grande varietà di forme. L’unica condizione irrinunciabile è la presenza, alla pari, di tutti gli interlocutori: operatori scientifici, epistemologi, storici della scienza, filosofi e teologi. La riflessione filosofica, teologica ed etico-morale esige questa elaborazione corale, per cui il dialogo dovrà essere, fin dal suo inizio, trans-disciplinare. Fede e cultura scientifica dovranno conservare la consapevolezza dei loro differenti ruoli specifici, insostituibili e complementari. Entrambe, secondo la loro specifica identità, potranno attingere a quel Logos che è la Ragione creatrice e fondatrice dell’esistenza, della natura e del significato di tutta (e tutte) la realtà.

La fede, nell’adempimento del suo ruolo euristico, deve ricordare che la razionalità, che sostanzia cose ed eventi, dalla sua origine prima al suo fine ultimo, non è solo verità, ma anche eticità, giustizia e amore. Quindi deve richiamare costantemente a una razionalità che non proviene solo dalle cose, ma le trascende infinitamente, pur costituendone l’intima natura e la legge più profonda. In questo modo, il suo dialogo con la cultura scientifica potrà creare spazi di comune riflessione che costituiscano una «strada verso il vero» (cfr. Giovanni Paolo II, Discorso a scienziati e studenti, Colonia, 15.11.1980). «La cultura scientifica — ricordava nell’occasione di un discorso Giovanni Paolo II — non si oppone né alla cultura umanistica né alla cultura mistica. Ogni cultura autentica è un’apertura verso l’essenziale e non esiste verità che non possa diventare universale» (Discorso al CERN, Ginevra15.6.1982, Insegnamenti, V,2 (1982), p. 2321).

 

Bibliografia

Nello sterminato panorama dell’epistemologia scientifica, segnaliamo qui, fra le fonti primarie, solo alcune fra le principali opere degli autori richiamati nel testo della voce: A.S. EDDINGTON, The Nature of the Physical World, Cambridge Univ. Press, Cambridge 1928; S. TOULMIN, The Philosophy of Science, Hutchinson's University Library, London 1953; C.G. HEMPEL, La formazione dei concetti e delle teorie della scienza empirica, Feltrinelli, Milano 1961; A. LWOFF, L’ordine biologico, Boringhieri, Torino 1964; L. ÅQVIST, A New Approach to the Logical Theory of Interrogatives, Univ. of Uppsala Press, Uppsala 1965; G. FREGE, Logica e aritmetica, Boringhieri, Torino 1965; L. WITTGENSTEIN, Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino 1967; C.G. HEMPEL, Filosofia delle scienze naturali, Il Mulino, Bologna 1968; G. CANGUILHEM, Études d’histoire et de philosophie des sciences, Vrin, Paris 1968; L. WITTGENSTEIN, Tractatus logico-philosophicus Quaderni 1914-1916, Einaudi, Torino 19682; A. TARSKI, Introduzione alla logica, Bompiani, Milano 1969; K. POPPER, Logica della scoperta scientifica (1934), Einaudi, Torino 1970; L. BERTALANFFY, Sistema uomo. La psicologia del mondo moderno, Istituto Editoriale Internazionale, Milano 1971; K. POPPER, Congetture e confutazioni (1963), Il Mulino, Bologna 1972; P. FEYERABEND, Contro il metodo (1970), Feltrinelli, Milano 1975; G. BACHELARD, Il materialismo razionale (1953), Laterza, Roma-Bari 1975; I. LAKATOS e A. MUSGRAVE (a cura di), Critica e crescita della conoscenza, Feltrinelli, Milano 1976; K. POPPER, La ricerca non ha fine (1974), Armando, Roma 1976; E. MACH, La meccanica nel suo sviluppo storico-critico (1883), Boringhieri, Torino 1977; S. TOULMIN, The Structure of Scientific Theories, in The Structure of Scientific Theories, a cura di F. Suppe, Urbana (IL) - London 19772, pp. 600-614; A.N. WHITEHEAD, B. RUSSELL, Principia Mathematica (1910-1913), La Nuova Italia, Firenze 1977; G. BACHELARD, Il nuovo spirito scientifico (1934), Laterza, Roma-Bari 1978; P. DUHEM, La teoria fisica. Il suo oggetto e la sua struttura (1906), Il Mulino, Bologna 1978; T. KUHN, La struttura delle rivoluzioni scientifiche (1962), Einaudi, Torino 19782; L. LAUDAN,Il progresso scientifico. Prospettive per una teoria, Armando, Roma 1979; I. LAKATOS, Dimostrazioni e confutazioni, Feltrinelli, Milano 1979; P. FEYERABEND, Come essere un buon empirista, Borla, Roma 1982; A. MUSGRAVE, Metodo o follia?, Borla, Roma 1983; K. POPPER, Poscritto alla logica della scoperta scientifica (1982-1983), 3 voll., Il Saggiatore, Milano 1984; L. WITTGENSTEIN, Osservazioni sopra i fondamenti della matematica, Einaudi, Torino 19882; H. POINCARÉ, La scienza e l’ipotesi (1900),Dedalo, Bari 1989; M. POLANYI, La conoscenza personale. Verso una filosofia post-critica (1958), Rusconi, Milano 1990; H. POINCARÉ, Il valore della scienza (1911)La Nuova Italia, Scandicci 1994.

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