Tu sei qui

La metafora del Libro della Natura negli scritti di Galileo Galilei

Galileo Galilei
1613-1641

   

Come è noto, per lo scienziato pisano, il Libro della natura è scritto nella lingua della matematica, i cui caratteri sono triangoli, cerchi e figure geometriche: così afferma ne Il Saggiatore (1623), precisando che, a motivo di ciò, tale libro può essere letto solo da coloro che ne conoscono linguaggio. La metafora è presente con parole analoghe nella Lettera a Fortunio Liceti (1641) dove pare arricchirsi di una venatura polemica. I “filosofi naturali”, egli puntualizza, si distinguono perché non studiano la natura attraverso i libri di Aristotele, bensì servendosi di osservazioni scientifiche. I libri impiegati fino a quel momento sono dunque sorpassati: l’interpretazione della natura è adesso affidata al metodo delle “sensate esperienze” e ad un linguaggio, quello matematico, che consente di evitare ambiguità, distinguendo l’apparenza dalla realtà. Nel Dialogo sopra i massimi sistemi (1632) Galileo ribadisce ancora che il Libro della natura è l’oggetto proprio della filosofia naturale, dunque materia per scienziati, non per teologi.

Al tempo stesso, Galileo è assolutamente persuaso che i “due Libri” sono in accordo fra loro, perché Dio ne è l’unico autore, «procedendo di pari dal Verbo divino la Scrittura sacra e la natura, quella come dettatura dello Spirito Santo, e questa come osservantissima esecutrice de gli ordini di Dio» (Lettera a P. Benedetto Castelli, 21.12.1613). Dei due libri egli desidera sottolineare una differenza: le verità rivelate sono state dettate da Dio nella Bibbia servendosi del linguaggio umano, che resta limitato e in certo modo ambiguo, mentre le verità naturali sono state scritte da Dio con il preciso linguaggio della matematica. Galileo, dunque, non impiega il Libro della natura contro la Scrittura, ma ribadisce l’autonomia e l’autoconsistenza del mondo naturale, scegliendo di restringere l’accessibilità del linguaggio in cui esso è scritto.

Lo spostamento semantico nell’interpretazione della metafora, che passa così dalla leggibilità alla matematizzazione, avrà significative conseguenze. Esiste infatti una diversità concettuale fra un fenomeno naturale letto come pagina o come lettera di un libro e un fenomeno naturale interpretato come una formula matematica. Pur potendo una rappresentazione naturale in forma cifrata essere oggetto di contemplazione, va riconosciuto che una formula matematica non la si conosce leggendola, ma accettandone l’operatività e il suo carattere di legalità. Con l’affermazione del meccanicismo, resa possibile dalla matematizzazione, le realtà naturali non si leggono più ma piuttosto si analizzano e si riproducono. I simboli che possono ancora rappresentarle, come ad esempio una formula, cominciano ad esprimere il “nostro modo di possederle”. Sul piano estetico e contemplativo, lo spazio alla rivelazione di Dio nella natura si assottiglia, lasciando spazio ad immagini del Creatore in maggiore sintonia con le formule, prima architetto e poi orologiaio e, in tempi più recenti, l’idea che il Logos possa essere assimilata ad un calcolatore.

    

    

«[Commentando la proibizione del De Revolutionibus di CopernicoIl proibir tutta la scienza, che altro sarebbe che un reprovar cento luoghi delle Sacre Lettere, i quali ci insegnano come la gloria e la grandezza del sommo Iddio mirabilmente si scorge in tutte le sue fatture, e divinamente si legge nell'aperto libro del cielo? Né sia chi creda che la lettura degli altissimi concetti, che sono scritti in quelle carte, finisca nel solo veder lo splendor del Sole e delle stelle e 'l lor nascere ed ascondersi, che è il termine sin dove penetrano gli occhi dei bruti e del vulgo; ma vi son dentro misteri tantro profondi e concetti tanto sublimi, che le vigilie, le fatiche e gli studi di cento e cento acutissimi ingegni non gli hanno ancora interamente penetrati con l'investigazioni continuate per migliaia e migliaia d'anni. E credino pure gli idioti che, sì come quello che gli occhi loro comprendono nel riguardar l'aspetto esterno d'un corpo umano è piccolissima cosa in comparazione de gli ammirandi artifizi che in esso ritrova un esquisito e diligentissimo anatomista e filosofo, mentre va investigando l'uso di tanti muscoli, tendini, nervi ed ossi, esaminando gli offizi del cuore e de gli altri membri principali, ricercando le sedi delle facultà vitali, osservando le maravigliose strutture de gli strumenti de' sensi, e, senza finir mai di stupirsi e di appagarsi, contemplando i ricetti dell'immaginazione, della memoria e del discorso; così quello che 'l puro senso della vista rappresenta, è come nulla in proporzion de' l'alte meraviglie che, mercé delle lunghe ed accurate osservazioni, l'ingegno degl'intelligenti scorge nel cielo. E questo è quanto mi occorre considerare circa a questo particolare».

Lettera alla Serenissima madama la Granduchessa Madre, Cristina di Lorena, Opere, ed. Nazionale a cura di A. Favaro, Giunti-Barbera, Firenze 1966, vol. V, pp. 329-330

   

«Procedendo di pari dal Verbo divino la Scrittura Sacra e la natura, quella come dettatura dello Spirito Santo, e questa come osservantissima essecutrice de gli ordini di Dio; ed essendo, di più, convenuto nelle Scritture, per accomodarsi all'intendimento dell'universale, dir molte cose diverse, in aspetto e quanto al nudo significato delle parole, dal vero assoluto; ma, all'incontro, essendo la natura inesorabile ed immutabile, e mai non trascendente i termini delle leggi impostegli, come quella che nulla cura che le sue recondite ragioni e modi d'operare sieno o non sieno esposti alla capacità degli uomini; pare che quello degli effetti naturali che o la sensata esperienza ci pone dinanzi a gli occhi o le necessarie dimostrazioni ci concludono, non debba in conto alcuno esser revocato in dubbio, non che condennato, per luoghi della Scrittura che avessero nelle parole diverso sembiante; poi che non ogni detto della Scrittura è legato a obblighi così severi com'ogni effetto di natura, né meno eccelentemente ci si scuopre Iddio negli effetti di natura che ne' sacri detti delle Scritture: il che volse per avventura intender Tertulliano in quelle parole: Nos definimus, Deum primo natura cognoscendum, deinde doctrina recognoscendum: natura, ex operibus; doctrina, ex prædicationibus [Tertullianus, Adversus Marcionem, I, 18]».

Lettera alla Serenissima madama la Granduchessa Madre, Cristina di Lorena, Opere, vol. V, pp. 316-317.

   

«La filosofia [della natura] è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto dinanzi a gli occhi (io dico l’universo), ma non si può intendere se prima non s’impara a intender la lingua, e conoscere i caratteri ne’ quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche, senza i quali mezi [sic] è impossibile a intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto»

Il Saggiatore (1623), in Opere, vol. VI, p. 232.

      

«Ma io veramente stimo il libro della filosofia, esser quello che perpetuamente ci sta aperto dinanzi agli occhi; ma perché è scritto in caratteri diversi da quelli del nostro alfabeto, non può esser da tutti letto: e sono i caratteri di tal libro triangoli, quadrati, cerchi, sfere, coni, piramidi et altre figure matematiche, attissime per tal lettura»

Lettera a Fortunio Liceti, gennaio 1641, Opere, XVIII, p. 295.

     

«Chi mira più alto, si differenzia più altamente; e ‘l volgersi al gran libro della natura, che è ‘l proprio oggetto della filosofia, è il modo per alzar gli occhi: nel qual libro, benché tutto quel che si legge, come fattura d’Artefice onnipotente, sia perciò proporzionatissimo, quello nientedimeno è più spedito e più degno, ove maggiore al nostro vedere, apparisce l’opera e l’artifizio. La costituzione dell’universo, tra i naturali apprensibili, per mio credere, può mettersi nel primo luogo: che se quella, come universal contenente, in grandezza tutt’altri avanza, come regola e mantenimento di tutto debbe anche avanzarli di nobiltà»

Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, Dedica al Gran Duca, Opere, VII, p. 27.