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Qualche consiglio per chi vuole essere realista

Etienne Gilson
1935

dal "Vademecum del realista principiante", in Le réalisme méthodique

In questo testo, presentato originariamente con il titolo “Vademecum del realista principiante” al termine della sua opera Il realismo metodico, Etienne Gilson raccoglie in 30 punti le principali differenze fra un approccio conoscitivo idealista ed uno di taglio realista, mostrando come il realismo rappresenti il genuino quadro di riferimento di ogni conoscenza spontanea. L’idealismo, al contrario, costituisce una forzatura e tradisce assai spesso una posizione pregiudiziale quando non ideologica. Mentre il realista sceglie di assoggettarsi alla realtà, restando pertanto libero nel suo pensare, l’idealista finisce con l’essere schiavo del proprio sistema di pensiero, nel vano tentativo di eludere la normatività del reale

1. Un primo passo sulla via del realismo è rendersi conto che si è sempre stati realisti. Il secondo passo è rendersi conto che, qualunque sforzo si faccia, non si riuscirà mai a pensare in modo diverso. Il terzo passo è prendere atto che tutti quelli che pretendono di pensare in modo diverso si rimettono a pensare da realisti non appena si dimenticano di star recitando una parte. A questo punto, se uno di questi si domanda il perché, la sua conversione è cosa fatta.

2. La maggior parte di coloro che si professano e si ritengono idealisti vorrebbero tanto non esserlo, ma pensano di non averne il diritto. C'è chi dice loro che non potranno mai uscire dal loro pensiero e che un al di là del pensiero non è pensabile. Se accettano la sfida e cercano di rispondere a questa obiezione sono perduti, perché tutte le obiezioni dell'idealista al realista sono formulate in termini idealistici. Per questo non sorprende che l'idealista risulti sempre vittorioso nelle discussioni. La soluzione idealistica dei problemi è già implicata nel modo con cui l'idealista imposta i problemi. Il realista deve dunque convincersi, come prima cosa, di non dover accettare la sfida su un terreno che non è il suo, così come non deve sentirsi in difficoltà quando non sa come risolvere dei problemi che in effetti sono senza soluzione ma che lui non ha motivo di porsi.

3. Occorre poi usare con cautela il termine "pensiero". In effetti, la differenza più grande tra il realista e l'idealista e che l'idealista pensa, mentre il realista conosce. Per il realista "pensare" vuol dire solamente organizzare delle conoscenze o riflettere sul loro contenuto; a lui non viene in mente di fare del pensiero il punto di partenza della sua riflessione, perché lui sa che un pensiero è possibile solo se prima ci sono state delle conoscenze. Ora, l'idealista, visto che procede dal pensiero alle cose, non può sapere se quello da cui parte corrisponde o meno a una cosa; e quando egli domanda al realista come si possono raggiungere le cose partendo dal pensiero, il realista deve rispondere subito che ciò non è possibile, e che proprio in questo sta il motivo principale per non essere idealisti. Il realismo infatti parte dalla conoscenza, cioè da un atto dell'intelletto che consiste essenzialmente nel cogliere un oggetto; quindi per il realista la domanda dell'idealista non pone un problema insolubile ma solo uno pseudo-problema, che e una cosa ben diversa.

4. Ogni volta che l'idealista ci prescrive di risolvere i problemi posti dal pensiero, si può essere sicuri che egli parla in nome dello Spirito. Per lui, lo Spirito è ciò che pensa, come per noi l'intelletto è ciò che conosce. Occorre dunque evitare, per quanto sia possibile, di compromettersi con questo termine. Non è sempre facile, perché esso ha anche un senso legittimo, ma noi viviamo in un tempo in cui si impone prima di tutto la necessità di ritradurre in un linguaggio realistico tutti i termini che l'idealismo ha mutuato da noi e poi ha corrotto. Un termine di tipo idealistico è quasi sempre un termine che per il realista designa una delle condizioni spirituali della conoscenza e che invece l'idealista considera come generatrice del suo contenuto.

5. La conoscenza di cui parla il realista è l'unione vissuta e sperimentata tra l'intelletto e una realtà conosciuta. Ecco perché una filosofia realistica ha sempre come referente questa realtà conosciuta senza la quale non ci sarebbe conoscenza. Le filosofie idealistiche, al contrario, partono dal pensiero e per questo arrivano ben presto a scegliere come loro oggetto la scienza o la filosofia stessa. L'idealista, se pensa veramente da idealista, realizza nella forma più pura l'essenza del "professore di filosofia"; mentre il realista, se pensa veramente da realista, è in perfetto accordo con l'essenza autentica del filosofo: perché il filosofo parla delle cose, mentre il professore di filosofia parla di filosofia.

6. Così come non dobbiamo passare dal pensiero alle cose (sapendo che l'impresa è impossibile), nemmeno ci dobbiamo domandare se un al di là del pensiero sia pensabile. Può darsi in effetti che un al di là del pensiero non sia pensabile, ma è sicuro che ogni conoscenza implica un al di là del pensiero. Il fatto che questo "al di là del pensiero" ci sia dato nel pensiero (attraverso la conoscenza) non impedisce di considerarlo un "al di là"; ma l'idealista confonde sempre l'essere che ci è dato nel pensiero con l'essere che ci è dato mediante il pensiero. Per chi fa filosofia a partire dalla conoscenza, un al di là del pensiero, è totalmente pensabile: anzi, questa concezione del pensiero è proprio quella che presuppone un suo al di là.

7. È un errore dello stesso genere quello di certi realisti che si chiedono come si possa provare l'esistenza di un "non-io" a partire dall'io. Per l'idealista, che parte dall'io, questo è il modo normale, anzi il solo modo possibile di impostare la ricerca. Il realista ha almeno due motivi per diffidarne: il primo è che egli non parte dall'io; il secondo è che il mondo non è per lui un "non-io" (termine che in definitiva non significa alcunché) ma un "in-sé". Un "in-sé" può essere percepito con un atto di conoscenza, mentre un "non-io" è ciò cui l'idealista riduce la realtà, e quindi non può essere percepito con un atto di conoscenza né può essere provato con un ragionamento.

8. Non occorre neppure preoccuparsi dell'obiezione classica dell'idealista che sostiene l'impossibilità di raggiungere la «cosa in sé» e soprattutto di averne una conoscenza vera. L'idealista ci dice: voi concepite la conoscenza vera come una copia adeguata della realtà; ma come potete sapere che la copia riproduce la cosa così com'è in sé, dal momento che la cosa ci è data solo nel pensiero? L'obiezione ha senso solo per l'idealismo, che pone il pensiero prima dell'ente e poi, non riuscendo più a mettere l'uno a confronto con l'altro, si convince che nessuno potrà mai farlo. Il realista, al contrario, non deve domandarsi se le cose siano o no conformi alla conoscenza che egli ne ha, poiché la conoscenza per lui consiste proprio nell'assimilare a sé cose. In un contesto logico per il quale l'adeguamento dell'intelletto alla cosa, espresso dal giudizio, presuppone l'adeguamento concreto e vissuto dell'intelletto ai suoi oggetti, sarebbe assurdo esigere dalla conoscenza che questa garantisca una conformità senza la quale essa non potrebbe neppure esistere.

9. Occorre sempre ricordare che le aporie alle quali l'idealismo vuole ridurre il realismo sono frutto dell'idealismo stesso. Quando l'idealista ci sfida a confrontare la cosa conosciuta con la cosa stessa, egli non fa che rivelare il male interno che lo corrode. Per il realista, non c'è "noumeno", nel senso in cui lo intende l'idealista. Visto che la conoscenza presuppone la presenza all'intelletto della cosa stessa, non si deve congetturare, dietro alla cosa che e nel pensiero, un duplicato misterioso e inconoscibile, che sarebbe la cosa della cosa che è nel pensiero. Conoscere non è comprendere una cosa così com'è nel pensiero, ma, nel pensiero, comprendere la cosa come essa è.

10. Pertanto, l'ovvia constatazione che tutto ci è dato nel pensiero non ci autorizza a concludere che dobbiamo necessariamente partire dal pensiero per poi cercare di giungere alle cose, come se non si potesse procedere nel modo opposto. In realtà, tutti noi procediamo nel modo opposto. Il primo atto dell'intelligenza coincide con la percezione di determinate cose, dopo di che, queste cose percepite vengono subito classificate secondo le più evidenti analogie. Di questo fatto, che non ha nulla a che vedere con una qualsiasi teoria, la teoria deve prendere atto. E’ quello che fa il realismo, che in questo segue il senso comune; ecco perché ogni realismo è una filosofia del senso comune.

11. Da questo non segue che il senso comune sia una filosofia, ma ogni sana filosofia presuppone il senso comune e gli accorda fiducia, pur essendo sempre disposta a discostarsi da un senso comune mal informato per accostarsi al senso comune ben informato. Così procede la scienza, che non è una critica del senso comune ma una critica delle sue successive approssimazioni alla realtà. La storia della scienza e della filosofia testimoniano che il senso comune è capace di invenzione quando fa uso delle sue risorse con un metodo appropriato. Al senso comune si deve quindi chiedere di vagliare criticamente tutte le conclusioni cui perviene, e questa esigenza critica non significa che il senso comune debba smentire se stesso ma piuttosto che deve essere pienamente coerente con se stesso.

12. Il senso della parola "invenzione" è stato deformato dall'idealismo, come del resto è successo con molte altre parole. "Inventare" non vuol dire "creare" ma solo "trovare". L'inventore può somigliare al creatore solo nell'ambito della pratica, e specialmente in quello della fabbricazione, sia utilitaria che artistica. Come lo scienziato, il filosofo "inventa" solo nel senso che trova, scoprendo quello che fino ad allora era rimasto nascosto. Tutta l'attività dell'intelligenza consiste dunque nella sua funzione speculativa, di apprensione del reale: se essa "crea", quello che crea non è mai un oggetto ma un modo di spiegazione dell'oggetto, all'interno di questo oggetto.

13. Ecco anche perché il realista non chiede mai alla conoscenza di generare l'oggetto, sapendo che senza un oggetto non ci sarebbe alcuna conoscenza. Al pari dell'idealista, egli fa uso della sua capacità di riflessione, ma mantenendola nei limiti della realtà conosciuta. Il punto di partenza della sua riflessione non può che essere l'inizio stesso della conoscenza umana, l'evidenza che «res sunt». Il filosofo può poi dedicarsi ad approfondire la natura dell'oggetto che ci è dato nell'evidenza primaria, e allora si orienterà verso una conoscenza scientifica coronata da una metafisica della natura; se invece vorrà approfondire le condizioni nelle quali l'oggetto ci è dato, si orienterà verso una psicologia coronata da una metafisica della conoscenza. I due metodi non sono solamente compatibili, sono complementari, perché poggiano sull'unità primitiva del soggetto e dell'oggetto nell'atto di conoscenza, e ogni filosofia completa implica la coscienza della loro unità.

14. Nulla dunque vieta al realista di passare, per via di analisi riflessiva, dall'oggetto presente nella conoscenza all'intelletto, e poi dall'intelletto al soggetto conoscente. È pacifico che questo è l'unico metodo a sua disposizione per sapere qualcosa circa l'esistenza e la natura del soggetto conoscente: «Res sunt, ergo cognosco, ergo sum res cognoscens». Non è la validità di questa analisi ciò che distingue il realista dall'idealista; non è vero che il realista la neghi mentre l'altro l'accetta: la differenza sta nel fatto che il realista non è disposto a interpretare il risultato ultimo della sua analisi come se fosse il principio da cui dipende tutta la realtà da lui analizzata. In effetti, dal fatto che l'analisi della conoscenza ci conduca a un «io penso» non si può dedurre che l'«io penso» sia il primo principio della conoscenza; dal fatto che ogni rappresentazione sia indubbiamente una forma di "pensiero" non si può dedurre che sia soltanto pensiero, e neppure che l'«io penso» condizioni tutte le mie rappresentazioni.

15. Tutta la forza dell'idealismo deriva dalla coerenza con la quale esso sviluppa le conseguenze del suo errore iniziale. Hanno torto allora coloro che lo confutano rimproverandogli una pretesa "mancanza di logica"; è proprio il contrario: l'idealismo è una dottrina che non può vivere che di logica, poiché in essa l'ordine e la connessione delle idee sostituiscono l'ordine e la connessione delle cose. Il saltus mortalis che fa precipitare la dottrina nelle sue conseguenze è anteriore alla dottrina, e l'idealismo può giustificare con il suo metodo tutto, tranne l'idealismo stesso perché la causa dell'idealismo non è idealistica: non sta neppure nella teoria della conoscenza, ma nella morale.

16. Prima di ogni spiegazione filosofica della conoscenza, c'è il fatto della conoscenza stessa, e c'è poi il desiderio insopprimibile che tutti gli uomini hanno di arrivare a comprendere la realtà. Se la ragione si accontenta troppo spesso di spiegazioni sommarie e incomplete; se essa fa spesso violenza ai fatti, deformandoli o passandoli sotto silenzio quando la intralciano, è proprio perché la passione di comprendere prevale sul desiderio di conoscere, o che i mezzi di conoscere di cui essa dispone sono impotenti a soddisfarla. Il realista non è meno esposto a queste tentazioni dell'idealista, e non vi cede meno spesso. La differenza è che quando il realista cede a questa tentazione lo fa andando contro i propri principi, mentre l'idealista è disposto fin dall'inizio a cedervi ben volentieri. All'origine del realismo c'è dunque la rassegnazione dell'intelletto a dipendere da un essere reale che è causa della conoscenza; all'origine dell'idealismo c'è invece l'impazienza di una ragione che vuole ridurre l'essere reale alla conoscenza, per essere sicura che alla conoscenza non sfugga assolutamente nulla.

17. Se l'idealismo ha avuto spesso rapporti strettissimi con la matematica è proprio perché la matematica, che ha come oggetto proprio quantità, estende la sua competenza sulla natura materiale tutta intera, ma solo nella misura in cui essa dipende dalla quantità. Ora, se l'idealismo ha ritenuto di trovare la sua giustificazione nei successi della matematica, questi non devono nulla all'idealismo. I successi della matematica non dipendono affatto dall'idealismo e tanto meno lo giustificano, perché anche una fisica completamente matematizzata non fa che costruire dei modelli che restano all'interno dei fatti sperimentali che questi modelli debbono interpretare. Ogni volta che si verifica un fatto nuovo, la scienza fisico-matematica tenta in qualche modo di assimilarlo e di farlo rientrare nei suoi schemi e quando non ci riesce si riforma e crea nuovi modelli. L'idealista è raramente uno scienziato, ancora più raramente un uomo di laboratorio, e invece è proprio il laboratorio a fornire alla scienza fisico-matematica di domani i nuovi dati che essa dovrà interpretare.

18. Il realista non deve dunque temere che l'idealista lo metta in contraddizione con il pensiero scientifico, perché ogni scienziato, anche se si ritiene idealista in filosofia, quando ragiona da scienziato non può che pensare in termini realistici. Uno scienziato non comincia mai con il definire il metodo della scienza che intende fondare. Ed è proprio da questo che si possono riconoscere le false scienze: dal fatto che si fanno precedere dal metodo. II metodo, infatti, si deduce dalla scienza, non la scienza dal metodo. Ecco perché nessun realista ha mai scritto un Discorso sul Metodo; un realista sa di non poter descrivere il modo di studiare determinate realtà prima di cominciare a studiarle, così come sa di non poter dire come si possono conoscere le cose di un certo ambito della realtà se non conoscendole.

19. Di tutti i metodi, il più pericoloso è il «metodo riflessivo». Il realista si accontenta di una pura e semplice riflessione. Se la riflessione diventa un metodo, allora non è più solamente una riflessione intelligentemente orientata, come deve essere, ma una riflessione che si sostituisce alla realtà, tanto che il suo livello diventa quello della realtà stessa. Il «metodo riflessivo», se è fedele alla sua essenza, deve presupporre che il termine ultimo della riflessione sia anche il primo principio della nostra conoscenza; da ciò risulta naturalmente che il risultato finale dell'analisi deve contenere virtualmente la totalità dell'oggetto analizzato, e la conseguenza è che esiste solo ciò che si può dedurre dal termine ultimo della riflessione: tutto il resto o non esiste o può essere legittimamente trattato come non esistente. È così che il filosofo viene indotto a escludere dalla conoscenza - o addirittura dalla realtà - proprio quello che rende possibile la conoscenza stessa.

20. II secondo segno dal quale si possono riconoscere le false scienze generate dall'idealismo è che, partendo da quello che chiamano il "pensiero", esse finiscono per concepire la verità come un'eccezione e l'errore come la regola. Hippolyte Taine ha reso un grande servizio al buon senso quando ha parlato della sensazione definendola «un'allucinazione vera»: così dicendo, infatti, egli ha fatto vedere dove conduce inevitabilmente la logica dell'idealismo. Per l'idealismo la sensazione diventa qualcosa di simile a un'allucinazione, mentre l'allucinazione non è più tale. Non ci si deve allora far impressionare dai tanto spesso evocati «errori dei sensi», ne ci si deve stupire dell'enorme consumo che ne fanno gli idealisti: è gente per la quale la normalità è un'eccezione e la patologia è la regola. Quando Descartes esulta constatando che neppure un folle può negare il suo primo principio («Penso, dunque esisto»), questa sua esultanza ci serve per vedere con tutta evidenza che cosa diventa la ragione una volta ridotta a questo primo principio.

21. Occorre dunque considerare come errori dello stesso ordine gli argomenti basati sui sogni, sulle illusioni dei sensi e sulla follia che gli idealisti hanno mutuato dagli scettici. Se ci sono illusioni visive, questa è proprio la prova che non tutte le nostre percezioni visive sono delle illusioni. Chi sogna non si sente differente da colui che è desto, ma chi è desto si accorge di essere in uno stato del tutto differente da colui che sogna. Ognuno capisce che, se gli capita di provare delle allucinazioni, è perché prima ha avuto delle sensazioni; così come capisce che non potrebbe mai sognare se prima non fosse stato sveglio. Il fatto che certi insensati neghino l'esistenza del mondo esterno, o addirittura (mi dispiace per Descartes) la loro propria esistenza, non è un motivo per considerare la certezza della nostra esistenza come un caso particolare di «delirio vero». Queste illusioni sono tanto inquietanti per l'idealista solo perché egli non sa come provare che sono delle illusioni; ma esse non devono affatto inquietare il realista, perché solo per lui si tratta veramente di illusioni.

22. Alcuni idealisti ci criticano dicendo che la nostra teoria della conoscenza ci condanna a una certa qual "infallibilità". Ma non prendiamo sul serio queste critiche. Noi siamo semplicemente dei filosofi per i quali la verità è il caso normale e l'errore il caso anormale, il che non significa che non sappiamo quanto sia difficile raggiungere e conservare la verità, proprio come la salute fisica. La differenza con l'idealista non sta nel fatto che il realista ritenga di non potersi mai sbagliare, ma sta in questi due fatti: innanzitutto, che quando il realista si sbaglia il suo errore non rappresenta «il pensiero che è stato infedele a se stesso» bensì uno specifico atto di conoscenza che è stato infedele al suo specifico oggetto; in secondo luogo, il realista si sbaglia quando è infedele ai suoi principi, mentre l'idealista ha ragione solo nella misura in cui è infedele ai suoi.

23.Dire che la conoscenza consiste nel cogliere una cosa così com'è, non vuol dire in alcun modo che l'intelletto possa sempre cogliere ogni cosa così com'è: vuol dire che c'è conoscenza solo quando l'intelletto coglie una cosa così com'è. Nemmeno si vuol dire che la conoscenza esaurisca in un solo atto il contenuto del suo oggetto. Quello che la conoscenza afferra del suo oggetto è reale, ma la realtà è inesauribile, e quand'anche l'intelletto ne avesse saputo cogliere tutti i particolari, si scontrerebbe ancora con il mistero dell'esistenza stessa dell'oggetto. Chi ritiene di afferrare infallibilmente e con una sola intuizione tutta la realtà è l'idealista Descartes; il realista Pascal sa bene che c'è tanta ingenuità nella pretesa che hanno certi filosofi di «intuire i principi dell'essere, e da lì arrivare a conoscere la totalità delle cose»: pretesa che manifesta «una presunzione infinita, proprio come è infinita la totalità delle cose che questi filosofi vorrebbero conoscere». La virtù propria del realista è la moderazione nelle pretese della conoscenza: può darsi che di fatto egli qualche volta non pratichi questa virtù, ma ciò non toglie che essa costituisca il suo specifico dovere professionale.

24. II terzo segno dal quale si riconoscono le false scienze generate dall'idealismo è il bisogno che esse hanno di "fondare" i loro oggetti. In effetti, queste scienze non sono mai sicure che i loro oggetti esistano davvero. Per il realista, il cui pensiero è rivolto all'essere, il Bene, il Vero e il Bello sono a pieno diritto reali, perché sono l'essere stesso voluto, conosciuto ed ammirato. A partire però dal momento in cui il pensiero si sostituisce alla conoscenza, questi trascendentali cominciano a galleggiare nel vuoto, senza sapere su che cosa posarsi. Ecco perché l'idealismo trascorre il suo tempo a "fondare" la morale, la conoscenza e l'arte, come se quello che l'uomo deve fare non fosse già inscritto nella sua natura: il modo di conoscere, in effetti, è già inscritto nella struttura stessa del nostro intelletto, così come l'arte è già inscritta nell'attività pratica dell'artista stesso. Il realista non ha mai nulla da fondare, ma ha sempre da scoprire i fondamenti delle sue operazioni, ed è nella natura delle cose che egli li trova: «operatio sequitur esse».

25. Occorre dunque evitare anche di perdersi nei meandri della «filosofia dei valori», perché i cosiddetti "valori" altro non sono che dei trascendentali che si sono separati dall'essere e tentano di prenderne il posto. «Fondare i valori»: ecco l'assillo dell'idealista; per il realista, una passione inutile.

26. Per un uomo del nostro tempo, la cosa più difficile è rinunciare all'esercizio di una «esigenza critica»; il realista invece farà bene a rinunciarvi, perché la cosiddetta «esigenza critica» è la punta di diamante dell'idealismo, ed è proprio nell'idealismo che ritroviamo sempre questa «esigenza critica», non come mero principio teorico o come semplice dottrina ma proprio come impegno etico al servizio di una nobile causa. L'esercizio dell'«esigenza critica» esprime in effetti la decisione di sottomettere i fatti a quel trattamento ideologico che si rende necessario per depurarli da tutto ciò che possa resistere all'intelletto. La politica che occorre seguire per raggiungere questo risultato è di sostituire sempre il punto di vista dell'osservatore all'evidenza dell'oggetto osservato. La decostruzione della realtà va perseguita, se e necessario, fino alle sue più estreme conseguenze, e più la realtà oppone resistenza più l'idealista si adopera per decostruirla. Il realista deve invece riconoscere sempre che è l'oggetto a causare la conoscenza, e di conseguenza deve trattarlo con il massimo rispetto.

27. Rispettare l'oggetto della conoscenza è, prima di tutto, non volerlo ridurre a ciò che dovrebbe essere per potersi adattare alle regole epistemologiche che abbiamo scelto arbitrariamente noi stessi. Per fare un esempio, è vero che l'introspezione non ci permette di considerale la psicologia una scienza esatta, ma questo non è un motivo valido per svalutare l'introspezione, perché può darsi benissimo che l'oggetto della psicologia non si presti a essere trattato da una scienza esatta, e allora la psicologia, se vuole restare fedele al suo oggetto, dovrà appunto rinunciare a trasformarsi in una scienza esatta. D'altronde, la psicologia dell'uomo vista come la vedrebbe un cane deve essere "esatta" almeno quanto lo è la nostra scienza della natura; ma la nostra scienza della natura non è più "esatta" di quanto lo sia la psicologia umana vista come la vedrebbe un cane. La psicologia del comportamento fa dunque molto bene ad adottare il punto di vista del cane sull'uomo, perché quando entra in scena la coscienza essa ci rivela così tante cose che subito salta agli occhi lo scarto infinito tra una «scienza della coscienza» e la coscienza stessa. Se il nostro organismo fosse cosciente di se stesso, la biologia e la fisica sarebbero ancora possibili?

28. Il realista dovrà dunque sostenere sempre, contro l'idealista, che a ogni dimensione della realtà deve corrispondere un determinato approccio e una determinata ermeneutica. Solo allora il realista, essendosi rifiutato di legarsi a una critica preliminare della conoscenza, sarà libero — molto più libero dell'idealista — di dedicarsi a una critica delle diverse conoscenze, commisurando ciascuna di esse al suo specifico oggetto. Perché una "intelligenza critica" è capace di criticare tutto, tranne se stessa, mentre il realista, proprio perché non pensa di essere "l'intelligenza" in persona, è capace di fare sempre autocritica. Se si tratta delle scienze umane, un realista non penserà mai che una psicologia che si colloca fuori della coscienza (per conoscerla meglio, dicono) gli fornisca l'equivalente della coscienza; ne penserà mai, come fa Emile Durkheim, che i veri selvaggi si trovino nei libri; tanto meno penserà che il sociale si riduca a una costrizione accompagnata da sanzioni, come se la sola realtà sociale che dobbiamo spiegare sia quella del Levitico. Analogamente, se si tratta delle scienze storiche un realista non penserà che la critica storiografica si trovi in condizioni migliori dei testimoni stessi per sapere che cosa essi hanno veramente visto e per interpretare il senso esatto della loro testimonianza. Ecco perché il realismo, subordinando ogni tipo di conoscenza al proprio oggetto specifico, mette l'intelligenza nelle condizioni più favorevoli alla ricerca scientifica: se e vero, infatti, che qualche volta i testimoni hanno riferito gli avvenimenti della storia in modo troppo soggettivo, è anche vero che gli errori parziali e relativi che essi hanno potuto commettere sono poca cosa se confrontati con gli errori che ci fa commettere la nostra fantasia quando pretendiamo di ricostruire avvenimenti, sentimenti e idee che non abbiamo personalmente sperimentato basandoci solo sull'idea che abbiamo noi del "verosimile".

29. Tale è la libertà del realista; perché non abbiamo altra scelta che dipendere dai fatti e così essere liberi dal nostro pensiero, o essere liberi dai fatti per poi dipendere dal nostro pensiero. Volgiamo dunque la nostra attenzione alle cose che sono oggetto della conoscenza e al rapporto tra le nostre specifiche conoscenze e il loro specifico oggetto, in modo che la filosofia si adegui sempre meglio alle cose e così possa di nuovo progredire.

30 È con questo spirito, in conclusione, che conviene leggere i grandi filosofi che ci hanno preceduti sulla via del realismo: «Non è in Montaigne ma in me stesso — scrive Pascal — che io trovo tutto ciò che vedo». La stessa cosa vale per noi: «Non è in Tommaso d'Aquino o in Aristotele che il vero realista trova quello che è in grado di dire sulla realtà, ma nelle cose stesse». Il realista può dunque richiamarsi a questi maestri, proprio perché per lui sono solo delle guide verso la realtà come tale. E se gli idealisti gli rimproverano (come ha fatto uno di essi amabilmente) di «vestirsi con ricchi abiti presi in prestito dalla verità», può rispondere loro prontamente: è meglio vestirsi da ricco con abiti di verità presi in prestito da altri — come ogni realista all'occorrenza è disposto a fare — piuttosto che rifiutare ogni contributo altrui e andare in giro nudo, come fa l'idealista.

   

E. Gilson, Il realismo, metodo della filosofia, a cura di A. Livi e A. Mendosa, Leonardo da Vinci, Roma 2008, pp. 131-146.