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Riforma dell'insegnamento e riforma del pensiero: le sfide contemporanee

Edgar Morin
2000

La testa ben fatta

In questo libro Edgar Morin propone una riforma del pensiero e dell’insegnamento realizzabile attraverso una nuova organizzazione dei saperi “paradigmatica”, concernente la nostra attitudine generale a organizzare la conoscenza. L’uomo è visto come il catalizzatore della complessità dei saperi, dal quale partire per costruire una testa ben fatta. In questo paragrafo, con il quale il volume si apre, l'Autore presenta le sfide contemporanee cui  intende dare risposta. In particolare: l'inadeguatezza dei nostri saperi, distinti e frazionati in discipline, alla realtà e ai problemi che si rivelano sempre piú polidisciplinari e globali; la separazione delle discipline che rende incapaci di cogliere ciò che è tessuto insieme, cioè, la complessità di questi stessi saperi; l'espansione incontrollata del sapere che sfugge al controllo umano.

La nostra attuale Università forma in tutto il mondo una proporzione troppo grande di specialisti di discipline predeterminate, dunque artificialmente circoscritte, mentre una gran parte delle attività sociali, come lo stesso sviluppo della scienza, richiede uomini capaci di un angolo visuale molto più largo e nello stesso tempo di una messa a fuoco in profondità dei problemi, e richiede nuovi progressi che superino i confini storici delle discipline.

LICHNEROWICZ

 

C'e un'inadeguatezza sempre più ampia, profonda e grave tra i nostri saperi disgiunti, frazionati, suddivisi in discipline da una parte, e realtà o problemi sempre più polidisciplinari, trasversali, multidimensionali, transnazionali, globali, planetari dall'altra. In questa situazione diventano invisibili:

–        gli insiemi complessi;
–        le interazioni e le retroazioni fra le parti e il tutto;
–        le entità multidimensionali;

–        i problemi essenziali.

Di fatto l'iperspecializzazione[1] impedisce di vedere il globale (che frammenta in particelle) così come l'essenziale (che dissolve). Ora, i problemi essenziali non sono mai frammentari, e i problemi globali sono sempre più essenziali. Sempre più, tutti i problemi particolari possono essere posti e pensati correttamente solo nel loro contesto, e il contesto stesso di questi problemi deve essere posto sempre più nel contesto planetaria.

Nello stesso tempo, la separazione delle discipline rende incapaci di cogliere "ciò che e tessuto insieme"' cioè, secondo il significato originario del termine, il complesso.

La sfida della globalità è dunque nello stesso tempo una sfida di complessità. In effetti, c'e complessità quando sono inseparabili le differenti componenti che costituiscono un tutto (come quella economica, quella politica, quella sociologica, quella psicologica, quella affettiva, quella mitologica) e quando c'e un tessuto interdipendente, interattivo e inter-retroattivo fra le parti e il tutto e fra il tutto e le parti. Gli sviluppi caratteristici del nostro secolo e della nostra era planetaria ci mettono di fronte, sempre più spesso e sempre più ineluttabilmente, alle sfide della complessità.

Come hanno scritto Aurelio Peccei e Daisaku Ikeda: "L'approccio riduzionista, che consiste nel far riferimento a una sola serie di fattori per definire la totalità dei problemi posti dalla crisi multiforme che attualmente stiamo attraversando, più che una soluzione è il problema stesso".[2]

Effettivamente l'intelligenza che sa solo separare spezza il complesso del mondo in frammenti disgiunti, fraziona i problemi, unidimensionalizza il multidimensionale. Atrofizza le possibilità di comprensione e di riflessione, eliminando le possibilità di un giudizio correttivo o di una visione a lungo termine. La sua inadeguatezza a trattare i nostri problemi più gravi costituisce uno dei problemi maggiori che abbiamo di fronte. Così, più i problemi diventano multidimensionali, più si è incapaci di pensare la loro multidimensionalità; più la crisi progredisce, più progredisce l'incapacità a pensare la crisi; più i problemi diventano planetari, più essi diventano impensati. Un'intelligenza incapace di considerare il contesto e il complesso planetario rende ciechi, incoscienti e irresponsabili.

Gli sviluppi disciplinari delle scienze non hanno portato solo i vantaggi della divisione del lavoro, hanno portato anche gli inconvenienti della super-specializzazione, della compartimentazione e del frazionamento del sapere. Non hanno prodotto solo conoscenza e delucidazioni, ma anche ignoranza e cecità.

Invece di opporre correttivi a questi sviluppi, il nostro sistema d'insegnamento obbedisce loro. Ci insegna, a partire dalle scuole elementari, a isolare gli oggetti (dal loro ambiente), a separare le discipline (piuttosto che a riconoscere le loro solidarietà), a disgiungere i problemi, piuttosto che a collegare e a integrare. Ci ingiunge di ridurre il complesso al semplice, cioè di separare ciò che è legato, di scomporre e non di comporre, di eliminare tutto ciò che apporta disordini o contraddizioni nel nostro intelletto.[3]

In queste condizioni, i giovani perdono le loro attitudini naturali a contestualizzare i saperi e a integrarli nei loro insiemi.

La conoscenza pertinente è quella capace di collocare ogni informazione nel proprio contesto e se possibile nell'insieme in cui si inscrive. Si può anche dire chela conoscenza progredisce principalmente non con la sofisticazione, la formalizzazione e l'astrazione, ma con la capacità di contestualizzare e di globalizzare. Cosi, la scienza economica e la scienza umana più sofisticata e più formalizzata. Eppure gli economisti sono incapaci di accordarsi sulle loro previsioni, che spesso sono errate. Ciò perché la scienza economica si è isolata dalle altre dimensioni umane e sociali che le sono inseparabili. Come sostiene Jean-Paul Fitoussi[4] "molte disfunzioni, oggi, derivano da una stessa debolezza della politica economica: il rifiuto di affrontare la complessità". La scienza economica è sempre più incapace di considerare ciò che non è quantificabile, cioè le passioni e i bisogni umani. Cosi l'economia è allo stesso tempo la scienza più avanzata matematicamente e la più arretrata umanamente. Hayek l'aveva detto: "Nessuno che sia solo un economista può essere un grande economista". E aggiungeva anche che "un economista che è solo un economista diventa nocivo e può costituire un vero pericolo".

Dobbiamo dunque pensare il problema dell'insegnamento da una parte a partire dalla considerazione degli effetti sempre più gravi della compartimentazione dei saperi e dell'incapacità ad articolare gli uni agli altri, dall'altra parte a partire dalla considerazione che 1'attitudine a contestualizzare e a integrare è una qualità fondamentale della mente umana e che si tratta di svilupparla piuttosto che di atrofizzarla.

Dietro alla sfida del globale e del complesso si nasconde un'altra sfida, quella dell'espansione incontrollata del sapere. L'accrescimento ininterrotto delle conoscenze edifica una gigantesca torre di Babele, rumoreggiante di linguaggi discordanti. La torre ci domina perché noi non possiamo dominare i nostri saperi. Eliot diceva: "Dov'è la conoscenza che perdiamo nell'informazione?". La conoscenza è conoscenza solo in quanto organizzazione, solo in quanto messa in relazione e in contesto delle informazioni. Esse costituiscono frammenti di sapere dispersi. Ovunque, nelle scienze come nei media, siamo sommersi dalle informazioni. Neppure lo specialista della disciplina più circoscritta riesce a prendere conoscenza delle informazioni che riguardano il suo campo specifico. Sempre di più, la gigantesca proliferazione di conoscenza sfugge al controllo umano.

Di più, come abbiamo detto, le conoscenze frammentate servono solo per utilizzazioni tecniche. Non riescono a coniugarsi per nutrire un pensiero che possa considerare la condizione umana, in seno alla vita, sulla Terra, nel mondo, e che possa affrontare le grandi sfide del nostro tempo. Non riusciamo a integrare le nostre conoscenze per indirizzare le nostre vite. Da ciò emerge il senso della seconda parte della frase di Eliot: "Dov'e la saggezza che perdiamo nella conoscenza?".

Le tre sfide che abbiamo raccolto ci conducono al problema essenziale dell'organizzazione del sapere, che prenderemo in considerazione nel prossimo capitolo. Raccogliamo qui le sfide a catena che da esse derivano.

La sfida culturale

La cultura, ormai, non solo è frammentata in parti staccate, ma anche spezzata in due blocchi. La grande disgiunzione tra la cultura umanistica e quella scientifica, delineatasi nel XIX secolo e aggravatasi nel XX secolo, provoca gravi conseguenze per I'una e per 1'altra. La cultura umanistica è una cultura generica, che attraverso la filosofia, il saggio, il romanzo alimenta l'intelligenza generale, affronta i fondamentali interrogativi umani, stimola la riflessione sul sapere e favorisce l'integrazione personale delle conoscenze. La cultura scientifica, di tutt'altra natura, separa i campi della conoscenza; suscita straordinarie scoperte, geniali teorie, ma non una riflessione sul destino umano e sul divenire della scienza stessa. La cultura umanistica tende a diventare come un mulino privato del grano costituito dalle acquisizioni scientifiche sul mondo e sulla vita, che dovrebbe alimentare i suoi grandi interrogativi; la cultura scientifica, privata di riflessività sui problemi generali e globali, diventa incapace di pensarsi e di pensare i problemi sociali e umani che pone.

II mondo tecnico o scientifico vede la cultura umanistica solo come ornamento o lusso estetico mentre favorisce quello che Simon definiva il general problem solving, cioè l'intelligenza generale che la mente umana applica ai casi particolari. II mondo umanistico, da parte sua, vede nella scienza solo un aggregato di saperi astratti o minacciosi.

La sfida sociologica

II campo investito dalle tre sfide si estende incessantemente con lo sviluppo degli aspetti cognitivi delle attività economiche, tecniche, sociali, politiche, specialmente con gli sviluppi generalizzati e molteplici del sistema neuro-cerebrale artificiale chiamato impropriamente informatica, che entra in simbiosi con tutte le nostre attività. Così sempre più:

–        l'informazione è una materia prima che la conoscenza deve padroneggiare e integrare;
–        la conoscenza deve essere costantemente rivisitata e riveduta dal pensiero;

–        il pensiero è oggi più che mai il capitale più prezioso per l'individuo e per la società.

La sfida civica

L'indebolimento di una percezione globale conduce all'indebolimento del senso della responsabilità, poiché ciascuno tende a essere responsabile solo del proprio compito specializzato, così come all'indebolimento della solidarietà, poiché ciascuno percepisce solo il legame organico con la propria città e i propri concittadini.

C'è un deficit democratico crescente dovuto all'appropriazione da parte degli esperti, degli specialisti, dei tecnici, di un numero crescente di problemi vitali.

II sapere è divenuto sempre più esoterico (accessibile ai soli specialisti) e anonimo (quantitativo e formalizzato). Inoltre la conoscenza tecnica è riservata agli esperti, la cui competenza in un dominio chiuso si accompagna a un'incompetenza quando questo campo è parassitato da influenze esterne o modificato da un evento nuovo. In tali condizioni il cittadino perde il diritto alla conoscenza. Ha il diritto di acquisire un sapere specializzato compiendo studi ad hoc, ma è spossessato in quanto cittadino di ogni punto di vista inglobante e pertinente. Se è ancora possibile discutere al caffè commercio della condotta del capo dello Stato, non è più possibile comprendere ciò che scatena il crac asiatico così come ciò che impedisce a questo crac di provocare una crisi economica maggiore, e del resto gli stessi esperti sono profondamente divisi sulla diagnosi e sulla politica economica da seguire. Se e stato possibile seguire la Seconda guerra mondiale con delle bandierine sulla mappa, non lo è concepire i calcoli e le simulazioni dei computer che delineano gli scenari della guerra futura. L'arma atomica ha totalmente spossessato i cittadini della possibilità di pensarla e di controllarla. La sua utilizzazione e rimessa alla decisione personale del solo capo di Stato, senza consultazione di alcuna istanza democratica regolare. Più la politica diventa tecnica, più la competenza democratica regredisce.

Il perdurare del processo tecno-scientifico attuale, processo del resto cieco che sfugge alla coscienza e alla volontà degli stessi scienziati, conduce a una forte regressione di democrazia. Così, mentre1'esperto perde la capacità di concepire il globale e il fondamentale, il cittadino perde il diritto alla conoscenza. Quindi lo spossessamento del sapere, molto poco equilibrato dalla volgarizzazione mediatica, pone il problema storico ormai capitale della necessità di una democrazia cognitiva.

Attualmente è impossibile democratizzare un sapere compartimentato e per natura esoterizzato. Ma forse sarebbe possibile considerate una riforma di pensiero che permettesse di affrontare la formidabile sfida che ci chiude nella seguente alternativa: o subire il bombardamento di innumerevoli informazioni che ci arrivano a pioggia quotidianamente attraverso i giornali, le radio, le televisioni; oppure affidarci a dottrine che delle informazioni accettano solo ciò che le conferma o che è loro intelligibile, rifiutando come errore o illusione tutto ciò che le smentisce o che risulta loro incomprensibile. Questo problema si pone non solo per la conoscenza quotidiana del mondo, ma anche per quella di tutte le cose umane e per la stessa conoscenza scientifica.

La sfida delle sfide

Un problema cruciale del nostro tempo è quello della necessità di raccogliere tutte le sfide interdipendenti che abbiamo considerato.

É la riforma di pensiero che consentirebbe il pieno impiego dell'intelligenza per rispondere a queste sfide e che permetterebbe il legame delle due culture disgiunte. Si tratta di una riforma non programmatica ma paradigmatica, che concerne la nostra attitudine a organizzare la conoscenza.

Tutte le riforme concepite fino a ora hanno girato intorno a questa buco nero nel quale si trova il bisogno profondo delle nostre menti, della nostra società, del nostro tempo e anche del nostro insegnamento. Le riforme non hanno percepito l'esistenza di questa buco nero poiché derivano da quel tipo di intelligenza che si tratta di riformare.

La riforma dell'insegnamento deve condurre alla riforma di pensiero e la riforma di pensiero deve condurre a quella dell'insegnamento.

 



[1] Cioè la specializzazione che si ripiega su se stessa senza permettere la sua integrazione in una problematica globale o in una concezione d 'insieme dell'oggetto di cui essa considera solo un aspetto o una parte.

[2] A. Peccei, D. Ikeda, Campanello d'allarme per il XXI secolo, Bornpiani, Milano 1985.

[3] II pensiero che taglia, che isola, permette agli specialisti e agli esperti di ottenere risultati eccellenti nei loro settori e di cooperare efficacemente in settori non complessi di conoscenza, specialmente in quelli che concernono il funzionamento delle macchine artificiali; ma la logica a cui essi obbediscono estende alla società e alle relazioni umane i vincoli e i meccanismi inumani della macchina artificiale, e la loro visione deterministica, meccanicista, quantitativa, formalista, ignora, occulta o dissolve tutto ciò che e soggettivo, affettivo, libero, creatore.

[4] J.-P. Fitoussi, Le Débat interdit: monnaie, Europe, pauvreté, Arléa, Paris 1995.

Edgar Morin, La testa ben fatta. Riforma dell'insegnamento e riforma del pensiero, Raffaello Cortina Editore, Milano 2000, pp. 5-13.