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Verità

Anno di redazione: 
2002
Vittorio Possenti

I. Introduzione - II. Il concetto di verità nella storia del pensiero - III. Ulteriore elaborazione sul concetto di verità - IV. Approfondimenti sul concetto di verità nella filosofia del Novecento: Maritain e Heidegger - V. La verità nella Rivelazione - VI. Il rapporto fra scienza e fede - VII. La verità e il problema del realismo.

I. Introduzione

La questione centrale per la scienza, la filosofia e la teologia è quella della verità. In questi tre grandi ambiti della conoscenza umana essa viene incessantemente cercata, sia pure attraverso metodi e strade diverse, e ciò stabilisce il loro compito infinito. Nessuna delle tre raggiungerà la verità tutta intera, possiamo però sperare in un avvicinamento progressivo a essa. Scienziati, filosofi e teologi di orientamento realistico procedono nel complesso affiancati, poiché riconoscono un impegno comune: ritengono che vi sia una verità da trovare o a cui avvicinarsi, in un incontro velato e difficile ma in linea di principio possibile.

Alla base della conoscenza umana sta l'intuizione che esista una profonda intelligibilità del reale, in cui si esprime il Lógos. Nella creazione si instaura un grande dialogo fra due intelletti: l'umano e il divino. L'eterno mistero e l'eterna sorpresa del mondo è appunto la sua intelligibilità. Non potrebbero esservi scienza, filosofia e teologia senza l'assunto che è possibile cogliere il reale con le nostre idee, senza una qualche forma di certezza sull'armonia e l'intelligibilità dell'essere. Questa intuizione matrice, che costituisce il punto di comunicazione fra fede cristiana, filosofia, scienza, è tanto un postulato, quanto l'esito di un lungo cammino di ricerca in cui è stato possibile rilevare l'esistenza di un accordo fra conoscenza e realtà. Ciò ha spinto a interrogarsi sul nesso fra la nostra conoscenza e il cosmo. Le possibilità della scienza e della filosofia sono già inscritte nel fatto che il cosmo è creato, che noi ne facciamo parte come imago Dei. In questo cammino si è appreso che la nostra conoscenza degli enti non può procedere a priori ma deve fondarsi volta per volta sulla natura propria degli oggetti da conoscere: la conoscenza di Dio e quella di un filo d'erba, pur legate in virtù della universalità del concetto di essere, differiscono poiché gli oggetti cui devono conformarsi sono diversi. Affinità intercorrono perciò fra ricerca teologica, filosofica e scientifica dell'intelligibilità, entro il postulato o principio assiomatico dell'unità della verità, ossia della impossibilità di parteggiare per la dottrina della doppia o della molteplice verità. Ciò tuttavia non implica che le verità acquisite siano tutte di pari livello e raggiunte con un procedimento univoco. L'enciclica Fides et ratio, mentre sostiene l'unità della verità, avverte che «due sono le ali con cui lo spirito umano si eleva alla contemplazione della verità» (n. 1), la fede e la ragione (la quale poi ha molti modi per esprimersi).

Nel momento in cui si ricordano alla scienza i suoi limiti conoscitivi (essa non conosce tutto) e morali (essa non può lecitamente tutto), è impresa sensata tenere presenti i fondamenti conoscitivi su cui essa riposa, che sono di ordine filosofico e "teologico": l'idea appunto che l'intero ha qualche senso e che è intelligibile.

  

II. Il concetto di verità nella storia del pensiero

Se è fondato quanto hanno sostenuto alcuni filosofi, fra cui Agostino, che la felicità dell'uomo consiste nella fruizione della verità, l'analisi del suo concetto riveste carattere primario anche per la vita, di cui non rende pienamente ragione una concezione soltanto epistemologica del vero. Certo lo sviluppo delle scienze moderne - scandito in origine da due date emblematiche: 1543, anno di pubblicazione del De revolutionibus orbium caelestium di Copernico, e 1687, quando appare Philosophiae naturalis principia mathematica di Newton - persuade ad assegnare rilievo alla verità epistemologica offerta dalle scienze, senza essere obbligati a ritenerla l'unica. Esiste infatti almeno anche un significato esistenziale della verità: non solo qualcosa che si conosce, ma qualcosa che illumina la vita e dirige l'azione.

Poiché il concetto di verità è passibile di varie determinazioni, un valido accostamento al tema si ottiene mediante una scansione storica e dottrinale, che ponga in presenza delle principali concezioni che ne sono state avanzate. Ci riferiremo specialmente al concetto di verità "teoretica", più che alla verità pratica (dell'agire, del desiderio), o a quella estetica. I concetti fondamentali di verità presentatisi nella storia del pensiero sono riconducibili a sette posizioni: a) verità come corrispondenza o conformità fra pensiero e realtà; b) verità come manifestazione, apertura, evidenza, contatto diretto; c) verità come rivelazione divina; d) verità come coerenza; e) verità come conformità a una regola; f) verità come consenso intersoggettivo; g) verità come utilità e efficacia. A queste posizioni andrebbe aggiunta l'idea biblica di verità come fedeltà e stabilità (vedi infra, V), idea che si trova in modo originale nella Scrittura, ma non è contrapposta a quella di verità come conformità.

1. La verità come corrispondenza fra pensiero e realtà. Fra le posizioni elencate, quella di gran lunga prevalente risulta essere la prima. Essa è presente già agli inizi del pensiero greco e trova chiara espressione in Platone: «vero è il discorso che dice le cose come sono, falso quello che le dice come non sono» (Cratilo 385b; cfr. anche Sofista, 262e). Successivamente il tema viene ripreso e adeguatamente approfondito da Aristotele in specie nella Metafisica: «vero è dire che l'essere è e che il non-essere non è» (IV, 1011b, 27-28; cfr. anche Categorie, 4b, 8). Queste posizioni del pensiero greco con piccole modulazioni vengono fatte proprie dal pensiero successivo e divengono un caposaldo della filosofia e della teologia del cristianesimo, come dell'ebraismo (ad es. con Mosé Maimonide). Tommaso d'Aquino farà ricorso e renderà classica la nota formula secondo cui la verità dichiarativa che si esprime nel giudizio va intesa come adaequatio intellectus et rei (cfr. Summa theologiae , I, q. 16; De Veritate, q. 1. a. 1). Per Aristotele (cfr. Metafisica , VI, 1027b, 25ss) e per Tommaso (cfr. Summa theologiae, I, q. 16, a . 1) la verità dichiarativa o apofantica sta nel pensiero, ossia nell'intelletto che compone, veracemente o falsamente, soggetto e predicato. Tuttavia, la misura della verità è da considerarsi duplice: nel caso della conoscenza umana, misurante è la res, non la mente/intelletto (cfr. Metafisica , IX, 1051b, 5). Viceversa, l'intelletto divino è lui stesso la misura, onde quello umano è sempre misurato tranne che nella produzione delle cose artificiali (cfr. De Veritate , q. 1, a. 2). Per Tommaso, la cosa a cui l'intelletto deve adeguarsi è la res appresa nel concetto. L'Aquinate, accogliendo la determinazione aristotelica della verità dichiarativa, mette maggiormente in luce sia il fondamento ontologico del discorso vero, che è sempre radicato nell'essere delle cose: «esse rei causat veritatem intellectus» (Summa theologiae, I, q. 16, a. 1, ad 3um), sia il carattere originariamente trascendentale del verum come volto dell'essere.

Nel nominalismo l'aspetto del vero come trascendentale, ossia come una proprietà inerente all'essere, si perde. Il vero rimane ad indicare semplicemente una qualità delle proposizioni. Verità significa solo "proposizione vera", è un attributo delle proposizioni dotate di verità (cfr. T. Hobbes, De corpore, 3, n. 7). Elaborata dal pensiero filosofico, la dottrina della verità come conformità ha trovato sostenitori nella scienza, che è percorsa da un intento realistico. Copernico, Keplero, Galileo, Newton, Leibniz e molti altri erano persuasi che le leggi da loro scoperte corrispondessero alla natura delle cose e che esprimessero qualcosa dell'intelligibilità del mondo; e che, sia pure sollecitata dal ricercatore, sia la stessa natura a pronunciarsi. Nel giungere alla teoria della relatività generale, Einstein calcolò la precessione del perielio di Mercurio - un'anomalia che aveva lasciato sconcertati gli astronomi - scoprendo che la nuova teoria spiegava il movimento del pianeta con precisione assai maggiore di quanto non facesse la teoria newtoniana.

Tuttavia, l'idea di verità come conformità può venire intesa secondo significati diversi, alcuni dei quali risultano meramente formali e tali da annullare la sua valenza realistica. Da qui ha preso origine nella modernità una costante critica al concetto di verità come conformità, già a partire da Cartesio e Spinoza. Una delle principali obiezioni, che di fatto conduce a dissoluzione il concetto realistico di vero, è l'assunto spinoziano secondo cui il rapporto veritativo si istituisce fra l'idea e il suo ideato mentale; l'idea è vera per sé, in virtù della sua perfezione, non in virtù di una corrispondenza con la cosa. Il rapporto causativo del vero è dunque ribaltato nel senso che è dalla verità dell'idea che proviene la sua conformità con la realtà. Poiché non si ritiene che sia la conformità a stabilire la verità dell'idea, la forma del pensiero vero va cercata nello stesso pensiero e va dedotta dalla natura dell'intelletto. L'idealismo riprenderà e darà veste compiuta a tali concetti, specialmente nel primo Schelling (Sistema dell'idealismo trascendentale, 1800) e in Hegel (Scienza della logica, 1812-1816).

Là dove si incontra il rifiuto o la critica dell'idea di verità come adeguazione si rivela presente un irrisolto dualismo di origine kantiana fra pensiero e realtà. Ciò si ritrova in maniera considerevole in Heidegger, in Apel, in Habermas, ecc. Torneremo su questo aspetto notevole (vedi infra, n. 6 e III).

D'altro canto il concetto di verità come corrispondenza nel suo significato realistico è stato molte volte ripreso fino all'Ottocento e poi nel nostro secolo da pensatori quali Bolzano, Meinong, dal positivismo e dallo schieramento di filosofi tomisti come Gilson, Maritain, Fabro e Lonergan. Questi ultimi si sono opposti ai tentativi di dualizzare il concetto di verità, ritagliandone un'idea per le scienze ermeneutiche ed un'altra per quelle della natura (le prime caratterizzate dalla "verità" del comprendere e interpretare, le altre dal "metodo" del verificare, come in certo modo intende Gadamer). Nel pensiero del Novecento troviamo una sostanziale accettazione dell'idea di conformità in scienziati e filosofi alieni da slittamenti decostruttivi, fra cui in specie Popper e Tarski. Essi riconoscono valida l'idea di verità come corrispondenza, sebbene Popper (cfr. Conoscenza oggettiva, 1972; La ricerca non ha fine, 1974) sia più sensibile all'elemento realistico implicato in essa, mentre il secondo con la teoria semantica del vero riduce la corrispondenza ai linguaggi formalizzati. La reintroduzione popperiana del concetto di verità come conformità, sia pure nel long run, era esigita dalla teoria stessa del fallibilismo, poiché tale termine non avrebbe senso se non si presupponesse che la teoria scientifica, che è stata smentita dai fatti, non sia stata conforme al reale. Ciò implica che il fallibilismo, piuttosto che essere compreso, come è pure possibile, quale ingresso allo scetticismo, sia invece una forma di "meliorismo" (così era inteso anche da Peirce).

Al di là del registro teoretico l'idea di verità come adeguazione rimane valida. Nel caso della verità "pratica", la conformità valendo come adeguazione tanto del retto desiderio alla legge (verità morale), quanto dell'atto all'intenzione che lo ha mosso (verità premorale o "tecnica"). Non è superfluo ricordare che per Kant il bene e il male, ossia la verità morale, sono la conformità/difformità dell'arbitrio rispetto alla legge (cfr. La religione entro i limiti della sola ragione, 1793, cap. I) e che per Aristotele nel campo della ragion pratica la verità è corrispondenza alla rettitudine del desiderio (cfr. Etica Nicomachea, VI, 1139a, 30). Nel caso della "sequela", l'idea di verità si presenta come conformità fra modello/maestro e discepolo: ci si conforma a qualcuno perché si ha fiducia in lui. La verità si riceve fidandosi e affidandosi, all'interno un rapporto personale. In questi casi il primo significato (a) di verità (vedi supra) si avvicina e tende a inglobare il quinto (e), cioè la verità come conformità a una regola o a una persona. Nella sua potenza sintetica il concetto di verità come adeguazione o conformità fra atto del soggetto e realtà abbraccia ogni dominio, oltrepassa il pur fondamentale livello del vero dichiarativo, applicandosi anche al momento dell'azione e della sequela, dove si opera per "render vero" qualcosa. Qui la verità appare - un caso tipico è quello dell'esperienza religiosa - come qualcosa o qualcuno a cui si rende testimonianza, conformando o adeguando la propria vita a ciò che viene richiesto e/o ad un esempio vivente.

Sembra perciò che il vero si dica in diversi modi, come l'essere, e che esista una verità metafisica, una scientifica, una morale, una estetica, una ermeneutica, nelle quali il concetto di conformità o corrispondenza non si applica in maniera univoca e neppure equivoca, ma analoga, ossia secondo modalità specifiche. Tale concetto rimane normativo, sebbene l'intento di abbandonare la determinazione dell'adaequatio possa aver contagiato taluni settori della filosofia e della teologia, dove recentemente si è diffusa (anche nell'ambito della teologia cattolica) una serpeggiante sfiducia verso tale idea, quasi che essa costituisse un inciampo, un'espressione formale, un impoverimento o anche un attentato alla persistenza del mistero. Tuttavia, annullando il concetto di verità nella sua radice originaria in cui si esprime una conformità (sia essa fra pensiero e cosa, o fra volontà e regola, oppure fra modello/maestro e discepolo), non è più possibile pensare o operare alcunché in cui l'idea di regola, riferimento o misura continui ad essere presente. Conseguentemente l'atto stesso dell'intellectus fidei perde significato. L'enciclica Fides et ratio presenta invece come inaggirabile il concetto di verità come conformità (cfr. nn. 56 e 82).

Anche le posizioni ermeneutiche, attentamente considerate, si accostano almeno formalmente a tale criterio di verità, che nella fattispecie consiste nella conformità dell'interpretazione all'interpretandum : ogni autore, proponendo un'interpretazione, la tiene per vera, sebbene non di rado si ritenga non raggiungibile un'adeguazione definitiva. Nell'ambito della verità come interpretazione si pone l'accento sul carattere ermeneutico della nostra esperienza del mondo. In proposito si possono ricordare le posizioni di U. Betti (Teoria dell'interpretazione, 1955) e di L. Pareyson (Verità e interpretazione, 1971), secondo il quale la verità unitaria e identica si incarna e si esprime in molteplici formulazioni storiche, che rappresentano l'avvento temporale della verità intemporale e unica. Secondo P. Ricoeur (Il conflitto delle interpretazioni, 1969), se il conflitto delle interpretazioni attesta la finitezza umana e il nostro "essere situati", attesta pure lo sforzo per muovere verso una interpretazione migliore e più conforme. La diversità stessa delle interpretazioni comporta il rinvio a qualcosa che possa dirimerla. Diversa invece la posizione dell'ermeneutica radicale e decostruttiva, dove con Derrida (Della grammatologia, 1968) si nega ogni forma di obiettività ermeneutica, e con Vattimo (Oltre l'interpretazione, 1994) la verità come conformità è rinviata a quella come apertura e quest'ultima intesa con la metafora dell'abitare. Alto si presenta il rischio di una dissoluzione metaforica del concetto di verità.

Giova aggiungere che i termini di adeguazione, conformità, corrispondenza non implicano una conquista esaustiva dell'intelligibilità dell'oggetto: l'oggetto più semplice non è mai definitivamente conosciuto, esaurito nei suoi molteplici aspetti. Il criterio della verità come adeguazione include il momento della non-adeguazione, ossia indica l'apertura di una relazione tra mente e realtà mai conclusa, indefinitamente suscettibile di nuovi sviluppi.

2. La verità come manifestazione, apertura, evidenza, contatto diretto, scoperta. Tale comprensione del concetto di verità è propria di diverse scuole, quali l'empirismo di vario genere, che include ad es. l'epicureismo, per il quale la verità è data nella stessa percezione sensibile, capace di manifestare la cosa come è. Il notevole significato di verità come manifestazione e contatto diretto è già tematizzato in Aristotele (cfr. Metafisica, IX, 1051b, 22ss). A tale ambito appartiene il concetto cartesiano di verità, che al criterio della conformità sostituisce quello dell'evidenza immediata propria dell'idea chiara e distinta. Tanto la corrente fenomenologica avviata da Husserl, con l'idea che l'intuizione fenomenologica delle essenze ci possa consentire di raggiungere il vero, quanto la dottrina della verità come non-ascosità, scoprimento, a-letheia resa celebre da Heidegger (cfr. Sull'essenza della verità, 1930), si collocano in questo spazio. Quest'ultimo autore rimprovera a tutta la tradizione filosofica uscita da Platone e dai greci di aver adulterato il senso originario della verità come alétheia (svelamento) portandolo all'idea di orthótes, correttezza dell'enunciare, che si formula nel giudizio. In tutti questi casi, vero è ciò che immediatamente si dà con una sua faneroscopica evidenza che non può essere negata. Al fondo sta l'idea che la realtà sia di per se stessa automanifestativa, cioè fanica (dal gr. phaínein, mostrare, apparire, manifestare). Nonostante le incomprensioni possibili e storicamente verificatesi, il primo (a) e il secondo (b) significato di verità non si oppongono, anzi il primo implica il secondo come suo momento interno, necessario ma non sufficiente. Ma non accade sempre così: lo vedremo considerando le posizioni di Heidegger e di Maritain (vedi infra, III).

Il presente concetto di verità, facendo riferimento all'apertura, al dischiudersi di dimensioni nuove della realtà, allude alla verità come scoperta. La logica della verità è anche logica della scoperta, dell'impensato, della novità, a testimonianza che il concetto di verità è completamente equivocato se compreso solo come rispecchiamento del già noto. L'idea di verità come scoperta rientra nel concetto di conformità: la scoperta è la conformità di una risposta nuova e fondata a una domanda nuova; e veicola più esplicitamente quanto è già incluso nella prima (a) idea di verità, cioè il compito primario, attivo, mai fermo dell'intelletto nella scoperta del vero. Nella sua ricerca azione e teoresi si uniscono intimamente.

3. Il concetto di verità come rivelazione. In tale concetto si ha di mira il disvelamento per iniziativa divina di aspetti dell'essere preclusi all'uomo: mentre nel caso precedente in vario modo si esprime l'idea-intuizione che sia la realtà stessa a manifestarsi all'uomo, ossia che essa (non però l'intero, ma sue parti) sia dotata di carattere automanifestativo, qui si mostra necessario un positivo intervento divino capace di togliere il velo a ciò che supera le possibilità dell'intelletto. Con la rivelazione si valica il fossato fra finito e infinito e si propone all'uomo uno svelamento del mistero. Chi disvela è il Verbo o Intelletto divino, poiché esso è la verità stessa. Esso disvela, sia creando e inserendo nelle cose un lógos che riflette parti del Logos originario, sia scoprendo tramite una rivelazione positiva religiosa qualcosa della vita di Dio e del destino ultimo dell'uomo. La prima intuizione è spesso presentita dagli scienziati, come ad es. attesta Einstein: «È certo che alla base di ogni lavoro scientifico un po' delicato si trova la convinzione, analoga al sentimento religioso, che il mondo è fondato sulla ragione e può essere compreso. Questa convinzione legata al sentimento profondo della esistenza di una mente superiore che si manifesta nel mondo della esperienza, costituisce per me l'idea di Dio» (Come io vedo il mondo, Roma 1988, p. 32). L'altra concezione, che accompagna senza contraddizione quella della verità come conformità, è propria del cristianesimo e si ritrova in Agostino, Anselmo, Tommaso, ecc.

Le due idee si mostrano feconde per una adeguata riflessione sulla verità e per il dialogo scienza-fede. La verità della creazione, che può essere stabilita razionalmente al livello della metafisica, e il Logos in essa immanente, si pongono in modo esplicito o implicito alla base di molte ricerche. Se il cosmo è capace di "parlare" all'intelletto umano, è perché esiste una loro originaria proporzione, è perché nel primo si esprimono in vario modo una Parola originaria, un lógos e una verità ovunque diffuse e che indefinitamente si rifrangono in ogni frammento del creato. Su ciò si fonda la verità della analogia che rende possibile una certa conoscenza di Dio a partire da quella delle cose. Più o meno consapevolmente, la scienza con la sua ricerca si colloca entro tale orizzonte tematizzato dalla metafisica e dischiuso dalla Rivelazione (cfr. Sap 9,1; 16,12; 18,14).

4. La verità come coerenza. Questa è tematizzata nella filosofia critica. Nel pensiero di Kant incontriamo ancora la verità come conformità, intesa però come mera definizione "nominale", mentre viene introdotto il criterio "formale" di verità come coerenza del pensiero con se stesso, ossia accordo del pensiero con le leggi generali necessarie dell'intelletto. «Ciò che contraddice queste leggi - sostiene Kant nella Critica della ragion pura  - è falso perché l'intelletto in tal caso contrasta con le sue stesse leggi, perciò con se stesso». In effetti in quest'opera Kant, accettando e presupponendo «la definizione nominale della verità come accordo della conoscenza col suo oggetto», osserva che «il criterio semplicemente logico della verità, cioè l'accordo di una conoscenza con le leggi generali e formali dell'intelletto e della ragione, è bensì la conditio sine qua non, quindi la condizione negativa di ogni verità», la quale esige di compiere il passaggio alla logica (analitica) trascendentale capace di esporre gli elementi della conoscenza pura dell'intelletto e i princìpi, senza i quali nessun oggetto può assolutamente essere pensato: essa è una logica della verità (cfr. Critica della ragion pura: "Logica Trascendentale", Introduzione, III, Roma-Bari 1989, pp. 98-99).

In questa posizione la verità è l'accordo di una proposizione con il sistema delle altre proposizioni, ossia la concordanza o conformità delle proposizioni fra loro invece che con la realtà. Risultato che costituisce massimo esito dell'antirealismo e si lega alla problematica idea kantiana della cosa in sé (noumeno), di cui farà giustizia con sarcasmo Hegel nella Scienza della logica. Criticando la separazione fra pensiero ed essere introdotta da Kant, e che è all'origine di una illimitata serie di equivoci sul problema del vero, Hegel cerca di pervenire con il criterio dell'identità fra razionale e reale a un'idea di logica non come scienza formale ma come scienza della verità.

Si potrebbe comunque distinguere fra verità formale e verità materiale: la prima sarebbe solo l'incontraddittorietà e la coerenza logica delle deduzioni dalle premesse o postulati; l'altra sarebbe la verità come concordanza con la realtà. Gli asserti della geometria pura sono veri se coerenti con gli assiomi convenzionalmente postulati all'inizio. Tuttavia la verità soltanto formale non basta, dal momento che in essa è stato eliminato ogni rapporto con la realtà, e deve essere integrata con la verità materiale, intesa almeno come compatibilità con asserti che esprimono i fatti empirici. Secondo M. Schlick «non vedo alcun inconveniente - e anzi lo ritengo del tutto opportuno - usare per questa compatibilità la vecchia buona espressione "concordanza con la realtà"» (Il fondamento della conoscenza, Brescia 1966, p. 23). Viceversa, il neopositivismo di Carnap e di Neurath intese la verità come coerenza delle proposizioni fra loro, teoria che l'autore precedentemente nominato riteneva invece completamente inadeguata (cfr. ibidem, p. 27). In effetti, la teoria della verità come coerenza non fornisce alcun criterio univoco di verità, poiché è logicamente possibile pervenire a un numero qualsivoglia di sistemi di proposizioni internamente incontraddittorie, ma fra loro (ossia esternamente e reciprocamente) incompatibili, esito con cui si perverrebbe all'idea non della doppia ma della molteplice verità. La nozione di verità come coerenza è pure presente negli autori idealisti inglesi della fine dell'Ottocento, fra cui in specie F.H. Bradley (cfr. Apparenza e realtà, 1893).

5. La verità come conformità a una regola. Tale concezione della verità può ospitare due evoluzioni: verso il primo concetto di verità (a), cioè quello generale di verità come conformità, precedentemente visto; ma esso può evolvere anche verso la verità come coerenza (d), quando, come nel criticismo, la conformità del pensiero con le leggi necessarie dell'intelletto implica la coerenza incontraddittoria del pensiero con se stesso. Il concetto di verità come conformità a una regola ha un importante ambito di validità nella verità morale, la quale può venire intesa come la conformità dell'atto umano alla legge morale. Ciò rimane formalmente valido anche nel caso in cui la regola sia intesa come posta da un'adeguata volontà arbitraria e attualmente potestativa. Valida è semplicemente l'azione conforme alla regola o legge positiva: si pensi alla posizione di H. Kelsen (1881-1973) e alla sua dottrina pura del diritto positivo.

6. La verità come consenso intersoggettivo. Alla verità come coerenza, tale nozione aggiunge la ricerca di intersoggettività. Si tratta di una concezione affermata dalle recenti filosofie della comunicazione, con Apel e Habermas. Esse cercano una intersoggettività idealmente illimitata del consenso. Per questi autori la verità è sia un presupposto, per cui chi parla e argomenta sottintende fra le condizioni del suo dire la verità e la veracità, sia lo scopo finale dell'azione comunicativa illimitata nella comunità: raggiungere un punto di convergenza delle nostre credenze. Resta soggetto al dubbio se l'accordo cercato sia solo linguistico intersoggettivo o reale oggettivo, basato cioè su una conformità effettiva all'essere. Un'altra domanda concerne l'estensione della comunità illimitata della comunicazione: comprende essa anche il Trascendente, o in linea di principio si opera una limitazione solo al mondo umano e al dialogo fra gli uomini? È un rischio della dottrina della verità come intersoggettività quello di identificare il sapere intersoggettivo col sapere valido in quanto tale. D'altra parte l'idea di Wittgenstein secondo cui non possiamo uscire dal linguaggio non si oppone alla dottrina dell'adeguazione, se intendiamo la conformità come corrispondenza di una proposizione con qualcosa che può essere espresso nel linguaggio e che attraverso il linguaggio raggiunge la res.

Nella verità come coerenza in modo aperto, e nella verità come intersoggettività in modo instabile, il riferimento alla realtà empirica è troncato intenzionalmente: perciò l'idea di verità come intersoggettività può essere lontana o vicina a quella di conformità. In quest'ultimo caso l'idea di conformità rimane come travestita, espressa come adeguamento asintotico alla realtà di un sistema di proposizioni intersoggettivamente stabilite. Se nella scienza col criterio della verità-coerenza è possibile costruire un illimitato numero di sistemi di pure proposizioni senza effetto e incidenza reale, con la verità-intersoggettività si edifica un sistema di proposizioni che danno all'uomo un potere sulla natura e intorno alle quali il disaccordo è raro.

7. La verità come utilità ed efficacia. La determinazione della verità come efficacia si svolge in genere lungo due linee affini ma non identiche: la linea della verità come utilità per la vita; e quella in cui la verità esplica un'efficacia strumentale ed operatoria. La prima idea è propugnata da Nietzsche (1844-1900) per il quale è vero ciò che risulta utile per la vita. Sarà appunto Nietzsche ad affermare: «La falsità di un giudizio non è ancora per noi un'obiezione contro esso» ( Al di là del bene e del male, 1886, I, 4). Per quest'autore la verità non è qualcosa di esistente da scoprire, ma qualcosa da creare ai fini del potenziamento della vita. Domandando «che cosa è la verità?», egli aveva risposto: «Un mobile esercito di metafore, metonimie, antropomorfismi, in breve una somma di relazioni umane che sono state potenziate poeticamente e retoricamente, che sono state trasferite e abbellite, e che dopo un lungo uso sembrano a un popolo solide, canoniche e vincolanti: le verità sono illusioni di cui si è dimenticata la natura illusoria, sono metafore che si sono logorate e hanno perduto ogni forza sensibile, sono monete la cui immagine si è consumata e che vengono prese in considerazione soltanto come metallo, non come monete» (Su verità e menzogna in senso extramorale, 1873, I). W. James (1842-1910), pur senza collegarsi strettamente a Nietzsche, diffuse col pragmatismo l'idea che, nel campo della morale e della religione la verità consistesse nella capacità di offrire soluzioni efficaci ai problemi. Altri autori allargarono l'ambito considerando vero tutto ciò che potesse sia ampliare con la conoscenza il controllo dell'uomo sul cosmo, sia migliorare moralmente i rapporti umani. Un carattere affine ma non identico presenta il pragmatismo di J. Dewey (1859-1952), incline a sottolineare il carattere strumentale e operatorio, ossia capace di incidere nella natura e nella società, delle molteplici procedure conoscitive dotate di verità, cioè di efficacia. Dewey si orienta verso una forma di "strumentalismo", nel senso che la stessa attività di pensiero è un agire orientato, un fare che modifica le condizioni in cui gli oggetti si presentano e li dispone in modo nuovo. I concetti sono dunque strumenti con cui pensiamo gli oggetti e li modifichiamo (cfr. Ricostruzione nella filosofia, 1920).

  

III. Ulteriore elaborazione del concetto di verità

Nell'accostamento alla questione della verità, denotata da un'ampia polisemia del suo concetto, un passo necessario è costituito dalla determinazione delle distinte modalità dell'"essere vero". Ne consideriamo le tre seguenti.

La prima di esse è la modalità rappresentata dall'esistenza stessa delle cose. Le cose sono come sono; esse sono vere: verum est id quod est, scriveva Agostino (Soliloquia, II, 5). La verità è la realtà: essa sta nella sua sovrana e altera indifferenza; essa custodisce il suo segreto. Siamo noi che la interroghiamo. Chiamiamo "verità ontologica" questa modalità dell'essere vero. Il luogo di questa verità sono le "cose", secondo il grado d'essere di ciascuna: «ciascuna cosa possiede tanto di verità quanto possiede di essere» (Aristotele, Metafisica, II, 993b, 30). La seconda è la modalità della verità dichiarativa, espressa nel e dal giudizio, e che assume la forma dell'adeguazione fra giudizio e realtà. È possibile denominare "verità dichiarativa" o "verità logica" questo livello. Il luogo di questa verità è la mente, nel senso che è l'atto della mente che conformandosi o non conformandosi alla realtà, componendo validamente o erroneamente soggetto e predicato, rende vero o falso il pensiero. Nella modalità di cui discorriamo, verità dice relazione dell'intelletto alla cosa in quanto conoscibile. La terza è la modalità in cui si esprime l'idea che le cose, essendo come sono, rinviano per la loro posizione d'essere all'intelletto creatore (o all'artefice umano) da cui dipendono. Il livello della prima modalità si invera e si compie nel livello della terza, a cui attribuiamo il nome di "verità ontologica assoluta". Anche in questa modalità vige la formula della corrispondenza, che è bifronte e che nel caso presente è intesa come l'adeguazione della cosa all'intelletto che la pone e la mantiene nell'esistenza (non adaequatio intellectus et rei, bensì adaequatio rei et intellectus).

Nella seconda e terza determinazione il concetto di verità manifesta una struttura intrinsecamente relazionale: esso dice rapporto fra pensiero ed essere. La formula che esprime la verità "logica" come conformità (adaequatio intellectus et rei) mette in luce con la sua stessa struttura linguistica e semantica il carattere relazionale della verità, come rapporto cioè fra intelletto e oggetto, nel quale il primo si apre all'alterità in quanto tale. Ciò significa che il pensiero non gira chiuso su se stesso, ma può progredire nella conoscenza. Vi è dunque verità là dove vi è pensiero; la verità dice relazione a un pensiero. Se in ipotesi vi fosse un cosmo senza alcuna forma di pensiero, in esso non vi sarebbe verità dichiarabile, poiché non vi sarebbe alcun pensiero per pensarla e esprimerla.

Poiché la verità dichiarativa è una relazione, l'intendimento del concetto di verità muta secondo la concezione che viene formata dei due poli della relazione. Nel pensiero postmoderno la critica viene sovente rivolta al versante della mente, con l'enfasi posta sulla crisi o la morte della ragione, inadatta a cogliere la realtà e la vita. Nelle filosofie di ascendenza cartesiana e razionalistica è piuttosto dall'intendimento dell'essere (la res) che si diramano equivoci: l'essere o la res vengono intesi in modo immanente come l'idea o l'"oggetto rappresentato", assunto in base al quale diventa insolubile il problema di come l'ideato mentale possa rappresentare la realtà (questione invece superata nella posizione classica dove le idee o concetti non rappresentano, ma presentano direttamente l'oggetto). Proseguendo lungo questa strada, la verità finisce per essere intesa come la corrispondenza fra il soggetto pensante e il frutto interiore della sua attività di pensiero, dunque infine come la coerenza del pensiero con se stesso.

Nelle dottrine che si distaccano dalla verità come conformità si assiste a una incomprensione o a un'indebita riduzione del concetto di res. Nell'empirismo la res è solo quella sensibile, ossia la cosa che si vede e si tocca. La critica del naturalismo, che viene indirizzata al concetto di verità come conformità anche da taluni settori della teologia estranei all'empirismo, è tributaria dell'equivoco che identifica res e cosa materiale, ossia non tiene conto del significato trascendentale di res: realismo non è dunque "cosismo" poiché res è nozione trascendentale convertibile con quella di essere. Nel coerentismo la res scompare, e la verità non è più un rapporto con l'alterità ma la mera coerenza interna, di tipo logico. Anche nella verità come intersoggettività la res sembra non interessare o interessare solo come correlato asintotico di un sistema di asserti.

L'idea di verità come conformità è omogenea con tre assunti che costituiscono luoghi centrali della gnoseologia e della metafisica. Ciò significa che la sua migliore comprensione richiede che essa sia pensata in unione con tali assunti, ossia con: il "realismo moderato"; la possibilità dell'"intuizione intellettuale"; la capitale dottrina dell'"identità intenzionale fra pensiero ed essere". Sfortunatamente questi tre punti centrali risultano spesso non noti o ignorati da molte dottrine della verità. Quanto al primo aspetto rinviamo alla specifica voce, aggiungendo soltanto che il realismo moderato (Aristotele, Tommaso, Maritain) si distingue dal realismo metafisico di cui tratta ad esempio Hilary Putnam (n. 1926), per il fatto che non presume di porsi dal punto di vista dell'"occhio di Dio", come Putnam, non senza seri equivoci, definisce il realismo metafisico (va qui osservato che, oltre a Putnam, vari autori dell'area anglosassone, come Dummett e Quine, offrono un resoconto assai manchevole del tema del realismo, poiché tacciono su quello moderato, forse, ma a torto, confuso con quello "assoluto" di origine platonica). Il secondo e il terzo punto formano il cuore della gnoseologia della filosofia dell'essere, che spesso è andato smarrito nella filosofia moderna sotto due aspetti: il rifiuto, appunto, dell'intuizione intellettuale e il presupposto dualistico secondo cui esiste una barriera invalicabile fra pensiero ed essere. Equivoci che, presenti nell'opera di Kant, si perpetuano nella filosofia analitica e rimangono nelle epistemologie postpopperiane e postempiristiche nel senso di un antirealismo che progredisce (come ad esempio in Quine), e che tende a smarrire quel pur ridotto elemento di realismo che sussisteva nell'empirismo logico attraverso la valorizzazione della percezione sensibile. Per questi motivi è difficile attendersi dalle scuole suddette un recupero efficace della dottrina della verità come conformità, capace cioè di andar oltre l'accettazione nominale o verbale della formula consacrata, poiché sono andati smarriti i presupposti stessi di ordine ontologico e gnoseologico che la rendono vera, valida, parlante.

Un tale equivoco sembra riscontrarsi anche nelle filosofie della comunicazione: si veda in proposito l'ampio studio di Karl Otto Apel (n. 1922), Fallibilismo, teoria della verità come consenso e fondazione ultima (in Discorso, verità, responsabilità, Milano 1997). L'autore non rifiuta completamente il concetto di verità come conformità, che anzi ritiene necessario sulla scorta del senso comune secondo cui non si può mettere in dubbio almeno questo, cioè che l'asserto «la parete è bianca» è vero se e solo se di fatto la parete è bianca. Lo svuota però, poiché ritiene non possibile trovare criteri di verità che consentano di verificare la conformità. L'aporetica apeliana si svolge fra il polo in cui si riconosce che la teoria della verità come corrispondenza è un'intuizione naturale sulla verità degli enunciati ed è «presupposta quale condizione necessaria di tutte le teorie della verità» (p. 72), e il polo in cui si rigetta come formale e vuota la verità come conformità. Egli rimane soggetto al dualismo kantiano, non riuscendo a guadagnare la dottrina dell'identità intenzionale fra pensiero ed essere, di cui manca qualsiasi traccia. Di conseguenza, l'accettazione del presupposto della filosofia critica sulla separazione fra pensare ed essere trasforma, così Apel, il concetto di verità da una relazione fra mente e cose, ossia fra soggetto e oggetti, in una relazione fra oggetti, in cui non sarebbe mai possibile verificare la corrispondenza, perché mancherebbe un punto di osservazione superiore in cui ci si dovrebbe installare al di fuori della relazione conoscitiva fra conoscente e conosciuto, considerandola appunto dal di fuori. Esito scontato, una volta presupposta l'assoluta esternità fra pensiero ed essere. Muovendosi su questo terreno Apel sostiene l'inversione del rapporto fra fatti e proposizioni («il concetto di "fatto" o di "esistente stato di cose" è, a sua volta, definibile solo tramite ricorso al concetto di "proposizione vera"», p. 95), e abbandona il discorso inferenziale che risale dall'evidenza empirica alle sue cause (metodo inferenziale o analitico che va dagli effetti alle cause). Notevole rimane la questione se il consenso intersoggettivo dipenda dalla verità del giudizio, o viceversa se sia la verità a fondarsi sul consenso. Ogni conoscenza valida possiede la capacità di produrre consenso, ma non è il consenso che la fonda.

Di scarso rilievo teoretico sono le forme di "aletofobia" o "verofobia" che si manifestano qua e là nel pensiero contemporaneo e che, cercando di mettere in crisi l'idea di verità, hanno alle spalle motivi extrateoretici spesso riconducibili all'idea, molto problematica, che la verità obiettiva con la sua stabilità costituisca una forma di violenza. In altri casi si ritiene che la verità sia un attentato ai valori di tolleranza e di pluralismo, timore in cui si confonde la tolleranza necessaria verso le persone con quella verso le idee che, quando sono false, non la possono invece esigere.

  

IV. Approfondimenti sul concetto di verità nella filosofia del Novecento: Maritain e Heidegger

Fra i contemporanei sono forse Jacques Maritain (1882-1973) e Martin Heidegger (1889-1976) coloro che più intensamente hanno meditato sul tema della verità, il primo rinverdendo con vigore la lezione classica, il secondo reinterpretandola in modo originale ma ultimamente ambiguo.

1. La posizione di Jacques Maritain. La meditazione sulla natura della verità, intesa entro il quadro noetico delimitato dal concetto di corrispondenza, occupò costantemente la riflessione del filosofo francese: fra le molte trattazioni le più esplicite si rinvengono in Riflessioni sull'intelligenza (1924) e in I gradi del sapere (1932), dove la verità (dell'asserzione) è raggiunta nel giudizio e determinata come «la conformità fra l'atto dello spirito che unifica due concetti in un giudizio, e l'esistenza (attuale o possibile) di una stessa cosa in cui si realizzano quei due concetti» (Riflessioni sull'intelligenza, tr. it. Milano 1987, p. 41), o anche secondo la formula: «Quando l'identificazione operata dallo spirito fra due termini di una proposizione corrisponde ad una identità nella cosa, allora lo spirito è vero» (I gradi del sapere, tr; it. Brescia 1974, p. 117). Vi è dunque verità dichiarativa se gli oggetti di pensiero veicolati nel soggetto e nel predicato - che sono fra loro diversi e termini di distinte relazioni conoscitive -, messi a confronto in una proposizione, si identificano nella cosa e si realizzano in essa. Mentre nozioni diverse non possono ovviamente essere identiche fra loro, una nozione può essere identica a una cosa a cui è identica un'altra nozione. Nel giudizio «Pietro è bianco» le nozioni «Pietro» e «bianco» sono diverse, eppure entrambe si identificano nella cosa «Pietro». Rinverdendo la lezione classica, Maritain attribuisce un ruolo chiave al giudizio: il suo compito consiste nel far passare lo spirito dal piano della semplice essenza (o della nozione presentata al pensiero) al piano della cosa o del soggetto che esercita l'esistenza. Il giudizio restituisce alla cosa (o soggetto transoggettivo, secondo il lessico adottato da Maritain in I gradi del sapere) la sua unità, che la semplice apprensione, cogliendo oggetti di pensiero differenti, aveva disgiunta. Viene qui evocata la funzione pienamente esistenziale del giudizio, nel senso che con esso e in esso l'intelletto "afferra" l'esistenza.

L'adeguazione fra intelletto e cosa, che è l'atto proprio della mente nel giudizio, presuppone l'unità-identità (intenzionale) fra pensiero e cosa nel momento antepredicativo. «Nell'atto di conoscere, la cosa (nella misura in cui è conosciuta) e il pensiero non solamente sono uniti, bensì sono rigorosamente uno: l'intelligenza in atto, come dice Aristotele, è l'intelligibile in atto» (ibidem, p. 114; su questo tema vitale rinviamo anche al nostro: Approssimazioni all'essere, Padova 1995, pp. 28-34). Il pensiero non è comunque una copia o un calco della cosa, di modo che tutte le determinazioni di questa siano le determinazioni di quello. Altrimenti, donde l'errore? Occorre introdurre una certa disgiunzione fra la cosa e il pensiero: le cose sono nel pensiero non in modo entitativo ma intenzionale. Ed è proprio da questa disgiunzione che nasce la possibilità dell'errore. Ma nello stesso tempo occorre affermare l'unità profonda fra pensiero ed essere, nel senso che la conoscenza è conoscenza dell'essere ed essa viene raggiunta nel concetto: il termine della conoscenza concettuale è la cosa stessa, presente entitativamente nel reale e intenzionalmente nell'intelletto. Così riceve risposta la questione posta da Kant sul rapporto fra la rappresentazione entro la mente e la cosa esistente fuori dalla mente. Il pensatore di Königsberg, che spesso limitava il suo raggio conoscitivo alla scolastica tedesca di taglio postleibniziano e postwolffiano, non sembra a conoscenza di precedenti e diverse impostazioni vertenti sull'intenzionalità.

2. Il problema della verità in Heidegger. È sufficientemente noto che Heidegger ha riconosciuto la verità come adaequatio, intesa come correttezza del giudizio, ma l'ha subordinata di molto rispetto alla verità come disvelamento (a-letheia), come non-ascosità, legando questa ultima idea all'immagine della "radura" (Lichtung): «È soltanto l'Aletheia, la disvelatezza pensata come Lichtung, ad accordare la possibilità della verità [...]. L'Aletheia, la non ascosità nel senso della radura dell'Aperto dove si dispiega la presenza, fu esperita immediatamente e solo come orthótes, come esattezza del rappresentare e giustezza dell'enunciare» (Tempo ed essere, tr. it. Napoli 1980, p. 185). Nella chiarificazione della duplice modalità del vero, Heidegger mette in campo un lessico anch'esso duale, dove Alétheia e Lichtung stanno appunto a significare la verità come disvelatezza, mentre veritas e Wahrheit denotano la verità dichiarativa o apofantica, intesa riduttivamente solo come correttezza dell'enunciare.

Mentre è un'ipotesi plausibile che nella non-ascosità, nel disvelamento dell'alétheia heideggeriana si esprima un richiamo all'esistenza stessa delle cose, al loro manifestarsi fenomenologico, in essa non è tematizzato il problema del "a chi?", cioè del soggetto a cui ciò si manifesta, e neppure il tema del pensiero. La riflessione heideggeriana sulla verità dell'essere, nel duplice senso del genitivo soggettivo (la verità che appartiene all'essere o verità ontologica) e del genitivo oggettivo (la verità che viene espressa sull'essere, verità dichiarativa), non pone a tema il pensiero e l'assioma secondo cui perché vi sia verità, vi deve essere un pensiero per pensarla.

Quando si meditino le dense pagine di Sull'essenza della verità (1930), si può sostenere che il filosofo tedesco si dibatté a lungo con la questione del vero, senza raggiungere un esito positivo perché non fu compiuto il passo decisivo: quello di riconoscere, come accadde invece a Maritain e a Wittgenstein, che nel momento antepredicativo si dà una identità di qualche genere fra pensiero e realtà. Heidegger intuì il rilievo del problema: non riuscì a venirne a capo, pervenendo infine come esito al tentativo - di per sé votato allo scacco - di mutare l'essenza della verità: «Nella storia dell'essere l'evento si manifesta all'umanità dapprima come mutamento dell'essenza della verità» (Nietzsche, Milano 1994, p. 938). Lasciata da parte la determinazione dell'adaequatio , che il pensatore tedesco non poteva più accogliere avendone preliminarmente smarrito gli antefatti che la rendono valida e necessaria, viene adottata una "nuova" determinazione della verità: «l'essenza della verità è la libertà» (cfr. Essere e tempo, § 44), la quale consiste nel lasciar essere l'ente. La libertà, lasciando spazio all'ente, lascia che esso si manifesti: affiora in ciò l'antico retaggio fenomenologico di Heidegger, entro il quale si dimora in un orizzonte analogo alla prima delle tre modalità dell'essere vero. Nel contempo, l'essere non è oggetto di una prensione concettuale.

La meditazione heideggeriana coglie che fra sfera del pensiero e sfera reale deve darsi qualche "ponte", affinché il problema della verità possa venire impostato: «come deve essere intesa ontologicamente la relazione fra momento ideale e momento reale?», in cui si esprime con parole appena diverse la stessa questione di Kant e il problema dell'intenzionalità. Tuttavia la natura di tale ponte non venne attinta, piuttosto venne ribadita l'idea di una scissione ontologicamente oscura fra ordine ideale e ordine reale (cfr. Essere e tempo, § 44 e Sull'essenza della verità). Con ciò si rimane entro lo schema kantiano della separazione fra pensiero ed essere, ideale e reale. Pesò in tale esito il radicale antintellettualismo di Heidegger e un deficit di riflessione sulla natura del conoscere. Al suo posto venne collocata la proposta di rimanere aperti e disponibili per ciò che in una radura si manifesta entro la storia dell'essere.

Su questi aspetti si possono utilmente richiamare le posizioni di Aristotele e di Hegel dove, a differenza di Kant e Heidegger, la questione dell'intenzionalità del pensiero e dell'identità intenzionale fra pensiero e oggetto sono poste adeguatamente. «In generale, l'intelletto, quando è in atto, è i suoi oggetti» (Aristotele, De anima, III, 431b, 18ss). Anche dal lato della sensazione l'atto del sensibile e del senso sono lo stesso ed unico atto (cfr. ibidem, 425b, 26ss). Per Hegel la vecchia metafisica (precritica) aveva un concetto più alto del pensiero, poiché riteneva che «le cose e il pensar le cose [...] coincidessero in sé e per sé, che il pensiero nelle sue determinazioni immanenti e la vera natura delle cose fossero un solo e medesimo contenuto»: così nell'Introduzione alla Scienza della logica, dove la polemica hegeliana verso la "cosa in sé" e la presupposta separazione fra fenomeno e noumeno è implacabile.

  

V. La verità nella Rivelazione

Nella Rivelazione è trasmessa una idea ricca di verità, che si approfondisce e si precisa nella Bibbia lungo il cammino della storia della salvezza. Con il riferimento alla Scrittura un nuovo elemento di "stupore" si aggiunge a quello accennato all'inizio: non solo la Natura, anche la Parola di Dio è comprensibile. Entrambe parlano all'uomo, seppure diversamente. È noto che, per Galileo, Dio era l'autore oltre che della Scrittura, anche del "Libro della Natura", come riportato nella nota lettera al P. Benedetto Castelli, del 21 dicembre 1613. Procederemo indagando sul significato di verità nell'Antico e nel Nuovo Testamento, per soffermarci poi sulla figura di Cristo e infine su alcune espressioni del Concilio Vaticano II sulla verità.

Nell'AT e in generale nel pensiero ebraico il termine «verità» (eb. 'emet) evoca la sicurezza, la fedeltà, la costanza, e entro questo senso è incluso quello di verità come conformità. Verità è tanto qualcosa che appare allo scoperto, che non può essere nascosto né taciuto, quanto è veracità, ossia capacità di dire il vero, di non ingannare. Il Dio di fedeltà è identicamente il Dio di verità (cfr. ad es. Es 34,6; Sal 31,6). Proprio il salmo 31 è un attestato alla verità di Dio, opposta alla vanità degli idoli (v. 7: «Tu hai in odio gli adoratori di idoli vani, ma io confido nel Signore»).

Se intendiamo la verità come l'apparire della realtà così come è e il suo svelamento, nella Rivelazione essa si presenta come luce che cade sul reale, su noi e il mondo, luce che svela offrendo sicurezza e salvezza all'esistenza minacciata e che ultimamente è non una dottrina ma una persona. La sorgente di tale movimento disvelante è appunto Gesù Cristo, la luce vera che illumina ogni uomo che viene nel mondo. Il Prologo del Vangelo di Giovanni presenta il Cristo come il Verbo incarnato, pieno di grazia e di verità (cfr. Gv 1,14). Egli è il Logos, che dà consistenza, esistenza e intelligibilità al mondo. Camminare nella verità, che è camminare in Dio e con Dio, è un'esigenza essenziale per l'uomo, cui Gesù si offre dicendo di sé: «Io sono la via, la verità, la vita» (Gv 14,6). L'esigenza della verità assume una portata ben più ampia di quella di un discorso logicamente coerente, poiché sono implicati l'agire e la libertà: «Se persevererete nei miei insegnamenti, sarete veramente miei discepoli, conoscerete la verità e la verità vi farà liberi» (Gv 8,31-32). Non si tratta solo di una conoscenza teorica, ma esistenziale; una verità che entra nel cuore dell'uomo e lo aiuta a liberarsi, a strapparsi dalla menzogna, dall'odio, dalla ribellione a Dio. Chi conosce la verità è da Dio e l'amore di Dio dimora in lui.

Se questi sviluppi religiosi e contemplativi presuppongono l'idea di verità come insieme di asserzioni vere e conformi al reale, il significato esistenziale di verità come qualcosa che è ultimamente una Persona tende a imporsi. Lo trasmette il dipanarsi dello scambio fra Gesù e il procuratore romano Ponzio Pilato, in cui la questione della verità sale sul proscenio. Alla domanda di Pilato: «Tu sei re?», Gesù risponde: «Tu lo dici; io sono re. Per questo sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per rendere testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità ascolta la mia voce» (Gv 18,37). Dopo ciò Pilato chiede: «Quid est veritas?». Forse pone la domanda distrattamente, quasi con fastidio e scetticismo. Aveva fretta, perciò non attende la risposta. Si rivolge alla folla, ai sacerdoti, agli scribi, per chiudere il caso, chiedendo: «Non trovo colpa in lui. Che cosa volete che io faccia di lui?». I medievali, meno frettolosi, immaginarono che nella domanda di Pilato fosse divinamente già contenuta la risposta, semplice anagramma della prima, e che suona: « Est vir qui adest ». A Pilato che chiede che cosa sia la verità, Gesù fa intendere che è egli stesso. Quid est veritas?: Est vir qui adest.

Se nei vangeli canonici non è registrata alcuna risposta del Cristo alla questione posta dal procuratore romano, una sentenza di notevole significato si trova invece nel vangelo apocrifo di Nicodemo, volto a narrare le ultime fasi della vita del Nazareno dal processo in avanti. In questo racconto Gesù raccoglie il problema di Pilato, aggiungendo: «La verità è dal cielo» (dunque, si può commentare, da Dio). Il dialogo prosegue con il procuratore romano che osserva: «Non c'è verità sulla terra?» e con la risposta del Processato: «Tu vedi come quelli che dicono la verità sono giudicati da coloro che hanno autorità sulla terra». La risposta anagrammatica implicita nel vangelo di Giovanni e quella esplicita dell'apocrifo convergono: la verità è qualcosa di divino, è Dio stesso.

Ciò comporta una intensificazione del cercare umano, una più acuta sollecitazione dello spirito, come apparirà esaminando un decisivo riferimento neotestamentario. «Ama il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutte le tue forze e con tutta la tua mente» (Lc 10,27). Così risponde Gesù al dottore della legge che l'aveva interrogato su quale fosse il primo e più importante comandamento. Meditando sulla risposta e paragonandola ai luoghi paralleli dell'AT (spec. Dt 6,1-9) ci si accorge che il lóghion di Gesù integra e arricchisce l'AT, nel quale la parte et ex omni mente tua non figura. Questo può valere come un importante indizio che la questione dell'amare Dio (e quella della verità) vengono poste da Cristo in modo più pieno, dove oltre al cuore, l'anima, le forze, fa ingresso la mente. E con la mente la sua incoercibile tendenza a conoscere il vero e a trovare quiete e gioia in esso: nos vero quia credimus, rationem quaerimus.

Quando nella prima lettera a Timoteo leggiamo «Dio vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità» (1Tm 2,4), si presenta la domanda a quale verità si faccia allusione. Non è qui evocata una verità esclusivamente epistemologica o scientifica che si esaurisce in enunciati, ma un senso esistenziale e salvifico di vero. La Rivelazione è generatrice di nuova razionalità non soltanto proponendo all'uomo nuove verità, nuovi campi, nuovi oggetti cui mai avrebbe potuto pervenire, ma disponendo l'apertura dell'anima all'intero, alla realtà, al cui centro sta il Verbo incarnato. La Rivelazione conferisce alla mente umana un ampliamento di orizzonte ed una sopraelevazione intensificante del suo atto, per cui essa discerne e valuta tutto, e ritiene il meglio. Essa pensa in Cristo e in lui e con lui ricerca; è in grado di formare oltre le frontiere del tempo e dello spazio una comunione di pensiero e di ricerca. Può dunque costituirsi una razionalità redenta, capace di investire positivamente l'atto razionale nella molteplicità delle sue operazioni, e desiderosa di attingere alla sorgente-Cristo, nel quale abita corporalmente la pienezza della divinità e stanno tutti i tesori della scienza e della sapienza (cfr. Col 2,3 e 2,9).

Questo più ampio quadro andrebbe tenuto presente anche quando il discorso si volge al carattere dichiarativo del vero. Non pare opportuno contrapporre concetto ed evento e le rispettive logiche, contrapposizione secondo cui la verità starebbe dal lato del concetto universale mentre l'evento, di per sé puntuale, non apporterebbe nulla di significativo. L'evento cristiano veicola un'idea inedita di verità come sintesi di universale ed insieme di ciò che è "eventuale", storico, personale, per la quale soccorre il concetto di "universale concreto". La verità del cristianesimo è al suo vertice universale concreto, è in ultima istanza una Persona. Nell'Incarnazione accade la realizzazione massima dell'universale concreto, là dove eternità e tempo, universale ed evento singolo si danno la mano e si uniscono. Ciò non è possibile in misura paragonabile per nessun altro evento, il quale rimane pertanto strutturalmente al di sotto di piena capacità significante. La unicità del Dio-uomo dipende dall'iniziativa divina: Dio entra nel tempo, l'Eterno si fa a noi contemporaneo, «il Tutto si nasconde nel frammento, Dio assume il volto dell'uomo» (Fides et ratio, 12). Problematica pare perciò la posizione del razionalismo secondo cui il cristianesimo, in quanto legato alla storia e all'evento, non può comunicarsi alla ragione universalmente in modo convincente.

Nel Concilio Vaticano II si incontra una ripresa e un aggiornamento ma non un cambiamento di queste idee. Notevole appare l'assunto secondo cui la verità di Dio, la quale risplende nella Rivelazione, avviene in atti e parole (Dei Verbum, 2), a testimonianza di un'idea di verità non riducibile solo all'elemento astratto e dottrinale. Si afferma inoltre la capacità "metafisica" dello spirito umano, che può conoscere con certezza Dio, principio e fine di tutte le cose, con il lume naturale della ragione umana a partire dalle cose create (cfr. Dei Verbum, 6). La dichiarazione sulla libertà religiosa, Dignitatis humanae, affermerà inoltre che «tutti gli uomini sono tenuti a cercare la verità, specialmente in ciò che riguarda Dio e la sua chiesa, e una volta conosciuta abbracciarla e custodirla», aggiungendo subito dopo che «questi doveri toccano e vincolano la coscienza degli uomini, e che la verità non si impone che in forza della stessa verità, la quale penetra nelle menti soavemente e insieme con vigore» (n. 1).

 

VI. Il rapporto fra scienza e fede

Nell'epoca moderna, con l'impetuoso sviluppo delle scienze, il dialogo fra scienza e fede ha incontrato serie difficoltà, simbolizzate nel "caso Galileo". Da vari decenni la situazione è mutata e si sta facendo strada l'assunto che il dialogo sia possibile e anzi necessario. Nella scienza e nella fede si incarnano due diverse ma non contraddittorie ricerche della verità, la quale viene opportunamente concepita come ospitante diversi livelli. Il fatto per cui esse parlino oggi senza troppi imbarazzi della verità, segna una differenza rispetto a quanto accade in taluni settori della filosofia contemporanea. Quando si eviti un universale fallibilismo, in cui il fallibilismo relativo a teorie scientifiche diventi fallibilismo di principio di ogni conoscenza, il dialogo scienza-fede può incontrare forse difficoltà, ma non ostacoli di principio. Una scienza consapevole dei propri limiti è obiettivamente aperta ad un dialogo con la Rivelazione. Entrambe mirano a riconoscere un intelletto sovrano che presiede al cosmo, sebbene i cammini siano diversi almeno in questo, e cioè che Dio è per la fede all'inizio, e al termine per la scienza.

Se scienza, filosofia e fede sono chiamate a dialogare e a cooperare, il fondamentale motivo di ciò è che esiste una insufficienza di principio (dunque non eliminabile) di ciascuna delle tre a sostituire le altre due e a occupare tutto lo spazio conoscitivo. Un esempio notevole è offerto dalla teoria scientifica del Big Bang. Essa sembrerebbe portare prove empiriche a favore di un "inizio temporale" o cominciamento dell'universo: attualmente si parla di 15 miliardi di anni, dopo precedenti datazioni di 4 e poi di 10 miliardi di anni. Filosofia e Rivelazione non si riferiscono a un inizio databile, ma a un "principio" o "origine ontologica": tanto la scienza non possiede competenza sul principio, altrettanto la Rivelazione e la filosofia sull'inizio temporale.

Non è superfluo aggiungere che mentre il Big Bang rimane una teoria scientifica soggetta a continua revisione - lo mostrano i cambiamenti della sua datazione - che potrebbe in futuro perfino venire abbandonata, sulla ricerca di un principio o origine ontologica la filosofia raggiunge una certezza stabile e non smentibile: un acquisto per sempre. Ciò significa che lo statuto del vero scientifico e lo statuto del vero filosofico manifestano considerevoli differenze, nel senso che mentre l'estensione del primo è di molto maggiore di quella del secondo, il contrario accade quanto alla certezza e alla stabilità. La filosofia al suo vertice (ontologia e teologia naturale) raggiunge verità che sono limitate quanto al numero, essenziali quanto al contenuto, stabili quanto al modo di sapere rispetto a quelle trattate nelle teorie scientifiche che appunto sono molteplici, meno essenziali, mutevoli. Da tali considerazioni si trae l'opportunità di non abbandonare il dialogo rispettoso fra scienza, filosofia e Rivelazione, poiché il mutarsi e l'approfondirsi delle teorie scientifiche porrà nuove domande; d'altro canto nella ricerca degli scienziati non di rado compaiono domande sull'origine dell'universo, il suo ordine, la sua bellezza e il suo significato, l'esistenza e la natura del libero arbitrio, la presenza di un progetto nel cosmo, che sono di portata filosofica e teologica, a meno che la scienza non adotti impropriamente un atteggiamento assolutistico.

I punti di conflitto fra scienza e fede sono perlopiù provenuti da due sorgenti: a) la facilità, sfiorante a volte il dogmatismo, con cui settori della cultura scientifica hanno via via sostenuto, senza restrizioni, tesi generali sul mondo: dapprima la "verità" del meccanicismo, poi quella derivante dall'elettrodinamica, secondo cui da essa prenderebbe origine una spiegazione completa dei fenomeni; oggi forse quella della genetica; b) l'atteggiamento esegetico, che nel caso Galileo interessò anche aspetti del magistero, di difendere come rivelate e immutabili espressioni della Scrittura trasmesse nel linguaggio naturale corrente. Negli ultimi trent'anni sono emersi vari temi che hanno interessato positivamente il nesso scienza-fede (e teologia). Secondo J. Polkinghorne, essi sono così riassumibili: il rifiuto del riduzionismo; l'interpretazione dell'universo in evoluzione in termini compatibili con la dottrina teologica della creazione continua; spunti di ripresa della filosofia della natura e della cosmologia filosofica; cenni di rinascita della teologia naturale; un serie di speculazioni sul modo in cui i processi fisici possono dimostrarsi sufficientemente aperti per ospitare atti di agenti umani e divini (cfr. Polkinghorne, 2000, p. 1). A questi elementi si potrebbe aggiungere una limitata, ma significativa, attenzione al finalismo, censurato per secoli ma lentamente riemergente nel momento in cui una spiegazione puramente meccanica dei fenomeni della natura è apparsa del tutto insostenibile. La cosmologia scientifica contemporanea accredita un cosmo aperto, evolutivo, dove è innegabile una teleologia nell'organismo singolo, mentre più difficile da provare risulta una teleologia universale. La attuale cosmologia, - presentando un cosmo non soltanto deterministico, entro il quale metafisica e teologia possono più agevolmente pensare i temi della creazione continua e del nesso fra causa prima e cause seconde -, sembra andare oltre il concetto di un Dio unicamente matematico. Rispondendo all'idea che Dio, grande architetto dell'universo, sia un puro matematico (questo era l'assunto dell'astronomo sir James Jeans), Hans Jonas sostiene, ad es., che egli non è soltanto tale (cfr. Dio è un matematico?, Genova 1995).

Se la concezione della scienza fosse identificata ad un puro strumentalismo che non descrive stati reali del mondo, e quella della fede ad un vaporoso sentimentalismo senza oggetto, esse non avrebbero nulla da dirsi, e potrebbero procedere ciascuna per conto suo: è però dubbio che soluzioni tanto neutre risultino soddisfacenti. Il problema del rapporto tra scienza e fede inizia quando entrambe avanzano pretese conoscitive. Da parte della fede ciò accade con una dichiarazione di assoluto realismo: fides terminatur non ad enuntiabile sed ad rem. L'atto della fede si rivolge alla realtà stessa creduta, non semplicemente alle formule; e queste hanno valore nella misura in cui la esprimono. Di conseguenza nel rapporto scienza-fede non è sufficiente sostenere che la scienza conosca e che la religione/fede serva all'uomo per agire (tale era per grandi linee la posizione di Spinoza e di un considerevole filone moderno di critica della religione).

La tesi della completa irrilevanza reciproca tra scienza e fede, che annovera tuttora fautori in entrambi i campi, appare nel complesso non sostenibile, sebbene possegga parti di verità, nel senso che la scienza, movendosi nell'ambito dell'empirico e del misurabile, non può pronunciarsi sul metaempirico; e d'altra parte la fede lascia libertà di ricerca alla scienza nel suo campo. Inoltre, anche quando si occupano dello stesso "oggetto materiale" (ad es. l'uomo, la vita), scienza e fede lo considerano sotto diversi "oggetti formali" ed in base a princìpi, metodi e scopi della conoscenza nei due casi ben distinti. Ciononostante, la tesi della completa separazione non sembra in ultima analisi valida, perché se scienza e fede conoscono qualcosa del reale, sebbene sotto diverse prospettive, sarà sempre possibile nelle zone di confine o di sovrapposizione mettere a confronto i due ambiti di conoscenza, onde verificare se si accordano o si contraddicono; per non parlare dei casi, alquanto frequenti, in cui un'elaborazione ulteriore di natura filosofica si innesta sui dati della scienza. Che il modello della separazione totale e della reciproca irrilevanza sia insoddisfacente, può farlo intendere il conflitto verificatosi nel caso Galileo, che per tanti aspetti fu dissidio tra una concezione fortemente realistica della scienza ed un realismo che intendeva riconoscersi solo in un'interpretazione letterale della Scrittura.

Ora, poiché la dottrina della doppia verità è assurda, e costituisce la scappatoia della disperazione, verità della scienza e verità della fede occorre che si armonizzino e non solo che si giustappongano. Osserva giustamente Vittorio Mathieu: «Occorre non soltanto che non si "scontrino" le due verità, ma che si "incontrino", senza disturbarsi a vicenda» (Spazio della scienza e spazio della fede, in "Scienza e fede", Assisi 1982, p. 10). Non riveste perciò molto senso porre una differenza fra verità assoluta e verità oggettiva, sottintendendo che la prima - non universale - è quella della fede e che la seconda sia quella della scienza, che varrebbe come oggettiva ma non assoluta. In quanto oggettiva, la verità è universale, valida per tutti diacronicamente e sincronicamente e perciò assoluta.

Anche se la fede non dice quasi nulla sulla struttura del cosmo e sulle sue leggi, ben pochi però sosterrebbero che il modo in cui è strutturato l'universo sia del tutto irrilevante per la religione. Orbene proprio a tale proposito è riscontrabile un'evoluzione significativa. La fisica e la cosmologia scientifica contemporanee, tanto diverse da quelle antiche, presentano un'immagine dell'universo non contraddittoria con quella biblica, ed anzi ad essa più affine sia di quella greca di un cosmo eterno, chiuso e gravato da un alto tasso di necessità, sia di quella coltivata dal meccanicismo moderno. In questo l'universo era pensato come un meccanismo perfetto e autonomo, avviato da un Dio meccanico e orologiaio che dopo il primo avvio si disinteressa del mondo. Una tale raffigurazione, affine a quella del deismo, è stato uno dei cammini che hanno preparato l'ateismo. Samuel Clarke (1675-1729), discepolo di Newton, sosteneva che un cosmo come meccanismo a orologio «è la nozione del materialismo e della fatalità; e, sotto il pretesto di fare di Dio una Intelligenza sopramondana, tende a bandire dal mondo la provvidenza e il governo di Dio». Un universo aperto, diveniente, contingente, non-circolare ma segnato dalla irreversibile freccia del tempo è più coerente con il senso biblico del cosmo di uno segnato dalla circolarità dell'eterno ritorno, perché circolarità allude ad autofondazione. Dall'attuale cosmologia scientifica risulta avvalorata la domanda se l'universo cosi come è basti a se stesso, oppure esiga una causa essendi, da cui dipenda e che lo sostenga nell'essere. Questione cardinale, a cui risponde la metafisica e non la scienza, ma a cui quest'ultima può fornire un maggiore o minore supporto informativo. Ciò che si intende dire è che, per quanto anche i Greci fossero riusciti a provare l'esistenza necessaria dell'Indiveniente, un cosmo aperto e carico di sorpresa si rivela più prossimo alla fede di un universo retto dal fato o dal destino dell'eterno ritorno.

Tuttavia, e proprio ponendosi nella prospettiva della cosmologia contemporanea, talvolta viene formulata l'obiezione che una scienza fondata sulla "irreversibilità" oppure sulla "casualità" dei processi sarebbe più divergente dalla fede religiosa e dalla credenza in Dio, che non una scienza ancorata a leggi deterministiche e causali. Siccome, si dice, la scienza va via via abbandonando la concezione deterministica e si orienta verso quella dell'irreversibilità e del caso, ciò renderebbe quasi inintelligibile l'idea di un Dio regolatore della natura sulla base di leggi invarianti che da lui promanano.

Consideriamo l'obiezione nei due livelli di cui si compone. Quanto all'irreversibilità della natura, essa segnala solo un limite della fisica newtoniana che non ne teneva conto (nel senso che nelle sue equazioni la variabile "tempo" t può assumere tutti i valori, positivi e negativi), e non pone nulla "a carico di Dio" (per così dire). Poiché una scienza che tiene conto dell'irreversibilità del tempo e dei processi naturali è più realistica e adeguata di una che non lo fa, l'obiezione sollevata non concerne Dio, quanto piuttosto l'interno conflitto epistemologico tra scienza deterministico-reversibile (cioè senza freccia del tempo) e scienza capace di inglobare nelle proprie leggi l'irreversibilità di cui si è già detto.

La seconda parte dell'obiezione concerne il caso, sulla cui natura spesso sorvolano coloro che vorrebbero adoperarlo per uno scopo antiteologico a mostrare che la casualità confligge con un'intelligenza ordinante. Che cosa è il caso? Pur avendo fatto largamente ricorso a questo concetto nella sua opera Il caso e la necessità (1970), J. Monod non si è soffermato ad approfondire il tema. Esso venne affrontato con acume da Aristotele, secondo il quale il caso è l'incontro non preordinato, cioè fortuito, di "più linee causali indipendenti": per cui la "casualità implica la causalità" (sul caso e la fortuna cfr. Aristotele, Fisica , II, cc. 4-6 e il commento di Tommaso, In II Physicorum, lecc. 7-10). Contrariamente all'opinione che là dove vi è caso, non vi è posto per la causa, è vero il contrario (anche da questo lato si conferma l'impossibilità di prescindere dal nesso causa-effetto). Non è l'imprevedibilità e/o la mancanza di cause che fanno il caso, ma il pluralismo delle serie causali indipendenti e che ad un certo momento si incrociano, per cui l'idea di un caso originario è contraddittoria.

Non sussistono dunque motivi razionali per ricavare dal caso una riserva sull'Assoluto, come se un universo regolato secondo totale necessità fosse più coerente con l'idea di Dio di uno in cui si dà il fortuito. È vero piuttosto il contrario, nel senso che non possedendo l'evento casuale una causa vera e propria (ciò che non possiede una vera unità non ha causa, e l'evento fortuito, risultando solo dall'incontro di "diverse" linee causali non è un ens per se con una sua unità), esso raggiunge una qualche unità nella mente divina. Il caso esiste per l'uomo, non per Dio: e si può sostenere che egli è in certo modo più immediatamente presente nel caso che nella necessità.

Nel rapporto tra scienza e fede come forme di conoscenza non può non intervenire la filosofia, e specificamente la metafisica. Mentre la metafisica si volge alla totalità dell'essere cui si avvicina secondo la domanda: «che cosa è tutto ciò che è e qual è il suo senso?», la scienza non ricerca il senso dell'essere e la sua verità, quanto piuttosto teorie e leggi che uniscano coerentemente, avvalorate da verifiche empiriche, la più ampia serie di fenomeni e stati del mondo. La metafisica non si riferisce ad una realtà altra rispetto a quella della scienza, ma alla stessa, però secondo un approccio diverso, in cui si cerca l'intelligibile nel sensibile, indagando se l'esperienza sia autoesplicativa o invece rinvii per avere senso a qualcosa che sta al di là dell'esperienza. Mentre la scienza cerca di padroneggiare legami e riferimenti orizzontali tra stati esperibili del mondo, la metafisica, a partire proprio da questi stati letti alla luce dell'idea di esistenza, ascende verso ciò che è principio e causa.

Varie correnti, siano esse espressione del pensiero cristiano o di forme di scientismo, sostengono invece che l'eliminazione della metafisica costituirebbe un prerequisito essenziale per un buon rapporto tra scienza e fede, e per una fede più piena ed autentica: una fede completamente priva di metafisica e una scienza che non si intrometta in faccende di ontologia sarebbero in condizioni molto migliori per dialogare. È dubbio che soluzioni semplificatorie come queste accennate risultino capaci di affrontare la complessità dei problemi. Sussistono anzi buoni motivi per suffragare l'idea che la metafisica, provando che c'è una Causa prima, giova alla scienza e alla fede. Alla prima, perché assegna così un senso intelligibile al reale, ed alla fede perché non la rende solo un'opzione del cuore.

  

VII. La verità e il problema del realismo

Uno dei massimi problemi della modernità filosofica, già presente in Cartesio, venne formulato con chiarezza da Kant che lo riteneva vitale e ad un tempo di assai difficile risoluzione: come qualcosa entro la mente possa essere la rappresentazione di qualcosa fuori dalla mente (I. Kant, Lettera a Hertz , 21.2.1772, tr. it. Epistolario filosofico 1761-1800, Genova 1990, pp. 64-75). È il problema dell'"intenzionalità" e del "concetto" che viene così evocato, essendo l'intenzionalità almeno questo: il fenomeno originario che mette in relazione pensiero ed essere, mente e mondo. La filosofia moderna è stata condizionata da questo problema, la cui incerta o mancata soluzione ha prodotto decisive conseguenze, fra le quali appunto il tentativo di trasformare il concetto di verità. In effetti è impossibile conoscere alcunché di reale se in partenza si pone un fossato invalicabile fra conoscente e conosciuto, che in ultima istanza potrebbe dipendere da una forma di oblio dell'essere e della sua intelligibilità. Per parte della cultura postmoderna, l'essere e l'esistenza sono muti, non-rivelativi: l'essere non è "fanico" o disvelante (anche sotto l'elemento del simbolo), perché è mera res extensa che non rivela nulla. Quando si giunga a questa condizione che è ad un tempo esistenziale e culturale, la realtà appare al soggetto qualcosa di estraneo, ostile, verso cui ci si può rapportare non contemplativamente o amicalmente, ma solo nel modo della sfida e del dominio. In base ad un'intima esperienza spirituale di frattura fra sé e il mondo, fra sé e l'essere, il soggetto si avverte come gettato in un mondo ostile, che sembra provenire da un nulla iniziale e destinato ad un nulla finale. Emerge di conseguenza come prioritaria la tendenza a sottomettere le cose, che non rinviano ad altro e che appaiono minacciose per l'uomo: l'immenso attivismo intramondano dell'occidente può qui riconoscere una sua origine.

Questi elementi legati al tema della verità rinviano alla questione del realismo. Qui basterà dire che nella visione realista l'attività della filosofia e della scienza è scoperta di qualcosa che non è semplicemente posto da noi nelle cose. Viceversa la visione antirealistica spesso implica che noi scopriamo solo quello che abbiamo già posto nelle cose come proiezione delle nostre categorie mentali. Da decenni un acceso dibattito è in corso proprio in ordine alla questione del realismo, in specie nella filosofia dell'essere, in quella postanalitica anglosassone e nelle scienze. In che senso tale dibattito si stia orientando ci è dichiarato da Karl Popper e John Polkinghorne, e con le osservazioni di questi autori termineremo. «Le teorie sono nostre invenzioni, nostre idee: non si impongono su di noi, ma sono i nostri strumenti di pensiero che abbiamo fatto noi: questo è stato visto chiaramente dagli idealisti. Ma alcune di queste teorie possono cozzare contro la realtà: e quando cozzano, sappiamo che c'è una realtà; che esiste qualcosa, a rammentarci il fatto che le nostre idee possono essere errate. Ecco perché il realista ha ragione» (Popper, 1969, p. 43). «Non diversamente dalla stragrande maggioranza degli scienziati, ritengo che la crescita della scienza riguardi non solo la nostra capacità di manipolare il mondo fisico, ma anche la nostra facoltà di conseguire la conoscenza della sua vera natura. In una parola, sono un "realista"» (Polkinghorne, 2000, p. 122).

Documenti della Chiesa Cattolica correlati: 
DH 3; 60; 150; 800; 2811; 3001; 3008; Humani generis, DH 3875; Pacem in terris, DH 3959, 3970, 3973; Paolo VI, Discorso alla Pontificia Accademia delle Scienze, 13.10.1963, Insegnamenti I (1963), pp. 218-221; Concilio Vaticano II, Messaggio agli uomini di scienza, 8.12.1965, EV 1,487 * -493 * ; Gaudium et spes, 15-16; Dei Verbum, 2, 6; Dignitatis humanae, 2; Giovanni Paolo II, Discorso agli scienziati presso il Centro E. Majorana, Erice, 8.5.1993, Insegnamenti XVI (1993), pp. 1107-1114; Donum veritatis, 1-5; Veritatis splendor, 32; Fides et ratio, 1-6, 24-35, 56, 82, 96.

Bibliografia: 

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