L’essere umano è diverso dagli altri animali?

Ivan Colagè
Jane Goodall, studiosa dei primati bonobo (Courtesy of AF Archive/Alamy Stock Photo).

Sì: dal punto di vista biologico, ogni specie è diversa dalle altre. L’unicità umana riguarda però l’esistenza di caratteristiche differenti rispetto a tutte le altre forme di vita. Il pensiero greco poneva l’unicità dell’uomo nella razionalità, la tradizione ebraico-cristiana nel suo essere stato creato a immagine e somiglianza di Dio. Sviluppi scientifici odierni suggeriscono come elementi di unicità umana: il linguaggio articolato, l’intenzionalità condivisa, la capacità di insegnare, il pensiero simbolico e astratto, il progresso culturale, l’autocoscienza. Il dibattito è aperto. Probabilmente, l’unicità dell’essere umano è riscontrabile dall’attitudine al cambiamento intenzionale e pianificato del suo modo di vivere, che tende a migliorare seguendo desideri e aspirazioni e non solo fornendo risposte a bisogni primari.

Il pensiero classico, fin da Aristotele, ci ha abituato a considerare l’essere umano come animal rationale. A distanza di molti secoli, questa definizione conserva ancora la sua validità, sia in prospettiva scientifica che in prospettiva filosofico-teologica?

Animal rationale è definizione di essere umano per genere (“animale”) e differenza specifica (“razionale”). Non è di tipo diverso da Homo (genere) sapiens (differenza specifica). I contesti delle due definizioni sono però assai diversi. Mentre dal punto di vista filosofico-teologico “animal rationale” è spesso ancora considerata un punto di riferimento, in ambiente scientifico la definizione è poco significativa. Tuttavia, ha il pregio di suggerire una specificazione dell’essere umano rispetto al “genere” animal, e quindi, rispetto a tutti gli altri animali. È dunque interessante proprio a riguardo dell’unicità umana.

È pacifico che l’essere umano sia un animale (mammifero, primate superiore, unico rappresentante esistente del genere Homo). La questione, quindi, sta nel vedere se la specificazione razionale sia spendibile in prospettiva scientifica tanto quanto lo è in quella filosofico-teologica. In quest’ultima, la razionalità (o ragionevolezza) indica primariamente l’apertura della persona umana all’Essere (la sua struttura trascendente). In questa accezione, la specificazione “rationale” non è immediatamente impiegabile dalla scienza. Tuttavia, essa è declinabile nelle facoltà di auto-coscienza e auto-determinazione, alla base di una serie di comportamenti e di capacità tipicamente umani, che sono indagabili anche in prospettiva scientifica. Il sé narrativo – la capacità di far presente a sé stessi e agli altri la propria “storia di vita” – è studiato in neuroscienze; la progettualità al cuore di molte attività umane personali e sociali è toccata dalle ricerche di scienze umane (storia, sociologia, economia) e naturali (antropologia fisica, scienze cognitive, psicologia); l’evoluzione culturale – studiata da una moltitudine di scienze naturali e umane – sembra richiedere proprio auto-coscienza (che potrebbe persino dirsi “auto-concezione” quando declinata a livello di umanità in quanto tale e non solo a quello personale-soggettivo) e auto-determinazione (anch’essa con declinazioni storico-sociali oltre che personali).

Si potrebbe allora sostenere che l’unicità umana riscontrabile in una serie di comportamenti intenzionali e pianificati, tesi a migliorare il modo di vivere proprio e delle future generazioni, seguendo più aspirazioni che risposte a bisogni primari, sia la manifestazione del carattere “rationale” dell’essere umano. 

Tra i fattori di differenziazione dell’essere umano rispetto agli altri animali vi sono la posizione eretta, la progressiva encefalizzazione, l’impiego di un linguaggio articolato, il sorgere di un’attività culturale. Cosa ha causato l’emergenza di queste caratteristiche?

La progressiva differenziazione dell’essere umano dagli altri animali è il frutto di un lungo processo in cui molti fattori hanno interagito tra loro. Ad esempio, l’encefalizzazione – la tendenza alla crescita del cervello lungo l’evoluzione di ominidi e genere Homo – ha interagito in maniera complessa con l’uso e la fabbricazione di strumenti, la grandezza del gruppo sociale, le strategie di sussistenza permesse dall’ambiente, e le capacità comunicative. La forma di vita umana, come è nota a noi oggi, è emersa certamente a seguito di un lungo processo evolutivo precedente alla comparsa di H. sapiens, ma anche a seguito di sviluppi successivi: la stazione eretta è certamente precedente, la cultura teoretica (le scienze e le arti) evidentemente no. In generale però, stando agli studi odierni in evoluzione umana, si possono distinguere (come estremi di un ventaglio di possibilità) due tipi di processi alla base di questi sviluppi.

Il primo tipo è essenzialmente quello neo-darwiniano. L’ambiente pone all’organismo delle sfide per la sopravvivenza. Variabilità e mutazione genetica offrono novità biologica, la quale, se risulta adattiva nell’ambiente in cui emerge, viene promossa e stabilizzata. Un esempio. Per reperire cibo, degli ambienti mutevoli richiedono maggiori capacità cognitive, come escogitazione e apprendimento, che sono a loro volta favorite da un cervello più voluminoso. Se l’ambiente e le strategie dell’organismo permettono di sostenere cervelli voluminosi (mangiare carne invece che frutta, grosse prede invece che rimasugli di carcasse), allora l’encefalizzazione, originata da variabilità genetica, è permessa e promossa nel tempo (selezione direzionale).

Il secondo tipo di processo dà maggiore importanza alle dinamiche cognitive e culturali, e meno a quelle genetiche. Vi sono molte innovazioni culturali (dalla decorazione di strumenti, all’elaborazione di miti, dall’agricoltura e l’allevamento, alla scrittura) che sono acquisizioni fondamentali per la vita umana. Queste non sembrano interamente spiegabili né in quanto originate da evoluzione genetica, né in quanto risposte a sfide per la sopravvivenza. Sembrano piuttosto seguire dinamiche genuinamente culturali probabilmente motivate da aspirazioni personali o collettive.

Il primo tipo di processi è stato essenziale per l’emergere dell’essere umano, ma il secondo tipo non lo è stato di meno, e probabilmente è stato assai più rilevante quanto più ci si avvicina all’epoca presente.

Memoria, intelligenza, coscienza: sono qualità possedute anche da animali diversi dall’essere umano? Dove si evince allora l’unicità umana?

Il regno animale abbonda di “cognizione”. Tutti gli animali hanno qualche forma di memoria: talvolta elementare (l’accentuazione o l’attenuazione di risposte a stimoli), altre volte molto sofisticata. Per la “coscienza” il discorso è più sottile, perché si potrebbe dire che ogni vivente (anche batteri e piante) ha una certa “coscienza”: un batterio “sa” quando deve cercare zuccheri, e un girasole “sa” che deve girarsi nella direzione del sole. In questi casi gli studiosi parlano di un minimale o biologico. Certo, non si tratta del narrativo (elemento essenziale dell’autocoscienza) e neppure di coscienza morale. Gli animali superiori, poi, manifestano una varietà di comportamenti intelligenti e sofisticate strategie di apprendimento.

Questo stato di cose mette in dubbio l’affermazione dell’unicità umana? Molti studiosi sostengono di sì, dal momento che sempre più capacità prima ritenute esclusivamente umane si rinvengono in altri animali. Tuttavia, vi sono anche considerazioni in senso contrario. In primo luogo, a livello di senso comune, nessun animale fa ciò che l’uomo fa e ha fatto: monumenti, città, università, ospedali; le arti e le scienze. In secondo luogo, vi sono una serie di capacità che sembrano difficili da rintracciare nel regno animale (almeno in maniera compiuta, e “tutte insieme”). Al sé narrativo e all’autocoscienza è stato già accennato. Il linguaggio articolato e simbolico è tra le più appariscenti. La capacità di insegnare (quel processo di trasmissione di informazione in cui docente e discente sono consci del processo e dei rispettivi ruoli) non sembra rintracciabile nel regno animale. L’intenzionalità condivisa (il porsi un obiettivo comune e lavorare per il suo raggiungimento in quanto tale, e non per un eventuale vantaggio individuale) sembra caratterizzare l’essere umano, già dalla tenera età. La cultura cumulativa (una dimensione culturale che progressivamente si arricchisce di innovazioni basandosi sulle acquisizioni precedenti) che includa anche delle dimensioni simboliche e teoretiche è altra caratteristica non osservata nel resto del regno animale.

La capacità di darsi motivazioni che comportino sviluppi (culturali) non riconducibili a bisogni primari sembra un buon modo per caratterizzare l’unicità umana, e ciò interessa sia la prospettiva scientifica, sia quella filosofico-teologica. Per di più, in questo genere di sviluppi tipici della condizione umana, le peculiarità prima menzionate (autocoscienza, linguaggio, insegnamento, intenzionalità condivisa, cultura cumulativa simbolica e teoretica) risultino fra loro armonizzate.

   

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Glossario: 

Caratteristica della cultura secondo la quale la dimensione culturale di un popolo (o di una specie) cresce in maniera progressiva accumulando nel tempo innovazioni culturali sviluppate sulla base di acquisizioni precedenti, spesso utilizzando strategie note per nuovi fini e integrando più strategie esistenti in nuovi complessi culturali. La cultura cumulativa non implica, di per sé, l’impossibilità che strategie culturali possano andar perse in determinati tempi e/o luoghi. 

Trend evolutivo, verificatosi in maniera eminente nel corso dell’evoluzione degli ominidi e poi del genere Homo, in cui il volume del cervello degli individui di una specie cresce progressivamente nel tempo. L’apice di questo processo è rappresentato da Homo sapiens, la nostra specie biologica. Da ricordare che la specie estinta H. neanderthalensis (l’uomo di Neanderthal) raggiunse un livello di encefalizzazione analogo. Nozione centrale è quella di “quoziente di encefalizzazione” che è la misura della proporzione tra la massa cerebrale e la massa corporea (da distinguersi dalla massa del cervello in termini assoluti). Proprio in relazione a questa misura, H. sapiens si colloca all’apice del processo di encefalizzazione.

Processo di trasmissione di informazione in cui l’informazione è trasmessa in modo esplicito e pianificato, e in cui il docente e il discente sono consci sia del processo in corso sia dei rispettivi ruoli nel processo. Nel regno animale è oggi nota una moltitudine di modalità con cui informazione rilevante può essere trasmessa di generazione in generazione tramite canali non genetici. Queste vanno dalla semplice osservazione, a emulazione e imitazione, fino a strategie più complesse in cui l’individuo esperto mette in atto una serie di accorgimenti per facilitare l’apprendimento del “neofita”. Vero e proprio insegnamento per come definito prima non sembra essere impiegato da nessuna specie animale oggi esistente salvo H. sapiens.  

La capacità di elaborare socialmente e di condividere intersoggettivamente fini e obiettivi, lavorando per la loro realizzazione proprio in quanto condivisi e non soltanto in vista di eventuali vantaggi individuali risultanti da una impresa collettiva.

Caratteristica di ogni organismo vivente il quale è dotato di dispositivi atti a conservare la propria omeostasi, proteggere la propria vita e garantire la propria riproduzione. I meccanismi di regolazione metabolica e i comportamenti che ne conseguono fanno parte del sé minimale.

La capacità di far presente a sé stessi e agli altri la propria “storia di vita”. Integrando nel tempo dati sensoriali e processi cognitivi questa capacità fa sì che un soggetto possa auto-attribuirsi le proprie azioni passate e i propri piani futuri, riconoscendosene quindi come il vero “autore” responsabile. È essenziale per la facoltà di autocoscienza. Non sembra che altre specie oltre a H. sapiens abbiano questa capacità.