Perché la guerra?

Flavio Felice
Pablo Picasso, Guernica, 1937, Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofía, Madrid

Come manifestato dalla storia, i conflitti tra gli esseri umani sono permanenti, così come i conflitti tra gli stati. La guerra, tuttavia, è colta da tutti come male da evitare, perché in contraddizione con l’aspirazione universale di ogni essere umano alla pace, condizione per il suo sereno sviluppo. La guerra è sempre una sconfitta, per tutti. Anche quando invocata come legittima difesa, essa rivela l’incapacità degli uomini di poter dialogare e giungere ad un accordo, come frutto dell’intelligenza e della responsabilità morale che dovrebbero guidare le loro azioni. Il compito del diritto internazionale è in fondo quello di rendere impraticabile la guerra e porla fuori legge. La tradizione ebraico-cristiana riconosce nella creatura umana una ferita morale che ha condizionato fin dall’origine i suoi rapporti con Dio e con gli altri, spingendolo a violenza e prevaricazioni. La predicazione evangelica della non violenza e del perdono intende sanare proprio questa ferita.

Nel mondo animale si riscontrano lotta per la sopravvivenza e violenza: per l’essere umano è qualcosa di inevitabile?

Secondo una linea di pensiero, che va da Machiavelli ad Hobbes e da questi giunge fino a Spinoza, la guerra è qualcosa di naturale, mentre ad essere artificiale è la pace; per natura, l’uomo sarebbe, a parere di Machiavelli, “a similitudine delle bestie”, secondo Hobbes “simile a lupo” e per Spinoza, paragonabile a un “pesce” vorace. È evidente, a questo punto, l’indirizzo che assume tale filone di pensiero e la suacapacità di assurgere a cifra della modernità: lo Stato come protagonista della storia e la guerra come orizzonte ideale, una cifra che evidenzia anche la dimensione della rottura del pensiero moderno rispetto all’antropologia classica.

Sia nella classicità sia nella modernità l’essere umano è presentato come animale, ma mentre l’antropologia classica lo descrive come animale sociale, nella modernità, attraverso il ricorso all’escamotage dello “stato di natura”, l’individuo è rappresentato in una condizione asociale; una profonda antitesi che segna anche il discrimine tra classicità e modernità. Si tratta di scegliere se ritenere più fondata l’antropologia classica o quella moderna e questo è un compito teoretico, non politico.

Se adesso consideriamo invece una linea di pensiero idealista (Humboldt-Hegel-Gentile), possiamo individuare un passaggio dal primo al secondo filone. Tale ponte è individuato nella tradizione eraclitea ed in particolare nel frammento che segue: «Polemos [la guerra] è padre di tutte le cose, di tutti i re; e gli uni disvela come dèi e gli altri come uomini, gli uni fa schiavi gli altri liberi». In breve, la naturalità della guerra diventa la cifra dei due fondamentali indirizzi del pensiero filosofico e politico moderno. Di fatto, la valorizzazione etica della guerra, che è tipica del pensiero storicistico-dialettico, non esprime una radicale negazione dell’indirizzo precedente, quanto piuttosto un approfondimento e un superamento di alcune aporie.

 

Il diritto internazionale può regolare anche la guerra e le sue espressioni?

Il punto essenziale per comprendere il ruolo del diritto internazionale riguarda l’organizzazione della forza, intendendo per essa non l’esercizio della forza bruta e nemmeno la “disintegrazione” dell’autorità – scriveva Luigi Sturzo – per poterla, funzionalmente, esercitare meglio. Per esercizio della forza intendiamo la sua razionalizzazione, ossia il suo congiungimento con un’autorità legittima e il suo uso altrettanto legittimo. Come scrive Sturzo, «quando la forza è disgiunta dall'autorità legittima o daquesta posta in atto fuori del legittimo uso, è non solo illegittima, ma anche irrazionale».

Compito del diritto internazionale è rendere impraticabile la guerra e porla fuori legge. L’unico modo per mettere fuori legge la guerra è lavorare ad un assetto istituzionale ispirato ai principi liberali e democratici, dove nessuna forma sociale possa avanzare la pretesa di essere posta gerarchicamente al di sopra delle altre. È questo il tratto caratteristico di quel principio di plurarchia in cui i nuclei sociali non sono meri corpi intermedi, cinghia di trasmissione tra l’individuo e la politica, ma “enti concorrenti” che contribuiscono al bene comune, adottando il “metodo di libertà”: la discussione critica su questioni di interesse comune. Nessuna pace, che non sia l’ennesima tregua, sarà mai possibili fino a quando la guerra non sarà messa fuori legge da un ordine sovranazionale, espressione e proiezione di un ordine interno plurarchico, democratico e liberale.

 

Che posizione ha la Repubblica Italiana rispetto alla possibilità di partecipare a conflitti armati?

Al termine della Seconda Guerra Mondiale, i padri costituenti vollero fare i conti fino in fondo con la guerra e con le sue devastazioni, affermando che la Repubblica italiana ripudia la guerra e consente la sola legittima difesa, favorendo la nascita di autorità sovranazionali che abbiano come fine la messa fuori legge della guerra stessa: «L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo» (art. 11).

È questo un principio fondamentale della nostra carta costituzionale che, al di là delle evidenti ripercussioni sul piano ideale in termini di pace e di guerra, esprime un tratto profondamente innovatore rispetto alla natura stessa dell’autorità politica potestativa: lo Stato, e della sua pretesa sovranità. È l’ammissione che la nozione di sovranità, intesa come principio giuridico e politico che indica il potere di ultima istanza: superiorem non recognoscens, non ha più cittadinanza nell’ordinamento costituzionale liberale e democratico della Repubblica italiana. Un superamento della nozione di sovranità, quello sancito dall’art. 11, che ha consentito l’avvio del processo di integrazione europea.

In definitiva, l’art. 11 rappresenta un passo nella direzione di una chiara prospettiva politica sovranazionale che impegna tutte le parti che costituiscono la Repubblica, compreso lo Stato, a operare a favore di un ordine sovranazionale pacifico, rifiutando qualsiasi rigurgito nazionalistico che comporterebbe anche il ritorno al diritto insindacabile dei singoli Stati di dichiarare guerra. È questo un punto fondamentale per comprendere il senso dell’articolo 11 nel contesto di una prospettiva politica e culturale che ha animato i padri costituenti, secondo i quali, l’indirizzo sovranazionale rappresenta lo strumento per ripensare la posizione gladiatoria delle nazioni nel contesto internazionale, non più caratterizzato dall’anarchia degli Stati e dalla loro rispettiva pretesa sovranità.

 

Qual è la posizione della Chiesa cattolica sul ricorso alla guerra?

Nella parte terza del Catechismo della Chiesa Cattolica (CCC), lì dove si analizza il quinto comandamento: “Non uccidere”, la terza e la quarta parte sono dedicate, rispettivamente, a “La difesa della pace” e ad “Evitare la guerra”. Il comandamento di “Non uccidere” ci dice che il «Signore chiede la pace del cuore e denuncia l'immoralità dell'ira omicida e dell'odio»: «Desiderare la vendetta per il male di chi va punito è illecito» e degno di lode imporre “una riparazione” «al fine di correggere i vizi e di conservare il bene della giustizia».

Affinché la persona si realizzi e cresca in umanità, è necessario che viva in un contesto interiore ed esteriore di pace. Sappiamo tuttavia che la pace non è mera assenza di guerra e neppure uno statico equilibrio delle forze in campo. Ciò significa che non si può ottenere la pace senza tutelare i beni e la sicurezza degli esseri umani; la pace è la “tranquillità dell’ordine”, è “frutto della giustizia” e “effetto della carità”.

Di qui, la necessità che tutti coloro che operano per il bene comune di impegnino per evitare la guerra. Tuttavia, al n. 2308 del CCC si afferma anche che «Fintantoché esisterà il pericolo della guerra e non ci sarà un'autorità internazionale competente, munita di forze efficaci, una volta esaurite tutte le possibilità di un pacifico accomodamento, non si potrà negare ai governi il diritto di una legittima difesa». A tal proposito, al paragrafo n. 2309 si afferma che «Si devono considerare con rigore le strette condizioni che giustificano una legittima difesa con la forza militare. Tale decisione, per la sua gravità, è sottomessa a rigorose condizioni di legittimità morale. Occorre contemporaneamente: 1. che il danno causato dall'aggressore alla nazione o alla comunità delle nazioni sia durevole, grave e certo; 2. che tutti gli altri mezzi per porvi fine si siano rivelati impraticabili o inefficaci; 3. che ci siano fondate condizioni di successo; 4. che il ricorso alle armi non provochi mali e disordini più gravi del male da eliminare. Nella valutazione di questa condizione ha un grandissimo peso la potenza dei moderni mezzi di distruzione».

 

Quali passi dovrà fare la comunità internazionale per limitare sempre di più il ricorso alle armi?

Prendiamo spunto sempre dal CCC per rispondere a questa domanda. Nel paragrafo 2315 si afferma che L'accumulo delle armi, a molti, appare ancora come lo strumento più adatto a “dissuadere” dalla guerra i male intenzionati. Effettivamente, c’è qualcosa di paradossale in questo modo di ragionare e il Catechismo non omette di rilevare che una simile affermazione, rispetto all’obiettivo che andrebbe posto: la ricerca e il mantenimento della pace tra le nazioni, andrebbe sottoposta a severa critica morale. Leggiamo dal Catechismo: «La corsa agli armamenti non assicura la pace. Lungi dall'eliminare le cause di guerra, rischia di aggravarle. L'impiego di ricchezze enormi nella preparazione di armi sempre nuove impedisce di soccorrere le popolazioni indigenti; ostacola lo sviluppo dei popoli. L'armarsi ad oltranza moltiplica le cause di conflitti ed aumenta il rischio del loro propagarsi».

Dal momento che la produzione e il commercio delle armi intaccano la stabilità del bene comune all’interno delle singole nazioni e possono contribuire a creare uno squilibrio a livello internazionale, è dovere delle autorità politiche, oltre che un loro diritto, elaborare un attento sistema che li regolamenti. In effetti, leggiamo dal Catechismo: «La ricerca di interessi privati o collettivi a breve termine non può legittimare imprese che fomentano la violenza e i conflitti tra le nazioni e che compromettono l'ordine giuridico internazionale».

Il ricorso al diritto internazionale e alla cooperazione tra soggetti politici, economici e culturali, teso alla rimozione delle cause di ingiustizia, degli squilibri tra ceti sociali e tra popolazioni delle diverse nazioni, è la prima e fondamentale azione civile che recide alla radice le cause della guerra e della violenza tra le persone e, di conseguenza, rappresenta la prima azione strategica che rende impraticabile la guerra e inutili le armi: «Gli uomini, in quanto peccatori, sono e saranno sempre sotto la minaccia della guerra fino alla venuta di Cristo; ma, in quanto riescono, uniti nell'amore, a vincere il peccato, essi vincono anche la violenza, fino alla realizzazione di quella parola divina: “Forgeranno le loro spade in vomeri, le loro lance in falci; un popolo non alzerà più la spada contro un altro popolo, non si eserciteranno più nell'arte della guerra” (Is 2,4)».

 

Che ruolo possono avere le associazioni e le organizzazioni non governative nel processo di costruzione della pace?

Possono svolgere un ruolo assolutamente inedito. Sabino Cassese (Chi governa il mondo, 2013) individua sei tipologie di regimi regolatori internazionali: 1. amministrazioni delle organizzazioni intergovernative; 2. organizzazioni intergovernative; 3. networks transnazionali (composta da funzionari governativi); 4. accordi di mutuo riconoscimento; 5. strumenti ibridi intergovernativi-privati; 6. istituzioni private con funzioni normative.

A tutte queste organizzazioni si aggiungono quelle non governative, le cosiddette comunità “epistemiche”: ambientalisti, pacifisti, umanitari. È questa una sorta di reggimento politico globale” che chiamiamo “global polity” (GP). La GP è il complesso delle istituzioni che, a tutti i livelli, compongono il cosiddetto “reggimento globale” per il quale si auspica una global governance.

Sebbene non esista un solo modello democratico e il processo democratico non sia assolutamente paragonabile ad una macchina che, una volta avviata, è in grado di andare avanti da sola, l’esperienza storica insegna anche che il condizionamento esterno, con il passare del tempo, può favorire la nascita di istituzioni autenticamente democratiche e che, alla lunga, i fattori esterni possono svolgere lo stesso ruolo di quelli interni.

 

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Glossario: 

Kenneth N. Waltz (L’uomo. Lo stato e la guerra, 1959) ha categorizzato le guerre a seconda delle motivazioni che hanno agito come fattore primario. Le tre rappresentazioni di Waltz: analizzare la guerra come manifestazione dell’aggressività e dell’ambizione presenti nella natura umana; la guerra come il risultato del carattere aggressivo di alcune tipologie di stati; la guerra in relazione alla struttura anarchica del sistema internazionale. Karl von Clausewits (Della guerra, 1832) ritiene che la guerra sia uno strumento razionale di azione strategica dello stato: «La guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi». Non mancano coloro che, a partire dagli anni ’60, hanno ritenuto che l’utilità della guerra sia in declino per ragioni di calcolo costi-benefici.

La pace si impone sul conflitto in nome della socialità della persona; una socialità che non si esaurisce nel contesto della comunità politica, ma investe l’intera umanità, in forza del riconoscimento del dato artificiale che la forma politica storicamente assume, rispetto al dato originario che gli esseri umani dialogano: il verbum superiore al ferrum, la dialogicità come struttura ontologica degli esseri umani. Da questa interpretazione della socialità come dialogicità, possiamo intraprendere un cammino teorico che ci consente di tematizzare la pace come primum antropologico e non un derivato della politica. Il compito della politica, tutt’altro che sovrano, è servire e nutrire la tranquillitas ordinis nella quale possa fiorire tale attitudine originaria.

Per Dottrina sociale della Chiesa (DsC) intendiamo quel corpo dottrinario, fatto di principi, criteri di giudizio e direttive di azioni, inaugurato da Leone XIII con la Rerum novarum (1891) e arricchito nel corso degli anni dai documenti conciliari, dalle encicliche, dalle esortazioni apostoliche e da altri documenti provenienti dai pontefici che si sono succeduti. Introdursi nella DsC è introdursi ad uno studio semplice e complesso. Semplice, perché l’oggetto di cui tratta è la vita sociale dell’uomo e ogni uomo ne fa esperienza e la vive. Complesso, perché la vita sociale è in se stessa strutturata in forma complessa, secondo un intreccio di forme sociali: politica, religione, famiglia, economia, cultura, dove nessuna può pretendere di avere il primato sulle altre.

Non possiamo non riconoscere che le relazioni internazionali del XXI scolo si presentano decisamente più complesse rispetto al passato, un sistema in cui vecchi e nuovi impianti teorici appaiono entrambi necessari. Risulta necessario un lavoro di mediazione che si concentra su tre aspetti: statocentrismo e multicentrismo: relazioni internazionali basate sull’interazione tra gli Stati; hard power/soft power e social power: ai caratteri identitari tradizionali si affiancano un complesso di framework relazionali; analisi dei nuovi processi e teorie di lungo periodo: le relazioni internazionali contemporanee sembrano essere un invito a un’analisi convulsa delle nuove dinamiche emergenti.

Per sovranità intendiamo il concetto politico, giuridico che sta ad indicare “il potere di comando in ultima istanza”, “un potere supremo, esclusivo e non derivato”. La sovranità assume la veste giuridica dell’esercizio legittimo della forza e, benché possa assumere tante forme quante sono le esperienze storiche nelle quali s’incarna, essa sarà espressa comunque da un’autorità suprema. La Sovranità in epoca moderna esprime lo jure imperii et dominationis (stato di eccezione) che consiste nel diritto di derogare alla legge: il sovrano fa e abroga la legge, non è limitato dalla legge; il comando sovrano è superiore a qualsiasi altra fonte del diritto. Dunque, il sovrano dichiara guerra, tratta la pace, nomina gli ufficiali, giudica, fissa i pesi, fissa le imposte.

Secondo il diritto internazionale, uno Stato ha il diritto di difendersi per mezzo delle armi contro aggressioni che mettano in pericolo la sua intergrità territoriale e la sua indipendenza politica. Secondo il Catechismo della Chiesa cattolica, «i legittimi detentori dell'autorità hanno il diritto di usare anche le armi per respingere gli aggressori della comunità civile affidata alla loro responsabilità» (n. 2265).