La tensione dialettica tra “qualità della vita” e “sacralità della vita” è una polarizzazione riduttiva delle posizioni presenti nel dibattito scientifico e culturale. Tale confronto è spesso presentato per indurre a pensare che le ragioni in favore di alcuni orientamenti bioetici che parlano di “sacralità” o di “indisponibilità” della vita umana siano di matrice esclusivamente religioso-confessionale, e non abbiano quindi fondamenti logico-morali accettabili in una società pluralista. D’altra parte, l’idea di “qualità della vita” è essa stessa insufficiente e bisognosa di ulteriori specificazioni, per capire quali siano i criteri che permettono di decidere cosa rende la qualità della vita accettabile e cosa invece no.
Oggi non si parla già di bioetica, ma piuttosto di bioetiche, ciascuna delle quali si fonderebbe su una specifica concezione della vita. Quali sono le principali etiche della vita e quali le diverse antropologie che vi soggiacciono?
La pluralità del dibattito bioetico è difficilmente riducibile a poche scuole ben determinate, è possibile nondimeno tracciare una mappa dei principali orientamenti filosofico-morali che stanno a monte delle diverse impostazioni bioetiche.
C’è anzitutto l’impostazione principialista e proceduralista anglosassone, che vede nel fortunato manuale di Beauchamp e Childress (1978) il proprio testo di riferimento. Più in generale questa posizione, che vorrebbe uscire dall’impostazione utilitaristica classica, offre una serie di principi da bilanciare nelle decisioni bioetiche e offre alcuni modelli procedurali per compiere il bilanciamento. È probabilmente la posizione più nota, anche perché interna al mondo anglosassone che è oggi dominante, e presenta una riformulazione della morale del senso comune che in qualche modo costituisce l’orizzonte di riferimento dei principi selezionati.
L’antropologia di riferimento di questo sistema morale è in un certo senso quella di Thomas Hobbes: non ritenendo che possano esserci verità morali universalmente condivisibili, si considera più proficuo un accordo preventivo su alcuni principi di massima, per lo più accettati dal senso comune. È dunque un’antropologia che parte da basi scettiche: dal mancato consenso universale sui temi morali si inferisce una ben più ampia impossibilità di diritto di raggiungere conclusioni mediante un ragionamento condiviso.
C’è la poi la posizione personalista, che si fonda sulla nozione metafisica di persona e da questa fa dipendere gli imperativi morali del discorso bioetico. Al contrario del principialismo, il personalismo ritiene che l’uomo possa pervenire a verità morali, e dunque articola un discorso razionale attorno allo statuto ontologico della persona umana e di chi possa essere considerato tale. La posizione personalista è definita cognitivista, poiché al contrario del principialismo si ritiene possibile il perseguimento di alcune verità fondamentali relative all’identità dell’essere umano. In questa prospettiva, la bioetica non si limita a descrivere i differenti scenari presenti, ma sviluppa il discorso etico anche nella direzione del dovere morale connesso alla natura della persona umana.
Vi è poi anche una terza posizione, quella deontologico-kantiana. Pur rinnegando la possibilità di una convergenza teoretica, in linea di principio, sulla natura umana e dunque sulla sua normatività, nondimeno essa cerca di sviluppare il tema dei doveri facendoli dipendere dalla forma dell’imperativo morale.
È possibile definire uno statuto biologico e filosofico dell’embrione umano?
Il termine embrione umano, o meglio detto l’essere umano allo stato embrionale del proprio sviluppo, è un ente con determinate specificazioni che sono oggetto di diverse discipline: l’embriologia, la biologia, la filosofia, l’etica e il diritto. È pertanto possibile studiarne lo statuto e abbozzarne una definizione che raccolga tanto il dato scientifico, sempre più approfondito, quanto quello ontologico, legato ai veri aspetti dell’essere umano.
Anzitutto i termini. È più corretto dire “essere umano allo stato embrionale del proprio sviluppo” perché il termine “embrione”, di per sé, non identifica alcuna specie o sostanza (non sappiamo se stiamo parlando di embrioni di pollo, di gatto o di uomo). Di per sé appunto l’embrionalità indica uno stadio evolutivo iniziale e specifico degli esseri viventi, dunque è necessario identificare la sostanza della quale si sta predicando lo stato embrionale di sviluppo.
Questo significa che sarà la sostanza a definire l’identità specifica di ciò che si trova nel proprio stato embrionale, dunque nel caso dell’embrione umano lo statuto ontologico sarà quello dell’essere umano allo stato di embrione. Sotto il profilo biologico ed embriologico possiamo accertare l’identità dell’embrione attraverso l’analisi genetica, che ci permette di conoscere l’appartenenza specifica (specie biologica) e le caratteristiche genetiche: sesso, colore degli occhi, eventuali malattie genetiche, etc.
Dal punto di vista ontologico l’embrione è una sostanza diversa dai gameti che lo hanno generato, la fusione dei gameti nello zigote origina un composto qualitativamente differente rispetto agli elementi originari, un composto dotato di individualità sostanziale propria, dalla natura razionale (nel caso si tratti un embrione di uomo).
Queste notazioni ci permettono di ricavare uno statuto biologico e filosofico dell’essere umano allo stato embrionale del proprio sviluppo, dove la definizione di genere è data dalla qualità della sostanza (l’essere umano) e quella di specie dalla sua appartenenza biologica. La biologia oggi ci permette di conoscere molti aspetti dell’embrione che un tempo sarebbero stati inaccessibili, è importante capire che questi aspetti sono caratteristiche attualmente presenti, sebbene in forma embrionale, e non potenzialmente presenti. Vale a dire, ad esempio, che l’essere umano Mario Rossi, allo stato embrionale del proprio sviluppo, ha già gli occhi azzurri che si svilupperanno nella forma fisiologica nota a tempo debito. La sequenza genetica che esprimerà le sue caratteristiche personali lo costituisce già da ora, strutturalmente, da statuto.
In cosa consiste la fecondazione artificiale o assistita, applicata alla riproduzione umana e cosa implica in merito alla produzione, conservazione ed eventuale distruzione di embrioni umani?
La fecondazione artificiale o assistita è una tecnica mutuata dalla zootecnia che ha come finalità l’ottenimento di embrioni umani. Esistono diverse varianti tecniche per ottenere questo scopo, la più nota è la FIVET, vale a dire fecondazione in vitro con embryo transfert, che comporta l’estrazione dei gameti maschile e femminile con tecniche differenti e successivamente l’iniezione del gamete maschile in quello femminile, così da ottenere uno zigote, vale a dire l’embrione, che verrà poi collocato nell’utero dove auspicabilmente si anniderà e si svilupperà.
La zootecnia adotta questo modello riproduttivo da diversi decenni perché funzionale alla selezione della razza che, riprodotta in questo modo, può essere controllata sotto il profilo genetico. L’applicazione di questo modello riproduttivo zootecnico all’ambito umano è una questione etica controversa, perché di fatto riduce la generazione a un fatto tecnico zoologico.
La generazione umana è senz’altro anche un fatto biologico, ma non si esaurisce in quella dimensione. Anche il vocabolario distingue l’atto generativo da quello meramente riproduttivo, il primo designa la specifica generazione umana, il secondo caratterizza l’aspetto semplicemente biologico. Nella generazione abbiamo un padre e una madre, nella fecondazione due gameti.
Sotto il profilo strettamente medico-biologico occorre rilevare che la tecnica dell’iperstimolazione ovarica, tesa a ottenere un certo numero di ovuli da fecondare in vitro, non è priva di controindicazioni per la salute della donna. Gli embrioni umani così ottenuti, esseri umani a tutti gli effetti, ancorché allo stato embrionale del proprio sviluppo, sono quindi resi disponibili all’impianto, ma possono essere anche eliminati (se in soprannumero rispetto a quanto desiderato) o crioconservati per eventuali futuri impianti. Trattandosi di esseri umani allo stato embrionale, l’umanità dei figli così generati non è in discussione, ma appare certamente assai meno “umana” una tecnica che opera su degli esseri umani, sebbene allo stato d’embrione, con finalità riproduttiva piuttosto che generativa, realizzando dei prodotti.
Le riserve nei riguardi di questa tecnica applicata alla generazione umana non sono solo di ordine morale, perché alcuni esseri umani vengono trattati alla stregua di materiale biologico, ma anche di ordine biologico, poiché a livello epigenetico lo sviluppo iniziale dell’embrione, avvenendo in vitro anziché in vivo, lo priva di una relazione biologica, quella con la madre, essenziale alla propria crescita naturale.
La distruzione poi degli eventuali embrioni “soprannumerari”, vale a dire quelli fecondati in più all’inizio della procedura e che poi si decide di non impiantare, è la distruzione di un essere umano allo stato embrionale del proprio sviluppo.
Cosa sono le cellule staminali, come si ottengono e in quali terapie vengono applicate con successo?
Le cellule staminali sono cellule cosiddette totipotenti, vale a dire in grado di coordinare la costruzione di interi tessuti e organi specifici, e sono dunque molto promettenti nella biologia molecolare ricostruttiva. Esse si distinguono in totipotenti, pluripotenti, multipotenti, oligopotenti, unipotenti, dove la capacità di differenziazione costituisce il criterio della loro distinzione, per cui quanto più si potranno differenziare, tanto più saranno potenti, e quanto meno lo potranno fare, tanto più saranno specifiche. A un massimo di potenza corrisponde un minimo di specializzazione e viceversa
L’embrione è l’archetipo di una cellula staminale totipotente poiché da solo si differenzierà in un intero organismo. Tuttavia, ottenere cellule staminali embrionali per ragioni medico-sanitarie equivarrebbe a distruggere esseri umani per favorire o curare altri esseri umani, e questo non risulta eticamente accettabile, almeno se si condivide la prospettiva che il fine non giustifica i mezzi e che un essere umano non può mai essere usato come mezzo.
Sebbene sia corretto affermare che l’embrione sia l’archetipo della cellula staminale, esistono tuttavia altri modi per ottenere cellule staminali: per il trattamento delle patologie visive, ad esempio, si possono estrarre cellule staminali dalla placenta e dai villi coriali placentari; le malattie della retina, alcuni tipi di diabete e di malattie neurodegenerative vengono trattate con cellule staminali derivanti dal liquido amniotico tramite amniocentesi; inoltre, dal cordone ombelicale si traggono le staminali emopoietiche (quelle cioè che danno origine alle cellule del sangue), impiegate per curare il morbo di Gunther, la sindrome di Hurler, la leucemia linfocitica acuta e molte altre patologie che interessano in particolare i bambini; infine, dallo stroma del midollo osseo si ricavano le cellule staminali adulte che possono poi differenziarsi in cellule epatiche, neurali, muscolari, renali e follicolari.
Esiste poi anche una tecnica approntata da due ricercatori giapponesi, Kazutoshi Takahashi e Shinya Yamanaka, per ottenere cellule staminali pluripotenti indotte; vale a dire che, partendo da cellule somatiche, si riesce a far regredire la cellula allo stato di pluripotenzialità.
Tra cellule embrionali e cellule staminali c’è una differenza sostanziale: mentre le seconde sono una parte dell’organismo, le prime sono l’organismo stesso. Sebbene le cellule tratte da embrioni umani possano sembrare promettenti sotto il profilo della ricerca, sotto il profilo ontologico esse godono della stessa dignità di un essere umano, alla cui specie appartengono.
Qual è il giudizio della Chiesa cattolica sulla manipolazione degli embrioni umani e su quali fondamenti filosofici si basa?
In questo, come in altri temi di ambito etico, la Chiesa cattolica propone un insegnamento basato su un’etica filosofica che ritiene condivisibile da tutti, perché fondata su argomenti di ragione e non su presupposti confessionali. Una volta stabilito dalla scienza medico-biologica che un essere umano allo stato embrionale è un individuo della specie umana, già dotato del suo specifico patrimonio genetico, ne consegue che agli embrioni umani è dovuto lo stesso rispetto tributato a qualsiasi altro essere umano. La dimensione assai ridotta dell’embrione e il suo legame biologico con l’organismo della madre – dalla quale riceve il nutrimento e le sostanze necessarie al suo completo sviluppo prima della nascita – fanno sì che nell’opinione di molti gli embrioni umani non ricevano la considerazione che invece meritano. Si tratta di motivi psicologici facili da comprendere. Infatti, la sensibilità e la considerazione verso i nascituri cresce anche in base alle all’esperienza sensibile che abbiamo di essi. Fotografie del feto umano con pochissime settimane di vita sono spesso sufficienti a mutare la nostra percezione psicologica, rivelandocelo come un essere umano completo. Nel caso di esseri umani allo stato embrionale, essendo le loro dimensioni più ridotte, sono i criteri oggettivi della genetica e dell’embriologia a persuaderci che ci troviamo di fronte a individui umani completi.
I principi morali che proposti dalla Chiesa cattolica in merito alla cura da prestare agli esseri umani in stato embrionale sono riepilogati nell’Istruzione Donum vitae (1987), poi ripresi dal successivo documento Dignitas personae (2008). Le tecniche di fecondazione in vitro non sono moralmente lecite perché implicano la produzione di embrioni in sovrannumero rispetto a quelli impiantati, destinandoli alla crioconservazione e poi alla successiva distruzione. Gli embrioni impiantati che nel corso del processo di sviluppo mostrano difetti vengono direttamente scartati. Trasferire la sede della procreazione dal naturale incontro dei corpi dei genitori al laboratorio, oltre a privare la generazione dell’intenzionalità e della dimensione umana dell’incontro, con tutti i significati collegati, trasforma gli esseri umani in “prodotti”, da realizzare, a qualunque costo, secondo la richiesta dal committente.
Il giudizio circa la non liceità di mettere embrioni umani a disposizione della ricerca medica, biologica o farmaceutica, per fini sperimentali o di studio, discende dal semplice motivo, anch’esso fondato su un’etica razionale e non su convinzioni di parte, che l’essere umano non può mai essere impiegato come mezzo, anche se per fini buoni. Per lo stesso motivo, se ragioniamo in termini di individui già nati, la ricerca medica non pone mai in pericolo la vita di un essere umano, né può ucciderlo, per curare altri esseri umani.
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Per fecondazione artificiale si intendono tutti quei procedimenti che comportano il trattamento di oociti umani, di spermatozoi o embrioni nell'ambito di un progetto finalizzato a realizzare una gravidanza. La procedura, nota da tempo in zootecnia, si può praticare mediante diverse tecniche finalizzate alla fecondazione in vitro dei gameti maschili e femminili. Una volta fecondato artificialmente l’oocita e ottenuto così l’essere umano allo stato embrionale, si procede con il suo impianto in utero. Spesso questa tecnica è anche definita come procreazione medicalmente assistita (PMA), ma questa definizione è meno precisa poiché sotto l’ampia categoria di procreazione, che va applicata principalmente all’incontro sessuale dei corpi, si include anche l’atto di una fecondazione extracorporea.
Il gamete è una cellula riproduttiva (detta anche cellula germinale) con numero cromosomico aploide, destinata a unirsi con un gamete di sesso opposto nel processo della fecondazione per dare origine a un nuovo individuo. Dal punto di vista morfologico i due gameti, maschile e femminile, possono essere uguali (isogameti), come nel caso di molti organismi unicellulari, o differenti (anisogameti): di solito i gameti maschili sono piccoli, numerosi e mobili, mentre il gamete femminile è unico, più grande e immobile. Anche nel caso della specie umana l’oocita, gamete femminile, e lo spermatozoo, gamete maschile, mostrano queste caratteristiche specifiche.
Lo zigote è il nome della cellula proveniente della fusione dei gameti maschile e femminile. È il frutto della fecondazione delle cellule sessuali aploidi che, dopo la singamia, hanno fuso il proprio patrimonio genetico e ripristinato il numero cromosomico diploide originario, dando così origine a un essere specifico e individuale allo stato embrionale del proprio sviluppo. Tra gamete e zigote c’è una differenza sostanziale, come quella che si può vedere tra un organo, il gamete, e un organismo, lo zigote. Mentre i gameti infatti sono cellule sessuali di uno specifico organismo, lo zigote è un organismo nuovo completo.
Tecnica di laboratorio adottata in zootecnia per la conservazione a temperature bassissime (−196 °C in azoto liquido) di materiale biologico. Trova la sua applicazione in più aree della ricerca scientifica, ad esempio è usata per la conservazione di esseri embrionali da impiantarsi in utero successivamente. La crioconservazione rallenta, ma non impedisce il deterioramento biologico degli embrioni fecondati che, nel caso della specie umana, sono esseri umani allo stato embrionale. Un'altra possibile applicazione è legata alla crioconservazione di un intero individuo, nella speranza di poterne ripristinare in futuro le funzioni vitali, ma ciò pone alcune questioni. In primo luogo, il dubbio se l'identità personale si possa o meno conservare all’interno delle reti neurali anche successivamente alla morte clinica del soggetto. In secondo luogo, che sia possibile, anche se oggi non è dato sapere come, riattivare quelle strutture neuronali. Infine, la possibilità che la crioconservazione non comporti una compromissione irreparabile delle strutture celebrali.
Movimento filosofico sorto in Europa all’inizio del Novecento, con il quale oggi si indicano varie prospettive che affermano il valore primario della persona, nel panorama della realtà dell’essere, nella formulazione di problemi filosofici, nell’inquadramento di questioni giuridiche e nella pedagogia. Storicamente prende avvio dal saggio del filosofo Charles Renouvier intitolato Le personalisme (1903) che recupera il pensiero di Søren Kierkegaard, ma si sviluppa soprattutto grazie al pensatore francese Emmanuel Mounier (1905-1950), che lo oppone sia all’individualismo che al collettivismo. Mentre l’individualismo procede da una matrice utilitarista, il personalismo si giova di un’ispirazione cristiana e pone al centro del proprio pensiero la persona costituita dall’insieme delle sue relazioni con la comunità di cui è parte.