La corporeità e il suo significato: la medicina e la cura dell’umano

Giuseppe Savagnone
Rembrandt Harmenszoon van Rijn, Lezione di anatomia del dottor Tulp, olio su tela, 1632, Museo Mauritshuis, L'Aia.
In pillole
  • Il concetto di “corpo” emerge in Occidente insieme e in opposizione a quello di “anima”.
  • Il dualismo di Platone e il materialismo di Democrito mettono a fuoco, seppur in maniera diversa, il concetto di corpo, favorendo la nascita della medicina a opera di Ippocrate (460-377 a.C).
  • Al di là dell’alternativa tra Platone e Democrito, Aristotele sostiene che l’anima e il corpo sono distinti ma al tempo stesso compenetrati tra loro in un’unica entità individuale.
  • Aristotele ha trovato ampia accoglienza nella filosofia scolastica medievale, che ha però sottolineato la capacità dell’anima di sussistere anche dopo la morte del corpo.
  • La distinzione cartesiana tra res cogitans e res extensa segna il ritorno di un dualismo che caratterizzerà anche il pensiero illuminista, fino a influenzare alcuni sviluppi contemporanei.
  • Le Medical Humanities contemporanee, in parziale affinità con la prospettiva aristotelica, affermano l’inscindibilità di corpo e mente indirizzando l’azione del medico alla cura integrale della persona.
  • La Rivelazione biblica pone l’accento sul corpo in quanto corpo “umano”, irriducibile a mero involucro esteriore o prigione dell’anima.

C’è una storia del corpo. O, meglio, della sua scoperta e delle interpretazioni che ne sono state date. Il concetto di “corpo” non è di immediata evidenza, come potremmo supporre. Esso ha avuto bisogno, per venire alla luce, di quello, corrispettivo, di “anima”. E anche in seguito, il modo di pensarlo si è profondamente differenziato in base al diverso rapporto con l’anima che gli si è attributo.

Nella cultura arcaica dei greci, così come la troviamo rispecchiata nei poemi omerici, non si parla di “corpo” se non per indicare il cadavere. Così come non si parla di “anima” se non per riferirsi al fantasma dell’uomo defunto, confinato come un’ombra nell’Ade. Il soggetto vivente si definisce attraverso la pluralità delle sue funzioni, siano esse fisiche o spirituali. Perciò, invece che “corpo”, Omero scrive, al plurale, “membra” e le identifica in rapporto all’attività corrispondente – il piede veloce di Achille, il braccio forte di Aiace… – così come, invece che parlare di “anima”, menziona le sue diverse manifestazioni – il “multiforme ingegno” di Odisseo, la saggezza di Nestore…

Bisognerà attendere Platone (427-347 a.C.) perché, da questa galassia vitale, emerga il binomio “anima-corpo” che ci è familiare.  Anche se le due entità non sono, per Platone, sullo stesso piano. Il corpo, con la sua materialità, è concepito come una prigione dell’anima, che, prima di essere rinchiusa in esso, preesisteva beata e che non può pienamente esercitare le proprie funzioni se non distaccandosi quanto più possibile da esso.

Dalla religione orfica il filosofo trae la convinzione che questo distacco potrà avvenire solo al termine di una serie di reincarnazioni, che porteranno l’anima ad assumere corpi diversi – anche di animali inferiori – fino a quando potrà essere definitivamente liberata da esso.

Da questo quadro è evidente che la vera identità dell’essere umano non è quella corporea: l’uomo per Platone è «un’anima che si serve di un corpo» come di uno strumento, costretta a subirne tutta l’inadeguatezza e gli impedimenti.

Un’alternativa radicale alla visione della corporeità di Platone è quella di un filosofo quasi suo contemporaneo, Democrito (460-370 a.C.), convinto che il corpo dell’uomo sia composto di atomi materiali, come del resto la sua anima, e che entrambi siano destinati a disgregarsi con la morte.

È forse significativo che la medicina nasca, grazie a Ippocrate (460-377 a.C.), nello stesso periodo in cui l’identità del corpo viene messa a fuoco, sia pure con queste due varianti. Non a caso il pensiero ippocratico identifica la salute come un equilibrio tra i diversi umori presenti nel corpo, inteso come un intero unitario. Visione sviluppata poi da Galeno (130-200 d.C.), adottata più tardi nel Medioevo e ancora  diffusa durante l’età moderna.

Una soluzione che supera il conflitto fra le due visioni filosofiche della corporeità sopra esposte è data da Aristotele (384-322 a.C), che, rifiutando sia il dualismo platonico (e la conseguente svalutazione del corpo), sia il monismo materialistico democriteo, sostiene che l’anima e il corpo sono diversi, ma non come due entità giustapposte, bensì come due elementi distinti e al tempo stesso compenetrati tra loro in un’unica entità, l’individuo umano. L’anima, infatti, secondo il filosofo greco non è, come per Platone, una realtà che sta da sé (sia pure “dentro” il corpo), ma il principio – Aristotele lo chiama “forma” – per cui la materia, di per sé informe, viene strutturata come corpo umano.

Ciò significa che anima e corpo non sono due “parti” dell’uomo, come erano secondo Platone. Le parti, infatti, anche se unite esistono in sé, come il nocciolo e la polpa della pesca. L’anima, invece, si dà solo in quanto presente e visibile in un corpo e il corpo, in ogni sua più piccola componente, non esisterebbe, o comunque non sarebbe umano, senza la sua presenza. L’essere umano, dunque, non “ha” un corpo, ma “è” il suo corpo (oltre Platone), solo che il suo corpo è tale grazie a un principio non materiale che è l’anima (oltre Democrito).

A queste tre concezioni della corporeità si sono ispirati, sia pure con delle significative varianti, i pensatori dei secoli successivi. Quella di Aristotele ha trovato ampia accoglienza nella filosofia scolastica medievale, che ha però sottolineato la capacità della forma-anima di sussistere anche dopo la morte del corpo.

Nel pensiero moderno, invece, sono state le altre due prospettive ad avere dei significativi sviluppi, grazie soprattutto all’incontro con la rivoluzione scientifica che, da Galilei in poi, ha portato prima alla messa fra parentesi e poi all’oblio del concetto aristotelico di “forma” e ha dunque favorito il ritorno al dualismo tra anima e corpo di matrice platonica o – sia pure più raramente – la semplice riduzione dell’essere umano al suo corpo.

In entrambi i casi, però, il corpo di cui si parlava era ormai quello della nuova scienza fisica, vale a dire un insieme di parti estese, matematicamente misurabili, prive di qualità, connesse tra loro come gli ingranaggi di una macchina. È la visione di René Descartes (1596-1650), in cui la separazione tra anima e corpo è funzionale a garantire non solo l’autonomia e l’immortalità della prima, ma anche la totale omologazione del secondo ai criteri meccanicistici della scienza. Significativo che nel suo Discorso sul metodo Descartes dedichi ampio spazio alla scoperta della circolazione del sangue, con cui il medico inglese William Harvey (1578-1657) rivoluzionava la dottrina di Galeno, imperante da ben tredici secoli, e che il filosofo francese interpreta assimilando il cuore a una specie di “pompa” meccanica. Il prezzo di questo è che il corpo non è più considerato umano e che l’identità personale è affidata esclusivamente alla “res cogitans”.

È significativo che un filosofo, per molti versi agli antipodi di Descartes, come l’empirista inglese Thomas Hobbes (1588-1679) si appelli anche lui alla scoperta di Harvey (forse contro le intenzioni di quest’ultimo) per giustificare una visione totalmente meccanicistica del corpo, questa volta approdando a un materialismo integrale. Su questa linea si muoverà un filone della filosofia moderna, di cui è espressione emblematica il libro dell’illuminista  Julien de La Mettrie (1709-1751), L’uomo macchina.

Entrambe queste prospettive hanno trovato degli sviluppi nel pensiero del Novecento. Quanto a quella dualistica, è significativo che un noto bioeticista americano, Tristram Engelhardt (1941-2018), giustifichi la sua posizione, favorevole all’aborto e alla manipolazione genetica, ricorrendo alla netta contrapposizione cartesiana tra «mente autocosciente» e «corpo biologico». La prima sarebbe l’unica depositaria del titolo di “persona”, mentre al secondo spetterebbe solo di essere oggetto passivo degli interventi che le persone vogliano mettere in atto nei suoi confronti.

Per quanto possa apparire sorprendente, è questa l’impostazione di fondo che sembra oggi sostenere le contemporanee teorie del gender. In esse la dimensione biologica della sessualità viene drasticamente ridimensionata – in alcune posizioni estreme addirittura annullata – e l’identità sessuale ridotta alla percezione che il soggetto ha di essa. La corporeità, ridotta a un puro dato materiale, non è più considerata normativa per stabilire ciò che è “naturale” e ciò che non lo è, cosicché unico criterio etico non è ciò che si è, ma la “coscienza di esserlo” oppure no. 

La crisi odierna del corpo affiora perfino nella definizione che l’OMS ha dato nel 1946 della salute, sottolineando che essa non è la pura assenza di malattie, ma il pieno benessere fisico, psicologico e sociale della persona. Precisazione per molti versi condivisibile, perché sposta l’attenzione della medicina dalle malattie al malato e valorizza il suo ruolo di protagonista nel processo della cura; ma che, proprio in questo ri-orientamento verso la persona, si presta a enfatizzare in senso soggettivistico i concetti di “benessere” e “qualità della vita”.

Si giustifica così l’impiego sproporzionato di risorse per rispondere a richieste di cure poco fondate – ma capaci di creare consumi e dunque profitti economici – a danno di altre, oggettivamente molto più urgenti. Emblematici da un lato il diffondersi di una chirurgia estetica spesso al servizio di un discutibile giovanilismo, dall’altro il dirottamento dell’impegno delle grandi case farmaceutiche dalla produzione di farmaci salvavita (contro le malattie), ancora necessari in molti Paesi poveri, a quella di prodotti assai meno necessari, ma richiesti nei Paesi ricchi, finalizzati a favorire il “benessere”.

Anche la concezione che riduce l’uomo alla sua corporeità trova riscontro nella cultura odierna. Nel dibattito delle neuroscienze sul rapporto tra “mente” e cervello, una forte corrente di studiosi sostiene una linea riduzionista che non si limita a evidenziare l’indiscutibile condizionamento fisiologico delle attività mentali ed emotive (su questo l’accordo sarebbe universale), ma fa della coscienza una semplice espressione della struttura biochimica delle reti neuronali. L’esperienza della soggettività dell’io viene così  misconosciuta nella sua irriducibile originalità, senza rendersi conto che è solo grazie a questa soggettività che sono possibili e hanno senso le formule biochimiche che pretenderebbero di sostituirla.

A fronte di queste posizioni, sembrerebbe oggi confermare la prospettiva aristotelica la maggiore consapevolezza della medicina che molti disturbi sono psico-somatici e che l’essere umano può essere curato solo se viene considerato come un’unità inscindibile. In questa linea si collocano le contemporanee Medical humanities, intese come discipline di ambito umanistico finalizzate a meglio interpretare e indirizzare l’azione del medico nella cura integrale della persona. Una cura che riprende l’attenzione al corpo in quanto “umano” di cui parla la Rivelazione biblica, la quale, in Occidente, ha ispirato già a partire dal IV secolo la promozione degli ospedali e a partire dal XII secolo l’istituzione delle Facoltà universitarie di medicina.

Tracce di lavoro: 

Laboratorio interdisciplinare: Come è cambiata la cura dell’umano lungo la storia? Docenti di diverse discipline organizzino una tavola rotonda sullo sviluppo della medicina negli ultimi secoli prendendo in esame alcuni punti quali: il rapporto medico-paziente; l’impiego di strumenti diagnostici; il ricorso a protesi; il trapianto di organi, etc.

Discutiamone insieme: La medicina è una scienza? In che cosa differisce rispetto alle altre discipline che fanno uso del metodo scientifico? Il docente avvii una discussione insieme agli studenti sullo statuto della medicina e la sua specificità, individuandone anche conseguenze sul piano dell’attualità: previsioni di guarigione; sviluppo delle epidemie; efficacia del ricorso alla farmacologia; responsabilità del medico in casi avversi, etc.

Approfondisci e rifletti: Nella formazione del personale medico-sanitario ha preso forma negli ultimi anni un insieme di approcci e studi chiamati Medical Humanities, aventi come fine mostrare che la medicina non è solo una disciplina scientifica, ma anche umanistica. Cosa può voler dire, secondo te, che l’oggetto e il fine della cura è il malato e non la malattia?

Per approfondire
Dal Dizionario Interdisciplinare: 
Roberto Colombo, Embrione umano

Giampaolo Ghilardi, Death

Michele Peláez, Medicine

voci tratte da DISF e INTERS
Pagine scelte: 
Giuramento di Ippocrate (460-377 a.C. ca.), di Ippocrate di Cos
Bellezza e funzioni del corpo umano (413-427), di Agostino di Ippona
Carta degli Operatori sanitari (1995), di Pontificio Consiglio della pastorale per gli operatori sanitari
Selezione di brani su questioni di bioetica (1980-2020), di Magistero della Chiesa Cattolica
Opere influenti: 
Hans-Georg Gadamer, Dove si nasconde la salute (1994), a cura di Michele Castaldo
Antonio R. Damasio, L’errore di Cartesio. Emozione, ragione e cervello umano (1994), a cura di Anna Pelliccia
Indicazioni bibliografiche: