Dove si nasconde la salute

Hans-Georg Gadamer, nato nel 1900 e scomparso nel 2002, ebbe l’opportunità di curare egli stesso l’edizione della propria opera. Raccolse allora i suoi scritti relativi al problema della salute, all’indagine sulle basi epistemologiche della medicina e ad altre tematiche affini nel volume Dove si nasconde la salute, pubblicato nel 1993. Il testo propone quattordici tra articoli di riviste, pubblicazioni e trascrizioni dei discorsi pubblici che Gadamer tenne tra la metà degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Novanta.
L’ermeneutica filosofica, cioè il contributo fondamentale di Gadamer alla filosofia del Novecento, è il presupposto non esplicitato di tutte le riflessioni contenute in questo volume. L’ermeneutica, come è noto, si configura come costitutivamente aperta al confronto con le altre discipline del sapere umano, per le quali propone un ripensamento critico. Dove si nasconde la salute, allora, si presenta come la ridiscussione in chiave ermeneutica di temi come la morte, la salute e, soprattutto, la scienza medica nella sua accezione più problematica. L’espressione “scienza medica” non è usata qui casualmente. Il discorso sulla medicina è, infatti, fortemente intrecciato con quello sulla scienza. Da qui l’esigenza, avvertita dallo stesso Gadamer durante la composizione della raccolta, di dover chiarire preliminarmente cosa debba essere inteso per scienza.

La scienza

Il saggio di apertura del volume, per l’appunto, è dedicato al tema della scienza. Si tratta di Teoria, tecnica e prassi, pubblicato originariamente nel 1972. In questo intervento Gadamer sostiene che la scienza abbia progressivamente subito un decadimento e che la sequenza dei tre termini contenuti nel titolo – teoria, tecnica e prassi – descriva in realtà il modo in cui la scienza si sia deteriorata nel tempo.
La prassi è, infatti, la possibilità, caratteristica del mondo contemporaneo, di agire nel mondo sulla scorta di un sapere certo, concluso e oggettivo. Il sentire comune recepisce questa prassi come una derivazione diretta della scienza. Quest’ultima, tuttavia, è a ben vedere qualcosa di profondamente differente. Di per sé infatti non fornisce all’uomo una competenza tecnica per agire ma propone una continua ricerca, una incessante autocorrezione e prevede numerosi errori. Si tratta di un modo di approcciare alla realtà molto più vicino a quella che chiameremmo “elaborazione teorica” che alla “azione pratica”. Non è un caso, fa notare Gadamer, che prima dell’età moderna il termine “filosofia” coincideva con quello di “scienza”.
L’affermarsi di una prospettiva epistemologica votata alla prassi avviene per l’appunto con l’età moderna, inaugurata dalla filosofia di Descartes. Ricercato il metodo e imposta l’analisi delle idee “chiare e distinte” come criterio di verità, la conoscenza umana si è progressivamente inaridita, reificando anche la realtà. Da libera ricerca teorica, la scienza si esprimerà esclusivamente nella sua applicazione pratica e soprattutto produttiva. La prassi così istituita, infatti, non si limita a conoscere il mondo ma diviene capace di crearlo: così si giunge all’alba dell’era tecnocratica. Tutto il sapere che sfugge all’imposizione della tecnica viene mal tollerato, identificato come superstizione o costretto a darsi una parvenza che emuli il modello scientifico: in Germania le discipline non scientifiche, ricorda Gadamer, si definiscono “scienze dello spirito”.
Allo stesso trattamento viene sottoposta la concezione dell’intelligenza umana. L’intelligenza sarà misurata nella capacità di permanere nella sua dimensione formale, calcolatrice e oggettivante, divenendo così un mero strumento. In questo processo Gadamer vede lo svilimento della intelligenza umana. Non tanto perché, come dimostrerà poi Gardner, l’intelligenza è molteplice, ma soprattutto perché, rendendola uno strumento, le viene negata la sua funzione più propria: la capacità di porre dei fini.
L’opinione comune guarda, dunque, alla scienza come all’espressione più alta dell’intelligenza umana quando essa non pretende di essere null’altro che un approccio strumentale finalizzato a fare della realtà un oggetto conoscibile. Ecco quello che Gadamer nel discorso, tenuto 1963 e pubblicato nel 1964, Sul problema dell’intelligenza chiama “pregiudizio illuministico”. In questa sede non si potrà, chiaramente, esaurire la complessità dell’ermeneutica gadameriana sul tema della comprensione e del ruolo che in questa gioca il pregiudizio. Si potrà far notare, tuttavia, il peso che il termine “pregiudizio” assume in questo contesto. Per l’Illuminismo, figlio del cartesianesimo, il pregiudizio è un’ombra che il lume della ragione deve rischiarare per conoscere la verità. Per l’ermeneutica il pregiudizio è invece parte integrante della interpretazione, fondamentale tassello della conoscenza in un dialogo ininterrotto con il passato. In altre parole componente imprescindibile della verità della realtà.
L’esperienza ermeneutica propone una comprensione del mondo che tiene insieme e problematizza non solo il soggetto e l’oggetto ma anche tutti i soggetti e tutti gli oggetti presenti, in un circolo che non trova mai un fondamento definitivo. Questo modo di conoscere la realtà, è adesso evidente, non può coincidere direttamente con la prassi, con l’applicazione tecnica. Si potrebbe dire che laddove il metodo scientifico sia costituito per organizzare, misurare e dominare la realtà, l’ermeneutica sia invece al servizio della comprensione, rimane cioè nella consapevolezza che dietro questo tentativo di dominio si annida il rischio dell’annullamento della capacità di comprensione umana.
La scienza, in sintesi, si impone nel discorso pubblico mascherando le basi su cui crea leggi e trova costanti, che sono in realtà molto più sfuggenti, imprecise e instabili di quanto. Nonostante essa stessa non faccia mistero di queste debolezze epistemiche, le richieste della società, dell’opinione pubblica e della produzione industriale assumono la scienza come portatrice della verità.
Questo modello di approccio che va diffondendosi è, tuttavia, messo in grande crisi da una delle discipline emerse da questa deriva tecnocratica: la scienza medica. La medicina, infatti, mostra lo scontro tra l’oggettività scientifica e la situazione del paziente: unica, peculiare e soggettiva. Ciò avviene per mezzo dell’artificio del “caso clinico”. È proprio questo, sostiene Gadamer, che evidenzia l’assurdità del carattere tecnocratico della scienza. Nella complessa interazione con il paziente, infatti, non basterà seguire protocolli ed eseguire procedure come proposto dal metodo sperimentale. Piuttosto si dovrà fare affidamento alla facoltà del giudizio. Il giudizio, allora, porterà con sé anche il conflitto, il contrasto tra istanze e la ricerca del compromesso tra necessità contrapposte. Nonostante la medicina si sia imposta come “scienza medica”, il medico non è propriamente uno scienziato e gestire un paziente non è equiparabile al confrontarsi con l’esito di un esperimento. Al medico non è richiesto, dunque, di applicare alcuna una legge scientifica.

La medicina

Per i motivi appena esposti è necessario approfondire questa scienza eccezionale tra le altre. Anche perché, come l’A. sottolinea nell’articolo del 1965 Apologia dell’arte medica, la medicina si pone sul crinale tra due opposti. Da una parte è la scienza per eccellenza, l’unica che ha come fine la sopravvivenza del singolo individuo; dall’altra è una scienza inutile, in quanto il suo intervento potrebbe non avere un esito diverso da quello che si sarebbe comunque ottenuto, tanto nel senso della guarigione quanto nel senso della morte dell’individuo.
A ben vedere anche la scienza medica è andata incontro ad una importante ridefinizione epistemologica. Ha infatti messo da parte i riferimenti alla tutela della armonia tra il totale e il particolare, propri delle sue origini greche. L’esempio icastico, più volte richiamato da Gadamer nel corso dei saggi raccolti in questo volume, si trova nelle pagine del Fedro platonico. Qui il filosofo ateniese accosta l’immagine del medico a quello dell’oratore: l’equilibrio e l’attenzione al contesto sono i concetti cardine tanto della oratoria quanto della medicina. L’imposizione del paradigma scientista moderno che abbiamo descritto ha decretato il ribaltamento di questa tradizione, rendendo il sapere medico scienza medica e così integrandosi perfettamente nella realtà tecnocratica.
Laddove si rispettava l’equilibrio e la natura, adesso si interviene, si modifica e persino si costruisce la realtà stessa ex novo. Anche la medicina, come tutte le altre scienze e nonostante le sue peculiarità epistemiche, è stata dunque ripensata in funzione della prassi: essa stessa ha posto il risultato visibile come suo obiettivo e la oggettivazione del paziente come dinamica principale della sua applicazione pratica. La stortura che questo produce è evidente, sostiene Gadamer, nella gestione dei malati psichiatrici. La scienza medica ha molta difficoltà a prendere in carico questo genere di disagio perché di difficile oggettivazione e misurazione, e dunque incomprensibile.
In questa dinamica il rapporto del paziente con il medico è di assoluta subordinazione. Il paziente coinciderà esclusivamente con un corpo che mostra dei valori biologici – misurabili – non coerenti con uno standard predefinito. Con i necessari interventi correttivi, farmaci e trattamenti che la scienza medica ha messo a punto, i parametri torneranno nella norma e il paziente potrà considerarsi guarito. Si tratta di un rapporto imposto tra il paziente e il medico molto diverso da quello pre-scientista, caratterizzato dalla attenzione alla cura dell’individuo, prima che alla sua patologia. La scelta di questa opzione teorica si è evidenziata, fa notare Gadamer, quando si è scelto di parcellizzare il sapere medico in diverse discipline specialistiche, capaci di un intervento tecnico su una singola sede anatomica ma incapaci di affrontare la complessità della situazione globale del paziente. Si può dire lo stesso anche per la gestione ospedaliera degli spazi, una organizzazione di routine di tipo quasi industriale. Il rischio è che, in fin dei conti, l’eccessiva specializzazione, il feticcio della scienza e la introduzione di consuetudini cristallizzate, producano un danno in luogo della salute promessa.
Se dunque per far posto alla medicina nel novero delle scienze siamo in un certo senso obbligati ad accettare alcune forzature e a scendere a compromessi, è proprio il caso di sostenere che questa pratica sia “scienza medica”? Secondo Gadamer, la risposta è no. La medicina, piuttosto, è, usando un altro termine centrale della riflessione gadameriana, una forma peculiare d’arte. Quest’arte, però, non ha come tutte le altre una vocazione produttiva ma piuttosto restitutiva. Restituisce, infatti, l’equilibrio naturale preesistente al suo stesso intervento, grazie al rapporto tra due soggettività, quella del paziente e quella del medico, che interagiscono in maniera globale e prescindendo dalla patologia specifica.
Anche il rapporto medico-paziente rientra nella riflessione di Gadamer, in modo particolare nell’articolo Autorità e libertà critica del 1983 in cui il tedesco fa notare il particolare genere di autorità esercitata del medico. Il medico esercita la sua autorità sul paziente non in forza dei suoi studi o in nome della scienza ma, paradossalmente, per imposizione dello stesso paziente. È quest’ultimo che, dovendo ricercare una soluzione al proprio problema di salute, investe il medico di una autorità e di aspettative di cui altrimenti non avrebbe ragione di godere, considerata la struttura epistemologica soggiacente alla pratica medica. Per giustificare questa autorità e garantire un supporto sociale, allora, emerge la figura dell’esperto.
Recuperare la dimensione della medicina come arte significa dover mettere in discussione anche il rapporto tra paziente e medico. In particolare può essere utile recuperare il concetto di libertà critica, intesa da Gadamer come capacità di riconoscere i propri limiti e comprendere la necessità di una autorità esterna, senza che la propria autonoma sia messa in discussione ma, contemporaneamente, senza idolatrare l’autorità stessa. Un genere di libertà diversa dalla libertà dogmatica, che invece è intollerante a qualsiasi tipo di auto-limitazione.

Salute e morte

L’analisi, seppur concisa, della riflessione di Gadamer sulla scienza e in particolare sulla scienza medica lascia però in sospeso la questione di cosa si debba intendere per salute. In questo, aiuta sicuramente partire dal titolo che Gadamer dà alla raccolta: Dove si nasconde la salute. La salute, lascia intendere questo titolo, è in qualche modo assente, poco evidente o comunque distante dalla possibilità di essere esperita. Il genere di nascondimento con cui ci si confronta qui pare qualcosa di diverso dal disvelamento. Per trovare la salute, in altri termini, non sarà necessario scovarla dietro un velo, come nella aletheia greca, perché la salute è, di fatto, inesistente. È piuttosto il nome che viene dato a una assenza di malattia. Tanto il concetto di malattia quanto quello di salute, dunque, sono in realtà frutto di reificazioni e oggettivazioni di qualcosa di invisibile e di sfuggente. Persino la malattia epidemica, fa notare Gadamer, viene descritta come un soggetto capace di azione autonoma e di libertà. Nel saggio del 1991 che dà il titolo alla raccolta, Gadamer fa notare che né la salute né la malattia si possono misurare e pesare. Non riescono, cioè, a rientrare nella dinamica del metodo scientifico e perciò rimangono paradossalmente concetti vaghi nell’epoca post-cartesiana delle idee chiare e distinte. La cura della propria salute passa per l’instaurazione di un rapporto con la soggettività del medico capace di accompagnare il malato rispettandone la complessità. Il pensiero scientifico strumentale ha però negato completamente questa possibilità e, specializzando il sapere, ha dimenticato la globalità dell’essere umano che pure era ben chiara ai Greci, iniziatori in Occidente dell’arte medica e sostenitori della medicina come equilibro naturale di cui bisogna rispettare la complessità, non bilanciabile facilmente con artefatti come medicine e terapie.
A ben vedere, però, bisogna partire da un elemento antecedente il rapporto tra medico e paziente, ovvero la capacità di auto-comprensione. È necessario infatti distanziarsi da sé, compiere un allontanamento per comprendersi meglio e chiarire la dimensione globale dell’io. Solo questo esercizio, che ognuno preliminarmente deve compiere, consente all’uomo di sentirsi in salute.
Tuttavia, fa notare Gadamer, bisogna essere consapevoli che il “sentirsi in salute” è una espressione linguistica fuorviante. La salute non “si sente” perché la salute è un esserci, una componente costitutiva della esperienza umana in forza della quale l’uomo è pienamente capace di agire, di essere inserito nella vita e di partecipare alla società. Al contrario, la malattia è la condizione per cui l’uomo è costretto a restringere i propri orizzonti e ad allontanarsi dalla vita pubblica. Si rende così evidente come intervenga in maniera rilevante, nella definizione di malattia e salute, la componente sociale e comunitaria. Ciascuno di noi, nel mantenere l’equilibrio che chiamiamo salute e nel curare la eventuale malattia, è investito da una responsabilità civica, potremmo dire politica.
Altrettanto politica è la questione della morte, un evento anch’esso intollerabile dal punto di vista del paradigma tecnocratico scientista. A questo tema è dedicata una conferenza del 1983, L’esperienza della morte. Qui Gadamer sostiene che persino la morte sia stata assorbita dal ciclo produttivo e che, come reazione, l’umanità l’abbia espulsa dall’esperienza di ciascuno, relegandola all’esterno della vita pubblica. L’età moderna ha dunque prodotto un arresto del millenario processo di demitizzazione della morte, oltre che della vita. Alcuni approcci terapeutici, intanto, hanno sfumato il confine tra la vita e la morte, creando una certa ibridazione per cui il prolungamento della vita equivale in fin dei conti al prolungamento della morte. Per sua stessa natura biologica, chiaramente, l’esperienza della morte non potrà essere così facilmente espulsa dalla esperienza umana. Permarrà allora come un sostrato di angoscia e di sofferenza, per il quale l’unico lenimento è stato, storicamente, la religione. Persino l’ambito religioso, tuttavia, è stato messo in discussione dall’avanzare impetuoso e inarrestabile del domino scientifico. L’angoscia della morte è, in breve, il momento limite dove si è storicamente mostrata la capacità della religione. Adesso tale capacità è stata sottratta alla religione e affidata alla scienza che, tuttavia, non possiede i mezzi per poterla affrontare propriamente.

Considerazioni conclusive

Sintetizzando le posizioni che Gadamer propone nei saggi contenuti in Dove si nasconde la salute, si potrebbe dire che l’A. miri a smascherare la convinzione che la scienza coincida con il suo metodo. Al contrario, il metodo scientifico è, in un certo senso, una moderna degenerazione della scienza. Questa degenerazione, ormai accettata, diffonde nell’opinione pubblica una visione della scienza come certa e oggettiva, ma in questo modo travisa le premesse e i fondamenti della scienza stessa. La forza di questo discorso è arrivata al punto tale da non limitarsi a trasformare la scienza e il modo in cui l’umanità si rivolge alla scienza ma anche a modificare la realtà, costruendola in senso tecnocratico.
Una “rivoluzione tecnocratica” per niente indolore. Infatti questa impone una ridefinizione di molte categorie dell’esperienza umana, compresa quella di umanità. L’essere umano, infatti, sarà ridotto al suo corpo e alle sue funzioni vitali e saranno trascurate la sue espressioni più autentiche, che mostrano ed evidenziano una differenza qualitativa decisiva con gli animali non umani.
Si comprende bene questo notando come l’ambito proprio di questa differenza qualitativa, che si esplicita nella malattia psichiatrica e nella medicina psicosomatica, non riesca a trovare legittimazione completa nel sistema scientifico e, anzi, lo metta in crisi in quanto dimostra che l’uomo è qualcosa di differente rispetto a una mera animalità intelligente.
Come Gadamer sostiene nel saggio che dà il titolo alla raccolta, il metodo che standardizza, cristallizza e fa del protocollo la sua unica condotta d’azione darà spazio e supporto teorico a concetti come quello di qualità della vita, istituendo, potremmo dire indebitamente anche dal punto di vista bioetico, dei concetti del tutto estranei al metodo che si è scelto di perseguire ciecamente e acriticamente.
Gadamer, insomma, apre una nuova strada per l’interpretazione della scienza, nella quale ha legittimamente spazio la sua teoria della comprensione e della storia degli effetti. Tale metodo impone la necessità di osservare la scienza con uno sguardo critico evitando l’errore, di cui è colpevole più l’opinione pubblica che gli scienziati, di pretendere dalla scienza più di quello che essa può garantire. Mantenere la scienza come unico linguaggio universale vuol dire privare l’esperienza umana di tutte le componenti che non riescono a configurarsi nel modello imposto.
Tra le diverse discipline scientifiche, la prima che può ribellarsi a questo paradigma è quella medica, che è anche l’ultima ad essere caduta nel tranello scientista. Per compiere questo passo in avanti la scienza medica è chiamata a fare un passo indietro, recuperare cioè nel suo passato la dimensione della cura. Così tornerà ad essere arte medica, deputata al mantenimento dell’equilibrio naturale, per quanto Gadamer rimanga vago su questa nozione.
In conclusione, questo testo è una denuncia dello scientismo che lascia pur intravedere in lontananza la proposta di un nuovo rapporto con la scienza e di una nuova dimensione del rapporto tra scienza e medicina capace di rivalutare l’uomo in quanto tale e che accetti, anzi salvaguardi, tutto ciò che non coincide con la sua esperienza materiale e corporea.

Bibliografia

Di Cesare D. (2007), Gadamer, Il Mulino, Bologna.
Grieco A., Lingiardi V. (1994), Introduzione, in H.-G. Gadamer, Dove si nasconde la salute, Raffaello Cortina Editore, Milano.
Moretto G. (1997), La dimensione religiosa in Gadamer, Queriniana, Brescia.

Salman W. (2012), Gadamer e i teologi, Urbaniana University Press, Roma.

Michele Castaldo
dottore in Storia della Filosofia