Ci siamo sforzati di dimostrare come la psicoterapia, quale dai più è attualmente intesa, abbisogni di essere fondamentalmente completata, inserendo nei suoi obbiettivi anche la spiritualità dell'uomo. […] La domanda che ora ci facciamo è questa: può o deve lo psicoterapeuta andare al di là di questi limiti?
Il significato psicoterapeutico della confessione è un dato di fatto che tutti, si può dire, accettano. Si sa bene, che in ogni manifestazione di sé in quanto tale è già insita un'efficacia benefica sostanziale. Quanto si è detto nei precedenti capitoli, dove si è parlato dell'angoscia e delle neurosi coatte, sull'effetto dell'oggettivazione del sintomo (e, cioè, come questa oggettivazione permetta al paziente di ‘distanziare' il sintomo da se stesso), vale per la manifestazione di sé in genere, per ogni “sfogo”. L'“alleggerirsi sfogandosi” è un fenomeno universalmente noto: una sofferenza comunicata è anche una sofferenza “condivisa”.
La psicoterapia in senso stretto, ed in ispecie la psicoanalisi, voleva essere una tecnica di confessione terrena; la logoterapia, specie quando si dilata ad analisi dell'esistenza, vuol essere una “cura” medica dell'anima.
A questo punto occorre non cadere in un equivoco: la logoterapia non intende affatto sostituirsi alla religione, esserne una specie di surrogato; non vuole neppure sostituire la psicoterapia in senso stretto, vuole soltanto essere un completamento di quest'ultima. Nulla può dire o donare all'uomo religioso sicuramente ancorato nelle sue convinzioni metafisiche. Ma si consideri invece l'uomo non religioso, avido tuttavia di ascoltare qualcuno che dia una risposta alle questioni che più profondamente lo toccano, e che si rivolge al medico per averne aiuto.
La logoterapia non ha nulla a che fare con la religione: siamo medici e vogliamo restar tali anche come analisti esistenziali; né abbiamo la benché minima intenzione di far la concorrenza ai preti. Vogliamo soltanto superare gli attuali confini della medicina, indicare in pieno tutte le possibilità della prestazione medica: quali queste siano e come possano essere in pieno realizzate.
La “cura medica dell'anima” non vuole sostituire la vera e propria “cura d'anime”, che è e resta campo specifico del sacerdote. Il medico si vede costretto talvolta ad esercitare una “cura medica dell'anima”. “Sono i pazienti che ci pongono di fronte a tale compito” (Gustav Bally). “Solo troppo spesso la psicoterapia è spinta a sfociare in una cura dell'anima” (W. Schulte). “È inevitabile che la psicoterapia in certo qual modo diventi una cura dell'anima, anche se lo psicoterapeuta non vuole e non sa… Spesso egli deve intraprendere delle iniziative a carattere prettamente spirituale”.
“Piaccia oppure no, l'uomo chiede oggi al medico non solo ricette e farmaci, ma anche esige che lo consigli nelle angustie della sua vita… e non si può cambiare la situazione: nel momento del bisogno l'uomo in gran parte non cerca il sacerdote, ma nel medico spera di trovare un esperto dei problemi della vita”. Victor E. v. Gebsattel ha parlato di una “migrazione dell'uomo occidentale dal sacerdote verso lo psichiatra ed il neurologo”: ormai questo è un fatto che il sacerdote non può misconoscere. Nello stesso tempo è un'esigenza alla quale lo psichiatra non può sfuggire. Naturalmente osservando l'allontanamento dal sacerdote, lo psichiatra non gioisce farisaicamente. Non si potrebbe altrimenti definire l'atteggiamento di colui che, trovandosi a dover aiutare un non-credente nella sua problematica psico-spirituale, pensasse con intima soddisfazione: se fosse stato credente, certamente avrebbe trovato un rifugio nel prete!
Per principio, la logoterapia considera l'esistenza religiosa e quella non religiosa come due fenomeni coesistenti. Essa cioè si pone in atteggiamento neutrale nei loro confronti. Del resto la logoterapia rientra nel più vasto campo della psicoterapia e, almeno secondo la legislazione medica vigente in Austria, può essere uno psicoterapeuta solo chi è laureato in medicina. E anche se non ci fosse questa prescrizione, il logoterapeuta, sulla base del giuramento ippocratico, dovrebbe preoccuparsi di applicare le sue tecniche ad ogni malato, prescindendo dalla sua fede o dalla sua non-fede. Inoltre, le sue tecniche sono applicabili da qualsiasi medico, prescindendo dalla sua personale Weltanschauung .
La religione si presenta come un fenomeno nell'uomo, e perciò anche nel paziente: essa è uno dei tanti fenomeni che il logoterapeuta incontra nella sua pratica quotidiana. Pertanto, essa è e resta solo un oggetto, e non invece una posizione in cui si attesti.
Abbiamo allora determinato l'ambito di interesse della logoterapia nella sfera della medicina. Ora dobbiamo accennare al suo rapporto con la teologia. Ci sembra di poterlo caratterizzare nel modo seguente: lo scopo della religione è la salvezza dell'anima e lo scopo della psicoterapia è la guarigione psichica. Si tratta, come si vede, di due cose nettamente differenziate tra loro. Anzi, il sacerdote talvolta, per aiutare un credente, incorre nel pericolo cosciente di porlo in uno stato di tensione emotiva ancora maggiore. Egli non potrà evitare una certa tensione, e proprio perché il motivo primo ed originario della sua opera non è psicoigienico. Tuttavia, per quanto poco la religione si curi e si preoccupi della guarigione psichica e della prevenzione di malattie, può avvenire che essa per effectum, ma non per intentionem , sia efficace dal punto di vista psicoigienico e psicoterapeutico, appunto perché rende possibile al credente di ritrovare una salvezza ed un ancoraggio, che non troverebbe in alcun altro luogo, nella trascendenza, nell'assoluto.
Un analogo effetto laterale, del tutto spontaneo ed involontario, si può osservare nella psicoterapia: ci sono isolati casi fortunati, benedetti dalla grazia, di pazienti che, nel corso di un trattamento psicoterapeutico, riescono a ritrovare le fonti troppo a lungo occluse di una fede originaria, inconscia, rimossa. Ma allorché avviene questo, il medico non è legittimato ad assumersene il merito, proprio perché tale effetto non è stato da lui direttamente ricercato. Piuttosto può essere dovuto al fatto che sia il paziente che il medico si sono incontrati sullo stesso terreno confessionale, e quindi il secondo ha operato fondandosi su una certa relazione tra persone. In questo caso non c'è stato però un rapporto medico-paziente, ma uomo-uomo.
È ovvio che i fini della psicoterapia e della religione non si trovano sullo stesso piano, né hanno lo stesso livello di valore. Il livello della salute psichica è di carattere del tutto diverso da quello della salvezza dell'anima. L'uomo religioso, infatti, si introduce in una dimensione più alta, cioè più comprensiva, più ampia di quella sola psicoterapia. Tuttavia, il passaggio in tale dimensione superiore non avviene nella conoscenza, bensì solo nella fede.
Se è la fede a consentire un tale passo, nella dimensione divina, vale a dire ultraumana, non c'è alcun dubbio che la psicoterapia non può fare alcuna azione di forza. Si può ben essere contenti abbastanza se la porta che conduce alla dimensione ultraumana non viene bloccata da un tipo di riduzionismo legato ad una volgarizzazione e ad un fraintendimento della psicoanalisi e se non ci si avvicina al paziente con tale atteggiamento. Siamo già sufficientemente lieti se Dio non viene più visto come “null'altro che” l'immagine paterna, e la religione come “null'altro che” una neurosi dell'umanità e in tal modo viene svilita all'occhio del paziente.