I. Alle origini dell'esperienza e del concetto di «spirito» - II. Lo Spirito nella rivelazione ebraica e cristiana - III. La filosofia e la scienza moderne - IV. Nuove prospettive in dialogo tra teologia, filosofia e scienze.
I. Alle origini dell'esperienza e del concetto di «spirito»
Nella tradizione occidentale, in cui confluiscono la rivelazione ebraica e cristiana e la filosofia greco-ellenica, il concetto di «spirito» (eb. rûah; gr. pneûma; lat. spiritus; fr. esprit; ing. spirit, mind; ted. Geist) è ricco e complesso nei significati, da quello religioso a quello filosofico e teologico. In tale orizzonte polisemantico, il simbolo/concetto di spirito è in sé tensionale, se non addirittura bipolare: dal punto di vista teologico, infatti, connota la presenza di Dio in relazione al mondo e, dialetticamente, la sua alterità di trascendenza e sacralità/santità rispetto ad esso; inoltre, denota la personalità (di Dio e dell'uomo), e insieme una certa "sovrapersonalità". Al carattere intimamente tensionale, d'identità/relazionalità e di trascendenza/immanenza, che nella teologia cristiana si agglutina e in certo modo si dischiude nella figura originale della «persona trinitaria» dello Spirito Santo, si può alludere parlando di «Spirito di Dio/Dio come Spirito». Dal punto di vista filosofico e scientifico, tale simbolo/concetto è insieme cosmologico/antropologico, da un lato, e tipicamente teo-logico, dall'altro: esprime in indissolubile correlazione il principio dell'unità/totalità dell'essere e quello della sua molteplicità/pluriformità. Infatti, nella storia del pensiero tale accezione è venuta definendosi soprattutto in rapporto dialettico alla materia, acquistando progressivamente la connotazione di realtà incorporea, invisibile ed inafferrabile, più adeguata di altre definizioni ad indicare la dimensione vitale (anima) e interiore dell'essere umano (intelligenza e volontà, o anche coscienza della persona), la natura degli esseri soprannaturali (angeli e demóni) e di Dio stesso come assolutezza e trascendenza rispetto al mondo naturale. Infine, sempre tale rapporto ha spinto talvolta ad indicare con il termine «spirito» anche quelle sostanze (allo stato gassoso) che, seppure rientrano nell'ordine della materialità, si distinguono da ciò che è solido o liquido per la loro consistenza sottile ed impalpabile e per la facile e veloce dissolvibilità nell'ambiente, come risulta dall'origine etimologica (dal lat. spirare, soffiare, alitare), che lo avvicina al termine anima (cui corrisponde il sanscrito atman o anche áni-ti , che indica probabilmente «egli soffia»), in cui si intravede l'esperienza di quel particolare fenomeno fisiologico che impressionava i primitivi al momento della morte di un uomo, quando esalava il suo "ultimo respiro". Il collegamento all'immagine del vento o del respiro umano favoriva una considerazione della sua natura di tipo materiale, seppure estremamente sottile e mobile, i cui termini figurativi di confronto costituivano il fuoco o l'aria. Solo in modo lento e graduale il significato di realtà incorporea si è venuto imponendo nella storia del pensiero occidentale.
Per quanto concerne più specificamente la filosofia greca, Anassagora (ca. 500- 428 a .C.) costituisce un caso isolato nella filosofia presocratica: il suo noûs (intelletto) può essere tradotto anche con «spirito»: la pervasività e l'ordine che dà a tutte le cose, senza esserne vincolato o confondersi con esse, giustifica la constatazione che ogni realtà racchiude in sé una parte delle altre - il concetto diperichoresis da lui coniato (cfr. Diels-Kranz, B59, fr. 12) -, nel senso di una compresenza e interazione dinamiche delle parti naturali operata da un principio spirituale che dimora ed agisce in esse. Con gli Stoici (Zenone, Cleante, Crisippo, Posidonio), la teoria del pneûma riceve la forma più compiuta di sostanza rarefatta, capace di muoversi da sola, una specie di fuoco sottile (cfr. Plutarco, De stoicorum repugnantiis, 43, 1054), un soffio animatore che, come elemento vitale, informa, compenetra e ordina la materia universale (l'anima mundi), imprimendole un divenire razionale grazie ai logoi pneumatikoí, ossia ragioni creatrici, scintille di tale principio attivo seminate in ogni realtà corporea; ognuno di questi è presente, dotato delle medesime proprietà, anche nel singolo essere umano. La parola pneûma sembra esser nata in ambito medico, dove veniva utilizzata per significare la sostanza vitale presente in determinati organi del corpo vivente: lo pneûma zotikón , presente nel cuore e nei vasi sanguigni, e lo pneûma psychikón, localizzato nel cervello e nei nervi, di Erasistrato (sostenitore della medicina oggi detta «psicosomatica»); o anche lo pneûma physikón , con sede nel fegato, di Galeno. Per analogia, la stessa idea fu progressivamente estesa all'intero cosmo, nel senso di organismo vivente animato dal pneûma quale principio eterno, materiale e razionale, causa di coesione e connessione armonica fra le parti e garanzia di unità dell'insieme. Tale elemento pneumatico è presente nell'uomo come principio della sua costituzione naturale e parte consustanziale della realtà divina (cfr. Seneca, Epistulae, 66, 12).
In Aristotele (384- 322 a .C.), che segue l'intuizione di Anassagora, «spirito» acquista una conformazione più immateriale, in quanto sostanza incorruttibile ed inestesa: infatti, lo spirito umano è da un lato vincolato alla percezione dei sensi, mentre dall'altro lato, è autonomo rispetto al corpo, in quanto sopravvive dopo la morte; tuttavia, nello Stagirita il termine pneûma individua una sostanza dotata ancora di una certa materialità, via di mezzo tra sôma (corpo) e psyché (anima). Per Platone (427- 347 a .C.), invece, è l'occhio dell'anima che permette di cogliere l'invisibile. Col tempo, il termine venne a identificare un principio attivo e vitale superiore alle componenti animale e psichica; nelle correnti neopitagoriche e neoplatoniche pneûma fu progressivamente accostato a psyché ad indicare le attività superiori dell'uomo: viene sviluppata in questo contesto la tripartizione dell'essere umano in sôma , noûs e psyché (o pneûma ), già presente nel pensiero stoico.
II. Lo Spirito nella rivelazione ebraica e cristiana.
1. Il Primo Testamento. Nella tradizione ebraica la rûah indica una realtà spirante imprevedibile, la cui dinamica è scaturigine di vita. Nel Primo Testamento essa è «fiato» che dà vita (cfr. Gen 6,17; 7,15-22; Ez 37,10-14; ecc.) ad ogni essere animato, in particolare all'uomo (cfr. Gen 7,22; Nm 16,22; 27,16; Is 42,5; ecc.), «respiro», e con tale connotazione semantica si collega ad altri due termini semiti, nesamah (respiro) e nefes (respiro o anima). Tuttavia, l'esperienza unica ed originale del popolo d'Israele manifesta il costituirsi, oggetto di progressiva consapevolezza, della relazione di alterità con Jahvè, instauratrice, per libera e insindacabile offerta di Lui, dell'alleanza. Tale relazione è lo spazio d'esperienza e di comprensione dello Spirito, non più colto come forza cosmica o panica in sé autonoma, ma come lo «Spirito di Jahvè», comunicato all'uomo e al suo mondo come fonte di vita e di bellezza: la rûah incarna la forza e la fecondità creatrice di Dio (cfr. Sal 104). Da tale esperienza emerge il suo intrinseco collegamento alla promessa: all'interno dello spazio di alleanza entro cui lo Spirito di Jahvè, accolto dalla creatura umana, può agire come principio instauratore di liberazione e di giustizia, la presenza/azione di Dio nella storia del suo popolo e, in prospettiva, in quella dell'umanità intera, avviene come un cammino segnato dall'irrompere dello Spirito teso verso la sua effusione escatologica, quale condizione dell'avvento della comunione piena tra Dio e il suo popolo e della giustizia liberatrice tra gli uomini. Tale irruzione si manifesta alla e nella storia d'Israele attraverso il dono della parola e della potenza di Jahvè a persone da Lui scelte per inviarle come annunciatori/mediatori dell'alleanza e della promessa al suo popolo. In tale prospettiva lo Spirito guida Mosè, i Giudici e i Re (cfr. Dt 34,9; Gd 6,34; 13,25; 14,6-9; 1Sam 10,10; 16,13-14), ed è fonte di ispirazione e di azione nei Profeti (cfr. Ez 2,2; 3,12-14; 11,5; Is 11,2; 42,1; 61,1); in questa prospettiva si staglia la figura dell'«unto» (eb. masiah), sul quale si «poserà», sovrabbondante, lo Spirito di Jahvè, per renderlo capace di «portare il diritto alle nazioni» (cfr. Is 11,2-4; 42,1; 61,1). Allo stesso tempo, tale effusione coinvolgerà tutto il popolo dell'Alleanza (cfr. Ez cc. 36 e 37; Is 44,3; Zac 12,10; Gi 3,12), anzi la creazione intera. Inoltre, in profeti come Geremia ed Ezechiele, Gioele e Zaccaria, lo Spirito di Jahvè si configura come «Spirito nuovo» posto «dentro» il cuore degli uomini (cfr. Ez 36,24-28), "trapianto creativo" della volontà salvifica di comunione e di liberazione/giustizia di Jahvè nella libertà stessa della sua creatura. D'ora in poi, lo Spirito tenderà a costituirsi, oltre che come spazio di relazione/incontro tra Jahvè e il suo popolo, come principio interiore, da parte di Dio e - per sua gratuita concessione - anche da parte dell'uomo, della comunione (tra Dio e la sua creatura) e della giustizia liberatrice (nelle relazioni sociali) (cfr. Is 32,15-18). La figura letteraria della personificazione dello Spirito, negli scritti sapienziali (cfr. Sap 7,22-23), certamente sotto influsso dell'ellenismo ad essi contemporaneo, va anche interpretata come indicazione della progressiva comprensione del ruolo essenziale dello Spirito, insieme alla Parola, nell'opera creatrice e salvifica di Jahvè.
In prospettiva antropologico-teologica, la rûah proveniente da Jahvè, ritorna a Lui alla morte del vivente (cfr. Gen 2,7; Sal 104,29ss; Is 42,5; Ez 37,1-14; ecc.); l'uomo vive finché permane in lui «l'alito di Dio» (Gb 27,3), e se esso viene ritirato da Jahvè, egli ritorna alla polvere (cfr. Sal 104,29ss; 146,4; Qo 12,7; Gb 34,14ss): emerge il carattere di dono che non solo dà la vita, ma la rinnova e la trasforma redimendola dalla sua condizione di peccato (cfr. Ez 36,25-27). Perciò la rûah è sempre da ritenersi la potenza di Jahvè, che fa esistere e agisce sugli esseri creati, la libera volontà di relazione di Dio con la creazione e specialmente con gli uomini, principio di comunicazione, di formazione e coesione della comunità. Inoltre, la rûah individua i sentimenti, i pensieri e gli atti di volontà (cfr. Es 6,9; 35,21-29; Is 19,3; 26,9; 57,15; Ez 11,19; Mich 2,7; Sal 34,19; 51,12; Prv 14,17; 14,29; 21,2; 29,23; ecc.). Si trova sovente l'antitesi fra carne e spirito, fra la debolezza e la precarietà (dell'uomo, cfr. Is40,5; Sal 56,5; 78,39) e ciò che è forte e duraturo (cioè proprio di Dio, cfr. Os 14,4; Ger 17,5-8), e che può rinnovare e redimere (cfr. Sal 50). Dio è inteso come Colui che possiede e dispone del Suo spirito vivificante a favore dell'uomo e del cosmo (cfr. Gen 1,2), senza alcuna teorizzazione della Sua essenza, anche volta a una definizione specifica del termine «spirito»; in sostanza, la rûah non raggiunge mai la consistenza di una realtà divina autonoma e distinta da Jahvè: è Dio stesso nel Suo rapportarsi al mondo e all'uomo da Lui creati.
2. Il Nuovo Testamento. L'evento di Gesù di Nazaret - sia nella sua autocoscienza trasmessaci dalle narrazioni evangeliche, sia nell'interpretazione offertaci dalle tradizioni apostoliche attraverso gli scritti del Nuovo Testamento -, da un lato si pone in continuità con l'attuazione della promessa messianica e della profezia dell'effusione escatologica dello Spirito, dall'altro lato, rappresenta, alla luce dell'esito pasquale del suo ministero (crocifissione/risurrezione), una dirompente soglia di differenza anche rispetto all'esperienza/comprensione che Israele ha dello Spirito. I tratti messianici del ministero di Gesù emergono dall'evento del battesimo nel Giordano, interpretato come vocazione e unzione nello Spirito, e presentato come chiave di lettura dell'intera vicenda del Nazareno; funzione analoga è rivestita dall'inaugurazione del ministero di Gesù nella sinagoga di Nazaret (cfr. Lc 4,16-20); per cui le varie espressioni di tale ministero sono tutte poste sotto il segno della presenza/azione dello Spirito di Jahvè in e attraverso Gesù. Ma sono alcuni specifici loghia dei vangeli sinottici che attestano tale autocoscienza gesuana (Mt 18,28; Mc 3,28-29; Mc 13,11). Per cui la presenza/azione dello Spirito nel ministero di Gesù va compresa alla luce della sua precisa scelta messianica, posta nella prospettiva del «servo di Jahvè» di Isaia, e che si attua lungo la via della passione e morte di croce, via d'obbedienza al disegno di Dio di proclamare il «vangelo ai poveri», quale evento del Regno che è giustizia-agape. In questa ottica, lo Spirito di Dio è quell'intimo slancio che guida e illumina l'obbedienza di Gesù al Padre, il servizio e l'offerta della propria vita ai fratelli, che si consuma nella morte di croce (cfr. Eb 9,14; anche Mt 1,18-20; e Lc 1,35).
L'esperienza della comunità apostolica a partire dalla risurrezione di Gesù (cfr. Atti c. 2), è quella dell'effusione «senza misura» su «ogni carne» dello Spirito da parte di Dio Padre attraverso il Cristo. Di tale "prima" esperienza dello Spirito, e conseguente comprensione della sua presenza e identità, è interamente intessuta la testimonianza paolina della vita e della fede delle prime comunità cristiane; perciò, nel NT lo Spirito può e deve essere denominato Spirito di Cristo Risorto, ovvero di colui che Dio, nell'evento della risurrezione, ha costituito «Cristo e Signore»: il «venire» e l'alitare di Gesù sui discepoli, la sera del primo giorno dopo il sabato (cfr. Gv 20,19-23), sembra ricalcare la narrazione della creazione, rappresentandone intenzionalmente il compimento. E lo Spirito del Risorto è quello del Crocifisso: ciò è confermato sia dalla riaffermazione apostolica della centralità intrascendibile del lógos toû stauroû quale dynamis e sophía di Dio (cfr. 1Cor 2,4-5.10), sia dall'atto dello «spirare» di Gesù sulla croce (cfr. Gv 19,30), luogo e momento della «tradizione» (tradidit spiritum) dello Spirito agli uomini. Da ciò risalta il novum che caratterizza l'esperienza/comprensione cristiana dello Spirito: Questi attua la relazione giusta della persona umana con Dio e delle persone umane tra loro, grazie alla e nella forma della relazione vissuta da Gesù. Qui viene a delinearsi ulteriormente quella soglia di differenza designata dall'evento Cristo e dal suo esito pasquale: lo Spirito è di Dio Padre, in quanto viene da Lui come sua «proprietà», e come tale è concesso e consegnato a Gesù Cristo, il Figlio; allo stesso tempo, è di Gesù che, a sua volta, può ri-consegnarlo, in libertà, al Padre e - nella resurrezione - concederlo in consegna agli uomini. In sintesi, lo Spirito è sperimentato come realtà divina di paternità e di figliolanza che in certo modo accade tra il Padre e il Figlio, attuando rispettivamente la paternità del primo e la figliolanza del secondo, e la loro conseguente reciprocità, come evento di libertà/amore.
La denominazione «Spirito Santo» esprime linguisticamente l'esperienza/comprensione dello Spirito nella sua realtà propria, che in qualche modo va distinta da quella di Dio/ Abbà e da quella di Gesù-Cristo/Figlio, pur essendo da esse indisgiungibile e finalizzata alla giusta relazione tra il Padre e il Figlio e, in essa, fra le persone umane. Esegeti e teologi discutono se, come e quando, già negli scritti del NT, si possa parlare di "identità" dello Spirito Santo riconosciuta formalmente come distinta rispetto a quella del Padre e del Figlio. Al di là della tendenziale personificazione (già visibile in s. Paolo: cfr.1Cor 2,10; 12,11; Gal 4,6; ecc., e in s. Luca, specie negli Atti), ancora interpretabile come semplice figura letteraria, è soprattutto il quarto vangelo a presentare lo Spirito Santo come il Paraclito , l'Altro Inviato dal Padre (cfr. Gv 15,26) dopo e per mezzo del Figlio incarnato, crocifisso e risorto. Testimonianza decisiva per la successiva formulazione dogmatica della Chiesa, i cosiddetti "discorsi del Paraclito" sottolineano e in qualche misura correlano tra loro i tre elementi fondamentali che connotano il novum circa l'identità dello Spirito Santo segnata dall'evento cristologico: a) la personalizzazione dello Spirito (Paraclito), b) a partire dall'evento pasquale (cfr. Gv 7,39 e 15,7), c) e insieme la delineazione dei rapporti reciproci con il Padre e il Figlio. Il quarto vangelo, per sottolineare che la realtà dello Spirito Paraclito è della stessa "qualità" della realtà comunicata dal Padre al Figlio, lo inserisce in quel dinamismo di reciproca glorificazione tra Padre e Figlio (cfr. Gv 13,31-32; 17,5-24) che culmina nella pasqua e manifesta l'identità («unigenito» del Padre) del Lógos fatto carne: grazie a questa reciproca glorificazione, il Padre e il Figlio sono l'uno nell'altro, anzi sono «uno» (cfr. Gv 10,30; 14,8-10), tutto ciò che il Padre possiede lo dona al Figlio «glorificandolo» - partecipandogli la Sua gloria -, e tutto ciò che il Figlio ha dal Padre è a sua volta «preso» dallo Spirito e annunziato agli uomini (cfr. Gv16,12-16). Questa stessa «gloria» (eb. kabod) sembra identificarsi con il dono stesso che è lo Spirito Santo (ad es. cfr. Gv 17,22-23), ciò che fa "uno", nella distinzione, il Padre e il Figlio, e, tramite il dono che ne fa il Figlio, fa "uno" i discepoli in Lui e per Lui nel Padre.
3. La teologia cristiana dello Spirito Santo. Nell'ambito della teologia cristiana alcuni punti appaiono nodali alla comprensione dell'identità dello Spirito. La definizione dogmatica del Concilio Costantinopolitano I che nell'anno 381, sulla scia di quello di Nicea, confessa lo Spirito Santo come «Signore e Vivificante» (DH 150), degno al pari del Padre e del Figlio di adorazione e glorificazione, ha permesso un definitivo superamento dell'incertezza circa l'identità divina dello Spirito Santo, tipica di una linea consistente della tradizione cristiana postbiblica che, in taluni casi, appare addirittura in regresso rispetto alla testimonianza neotestamentaria; mentre i pneumatomachi, con una lectio facilior, propendevano in fondo per una messa tra parentesi della soglia di differenza rappresentata dal NT. L'esperienza della salvezza cristiana testimoniata dai Padri è decisamente alla base dell'affermazione dogmatica sull'equidivinità dello Spirito (l'omousía): se l'azione dello Spirito in noi ci fa sperimentare la figliolanza di Dio in Gesù Cristo, allora lo Spirito non può non essere Dio come il Padre e il Figlio. Tuttavia, da una parte, la formulazione in categorie desunte dalla filosofia greco-ellenistica, dall'altra, soprattutto nella tradizione latina, il ricondurre il Figlio incarnato e lo Spirito Santo al livello di Dio Padre nell'unità dell'essenza divina (la Trinità in sé), col passare del tempo, inevitabilmente, hanno adombrato l'orizzonte tipicamente storico-salvifico e antropologico-sociale in cui si situa l'intero percorso della testimonianza biblica. Accanto alla sicura affermazione dogmatica dell'identità personale dello Spirito Santo, si è verificata la messa in ombra di quell'economia dello Spirito che, compiendo l'economia del Verbo incarnato, si rivela/attua nella comunicazione della liberazione/giustizia proveniente da Dio stesso alla persona umana nelle sue relazioni sociali.
Nell'Oriente cristiano, la centralità della contemplazione e dell'azione liturgica mantennero viva l'autocoscienza originaria, ravvivata dalla sempre rinnovata esperienza dello Spirito; tuttavia, proprio questa predilezione del luogo liturgico farà pagare all'Oriente lo scotto di un'assenza della percezione della presenza/azione dello Spirito nel cosmo e nella storia. In occidente, Gioacchino da Fiore (1130 ca.-1202) rappresenta in questo senso un forte richiamo, anche se non privo di problemi, in direzione di una teologia pneumatologica della storia. La stessa questione del Filioque (questione pneumatologica per eccellenza ormai ridimensionata nella sua portata: cfr. la Dichiarazione del Pontificio Consiglio per la promozione dell'unità dei cristiani, 8.9.1995, EV 14, 2966) si colloca proprio all'interno di tale parabola, avendo tuttavia favorito l'esprimersi di due diverse ermeneutiche dell'evento cristiano, e rafforzato in Occidente un certo primato del cristologico sul pneumatologico, e dunque degli aspetti di visibilità, istituzionalità, centralismo e razionalità concettuale, rispetto a quelli di mistericità, comunionalità, collegialità e simbolicità apofatica. Oggi si considera la complementarità delle due prospettive pneumatologiche, rivisitandole in una luce nuova e in un orizzonte più vasto, evidenziando la loro ricchezza pluriforme di testimonianza neotestamentaria e, in particolare, l'intreccio di reciprocità trinitaria a modo delle relazioni tra il Padre, il Figlio e lo Spirito, nella proposta dell'evento pasquale del Crocifisso/Risorto come specifica chiave di lettura.
III. La filosofia e la scienza moderne
1. Dall'inizio della modernità a Kant. L'epoca moderna porta una nuova, radicale concezione di spirito e del suo rapporto con la natura. Il pensiero sposta la propria attenzione dalla datità mondana, nel suo porsi immediato alla conoscenza, al soggetto che riflette, l'uomo e il suo mondo, individuale e comunitario. All'inizio della modernità (oltre a teorie fisiologiche come lo spirito vitalis di F. Bacon, o gliesprits animaux di R. Descartes) la considerazione cartesiana dello spirito e della materia come due sostanze separate e antitetiche, condizionerà il pensiero successivo: la res cogitans , "sostanza spirituale" pensante, in contrapposizione all'estensione della materia, fu oggetto di contestazione e di radicale rivisitazione da parte dei successori. G.W. Leibniz (1646-1716) considera lo spirito come la forma più elevata assunta dalla sostanza prima immateriale (la monade), e come la facoltà che distingue l'uomo dagli animali, permettendogli di conoscere le verità necessarie ed eterne, l'anima ragionevole (cfr. Monadologia, § 29); mentre G. Berkeley (1685-1753), con i termini mind, soul o my self (cfr. Principles of Human Knowledges, I, § 2), sostiene la sostanzialità dello spirito come unica realtà esistente, semplice, attiva, indivisa, di cui non si può avere un'idea ma una nozione attraverso le operazioni della mente; in David Hume (1711-1776), tuttavia, il dissolvimento della sostanza spirituale in una "collezione" di idee da lui concepita favorì, nella seconda metà del Settecento, concezioni naturalistiche e materialistiche dello spirito (J.-O. de La Mettrie, il barone d'Holbach), alle quali facevano da contrappunto quelle altre interpretazioni dello spirito come prodotto dell'educazione e come assemblage di idee nuove (C.A. Helvétius), o quelle dei philosophesfrancesi e dei sostenitori dell'occultismo (E. Swedenborg). L'identificazione dello «spirito» con nozioni quali coscienza, mente, ragione, intelletto, anima, io, rimase costante nei periodi successivi. I. Newton (1642-1727) identifica esplicitamente lo spirito con Dio quale Essere onnipotente, soggetto assoluto, causa prima e presente nell'universo, ma soprattutto intelligenza e volontà, in grado di scrutare e comprendere le cose nel loro fondo (cfr. Optiks, 121), di volerne sviluppi, modificazione e trasformazione (cfr. ibidem , 145): dunque una «sostanza pensante» (ibidem, 509): essa è dotata di unsensorium, lo «spazio infinito» (cfr. ibidem, 121), specie di "strumento", non divino, che serve per penetrare, comprendere, muovere, configurare e trasformare le cose fin nelle loro profondità essenziali; in tal modo Dio fa liberamente della natura il suo strumento.
Con I. Kant (1724-1804), tuttavia, è posta in discussione la stessa possibilità di conoscere realtà, come l'anima, che vanno oltre la normale conoscenza empirica: la critica alla psicologia razionale determinerà lo spostamento di conoscenza razionale dall'ambito del fenomenico a quello del noumenico (morale e fede); il filosofo di Königsberg usa il termine «spirito» nella Critica del Giudizio, per indicare, nell'ambito dell'estetica, ciò che rende valido un prodotto dell'arte bella, «il principio vivificante dell'animo» (Critica del Giudizio, § 49), il potere produttivo e l'originalità della ragione (cfr.Antropologia, I, § 71), la capacità di mostrare in prodotti dell'immaginazione quelle idee che nessun concetto o pensiero possono adeguatamente definire; lo spirito è quella dimensione dell'esperienza che oltrepassa, come elemento ingegnoso ed intuitivo, l'ambito della ragione dimostrativa e fa emergere l'ineffabile senza essere vincolato a canoni regolativi predefiniti.
2. L'idealismo tedesco e i suoi sviluppi. La concezione verrà assunta come presupposto teoretico da tutto il pensiero romantico che intende la dinamica dello spirito come creatività: lo spirito è, quindi, il principio che dà concretezza alla forma dell'intelletto. J.B. Fichte (1762-1814) identifica lo spirito con l'immaginazione produttiva, cioè con la capacità di portare a consapevolezza il sentire più profondo, da cui originano le idee e le aspirazioni più alte; l'intuizione intellettuale viene da Fichte elevata alla facoltà propria e più intima, all'essenza stessa dell'uomo: la libertà, come spontaneità creativa capace di sciogliersi dai vincoli mondani, energia del pensiero opposta ad ogni passività e schiavitù derivanti dalla datità esistenziale. La frattura tra materia e spirito emerge anche in J.C. Schiller (1759-1805), che lamenta la divisione fra uomo fisico e uomo morale, fra mondo dei sensi e mondo della forma; e tuttavia, egli considera la dimensione spirituale come punto di sintesi degli "impulsi" materiale (concreto e particolare) e intellettivo (formale e universale), e allo stesso tempo trascendimento delle due dimensioni nell'assoluta unità dell'azione reciproca. Per G.W. Hegel (1770-1831) lo Spirito (Geist) è l'Assoluto (cfr. Enciclopedia delle scienze filosofiche, § 384), capace di recuperare ciò che gli appartiene nella dispersione dell'esteriorità, rimanendo quindi presso di sé pur nel divenire l'altro-da sé; è l'Idea che, alienata nella natura, ritorna a sé acquistando coscienza di se medesima: lo «spirito soggettivo» (l'anima o l'intelletto o la ragione) è solo un momento a cui si contrappone lo «spirito oggettivo» (lo Stato e le altre istituzioni del mondo umano: diritto, moralità, eticità, cultura e storia), entrambi assunti e superati dallo «spirito assoluto» che si manifesta nelle forme dell'arte e della religione, per trovare la sua pienezza e definitività nella filosofia, forma in cui si attua pienamente come coscienza di sé, superamento della soggettività individuale nell'autocoscienza di una nazione, di un popolo, della comunità umana, dello spirito nella sua universalità. Lo «spirito», quindi, è la libertà (cfr. ibidem, § 382), l'«in sé» che si rende altro-da sé in quanto realtà necessariamente esistente; tali momenti vengono assunti e superati nell'unità «che è in sé e per sé, ed eternamente si produce: lo spirito nella sua verità assoluta» (ibidem, § 359); lo spirito, che si pone come «volere libero» (ibidem, § 481), «si sa libero e si vuole come suo oggetto»: è lo «spirito soggettivo» (l'anima, l'individualità) che deve svilupparsi e superarsi, facendo propria l'oggettività esteriore e creando un proprio mondo intersoggettivo nelle strutture del giuridico, della morale, dell'arte, della religione e della scienza (lo «spirito oggettivo»); essa trova infine la propria sintesi nell'universalità del sapere concettuale, come autoconsapevolezza e totale autorealizzazione di sé («spirito assoluto»). La relazione diventa per Hegel e, grazie a lui, per tutto il pensiero successivo, tema essenziale della riflessione filosofica, proprio perché intesa come elemento fondamentale caratterizzante la vita dello spirito e la sua esperibilità: il tentativo di assumere l'immanenza all'interno della trascendenza, il finito all'interno dell'infinito, esprime l'intenzione di recuperare ed esplicitare razionalmente la dimensione religiosa come legame indissolubile fra divino ed umano, che richiama l'essenza relazionale dello spirito biblico, e ciò mediante un nuovo modo di pensare (la «dialettica») che tenga conto del negativo come momento - logico e reale -, imprescindibile e permanente della vita stessa dello spirito.
La "filosofia dello spirito" di Hegel, vertice della riflessione sullo spirito effettuata dalla filosofia occidentale, lasciò una traccia indelebile su tutto il pensiero dell'Ottocento e di gran parte del Novecento. Così nell'idealismo italiano e anglo-americano. In B. Croce (1866-1952), lo Spirito è unità di pensiero e azione nella distinzione delle due forme o attività fondamentali (teorica o conoscitiva, e pratica o volitiva): la totalità di esse, è il fine dello Spirito, cioè lo Spirito stesso; tale realtà si ritma originando quattro "distinti" (o categorie o "gradi") implicantisi reciprocamente seppure sempre nella distinzione (estetico-intuitivo o fantasia, logico-intellettivo o intelletto, economico ed etico), che presentano, ciascuno al suo interno, un "opposto". Tale dimensione e dinamica, che è la vita dello Spirito, si comprende proprio e solo considerando il "nesso di distinti" e consiste precisamente in tale relazione di unità-distinzione, come reciproca implicanza-nella-differenza che contraddistingue la realtà. Nell'attualismo di G. Gentile (1875-1944) lo Spirito è «atto puro» che pone il suo oggetto come molteplicità e lo riassorbe in sé come momento stesso del proprio farsi, "autoconcetto" che risolve in sé tutta la realtà, pensiero che si conosce realizzandosi come realtà: l'autoconcetto si autorealizza e si autoconosce nei tre momenti del "puro soggetto", del "puro oggetto", e dello Spirito come unità o processo del pensiero in cui sono necessariamente compresenti il soggetto (che pensa) e l'oggetto (ciò che viene pensato), reali solo nello Spirito stesso che è la vera realtà del pensiero, e fuori di cui niente è reale.
3. Spiritualismo e positivismo. Il ricorso allo spirito inteso come coscienza individuale e alla sua analisi, nella pretesa di desumere da essa i dati necessari all'indagine filosofica e scientifica, è la proposta di un'altra e parallela linea di pensiero, quella dello «spiritualismo» di V. Cousin (1792-1867) che intende in tale modo recuperare i valori religiosi, morali, sociali e politici tradizionali. Più in generale, tale corrente di pensiero, mostrando una notevole consonanza con la tradizione teologica cristiana, sostiene il primato dello spirito, inteso in maniera personalistica, o come spiritualità dell'essere, sulla materia; esso si propone di ricorrere alla coscienza nel senso agostiniano di riflessione interiore volta ad individuare gli elementi necessari all'attività teoretica; lo spirito è considerato realtà autocosciente, presente a se stessa, di cui l'essere umano fa esperienza nell'atto gnoseologico di rientrare in sé, nella propria interiorità, in un itinerario che lo conduce verso il Trascendente, gli spiriti finiti e il mondo. Allo spiritualismo si sono ispirati pensatori italiani del Risorgimento (Galuppi, Rosmini e Gioberti) e del Novecento (Guzzo, Stefanini, Sciacca, Battaglia, ecc.); esso dominò la scena filosofica francese (Maine de Biran e Renouvier nel secolo XIX, M. Blondel e E. Bergson nel XX), e tedesca (H. Lotze). Le diverse correnti spiritualistiche si imposero, soprattutto in Francia e Italia, come reazione contraria alle dottrine immanentistiche, al naturalismo e allo scientismo, e con l'esigenza di una riproposta metafisica alternativa al materialismo imperante.
Il positivismo rivendicava infatti per la scienza il ruolo di guida e interprete dell'essere umano in tutte le sue espressioni individuali e collettive (conoscenza, morale, arte, politica e religione); e come esaltazione ottimistica delle scienze sperimentali ed esatte, diede impulso e sostegno al sorgere della società tecnico-industriale, assorbente ed esaurente in sé ogni aspirazione interiore (spirituale e religiosa), nella pretesa di risolvere definitivamente con metodo "positivo" (modellato su quello ipotetico-deduttivo delle scienze) ogni problema, in vista di un continuo progresso dell'umanità verso la sua piena realizzazione; l'applicazione del suo metodo ad ogni branca del sapere comportò l'abbandono di ogni prospettiva metafisica e di riferimento al Trascendente, e la riduzione di ogni dimensione del reale al complesso delle forze materiali e meccaniche inerenti ad ogni genere di esseri. Secondo tale indirizzo naturalistico, ogni ambito del reale subirebbe spontaneamente, per intrinseco impulso, un processo evolutivo continuo dalle forme più semplici alle più complesse, a prescindere da interventi soprannaturali.
4. Le filosofie contemporanee. Agli orientamenti positivistici si oppose anche la fenomenologia, voluta da E. Husserl (1859-1938) come indagine "essenziale" e di senso della realtà effettuata mediante l'analisi degli Erlebnisse (vissuti) della coscienza, e le "Scienze dello spirito", orientamento sorto nella seconda metà dell'Ottocento, di cui si fece autorevole portavoce W. Dilthey (1833-1911), e comprendente tutte quelle discipline aventi ad oggetto le espressioni individuali e collettive dello spirito. Con Dilthey l'ambito acquista una propria specificità, individuando quelle discipline (storia, economia, politica, religione, letteratura e poesia, arti figurative e musica, sistemi di pensiero e psicologia) che riguardano l'uomo e le sue manifestazioni calate nella storia. Per Dilthey ciò che le distingue dalle scienze della natura è proprio il carattere di storicità che impregna ogni agire umano nella costruzione del proprio mondo: compito della filosofia è quindi comprendere i vari momenti della storia in e mediante cui l'uomo ha realizzato se stesso, e descrivere i rapporti individuali e collettivi che lo legano alla propria cultura e ambito sociale.
Anche per l'esistenzialismo lo spirito è quello dell'uomo, ma inteso come libertà quale espressione dell'interiorità svincolata dai condizionamenti del dato esteriore (N. Berdjaev). K. Jaspers (1883-1969) considera la vita dello spirito come esperienza individuale proiettata in un orizzonte universale di senso, dimensione esistenziale non categorialmente definibile: lo spirito, per difendersi dalla tendenza disordinata e distruttrice dell'esistenza, produce forme con cui gestire la propria vita, e ne crea sempre di nuove per non venire soffocato dalle precedenti, sclerotizzate e senza più vitalità. Così laPhilosophie de l'esprit , fondata da L. La Senne e R. Lavelle con l'intenzione di opporsi drasticamente al materialismo, propone una visione positiva del rapporto tra spirito e mondo, considerato quest'ultimo come veicolo e strumento del primo, in quanto in esso la realtà si dona allo spirito per essere conosciuta e ordinata, e allo stesso tempo costituisce la condizione di possibilità della libertà dello spirito stesso. N. Hartmann (1882-1950), con un'analisi fenomenologica delle creazioni spirituali (arte, lettere, scienze, tecnica, religione, filosofie, ecc.), intende mostrare l'obiettività dello spirito come "sovrastruttura", cioè la sua capacità di elevarsi al di sopra della coscienza psichica, e di essere il vero protagonista della storia; al di sopra dello spirito oggettivo poi si innalza lo spirito "vivente" come unità del primo con la coscienza personale.
Attenzione a parte merita l'indirizzo ermeneutico, che fin dall'epoca moderna mostrò un profondo legame con il tema dello spirito. Infatti, nella proposta teologico-filosofica di F. Schleiermacher (1768-1834) lo spirito assume un ruolo fondamentale come categoria filosofica posta alla radice stessa della questione ermeneutica: poiché lo Spirito è vincolato alla Parola, l'interpretazione della Parola si attua nello e mediante lo Spirito, al punto che l'atto ermeneutico assume carattere fortemente "pneumatico". Lo Spirito che Schleiermacher intende, tuttavia, risulta per certi versi una sorta di immanentizzazione della nozione teologica dello Spirito Santo, con funzione ermeneutica, assumendo la figura di "mediatore universale" del processo di interpretazione, e adottando talvolta caratteristiche tipiche del futuro Spirito hegeliano. Nel contesto filosofico del primo Novecento il tema dello spirito, dopo un periodo di oblio dovuto all'imperversare delle dottrine positivistiche, viene riproposto all'attenzione comune proprio all'interno della prospettiva ermeneutica e della filosofia del linguaggio, grazie anche al contributo della teologia, specie con W. Pannenberg, e della sensibilità religiosa di alcuni filosofi come H.G. Gadamer, P. Ricoeur e F. Ebner.
IV. Nuove prospettive in dialogo fra teologia, filosofia e scienze
In questi ultimi anni il tema dello spirito è diventato argomento di un complesso e multiforme dialogo tra scienze naturali, filosofia della natura e teologia; il concetto di «spirito», e in particolare l'identità dello Spirito di Dio in sé e nel suo rapportarsi al mondo della natura e della materia, ha visto scendere in campo specialisti appartenenti a varie confessioni religiose, nell'intento di trovare risposte ai numerosi interrogativi di ordine speculativo e "spirituale", posti dalle teorie emerse, già dagli inizi del XX secolo, all'attenzione non solo della comunità scientifica, come avvenuto ad esempio con la teoria della relatività e con la meccanica quantistica. In ultima analisi si tratta dell'esigenza di una riflessione che acquisti un orizzonte più ampio e, al di là delle specializzazioni e settorializzazioni che articolano e frammentano il panorama culturale occidentale, individui una dimensione di senso che abbracci ogni ambito dell'essere, del sapere e dell'agire. Infatti, la stessa indagine scientifica, nello spingersi fino allo studio delle particelle elementari e dei fondamenti fisici del reale, non di rado può stimolare il ricercatore ad interrogarsi sulle profondità dell'"essere" e sulla natura dello spirituale in rapporto a quanto egli conosce della materia.
1. Prospettiva cosmologica. Riguardo al concetto di «spirito» in rapporto alla fisica e alla cosmologia, diverse visioni propongono i vari scienziati, pur nel contesto delle proprie discipline e a seconda degli orientamenti filosofico-culturali e religiosi a cui aderiscono o si ispirano (platonismo e panteismo, oppure buddismo, taoismo, induismo o cristianesimo). W. Heisenberg, riferendosi esplicitamente al famoso mito platonico della caverna, parla dello spirito come realtà che sottostà ad ogni parvenza materiale, ricercato dall'uomo come la verità stessa, che può essere detta Dio in senso cristiano (cfr.Fisica e Filosofia , tr. it., Milano 1963, pp. 81-82). Il fisico tedesco ritiene che la presenza di principi immateriali, come già segnalato dalla filosofia greca, sia un fatto oggettivo - come lo sono i fatti della scienza della natura - che esprime certi aspetti della realtà del mondo, indipendenti dal tempo, dunque eterni (cfr. ibidem, pp. 65-79); l'ordine spirituale si dimostra quindi «centrale» perché raccordo tra dimensioni eterna (delle idee) e temporale (della materia, a cui appartengono le particelle elementari che costituiscono le immagini originarie, le idee della stessa materia; cfr. Fisica e oltre , tr. it. Torino 1984, pp. 223-226). Per il chimico I. Prigogine, che si ispira al pensiero di H. Bergson, la totalità della natura nella sua evoluzione può essere concepita solo al di là di una descrizione parziale, propria della scienza; ciò vale anche per il tempo, data la sua natura "spirituale", dimensione che supera infinitamente la facoltà di comprensione propria della ragione scientifica.
Il fisico teorico P. Davies, all'interno di una spiegazione della natura, intende Dio come spirito (mind), cioè una realtà che pervade, vivifica e muove il tutto, dandogli un progetto, un senso e un fine; nota l'assoluta semplicità che qualifica lo spirito infinito e, tuttavia, la presenza di tale dimensione solamente in sistemi dotati di un certo grado di complessità; l'esistenza e l'evoluzione di tali gradi di complessità, in particolare negli esseri viventi, evidenzia una finalità che rinvia all'azione di una "mente", intesa non solo come "termine" dell'evoluzione (struttura altamente complessa), ma altresì come "autore" dell'evoluzione medesima, o suo principio ordinatore (cfr. La mente di Dio , Milano 1993; Il cosmo intelligente , Milano 1994). Ogni dimensione dello spirito possiede una sua "dignità" naturale, che emerge ad esempio nel rapporto duale corpo-spirito, in analogia col dualismo fisico onda-corpuscolo o informatico hardware-software , sul tipo del rapporto mente-corpo. Il fisico sembra abbandonare l'idea della sussistenza autonoma dello spirito dopo la morte, rilevando l'essenzialità della relazione con la materia per la sua esistenza; tuttavia, ne accoglie l'autonomia dotata di creatività, sul modello dell'"osservatore scientifico" (cfr. W. Heisenberg, Fisica e Filosofia , pp. 51-63), posto sullo stesso piano della materia in un rapporto conoscitivo di domino su questa; tale "spirito osservatore" porrebbe in essere l'universo fra i molti possibili, anche soltanto percependolo e, mediante una "causazione verso il basso" (tesi desunta da Donald Campbell), determinerebbe anche processi fisici, come superiore principio ordinatore dell'auto-organizzazione della materia, per cui tutta la natura sarebbe da intendere come sua espressione; a tale "divinità naturale" spetterebbero esclusivamente "funzioni" (spiegazione razionale del mondo, conferimento di senso, progettualità e finalità).
Per F. Capra, in un parallelismo tra teoria quantistica e le varie concezioni (mistiche) orientali dell'universo, i vari dualismi energia-materia, spazio-tempo, onde-corpuscoli costituiscono un'unità in cui si può riconoscere il «mondo spirituale della non-distinzione» (cfr. Il Tao della Fisica, Milano 1997), e tuttavia lo spirito è principio e processo dell'auto-organizzazione, identificandosi con la vita stessa, cioè Dio: un'auto-organizzazione che definisce «trinitaria» proprio perché permette di associare l'idea di "processo" a quella di Spirito, quella di "struttura" al Verbo fatto carne e quella di "modello" di organizzazione al Padre. Secondo tale concezione Capra, attingendo al mito indiano del «Dio che si sacrifica», concepisce il divenire di Dio come mondo, e del mondo a sua volta come Dio. Nell'"auto-organizzazione" della materia (specie la materia animata), proposto dall'astrofisico E. Jantsch, giocano in modo complementare caos e ordine, come dinamica che genera vita e si rinnova continuamente; alla base di una tale vita, capace di trasformare l'universo secondo propri scopi, esistono leggi della natura che trascendono altre, sostituendosi ad esse e correggendole, all'interno di un movimento dotato di autocontrollo: sotto questa visione del mondo sta la fede in una divinità immanente che non è il Creatore, ma lo "spirito dell'universo" (cfr. Die Selbstorganisation des Universum, München 1992, pp. 412-415), il Sé dell'universo degli esseri viventi che soggiace al processo di auto-organizzazione, garantendone l'invincibilità con il suo potere divino.
2. Prospettiva antropologica. Nell'orizzonte antropologico, peculiari problemi sono stati posti riguardo alla relazione fra elemento animale ed elemento spirituale: secondo soluzioni "monistiche" sia la materia animata che lo spirito nelle sue varie dimensioni sono ricondotti ad un'unica realtà che li accomuna (ad esempio l'odierna «teoria dell'identità»: lo spirito sarebbe una "funzione" del cervello, in quanto, ad un certo grado di organizzazione raggiunto dalla materia, gli stati d'animo e le condizioni coscienziali sarebbero stati dei neuroni); secondo soluzioni "dualistiche", tipiche del pensiero platonico, sostenute fra gli altri dal chimico H. Sachsse e dal fisico H. von Ditfurth, lo spirito, realtà assolutamente "altra" e superiore alla materia, ne sarebbe il principio di organizzazione e caratterizzazione. Attualmente, una variante di tale teoria, detta «interazionismo», distinguerebbe nettamente fra "spirito" (mind) e cervello (brain o body) per cui, pur in una reciproca relazione, l'elemento spirituale risulterebbe assolutamente irriducibile alle funzioni neuronali del sistema nervoso centrale o del cervello. Mediante una conoscenza accurata della struttura e delle corrispondenti funzioni cerebrali, S.N. Bosshard afferma la necessità di mettere da parte i vari riduzionismi per accogliere «il paradosso dell'unità e della distinzione delle due figure della realtà» (cfr.Erschafft die Welt sich selbst?, Freiburg 1985, p. 78): due modelli come la «teoria dell'interazione» di J.C. Eccles e l' emergent interactionism di R.W. Sperry sostengono con varie argomentazioni un'interazione dello spirito con il sistema neuro-cerebrale, pur nella distinzione delle due dimensioni nel senso di una indeducibilità e peculiarità dell'elemento spirituale; per cui il cervello costituirebbe un vero e proprio "organo" dello spirito.
3. Prospettiva teologica. Nell'ambito del cristianesimo, si notano, a partire dal rinnovamento vissuto in tutte le tradizioni (cattolica, ortodossa, riformata) sin dai primi decenni del Novecento, numerosi tentativi di rileggere la questione del rapporto tra Dio e il mondo, lo spirito e la materia, l'uomo e il cosmo, in un orizzonte comprensivo e più aderente alla rivelazione cristiana, capace di superare i dualismi opposti dello spiritualismo e del materialismo, senza peraltro cadere in forme di immanentismo e di panteismo. Pionieristiche, in questo senso, le cosmovisioni proposte dai pensatori religiosi russi della cosiddetta "età d'argento": V. Solovie'ëv, P. Florenskij, S. Bulgakov. Essi avvertono l'urgenza di una cosmologia cristiana e sottolineano - in continuità con la tradizione liturgico-sacramentale dell'Ortodossia - che l'occhio col quale il cristiano guarda e interpreta il mondo è l'occhio dei discepoli al monte Tabor, dove la carne di Cristo, sintesi anche della materialità del cosmo, viene trasfigurata grazie all'energia divina. Occorrerebbe dunque superare la separazione occidentale moderna tra spirito e materia e il pregiudizio che la natura sia eterogenea alla dimensione spirituale della vita umana e della presenza di Dio nel mondo. Scrive ad esempio S. Bulgakov: «Non soltanto lo spirito non è opposto alla materia, ma bensì vi si identifica come energia: è la sua forza. [.] questa attitudine spirituale della sostanza di creatura, determinata dalla sua relazione positiva allo spirito, può avere diversi modi o gradi [.] mai lo spirito è opposto alla vita animale e corporale dell'uomo, ma vive in esse, determinandole e, a sua volta, essendo determinato da esse» (Il Paraclito, tr. it. Bologna 1987, pp. 574-575). Nella teologia cattolica vanno ricordate, in analoga prospettiva, la ben nota cosmovisione di Teilhard de Chardin e l'interpretazione simbolica del rapporto tra spirito e corpo proposta da K. Rahner.
Più recentemente, alcuni teologi contemporanei hanno proposto una lettura delle ultime scoperte e ipotesi scientifiche alla luce della rivelazione neotestamentaria e dell'esperienza ecclesiale derivante, convinti che da tale dialogo fra teologia e scienze naturali possa derivare un beneficio per entrambi, in termini di senso della ricerca e dei risultati scientifici, nonché di ulteriore comprensione della realtà di Dio e dell'essere umano.
In riferimento alla natura, J. Moltmann intende Spirito come «le forme di organizzazione ed i modi di comunicazione dei "sistemi aperti", a partire dalla materia informe per arrivare alle forme dei sistemi vitali, alle più diverse simbiosi di vita, fino agli esseri e alle popolazioni umane, addirittura all'ecosistema "terra", al sistema solare, alla nostra galassia della Via Lattea ed alla combinazione delle galassie dell'universo» (Dio nella creazione, tr. it. Brescia 1986, p. 30); a tutti questi livelli, i principi organizzativi dello Spirito sono "autoaffermazione" e "integrazione", per l'aspetto sincronico, "autoconservazione" e "autotrascendenza", per l'aspetto diacronico; lo Spirito tende a fondere i sistemi di vita aperti in forme di vita simbiotiche, e a sviluppare forme di vita sempre più ricche nell'ambito del possibile, il futuro. Su tali basi, Moltmann considera «Spirito» come sinonimo di autorganizzazione e di autotrascendenza, di simbiosi interiore ed esteriore (cfr. ibidem, p. 31), principio complessivo dell'organizzazione, per cui lo spirito umano riguarda l'intera struttura corporeo-psichica; nello Spirito ogni uomo è unito socialmente e culturalmente agli altri esseri umani, in un legame che è un sistema organizzato in modo aperto (spirito comune della collettività umana); tramite lo Spirito ogni uomo è unito all'ambiente naturale (ecosistema psichico) e ogni società umana è collegata, come sistemi settoriali, all'ecosistema "Terra" (spirito cosmico). Si rende quindi necessario, secondo il teologo tedesco, estendere la "coscienza umana dello Spirito" a quante più formazioni possibili dello Spirito stesso, e a dilatarla, secondo i princìpi di organizzazione, verso la coscienza sociale, ecologica, cosmica e divina, in modo che entri in forme organizzative più elevate, complesse e stratificate al fine di arrivare ad uno scambio vitale più alto e differenziato. Lo Spirito, inoltre, è "principio della creatività" a tutti i livelli della materia e del vivente, crea e anticipa nuove possibilità e schemi, e, mediante il concetto di "automovimento", può essere compreso come "principio dell'evoluzione"; è "principio olistico", in quanto, ad ogni grado di sviluppo crea interazioni, consonanze e pericoresi reciproche (vita di cooperazione e comunitaria); è "principio di individuazione e differenziazione" di forme materiali e vitali a differenti livelli di complessità; costituisce "principio di intenzionalità", nel senso di orientare tutte le creature verso un futuro comune, intrinseco e peculiare a ciascuna secondo caratteristiche e possibilità (cfr. ibidem, pp. 124-125). Per Moltmann la coscienza umana è spirito riflettente e riflesso (cfr. ibidem, p. 31), consapevolezza dell'organizzazione della sua vita, della sua interiorità, e delle relazioni necessarie all'organismo umano per vivere nella natura e in società; il corpo e l'anima sono penetrati, vivificati e connotati dallo "Spirito Creatore", per cui l'uomo è "spirito-corpo" e "spirito-anima" e, al tempo stesso, un'unità connotata dallo Spirito Creatore (qui inteso come spirito cosmico), per cui l'essere umano è uno "spirito-figura" esistente solo nello scambio naturale e sociale con altri esseri viventi. Tuttavia, dal punto di vista teologico, lo Spirito Creatore, Spirito e Presenza di Dio nella sua creatura, non è lo Spirito Santo (cfr. ibidem, p. 304), inteso come lo Spirito della redenzione e santificazione, lo Spirito di Cristo, presenza di Dio che redime, ri-crea, investe l'uomo intero configurandolo a Cristo (cfr. Fil2,6) e inserendolo nella comunità dei credenti.
Nella proposta di interpretazione della relazione Dio-mondo di W. Pannenberg, l'analisi della testimonianza biblica rivela lo Spirito di Dio come il principio che dona a tutte le creature vita, moto e attività, è l'alito divino insufflato direttamente in esse e che agita le acque primordiali: non solo un evento che accade nell'interiorità di Dio, ma «un respiro che si tramuta in tempesta, un dinamismo da cui scaturisce il "parlare" creatore» (Teologia sistematica , tr. it. Brescia 1994, vol. II, p. 96). Se scopo della fisica è in definitiva quello di descrivere le forme di moto e le forze motrici, allora, proprio nelle diverse ipotesi recentemente avanzate per la spiegazione di tali fenomeni, può individuarsi una rilevanza ermeneutica implicitamente teologica. In particolare, secondo Pannenberg, le teorie dei "campi di forza", che hanno trovato sviluppo a partire da M. Faraday, paiono manifestare una certa compatibilità con la concezione cristiana dell'attività dinamica del pneûma divino nel creato. Per Faraday i corpi sarebbero espressioni di forze, intese come realtà autonome, preesistenti ai fenomeni fisici, e raffigurabili a mo' di "riempitivi di spazio", come l'insieme di un campo che avvolge uno o parecchi corpi: la massa dipenderebbe dalla concentrazione di forze in diversi punti dello spazio, e la particella di materia risulterebbe un punto in cui convergono linee di forza, oppure un ammassamento (cluster) di tali linee con durata determinata.
Gli enunciati biblici sullo Spirito di Dio/Dio come Spirito suggerirebbero, per Pannenberg, un'interpretazione di "campo di forza" strutturato in modo trinitario, dove la persona dello Spirito deve intendersi come una delle concretizzazioni personali dell'unico Dio Spirito, cioè in relazione al Padre e al Figlio: in questa ottica la persona dello Spirito Santo risulterebbe una manifestazione singola (singolarità) del campo dell'essenza divina e, poiché il suo essere-persona si manifesta solamente nella relazione al Figlio e al Padre, la sua azione nel creato assumerebbe il carattere degli effetti dinamici di campo, cioè la relazionalità, naturalmente con differenze, rispetto alla dinamica intra-trinitaria, dovute alle condizioni temporali che caratterizzano le connessioni spaziali della creatura, in cui deve inserirsi e agire superandole (cfr. ibidem, pp. 100-103). Il dinamismo dello Spirito Santo va infatti compreso come campo operativo condizionato dal tempo e dallo spazio: esso si dilata nel tempo, tramite il potere del futuro - luogo della possibilità degli eventi e del compimento escatologico del Regno di Dio, già presente in Gesù Cristo - che garantisce ad ogni creatura presente e durata, e nello spazio che assicura stabilità alle creature nella loro simultaneità (cfr. ibidem, p. 123).
Nel riassumere tali visioni, riteniamo che al di là delle diverse modalità con cui l'esperienza e la riflessione filosofico-teologica sullo spirito si sono espresse lungo la storia del pensiero, e della mutevole personalità con cui lo spirito stesso è stato oggetto di concettualizzazione o di semplice ostensione, se ne riconosce la presenza e l'azione in ciò che appartiene alla natura più profonda dell'umano, ma anche come qualcosa che viene implicato dalla natura e dalla logica del mondo. Da parte loro, le scienze naturali, non lo riconoscono come oggetto proprio del loro metodo, ma segnalano ugualmente la ragionevolezza di chi voglia fare ad esso appello nella comprensione della natura e delle sue fenomenologie, non ultima la vita, ammettendo così i limiti interpretativi sia del riduzionismo che del materialismo. Al pensiero filosofico e alle scienze, la Rivelazione offre il suo specifico contributo, segnalando nello Spirito la ragione di un dono, di una presenza e di una promessa che, fin dalle origini, ha inteso accompagnare e guidare il piano del Dio Uni-trino sulla creazione e sulla salvezza.
Documenti della Chiesa Cattolica correlati:
Concilio di Costantinopoli, DH 150; Sinodo di Sens, DH 722; Leone XIII, Divinum illud munus, 9.5.1897; Pio XII, Mystici corporis, DH 3807-3808; Gaudium et spes, 11, 26; Giovanni Paolo II, Dominum et vivificantem; Giovanni Paolo II, Catechesi sul credo: Credo nello Spirito Santo, vol. III, LEV, Città del Vaticano 1992; Catechesi del mercoledi: 19.8.1998, Insegnamenti XXI,2 (1998), pp. 156-159 e 2.8.2000, OR 3.8.2000, p. 4.
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