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Idealismo

Anno di redazione: 
2002
Alessandro Salucci

I. L’idealismo nella storia della filosofia - II. L’idealismo tedesco ed i suoi influssi sul pensiero contemporaneo - III. Idealismo e conoscenza scientifica: la fisica classica e le matematiche - IV. Paradigmi idealisti in alcune teorie scientifiche odierne - V. La teologia e il principio idealista dell’immanenza - VI. Operatività della prospettiva idealista in teologia: possibilità e valutazioni critiche.

Con il termine «idealismo» si intende genericamente ogni filosofia che, interrogandosi circa la fonte della conoscenza, la identifica con il pensiero, ovvero con l’idea. Secondo la prospettiva idealista, la conoscenza non riconoscerebbe la realtà posta al di fuori del soggetto conoscente, perché considera come reali soltanto i fenomeni interiori, quelli del soggetto, detti anche «rappresentazioni o stati di coscienza». L’essere è così determinato dal pensiero, indicato spesso anche col termine spirito. In questo senso l’idealismo si oppone primariamente al materialismo, il quale afferma che l’essere esiste in sé come materialità, e in seconda battuta al realismo, il quale afferma invece la realtà dell’esistenza di oggetti anche al di fuori della mente conoscente. Assumendo come unico metodo il «principio di immanenza», secondo il quale noi non conosciamo direttamente la realtà, ma solo e soltanto le nostre rappresentazioni di essa, la filosofia idealista pone alla base della sua gnoseologia l’asserto secondo cui un accesso immediato ai dati dell’esperienza da parte della nostra coscienza sarebbe impossibile, o comunque dubbio. La posizione idealista, oltre a determinare una sua gnoseologia, costruisce anche una sua metafisica: infatti il principio di immanenza, contrariamente al realismo che pone il fondamento del reale sull’essere, sostiene che la realtà è fondata sul pensiero. Questa concezione metafisica idealista ha conseguenze notevoli sia nel campo dell’antropologia, che della teologia e della scienza. Il soggetto viene, in queste discipline, ad essere predominante rispetto alla possibilità di una realtà esterna, creata indipendentemente dal soggetto stesso.

I. L’idealismo nella storia della filosofia

1. Le radici dell’idealismo nella filosofia antica. Il primo uso filosofico del termine «idealismo» si deve a Leibniz (1646-1716) che lo impiegò per indicare la filosofia di Platone. Sebbene nella storia della filosofia il termine «idealismo» indichi solitamente un periodo che va dalla fine del Settecento ai primi decenni del secolo successivo, la filosofia idealista ha in realtà una estensione storicamente ben più ampia. Pur riconoscendo che l’idealismo tedesco di Hegel, Fichte e Schelling rappresenta forse la sua massima consistenza teoretica, tale corrente filosofica non può confinarsi in questo solo periodo, trattandosi di una visione gnoseologica che percorre in modo trasversale, pur con diversità di sfumature, tutta la storia del pensiero filosofico occidentale.

L’idealismo nasce in realtà con la filosofia di Platone (427 - 347 a.C.), il quale sosteneva l’esistenza di due mondi, quello del sensibile, soggetto al divenire, e quello dell’intelligibile, il «mondo delle idee» (gr. hyperouránios), perfetto e immutabile. Caratteristica della filosofia platonica è proprio la visione di questa realtà soprasensibile, definita poi come «teoria delle idee». L’indagine della natura (gr. physis), compiuta dai presocratici, aveva cercato di dare una spiegazione del reale partendo dalle sole cause meccaniche e materiali. Queste si esprimevano nella combinazione meccanicistica di quelli che allora erano creduti i quattro elementi fondamentali della materia: acqua, aria, terra, fuoco. Platone non riteneva, tuttavia, che queste combinazioni fossero le vere cause; egli pensava infatti che la causa del sensibile fosse da ricercarsi in qualcosa che è “sopra-sensibile” (cfr. Fedone, 97b-98c). Per Platone il dato “fisico” non si spiega restando nella dimensione del fisico, ma la causa del “sensibile” è da ricercarsi nel “sovra-sensibile”, nelle idee. Con il termine «idea» Platone «intendeva, in un certo senso, qualcosa che si oppone al pensiero, vale a dire “ciò a cui” il pensiero si rivolge quando pensa, ciò senza cui il pensiero non sarebbe: insomma, l’idea platonica non è un pensiero, ma un “essere”, anzi quell’essere “che è assolutamente”, il “vero essere”» (Reale, 1975, vol. II, pp. 39-40). Per Platone dunque l’idea è l’essenza ontologica e non tanto il concetto logico. La concezione idealistica di Platone si può ricavare, tra gli altri testi, dal VII libro della Repubblica, dove è presentato il famoso «mito della caverna» e dove sono descritti, con un procedimento metaforico-mitico, i vari gradi della conoscenza umana, gradi ascendenti che procedono dalla conoscenza sensibile a quella intelligibile. È in queste pagine, e in quelle consimili degli scritti platonici, che si pone la prima forma di idealismo intesa come un progressivo rifiuto dell’esperienza sensibile come base certa del conoscere, per dare invece predominanza alle idee. Solo così, sosteneva Platone, si sarebbe potuto sperare di passare dalla semplice «opinione» (gr. dóxa) alla «scienza» (gr. epistéme).

Se quanto detto è ormai bagaglio comune, è oggi ancora discussa la posizione di Platone a favore della realtà degli enti matematici. Nella parte della Metafisica dedicata alla dottrina platonica delle cause, Aristotele (384 - 322 a.C.) afferma, dopo aver ricordato tra l’altro che essa è al tempo stesso simile e dissimile dalla teoria pitagorica, che per Platone, «oltre che le forme sensibili e gli oggetti reali, esistono, come qualcosa di intermedio, le entità matematiche, le quali differiscono dalle cose sensibili perché sono eterne ed immobili, e differiscono dalle forme ideali perché c’è una pluralità di enti matematici che si somigliano, mentre ogni forma ideale è per sé unica, individuale, singolare» (Metafisica, I, 6, 987b). Per Aristotele, quindi, Platone ammette l’esistenza di “idee archetipe” dei numeri dalle quali, in modo analogo alle altre idee, derivano i numeri matematici. In effetti, in varie opere di Platone, dal Filebo, alla Repubblica, alla Lettera VII, troviamo un accenno all’esistenza di numeri ideali che sono archetipi dei numeri in uso ai matematici. In Platone si può dunque supporre l’esistenza dei numeri, ma con l’accortezza di ricordare che egli ne parla solo come idee archetipe, una concezione del numero ben diversa dalla realtà matematica che ne deriva.

2. Cartesio e l’epoca moderna. Nel contesto della filosofia moderna il termine «idea» viene a modificarsi. Se per Platone è qualcosa di reale, per i moderni è piuttosto una “rappresentazione mentale”, ovvero l’idea è più vicina alla dimensione “psicologica” che non a quella “ontologica”. Secondo molti storici del pensiero filosofico è solo con il periodo moderno che l’idealismo vede esplicitamente porsi i suoi termini. In questo periodo troviamo, da una parte, il mondo dell’esperienza considerevolmente valorizzato, grazie alla scienza fisico-matematica, che dopo Galileo e Newton aveva fondato proprio sulla esperienza la sua autonomia epistemologica. Dall’altra parte abbiamo il pensiero inteso come “intuizione”, che cerca in se stesso la certezza della sua verità e che avrà in Cartesio il suo difensore. Ma se l’idealismo platonico si può identificare come un idealismo “oggettivo”, quello del periodo moderno si dovrà definire come un idealismo “soggettivo”, intendendo con ciò che è nel soggetto che si pone il fondamento ultimo della realtà.

Il ruolo assunto da Cartesio (1596-1650) nel compiere questo cambiamento di rotta è notevole: con il suo cogito ergo sum egli capovolge lo schema gnoseologico precedente, rendendo il “conoscere” (il soggetto) primario rispetto all’“essere” (l’oggetto). Introducendo il dubbio metodico, rifiutando le certezze che non siano colte in modo chiaro e distinto, ossia in modo immediato e intuitivo, attribuendo allo spirito «idee innate» che esistono in esso come oggetti stessi della conoscenza, Cartesio si pone come il padre remoto dell’idealismo moderno, anche se di fatto è difficile catalogarlo come un idealista puro. Nella dottrina gnoseologica di Cartesio, infatti, il “senso” ha un certo grado di oscurità ed è contrapposto all’“intelletto”, facoltà delle «idee chiare e distinte», che agiscono per il tramite dell’intuizione e della deduzione al fine di arrivare al vero sapere. Rimane però nella sua filosofia la difficoltà di stabilire se a questi oggetti della mente corrisponda un effettivo oggetto nella realtà. È per rispondere a questo problema che egli recupera, in parte, la dottrina delle idee di Platone, mostrando così come il suo modo di pensare rifletta in profondità il suo habitus di matematico.

Una diversa impostazione gnoseologica è stata quella di John Locke (1632-1704). Avendo presente la mirabile sintesi operata da Newton (1642-1727), di cui per altro era amico, e partendo non tanto dalla mera sensazione, quanto piuttosto dalla “percezione sensibile”, che già nel suo essere percepita è atto di conoscenza, Locke chiamerà «idea tutto ciò che lo spirito percepisce in se stesso o che è l’immediato oggetto della percezione, del pensiero o dell’intelligenza» (Saggio sull’intelletto umano, II, 8). Ammiratore profondo della fisica di Newton, Locke non pensò mai di negare l’esistenza della realtà fuori di noi (cfr. ibidem, IV, 11, 2), ma anzi pose il fondamento della conoscenza nell’esperienza sensibile. È dalla critica al concetto di sostanza iniziata da Locke che successivamente, grazie a George Berkeley (1685-1753), nascerà la forma ben nota dell’idealismo moderno. Nella sua critica a Locke, Berkeley fu portato a negare l’esistenza dei corpi in quanto sostanze e a dire che essi sono solo “idee”. Tutta la sostanza sarebbe costituita da idee, la cui realtà consiste nell’essere percepite. L’esse est percipi diventerà, da quel momento in poi, la formula tipica dell’idealismo moderno. Non esistono che spiriti ed idee, lo spirito è la sostanza attiva, l’idea è l’oggetto inerte e passivo della conoscenza, per cui le idee dipendono in un certo senso dallo spirito (cfr. Trattato sui princìpi della conoscenza umana, 25). Ma, sottolinea ancora Berkeley, non tutte le idee dipendono dal “nostro” spirito, infatti alcune dipendono da Dio. Egli intende le idee come oggetti dell’esperienza sensibile: la sua teoria delle idee è una teoria che si riferisce non a tutto l’essere, bensì solo al mondo sensibile. Il salto qui operato, rispetto all’idealismo platonico, è evidente. Dalla sua teoria gnoseologica Berkeley trae come conseguenza la riabilitazione delle cause finali e la critica al tempo e allo spazio assoluti di Newton, considerati dal vescovo irlandese pure astrazioni.

Con Kant (1724-1804) l’idealismo si definisce in modo ancora più specifico. Egli chiama la sua filosofia «idealismo trascendentale», per distinguerlo dall’idealismo problematico di Cartesio e da quello dogmatico di Berkeley. Nella Critica della ragion pura si pone il problema della possibilità della metafisica, partendo dalla domanda sulle condizioni di possibilità, per la scienza, di arrivare ad una certezza (cfr. Prolegomeni ad ogni futura metafisica, § 4). Affascinato dalla fisica di Newton, egli ritiene che le scienze attraverso le quali la ragione arriva a risultati certi siano la matematica e la fisica. La loro caratteristica è quella di fondarsi su princìpi necessari ed universali, a priori, e non derivanti, quindi, dall’esperienza. L’esperienza, di cui la scienza pur si nutre, può dire solo che “le cose sono sempre andate così”, ma non che “devono andare così”. Se Locke ammette che le leggi della fisica sono delle semplici generalizzazioni dell’esperienza — e perciò nega alla fisica il carattere di scienza rigorosa — Kant non accetta questa posizione e afferma, al contrario, che quelle della fisica e della matematica sono proposizioni in cui il predicato “aggiunge” qualcosa al soggetto, chiamandole «giudizi sintetici a priori». Tali giudizi sono possibili perché l’oggetto su cui sono pronunciati è un «fenomeno», ovvero qualcosa che deriva dai dati sensibili e da certe forme a priori che ordinano tali dati in un’unità oggettiva. Ciò comporta che tutta la nostra conoscenza sia limitata ai fenomeni e che, di fatto, non possiamo conoscere le cose in sé, i «noumeni». I diversi fenomeni dell’esperienza sensibile vengono organizzati dal soggetto, che costruisce un mondo oggettivo unendo tra di loro i fenomeni secondo le leggi dell’intelletto che Kant chiama «categorie». È l’intelletto, dice Kant, che prescrive le sue leggi alla natura e non viceversa. Nell’idealismo kantiano lo spazio e il tempo non sono proprietà reali, ma strutture a priori della nostra conoscenza, forme della nostra sensibilità, condizioni dell’apparire dell’oggetto al nostro intelletto. Dunque, punto capitale del sistema kantiano è la definizione di «trascendentale», termine con il quale viene indicata la presenza attiva dello spirito umano in ogni conoscenza che riguardi l’esperienza. Così la differenza tra lo scienziato e il filosofo viene a consistere nel fatto che, mentre il primo si affida ad un approccio esperienziale, alle percezioni del mondo materiale che gli derivano dai sensi, il filosofo prende in esame il lavoro stesso dello scienziato, per fargli comprendere che esso è solo una costruzione del suo spirito, un’interpretazione dell’esperienza sensoriale. Kant dunque non nega l’esistenza di una realtà esterna, anzi egli critica l’idealismo di Berkeley; in Kant si può parlare di idealismo, ma non nel senso di negazione della realtà, quanto piuttosto di accentuazione del ruolo del soggetto conoscente.

II. L’idealismo tedesco ed i suoi influssi sul pensiero contemporaneo

1. L’idealismo tedesco di Fichte, Schelling ed Hegel. La forma di idealismo successiva alla filosofia di Kant rappresenta una “continuazione” e al tempo stesso una “reazione” al pensiero del filosofo di Königsberg. Continuazione, perché prosegue nell’affermare la conoscibilità dell’essere, reazione perché dà libero spazio e ampia creatività allo spirito. Dopo Kant la posizione dell’idealismo si può riassumere nell’affermazione che «vi è solo l’io e che ogni altra realtà è opera dell’io». Gli idealisti tedeschi prenderanno in considerazione solo la Critica della ragion pura, e affermeranno che essa contiene in sé una profonda contraddizione, segnalando che se tutto ciò che è conoscibile è posto dal soggetto, allora dovrà esserlo anche la cosa in sé, il «noumeno», affinché noi possiamo conoscerne l’esistenza. L’intervento del soggetto, del suo spirito, viene così ulteriormente spostato: dal fenomeno al noumeno. Esso non solo crea la forma del conoscibile, ma anche il contenuto della conoscenza, crea interamente l’oggetto conosciuto e vi si identifica.

Opponendosi a Kant, J.G. Fichte (1762-1814) tenta l’unione tra fenomeno e noumeno, tra teorico e pratico, tra soggetto e oggetto. Se per Kant l’io, il soggetto, crea il conoscere, per l’idealismo tedesco, il soggetto crea l’essere. Tutta la realtà è dunque ridotta a pensiero. Se in Platone, accanto al “mondo delle idee” si poneva il “mondo delle cose”, fatto di altrettanti oggetti quante sono le idee, nell’idealismo tedesco nulla esiste al di fuori dell’unica Idea; i singoli esseri delle cose non sono che la modificazione dell’unica sostanza, provvisorie e fenomeniche manifestazioni dell’Assoluto. Questa identificazione di oggetto e soggetto, di essere e pensiero, di io e non-io, non è, per gli idealisti tedeschi, immediata. Essa avviene attraverso un’intrinseca «opposizione dialettica» dello spirito. Lo spirito si muove in un processo triadico di «tesi», in cui il soggetto pone se stesso, «antitesi», in cui irriflessivamente si pone l’oggetto e infine «sintesi», in cui il soggetto, nella sua autocoscienza, riconosce di aver posto in essere l’oggetto. Entro questo quadro l’idealismo di Fichte (cfr. in particolare i Fondamenti dell’intera dottrina della scienza, 1794) è detto «idealismo soggettivo», perché l’Io è il principio di tutta la realtà e di tutta la conoscenza, ed «idealismo etico», perché l’attività prima dell’Io impone ad ogni individuo il compimento del dovere, cioè la conquista della propria libertà. Nell’omonimo «idealismo oggettivo» di F.W. Schelling (1775-1854), l’oggetto (la Natura) non è come per Fichte un ostacolo da rimuovere, ma una realtà autonoma, inferiore sì allo spirito, ma solo per “grado”. L’idealismo di Schelling è detto anche «estetico», perché a suo giudizio l’identità-unità dell’Assoluto può essere colta solo grazie all’intuizione estetica. È interessante notare come a differenza di Galileo e di Newton, per i quali la natura è concepita materialmente e dominata dalle ferree leggi della meccanica, per Schelling essa va intesa come una spiritualità dotata di una inesauribile libera attività.

Nel pensiero filosofico di G.W.F. Hegel (1770-1831) si parlerà invece di «idealismo assoluto», superamento dell’idealismo di Fichte e di Schelling in virtù della completa realizzazione del finito nell’infinito. Per Hegel il principio di ogni realtà è infatti la Ragione, o Assoluto, o Idea, da cui derivano sia il mondo della natura che il mondo dello spirito. L’idealismo hegeliano è detto anche «logico», perché il suo principio fondamentale è l’identità di Ragione e Realtà: «tutto ciò che è reale è razionale e tutto ciò che è razionale è reale» (Prefazione ai Lineamenti di filosofia del diritto, 1821). L’opposizione alla logica aristotelica, ove pensiero e realtà sono ben distinti, è qui evidente. La logica è solo “logica dell’astratto” e non si pone mai identità fra metafisica e logica. Hegel accetta il concetto di Assoluto come identità di Natura e di Spirito, e la Ragione viene intesa come unità che contiene in sé tutto il reale. L’Assoluto non è una “sostanza”, un qualcosa di statico, come lo era per Spinoza (1632-1677), ma è Pensiero, ovvero sviluppo dialettico. Perciò per Hegel l’unica vera realtà è la realtà della Ragione, o, che è lo stesso, l’unico vero essere è l’essere del Pensiero e l’unico vero pensiero è quello dell’essere. Tutto ciò che esiste è una manifestazione dell’Assoluto. Così inteso, l’idealismo non poteva non individuare un ritorno ad una filosofia più umanistica che scientifica; non a caso Popper ha potuto scrivere che «a partire dal sorgere dell’hegelismo si è determinato un pericoloso abisso tra scienza e filosofia» (K. Popper, La natura dei problemi filosofici e le loro radici nella scienza, in Congetture e confutazioni, Bologna 1972, p. 121). L’idealismo tedesco fu, di fatto, un tentativo di mettere in crisi il rapporto che la filosofia di Cartesio aveva stabilito tra matematica e filosofia, come quello che Francesco Bacone e Kant avevano stabilito tra filosofia e scienza naturale.

2. L’idealismo post-hegeliano. Nel periodo che va da Kant a Hegel lo sviluppo dell’idealismo si può riassumere in quattro diverse tappe sintetizzabili nelle seguenti tesi: a) non c’è conoscenza senza categorie (Kant); b) Non ci sono categorie senza l’autocoscienza che le produce, e l’autocoscienza produttiva deve essere assoluta (Fichte); c) L’autocoscienza non è assoluta se non è identità di natura e di spirito (Schelling); d) Questa identità non può essere cosciente se non è ragione autocosciente, cioè Spirito, che rappresenta il principio concorde del mondo (Hegel). Pur raggiungendo il suo apice con Hegel, l’idealismo troverà una sua prosecuzione anche nel pensiero filosofico successivo, che possiamo raccogliere in due filoni principali.

Il primo di essi è rappresentato dal «neo-idealismo», sviluppatosi in Italia grazie a Spaventa, Croce e Gentile, in Olanda ad opera di Bolland ed in Inghilterra, nelle università di Oxford e di Cambridge. Oltre allo studio del rapporto fra fenomenologia e logica, uno degli scopi principali del neo-idealismo italiano fu anche quello di opporsi al positivismo e alla sua pretesa di spiegare scientificamente tutta la realtà. Il neo-idealismo riconosce solo allo Spirito l’unica realtà assoluta attuantesi nella storia. Da qui derivano l’immanentismo dello Spirito e l’identità tra storia e filosofia, che darà poi origine allo storicismo, nelle sue forme varie e complesse, ma comunque figlie della fenomenologia hegeliana. Per Benedetto Croce (1866-1952) tutto il reale è vita o storia dello Spirito, nulla è fuori dello Spirito (immanentismo), nulla è fuori della storia (storicismo). Per Giovanni Gentile (1875-1944), invece il principio di tutta la realtà è l’Io universale, o Soggetto assoluto, che si attua come Assoluto Pensiero. Il pensiero non è anteriore al pensare e dunque non nasce da un soggetto preesistente, quanto piuttosto da un soggetto che è in quanto pensa e che nell’atto del pensare crea se stesso. L’Io universale è, dunque, attualità pensante (attualismo) e immanente in tutte le cose (immanentismo). In Francia, ad eccezione di Octave Hamelin e Leon Brunschvig, l’idealismo non ebbe un suo sviluppo degno di nota. Situazione un po’ diversa in Inghilterra, dove fiorì, alla fine dell’Ottocento e nei primi anni del Novecento, una scuola idealista al Balliol College di Oxford. Ma essa non fu niente di più di un gruppo di singoli studiosi che si servirono dell’idealismo come filosofia ispiratrice. Tra essi ricordiamo E.J. Mc Taggart, R.G. Collingwood e F.H. Bradley. La loro funzione fu comunque di una certa importanza, perché furono proprio questi tre pensatori che segnarono il clima culturale dell’Inghilterra all’inizio del Novecento quando G.E. Moore e B. Russell, fondatori della filosofia analitica, iniziavano i loro studi universitari a Cambridge.

La seconda corrente originatasi dall’idealismo post-hegeliano, anziché assumere la filosofia idealistica, ne subisce un influsso indiretto e con essa, specie nell’opera di Husserl ed Heidegger, si confronta. Tutta la filosofia di Edmund Husserl (1859-1938) è dominata dall’idea di scienza. Egli proveniva dal mondo della matematica e i suoi lavori partono dal tentativo di definire l’ente matematico. Intenzionato a combattere lo psicologismo, Husserl si interessò molto alla coscienza che per lui è sempre “coscienza di qualcosa”. In questa idea di coscienza sta la distinzione tra soggetto e oggetto: il soggetto è il complesso dei fatti di coscienza, come il percepire, il giudicare, il rappresentarsi, e l’oggetto è ciò che in questi fatti si manifesta, come suoni, oggetti colorati, ricordi, immagini. I nostri atti psichici si riferiscono sempre ad un oggetto (non vedo mai “il verde”, ma solo “un oggetto verde”). Ma ciò non vuol dire che in Husserl vi sia una visione realista.

A partire dalla pubblicazione delle Idee per una fenomenologia pura e una filosofia fenomenologica (1913), Husserl comincia a porsi il problema di cosa sia la realtà, e afferma che, per risolvere la domanda, bisogna porsi in un atteggiamento di “sospensione di giudizio” (epoché) rispetto a tutto ciò che, fino adesso, è stato detto dalle varie scienze o dalle varie scuole filosofiche. Ovvero, dalla persuasione dell’esistenza del mondo non bisogna dedurre nessuna proposizione filosofica, perché alla base di ogni riflessione che voglia essere filosofica va posto solo ciò che è intuito, ciò che è evidente di per sé. L’unica cosa di cui siamo certi è l’esistenza, non tanto del mondo esterno, ma della coscienza. Husserl si interrogherà ancora attorno a questo tema e nei suoi ultimi scritti vi sono tracce di un certo tipo di idealismo nella visione del rapporto tra sapere scientifico e sapere filosofico. Queste sfumature idealiste sono evidenti, in particolare, quando si oppone agli sviluppi causati dalla visione positivistica (e neopositivistica) della scienza, intesa come rifiuto di ogni filosofia (cfr. La crisi delle scienze europee e la filosofia trascendentale, 1954). Ma di fatto Husserl non definirà esattamente in cosa consista questa sua “coscienza”, rendendo difficile la sua collocazione nel panorama idealistico. Anche se definito da alcuni come idealista a causa del suo recupero della filosofia di Cartesio e in parte di Kant, Husserl va in realtà oltre il realismo e l’idealismo, ed anche ammettendo un suo rapporto con la filosofia idealistica esso non fu comunque né conflittuale né risolutivo.

Fu, piuttosto, Bertrand Russell (1872-1970), nella prima fase del suo pensiero filosofico, che cercò nell’idealismo una soluzione al suo problema cardine, la ricerca dei fondamenti della matematica, con la domanda circa la realtà del numero. Ma la posizione idealista durò ben poco perché all’inizio del Novecento l’abbandonerà per abbracciare, in opposizione, prima un realismo estremo ispirato a Alexius Meinong (1853-1920), e poi un realismo più moderato. La modifica della posizione di Russell circa l’idealismo avverrà in seguito alla critica che G.E. Moore (1873-1958) farà in La confutazione dell’idealismo (1903) della proposizione esse est percepi di Berkeley. Moore, muoverà alla proposizione idealista una critica non tanto sul piano della logica o della metafisica, quanto piuttosto sul piano della significanza linguistica facendo vedere come l’affermazione esse est percipi, di fatto non significhi alcunché, dando origine in tal modo a quella importante corrente filosofica che dominerà il Novecento, la «filosofia analitica», anch’essa un prodotto derivante, pur indirettamente dalla critica all’idealismo.

Chi, invece, si confronterà in modo sistematico e profondo con l’idealismo tedesco sarà Martin Heidegger (1889-1976), impegnatosi nel suo percorso filosofico a ridare alla filosofia la purezza incontaminata delle origini. Il tentativo di Heidegger è quello di ripulire il pensiero filosofico dalle scorie in esso inseritesi a causa dei metodi e delle finalità della scienza. Riprendendo in esame il concetto di scienza, come formulato da Fichte, Schelling ed Hegel, che avevano assegnato alla sola filosofia la possibilità della razionalità, egli ribadisce che la filosofia non si interessa e non può interessarsi alla scienza positiva, perché la filosofia stessa è la vera scienza, la vera via per giungere al sapere assoluto. Al pari degli idealisti tedeschi, con Heidegger la filosofia torna ad essere la regina indiscussa del pensare.

3. Il principio di immanenza alla base della posizione idealista. Lungo tutto il suo articolato itinerario filosofico, l’argomento specifico dell’idealismo resta dunque il “principio di immanenza”. Esso consiste nell’enunciare il dato secondo cui l’atto del soggetto (dell’io) non produce nulla al di fuori di sé, ma si pone all’interno stesso del soggetto che lo ha posto. Secondo gli idealisti non si può pensare un essere esistente fuori del pensiero; appena una cosa è pensata, per il fatto che è pensata è presente nel mio io e non più all’esterno. Questa posizione fu ritenuta da Berkeley talmente evidente da imporsi di per sé: «Certe verità sono così immediate, così ovvie per la mente che basta aprire gli occhi per vederle. Tra queste credo sia anche l’importante verità che tutto l’ordine dei cieli e tutte le cose che riempiono la terra, che insomma tutti i corpi che formano l’enorme impalcatura dell’universo non hanno alcuna sussistenza senza una mente, e il loro esse consiste nel venir percepiti o conosciuti» (Trattato sui principi della conoscenza umana, § 6).

Il concetto di immanenza si oppone direttamente a quello di trascendenza, che nell’ambito strettamente gnoseologico coincide con la prospettiva realista, cioè nella possibilità di conoscere qualcosa di esterno al soggetto stesso. L’idealismo coincide con la negazione di questa trascendenza gnoseologica. L’idealismo cioè nega che la coscienza possa uscire dai propri limiti e riconoscere come esistente una realtà esterna da sé. La conclusione idealista è dunque immediata: ciò che è conosciuto deve essere nel pensiero e un oggetto che non fosse nel pensiero non sarebbe conosciuto, dunque non possiamo conoscere realtà esterne al pensiero. Il filosofo americano C.S. Peirce (1839-1914) rendeva così questo concetto: «Se mi si domanda se esistono realtà interamente indipendenti dal pensiero, chiederei a mia volta che significa e può mai significare tale espressione. Quale idea si può applicare a ciò di cui non si ha idea? Poiché se possediamo una qualche idea di tale realtà, stiamo parlando dell’oggetto di tale idea, che così non è indipendente dal pensiero. Evidentemente è del tutto fuori del potere della mente avere un’idea di qualcosa che è completamente indipendente dal pensiero: questa idea dovrebbe tirare se stessa fuori da se stessa. Ora poiché tale idea non c’è, la predetta espressione non ha significato» (C.S. Peirce, The logic of 1873, in Collected Papers, Cambridge 1966, vol. II, p. 211).

Le sue forti risonanze gnoseologiche, specie per ciò che riguarda il rapporto fra idea e realtà, permetteranno all’idealismo di accompagnare buona parte dell’elaborazione dello stesso pensiero scientifico. Ciò non avverrà solo all’interno di un confronto filosofico con il realismo, ma coinvolgerà la scienza in quanto tale: si pensi ad esempio ai rapporti fra realtà e modelli, ai fondamenti della matematica, o infine al rapporto fra teoria ed esperimento, la cui problematicità apparirà evidente nelle diverse interpretazioni filosofiche date alla meccanica quantistica. Si rende dunque necessaria un’analisi della prospettiva idealista anche nell’ambito delle scienze.

III. Idealismo e conoscenza scientifica: la fisica classica e le matematiche

La ripercussione, diretta o indiretta, dell’idealismo sulle scienze è riscontrabile in modo significativo almeno sotto tre aspetti: a) nella definizione di ciò che si deve intendere per scienza; b) nella formazione delle nozioni di cui si serve la scienza, e propriamente della matematica; c) nell’interpretazione delle teorie scientifiche. In particolare, per quanto riguarda gli aspetti a) e b) esso si è manifestato prevalentemente come idealismo di tipo “platonico”, o platonizzante, (vedi supra, I.1), mentre, per quanto riguarda il punto c) si è presentato maggiormente nella forma dell’idealismo moderno, kantiano e post-kantiano (vedi supra, I.2 e II.1-2). In questa e nella prossima sezione cercheremo di dare un quadro essenziale dei principali punti di vista epistemologici al riguardo, in relazione ai diversi momenti delle teorie scientifiche matematizzate.

1. Idealismo e fisica classica. Nella fisica classica, cioè la scienza galileiana e newtoniana, per lungo tempo modello epistemologico di riferimento anche per tutte le altre scienze della natura, la definizione di scienza ha coinvolto direttamente una componente “osservativa” o “sperimentale” ed una “matematica”. A partire da Galileo si è considerata come scienza una descrizione-spiegazione matematica della natura passibile di un controllo sperimentale. Il successo, storicamente riscontrato, di questo modo di intendere le scienze della natura ha segnato, come bene osserva Koyré, la vittoria dell’idealismo di stampo “platonico” sull’aristotelismo. «Se tu reclami per la matematica uno stato superiore, se per lo più le attribuisci un valore reale e una posizione dominante nella fisica, sei platonico. Se invece vedi nella matematica una scienza astratta che ha perciò un valore minore di quelle — fisica e metafisica — che trattano dell’essere reale, se in particolare affermi che la fisica non ha bisogno di altra base che l’esperienza e deve essere costruita direttamente sulla percezione, che la matematica deve accontentarsi di una parte secondaria e sussidiaria, sei un aristotelico. In questo dibattito non si pone in discussione la certezza — neppure gli aristotelici avrebbero dubitato della certezza delle dimostrazioni geometriche — ma l’Essere; e neppure l’uso della matematica nella scienza fisica — nemmeno gli aristotelici avrebbero mai negato il nostro diritto di misurare ciò che è misurabile e contare ciò che è numerabile — bensì la struttura della scienza e quindi la struttura dell’Essere. […] È evidente che per i discepoli di Galileo, come per i suoi contemporanei e predecessori, matematica significa platonismo. […] Il Dialogo e i Discorsi [e dimostrazioni sopra due nuove scienze] ci narrano la storia della scoperta o meglio della riscoperta del linguaggio parlato dalla Natura. Ci spiegano la maniera di interrogarla, cioè contengono la teoria di quella ricerca sperimentale in cui la formulazione dei postulati e la deduzione delle loro conseguenze precede e guida l’osservazione. Questa poi, almeno per Galileo, è una prova “di fatto”. La nuova scienza è per lui una prova sperimentale del platonismo» (Koyré, 1973, pp. 160, 163, 167).

Questo orientamento delle scienze naturali verso l’ideale matematico non nasce improvvisamente con Galileo, o con Cartesio, ma segue un lungo itinerario di preparazione che vede, già nel XIII secolo, nel dibattito acceso tra la scuola di Parigi di orientamento prevalentemente aristotelico e la scuola di Oxford di orientamento più platonico, le sue radici remote (cfr. Crombie, 1970; Hackett, 1994). Tra i rappresentanti di questa scuola, assolutamente convinti della necessità di elaborare tutto il sapere in quest’ottica di matematizzazione vi è Ruggero Bacone (1214-1292) che così si esprimeva in proposito: «Ora nella matematica ci è possibile giungere ad una verità completa senza errore e ad una certezza universale senza ombra di dubbio, poiché in essa si procede per dimostrazioni necessarie (in ea convenit haberi demonstrationem per causam propriam et necessariam). E la dimostrazione fa conoscere la verità. […] Soltanto nella matematica ci sono dimostrazioni nel vero senso della parola (per causam necessariam); e perciò soltanto nell’ambito e in virtù di questa scienza l’uomo può giungere alla verità. […] Nella sola matematica si raggiunge la certezza piena. Per la qual cosa risulta che se nelle altre scienze vogliamo, com’è nostro dovere, arrivare ad una certezza che escluda ogni dubbio, e ad una verità, che escluda ogni errore, è necessario che la matematica diventi il fondamento del nostro conoscere, in quanto da essa preparati possiamo giungere alla piena certezza e alla verità anche nelle altre scienze» (The “Opus maius” of Roger Bacon, a cura di J.H. Bridges, Oxford 1897-1900, vol. I, pp. 105-106). In questo senso, l’influsso dell’idealismo platonico ai fini del costituirsi della scienza moderna si traduce nell’idea della “matematizzazione”: per le scienze il mondo delle idee platoniche non è altro che un empireo matematico.

Il successo delle scienze galileiane, tuttavia, dovrà pagare il prezzo di un graduale spostamento verso il nominalismo, con la perdita dell’analogia, del realismo e del valore conoscitivo della scienza stessa che tenderà sempre più ad essere guardata come uno strumento di calcolo e di previsione, piuttosto che come una conoscenza vera (o almeno verosimile) della realtà. L’influsso dell’idealismo “platonico” sulla scienza tenderà a congiungersi, nel tempo, con l’idealismo nel senso “moderno” e “soggettivistico”. Così Kant cercherà un’interpretazione filosofica aprioristica dello spazio e del tempo assoluti di Newton, identificandoli con la struttura propria del modo di conoscere del soggetto, piuttosto che con proprietà esterne e oggettive.

2. Idealismo platonico e matematica. Un altro aspetto dell’idealismo platonico nelle scienze, tuttora assai rilevante, riguarda direttamente le matematiche. La sua operatività può cogliersi nelle risposte che si darebbero alle domande seguenti: a) gli enti matematici hanno un’esistenza puramente mentale, o anche un’esistenza oggettiva, esterna alla mente umana, collocata in un qualche mondo delle idee? b) Come si formano le nozioni matematiche nella nostra conoscenza? Per quanto queste domande possano sembrare remote, esse hanno riacquistato grande attualità, riportando alla ribalta, nell’ambito della riflessione sul pensiero scientifico, i nomi di Platone e di Aristotele, che paiono aver sopravanzato, a partire dall’ultimo decennio del XX secolo, quelli di Cartesio e di Kant, che sembravano da tempo regnare, pressoché incontrastati, come padri fondatori della vera filosofia critica.

I grandi nomi della matematica, della fisica e delle scienze in genere, quando si pongono tali domande, riflettendo da filosofi, tendono a schierarsi o per una soluzione di tipo platonico-idealistico o per una di tipo empiristico-astrattiva. Si riscontra con facilità la tendenza, quasi naturale, dei matematici verso l’idealismo platonico: gli enti matematici hanno una dignità e una bellezza che reclama uno status ontologico extramentale. Si tratta spesso di un entusiasmo di natura estetica, poco fondato su argomenti veramente dimostrativi, ma estremamente significativo. Valga per tutti, come esempio, una riflessione appassionata di Roger Penrose: «Quanto sono “reali” gli oggetti del mondo matematico? Da un certo punto di vista pare che in essi non possa esserci niente di reale. Gli oggetti matematici sono solo concetti; essi sono le idealizzazioni naturali dei matematici, spesso prodotte sotto lo stimolo dell’ordine apparente di certi aspetti del mondo che ci circonda, ma sono nondimeno idealizzazioni mentali. Possono essere altro che mere costruzioni arbitrarie della mente umana? Al tempo stesso, questi concetti matematici sembrano avere non di rado una profonda realtà, del tutto sottratta alla volontà di un qualsiasi matematico. È come se il pensiero umano fosse guidato verso una qualche verità esterna eterna: una verità dotata di una realtà propria, e che è rivelata solo in parte a ciascuno di noi. […] La matematica è invenzione o scoperta? Quando un matematico ottiene i suoi risultati sta solo producendo complesse costruzioni mentali che non hanno alcuna realtà di fatto, ma la cui potenza ed eleganza sono semplicemente sufficienti a ingannare persino i loro inventori, inducendoli a credere che queste mere costruzioni mentali siano “reali”? Oppure i matematici scoprono davvero verità già “esistenti”: verità la cui esistenza è del tutto indipendente dalle attività del matematico? Io penso che a questo punto dovrebbe essere chiaro al lettore che io aderisco alla seconda concezione, almeno per quanto riguarda strutture come i numeri complessi e l’insieme di Mandelbrot» (Penrose, 1998, pp. 133-136).

Ma, supposto che esista un mondo delle idee, di per sé esistenti in senso platonico, almeno per quanto riguarda le idee matematiche, in che modo noi possiamo conoscerle? In altri termini ci si chiede: ogni tipo di conoscenza procede dai sensi (nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu, recita l’adagio scolastico) e poi giunge per astrazione alla mente in forma di concetti universali (tesi aristotelica); oppure le idee — e in particolare le idee matematiche — giungono alla mente per un’intuizione, o illuminazione diretta, non contaminata dalla materia e dai sensi (tesi platonica)? Ecco come l’idealismo ontologico si riflette in un idealismo gnoseologico, nell’indagine sulla formazione della conoscenza matematica. È interessante osservare come il ritorno all’idealismo platonico, da parte di alcuni matematici e fisici, parta dall’esigenza di un recupero dell’oggettività contro il soggettivismo dell’idealismo moderno, e si fondi su una dichiarazione di realismo — il realismo “esagerato” di Platone che attribuisce un’esistenza extramentale alle idee — in opposizione all’idealismo soggettivista che nega la realtà come tale al di fuori del soggetto e del pensiero. Una scienza totalmente soggettivistica e arbitraria, puramente convenzionale, e priva di contenuto conoscitivo è inaccettabile per lo scienziato che ad essa dedica le sue migliori energie.

IV. Paradigmi idealisti in alcune teorie scientifiche odierne

Rispetto a quanto non facesse già la fisica di Newton, la fisica del XX secolo ha attribuito alla matematica un ruolo sempre più significativo, anche per il fatto che essa si è progressivamente allontanata dalle esperienze dirette, su scala umana. Velocità elevatissime come quella della luce, che entrano in gioco nella teoria della relatività speciale, dimensioni e tempi enormi, che emergono nella cosmologia della relatività generale, dimensioni piccolissime che figurano nella microfisica governata dalla meccanica quantistica, sono tutte cose ben lontane dalle nostre esperienze quotidiane. Ciò ha fatto sì che la fisica, e le scienze da essa dipendenti, si spostassero ulteriormente verso l’idealismo platonizzante. Ma a questo punto è entrata in gioco nel pensiero scientifico, giustamente o abusivamente, anche quell’altra corrente che è l’idealismo in senso moderno: cartesiano, kantiano e post-kantiano.

1. Idealismo e relatività. Per quanto riguarda la teoria della relatività, si deve dire che essa è stata a volte associata ad un idealismo soggettivistico. La relatività delle misure di spazio e di tempo, della simultaneità, ecc., hanno condotto talvolta a ritenere che in questa teoria non esistano elementi oggettivi, indipendenti dal soggetto misurante, e che essa legittimi pertanto l’idealismo, il relativismo e il soggettivismo. Un’interpretazione idealista della relatività generale fu proposta da Gödel, appassionato cultore della filosofia di Kant, basandosi su una soluzione delle equazioni di Einstein, da lui trovata, nella quale non è possibile una sincronizzazione globale del tempo e in cui, addirittura, è concepibile viaggiare nel passato, diversamente da quanto accade per le soluzioni cosmologiche di tipo fisico. Ma la soluzione di Gödel rimane solo una curiosità matematica, non realizzabile, di fatto, fisicamente (cfr. Gödel, 1958).

Le teorie della relatività si possono considerare, al contrario, delle teorie degli “invarianti”, o degli assoluti. Esse mirano e riescono a dare una formulazione delle leggi fisiche del tutto indipendente dalla scelta dell’osservatore. Mentre la meccanica di Newton era applicabile solo dai cosiddetti “osservatori inerziali”, nella sua forma definitiva la relatività (generale) giunge a leggi applicabili da qualsiasi osservatore. L’interpretazione soggettiva dello spazio e del tempo come a priori del soggetto conoscente, proposta da Kant, non è qui più concepibile. La relatività generale tende inoltre a riavvicinarsi alla concezione aristotelica, piuttosto che a quella platonica, del moto, dello spazio, del tempo e della materia. Essa può invece rispecchiare un certo idealismo platonico, se non addirittura pitagorico, per il fatto di inquadrare tutta la fisica in una schema geometrico, di ispirazione spinoziana. Lo stesso Einstein, infatti, dichiarava di sentirsi, in un certo senso vicino alla concezione filosofica panteista.

2. Idealismo e meccanica quantistica. La questione dell’idealismo “soggettivistico” ha assunto invece un ruolo rilevante nell’interpretazione della meccanica quantistica. A differenza di quanto accaduto in altri ambiti, sono qui gli stessi scienziati ad aver definito come “idealista” o “realista” la loro interpretazione, optando per un deciso schieramento “filosofico”. Condivisero un’interpretazione realista personaggi come Einstein, De Broglie, Schrödinger, Bohm, mentre sul versante dell’interpretazione idealista troviamo Bohr, Heisenberg, Born. Sarà l’interpretazione di questi ultimi a prevalere, come ufficiale, sotto il nome di «interpretazione della scuola di Copenhagen». Rimandiamo ad altre voci la discussione dettagliata di queste interpretazioni. Qui osserviamo che, nell’accostarsi al problema, occorre tener presente due elementi: a) da un lato, le convinzioni filosofiche dichiarate dall’autore che si autodefinisce “idealista” o “realista”, con il significato che egli dà ai rispettivi termini, non necessariamente identico a quello inteso dalle corrispondenti correnti filosofiche; b) dall’altro lato, ciò che effettivamente si intende dire con “idealismo” e “realismo” quando ci si riferisce ad un’interpretazione di una teoria scientifica. Se il primo aspetto è interessante per il biografo, è piuttosto il secondo aspetto che interessa da vicino l’indagine epistemologica.

Seguendo la visione ufficiale della scuola di Copenhagen, vale la pena puntualizzare che l’interpretazione della meccanica quantistica viene considerata “idealista” secondo un duplice motivo. Da un punto di vista “sperimentale”, in quanto il dato osservabile appare non separabile dall’apparato di misura, e la misura che ne risulta è l’effetto combinato dell’azione del soggetto sull’oggetto: «Ciò può far apparire come se noi avessimo introdotto un elemento soggettivo nella teoria, come se noi intendessimo dire: ciò che accade dipende dal nostro modo di osservarlo, o dal fatto che noi l’osserviamo» (Heisenberg, 1998, p. 65). Tutto questo ricorda, abbastanza da vicino, l’idealismo kantiano secondo cui la cosa in sé («noumeno») non è conoscibile, ma ciò che conosciamo («fenomeno») è il risultato del combinarsi degli a priori del soggetto con l’oggetto indagato. E ciò anche da un punto di vista “teorico”, in quanto non è possibile trovare un modello unico, veritiero e adeguato alla realtà, che descriva interamente un oggetto quantistico, ma si deve ricorrere a schemi matematici complementari e mutuamente escludentisi, quali quello di “onda” e quello di “particella”, che vengono applicati alternativamente. Una simile situazione fa pensare ad un’inconoscibilità della realtà, ad una scienza “debole” dal punto di vista gnoseologico, e ad un’epistemologia “strumentalista” (cfr. Kuhn, 1969).

3. Paradigmi idealisti della cosmologia teorica. Lo statuto epistemologico della cosmologia è piuttosto peculiare. Occupandosi dello studio dell’universo su grande scala, a differenza di altri settori delle scienze fisiche o chimiche essa lavora su sistemi “non riproducibili” in laboratorio e tenta di dedurre le proprietà su scala cosmica a partire da conoscenze verificabili su scala locale. Si tratta inoltre di una scienza che fa largo impiego di modelli, indicati appunto come «modelli cosmologici». Nella loro formulazione teorica si deve spesso ricorrere a molteplici assunzioni e le soluzioni proposte giocano il ruolo di casi particolari all’interno di generalizzazioni assai ampie. La cosmologia si presenta dunque non solo come «la scienza dell’universo», ma anche come «la scienza delle assunzioni che devono essere fatte affinché sia possibile poter formulare una scienza dell’universo» (Heller, 1986). Dovendo necessariamente inglobare nei suoi modelli anche regioni dello spazio e del tempo non accessibili alle osservazioni, la cosmologia tende infine a spostare i propri criteri di verità dall’ambito della verificabilità a quello della semplice coerenza interna. La sua peculiarità epistemologica favorisce l’impiego di alcuni paradigmi di tipo idealista secondo due principali procedure: a) il tentativo di dover concettualizzare l’universo come un tutto, e dunque confrontarsi con il problema filosofico dell’intero; b) l’astrazione ideale di “porre in essere” a priori, con un determinato modello cosmologico, il proprio oggetto di analisi (che coincide con tutto il reale fisico), muovendosi poi in modo deduttivo verso gli osservabili del modello, se questi esistono. Conservando la terminologia finora adottata, si deve dire che ciò dà luogo a paradigmi sia di tipo platonizzante, che di tipo soggettivistico.

Intendendola come parte — seppur peculiare — delle scienze fisiche, è ragionevole supporre che lo statuto scientifico della cosmologia dipenda dalla sua capacità di mantenere un certo rapporto con le osservazioni (cosmologia osservativa) e di formulare dei «modelli di universo» che si mantengano aperti alla falsificazione o, comunque, ad una verifica sperimentale. Quando ciò venga a mancare, essa migra inevitabilmente dal campo delle scienze fisiche a quello della logica matematica. La domanda realista sulla verità fisica dei modelli formulati si trasforma allora in una domanda idealista sulla loro coerenza logica, secondo i canoni di una if-then science (se alcune assunzioni inverificabili sono vere, allora lo sono anche le conclusioni che da esse si traggono). Ma, rispetto a quanto accade nelle teorie assiomatiche della matematica, abbiamo qui una differenza assai importante! L’oggetto dell’astrazione non è più solo l’ente in quanto numerabile, ma è ora tutto il reale fisico; e su tutto il reale fisico, i vari modelli cosmologici, reclamano le loro implicazioni. Così facendo è il soggetto a porre l’oggetto, e a porlo nel suo più alto grado possibile.

Fanno implicito riferimento a questo stato di cose i momenti in cui la cosmologia parla di “universi paralleli” o di “pluralità di mondi” senza connessione causale fra loro, almeno a partire da un certo momento in avanti; oppure quando si fanno ipotesi sulle condizioni quantistiche dell’universo “prima del Big Bang” o sul suo futuro stato dopo l’eventuale Big Crunch nel quale potrebbe concludersi la sua evoluzione, se l’energia gravitazionale sarà sufficiente a richiamarne l’espansione. Si cerca infine di ricostruire un passato che giace al di là di “orizzonti di osservabilità” di crescente severità, quali sono l’«epoca del disaccoppiamento fra materia e radiazione» e, ancor prima, l’«era di Planck». La divulgazione scientifica, particolarmente attiva in questo settore delle scienze, esalta spesso il ricorso implicito a tali paradigmi i quali, inevitabilmente, sono già operativi in ambito metodologico.

All’interno della cosmologia esistono correnti epistemologiche impegnate a ricordare il necessario legame con le osservazioni (già con W. McCrea negli anni 1960, più recentemente G. Ellis, W. Stoeger, M. Heller). Trascurare questo aspetto porrebbe questa disciplina nella difficile situazione di non essere più ritenuta, in senso stretto, come una scienza galileiana, perché avrebbe a che fare solo con modellizzazioni matematiche, di valore assolutamente equivalente, non verificabili e quindi indecidibili. Tale “riconduzione” della cosmologia all’ambito osservativo, però, presenterà sempre dei limiti fisiologici, dovuti proprio al suo specifico oggetto formale, quello di cercare di accostarsi all’universo nella sua globalità. Ciò dà origine ad una sorta di “princìpi di indeterminazione,” operativi anche in cosmologia. Ad esempio, esisteranno sempre diversi modelli cosmologici compatibili con il medesimo insieme di dati osservativi, lasciando ancora aperta la scelta sul quale di essi, all’interno di grandi famiglie di soluzioni parametrizzate, sia il più corretto. Inoltre, ogni modello non potrà mai essere esauriente e nel suo tentativo di dare una descrizione completa del reale fisico incontrerà sempre dei «problemi di incompletezza». Se il framework adottato è quello delle equazioni di campo della relatività generale, tali equazioni non contengono al loro interno la definizione della propria topologia. Per calcolare la probabilità che una certa metrica sia quella giusta, e dar così ragione del perché la geometria dell'universo sia questa e non un'altra, si richiede la definizione previa delle costanti di natura e delle leggi fisiche da usare. Se invece vogliamo calcolare perché le proprietà dell'universo — le sue leggi fisiche e le sue condizioni al contorno — sono proprio quelle osservate e non altre, si richiede la scelta previa di un'opportuna geometria per lo spazio-tempo. Siamo di fronte alla necessità di una determinazione, per così dire, “esterna” al sistema in studio. Tale determinazione potrebbe essere certamente favorita da un legame con le osservazioni, offrendo così un aggancio di tipo realista, ma potrebbe non esserlo per limiti fisiologici del modello o della famiglia di modelli utilizzati, e così far ricadere la scelta su assunzioni di tipo idealista, lasciando che lo scienziato si affidi a criteri di tipo platonizzante, come la semplicità, la simmetria o l’estetica, oppure di tipo soggettivistico, come quello di “sostituirsi alla mente di Dio” o di volerne riconoscerne a tutti i costi l’azione finalistica, ciascuno secondo la propria personale “visione del mondo”.

4. Visione riassuntiva. Idealismo e realismo nel metodo delle scienze: la ricerca dell’oggettività. A conclusione delle considerazioni riguardanti l’influsso dell’idealismo, nelle sue diverse forme, sul pensiero scientifico (cfr. III e IV), in particolare sulle matematiche e le scienze matematizzate, vale la pena evidenziare che la tendenza naturale, per il pensiero scientifico, pare essere piuttosto quella realista. L’idealismo, là dove esso si è infiltrato, ha in fondo operato come un indebolimento, più o meno esplicitamente riconosciuto, del processo conoscitivo. Per il loro stesso metodo, le scienze mirano infatti ad evidenziare proprietà “oggettive”, andando alla ricerca, il più possibile, degli “invarianti”. Così la matematica e la fisica indagano quelle leggi che risultano essere indipendenti rispetto a “gruppi di trasformazioni” compiute dal soggetto e che, pertanto, possono essere attribuite come proprie all’oggetto. Nella fisica newtoniana le leggi risultavano indipendenti dalla traslazione uniforme del sistema di riferimento dell’osservatore, nella relatività generale sono indipendenti da qualunque tipo di trasformazione regolare, e nella meccanica quantistica comparirà anche l’indipendenza rispetto a delle regole di “simmetria”. Se la formulazione di una legge non segue certe proprietà di invarianza viene ritenuta inadeguata, in quanto non evidenzia caratteristiche “proprie” dell’oggetto.

A volte si incontrano difficoltà matematiche nel compiere questo tipo di ricerca (basti pensare al problema ancora aperto dell’indipendenza, o meno, della stabilità dalla scelta della “norma” dello spazio delle fasi nei sistemi ad infiniti gradi di libertà), e queste stimolano a cercare teorie matematiche più generali, in grado di permettere di formulare con la generalità richiesta una certa legge di natura. Ma che cosa fare quando soggetto e oggetto, apparato di misura e fenomeno da misurare appaiono “inseparabili”? Le recenti indagini sulla complessità, propongono una visione nuova del rapporto tra soggetto osservatore e oggetto osservato: la loro inseparabilità non viene interpretata come un’azione che introduce un inevitabile soggettivismo nella conoscenza, quanto, piuttosto, come un’indicazione della necessità di considerare come un tutto l’apparato di misura e l’oggetto misurato, come fossero un unico “ente”, e dunque l’impossibilità di esaminarli come parti separate. Non possediamo, attualmente, una teoria della complessità che ci consenta di dire come deve essere svolta questa indagine: essa sembra tuttavia costituire una nuova sfida per la scienza che apre la strada alla considerazione di livelli diversificati dell’ente e prelude ad una razionalità più ampia di quella univocista che finora ha dominato il campo delle scienze matematizzate.

V. La teologia e il principio idealista dell’immanenza

La prospettiva idealista non è estranea ad implicazioni di carattere teologico, riconoscibili principalmente in tre grandi aree: la teoria della conoscenza, il rapporto fra l’io e il mondo, il rapporto fra verità e storia. Fra le implicazioni dell’idealismo non va dimenticata la severa critica alla religione mossa alla teologia dalla cosiddetta “sinistra hegeliana”.

1. La valutazione del principio di immanenza da parte della teologia. In ambito gnoseologico, il principio idealista dell’immanenza, quale punto di partenza di ogni coscienza e conoscenza dell’io, non trova riscontro nella Rivelazione giudeo-cristiana, né nella tradizione teologica. Il messaggio biblico ricorda con chiarezza che la prima fonte di conoscenza per l’uomo è l’ascolto della parola di Dio, una parola che viene riconosciuta nella natura, nella storia e nella Scrittura. L’io non è principio del conoscere, né ancor meno dell’essere, perché l’uomo non può autocomprendersi se non come creatura dipendente da un Creatore, che è Creatore di tutto e di tutti. Diversamente da quanto accade in religioni quali l’induismo o nel buddismo, per il cristianesimo le soluzioni ai grandi problemi dell’esistenza devono essere cercate non tanto guardando in se stessi, ma dirigendo lo sguardo al reale, alle opere di Dio, alla natura e alla storia. Con ciò la Rivelazione biblica non nega che l’essere umano possa, anzi debba cercare Dio nell’intimità della propria coscienza — un cammino, questo, che ha anch’esso fondamento biblico ed una specifica tradizione teologica, da s. Agostino fino a Newman —, ma vuole sottolineare il fatto che la coscienza personale non è la misura né l’orizzonte di comprensione di ogni verità e conoscenza. L’interiorità dell’essere umano è presentata con la maggiore dignità possibile, quella di essere l’immagine di un Dio personale, ma non come il principio dell’esperire e del conoscere.

La non praticabilità di un radicale principio di immanenza in teologia non equivale a sottovalutare l’importanza del soggetto. Il valore della persona umana, apice della natura creata, destinatario dell’amore creatore e redentore di Dio — secondo un antropocentrismo il cui senso ultimo viene “rivelato” da un corretto cristocentrismo — è nella Rivelazione biblica fuori discussione. Ma l’essere umano non è la misura ultima del bene e del male, né della verità delle cose: egli deve lasciare che sia Dio, al quale egli deve l’origine ed il contesto del proprio essere, a “narrargli” il senso dell’esistenza; e deve farlo come il bambino fa con la madre, perché il suo esperire e conoscere può darsi, inizialmente, solo entro l’orizzonte di chi gli ha trasmesso la vita. In sede filosofica, o anche teologico-naturale, l’accesso a Dio attraverso la propria coscienza, l’esperienza della libertà e della propria auto-trascendenza, non sono disgiunti dall’accesso a Dio attraverso la natura e le esperienze ad essa collegate: itinerario antropologico ed itinerario cosmologico sono due versanti di una medesima ascesa. Il riferimento al reale offre al soggetto la garanzia che ciò che esperisce dentro di sé non sia confinato in un soggettivismo incomunicabile, ma sia parte di un’esperienza universale, comune a tutti gli uomini.

2. La critica alla religione: Dio come proiezione della coscienza e dell’inconscio. È dall’idealismo post-hegeliano, ed in collegamento con il principio di immanenza, che avrà origine una delle più forti espressioni dell’ateismo. La critica consisterà nel sostenere che religione e teologia non sono altro che antropologia camuffata: l’essenza divina sarebbe in fondo una proiezione dell’io, dell’essenza umana, concettualizzata e venerata come fosse altro-da-noi.

Sarà questa la tesi di Ludwig Feuerbach (1829-1880), col quale si compirà un'inversione completa dell'Assoluto divino di Hegel: lo Spirito Assoluto che l'uomo è in grado di riconoscere alla guida del mondo e della storia non è altro che il medesimo spirito umano fatto assoluto: il sapere dell'uomo su Dio non sarebbe altro che il sapere che l'uomo ha di se stesso. Per Feuerbach (L'essenza del cristianesimo, 1841), ogni discorso su Dio è semplicemente la «proiezione ideale» di un discorso umano, l’ingenuo riflesso dei desideri dell'uomo. L'infinito appartiene all'uomo e non a Dio: la «coscienza dell'infinito», propria di ogni religione, non è altro che la «coscienza dell'infinità della coscienza umana». Giunge così alle sue estreme conseguenze quel processo, cominciato durante l'Illuminismo, secondo cui la religione veniva dapprima ridotta entro i limiti della ragione, per essere poi totalmente interpretata in termini filosofici immanenti.

Una critica analoga è mossa da Sigmund Freud (1856-1939). Basandosi sulla psicologia del profondo, egli afferma che la religione risponde essenzialmente alle ansie di sicurezza dell'uomo. Condurre una vita in balia dell'angoscia e del timore è per l'uomo insopportabile e, pertanto, mediante una «fuga dalla realtà», egli trova rifugio nell'onnipotenza di Dio. L'operazione mediante la quale si cerca questa rassicurazione fittizia assume il carattere di una “nevrosi”: la religione, come ripetutamente affermato in Totem e Tabù (1913), sarebbe pertanto una malattia (una nevrosi ossessiva, per la precisione), a volte utile per evitarne una peggiore, ma pur sempre una malattia. Come per Feuerbach, anche per Freud i contenuti essenziali della religione sono il risultato di una “proiezione” dei desideri del soggetto, ma con la differenza che tali desideri non sarebbero più frutto di una coscienza riflessa, bensì del nostro «inconscio», che li utilizza per costruire una fittizia realtà sovrasensibile. Il senso di colpa nei confronti di Dio (coscienza del peccato) sarà anch'esso una proiezione, quella dell'autorità paterna che si trasfigura nell'immagine di una paternità divina. La religione, nel suo insieme, individuerebbe pertanto una «fase infantile dell'umanità», alla quale dovrebbe poi subentrare in futuro una «fase scientifica», quando il genere umano sarà capace di prescindere da queste false sicurezze, per rivolgersi a quelle assai più vere recategli dalle scienze.

A tali obiezioni la teologia ha risposto evidenziando la natura “eccedente” e “sovrabbondante” della Rivelazione cristiana rispetto alle aspettative e ai desideri dell’uomo, provengano questi ultimi dalla sua coscienza o dal suo inconscio. Tale eccedenza si manifesta sia sul piano ermeneutico e linguistico, che su quello antropologico ed esistenziale. Le categorie bibliche del discorso su Dio non dipendono interamente da precomprensioni filosofiche, ma rappresentano una certa novità. Esse coniano concetti nuovi e rivelano un’immagine di Dio che, pur soddisfacendo ciò che la ragione chiederebbe, di fatto ne sorpassano l’orizzonte. Basti pensare alla rivelazione dell’essere come comunione e come libertà (mistero trinitario), o alla composizione del rapporto dialettico fra trascendenza e immanenza (già nel Dio di Israele e poi, soprattutto, nell’incarnazione del Verbo), solo per fare alcuni esempi. Sul piano antropologico, la salvezza offerta da Dio all’uomo, il suo contenuto e la sua logica, offrono alla stessa ragione i segni e la garanzia che un Dio che venga così incontro all’uomo non sia l’eco della sua coscienza. La storia della salvezza si realizza al di là di ogni aspettativa umana: essa non è in questo solo eccedente, ma include anche le dimensioni del paradosso e dello scandalo (cfr. 1Cor 1,17-31).

3. Il metodo dell’immanenza e la sua operatività in teologia. Ben distinto dal principio di immanenza, si è sviluppato in teologia, a cavallo fra il XIX e il XX secolo, il «metodo dell’immanenza», quale tentativo di un discorso su Dio e sulla fede che parta dalle lecite aspettative del soggetto. In questo caso, l’“io” non è colto come principio di comprensione della realtà, ma come soggetto che deve riconoscere la significatività delle domande alle quali la Rivelazione divina intende dare una risposta. Sulla scorta di quanto già tentato da Pascal (1623-1662), il metodo dell’immanenza si attesta così in ambito apologetico a partire da M. Blondel (1861-1949), per confluire poi nel personalismo francese, specie con E. Mounier e J. Mouroux, e dare origine a correnti convergenti in diverse aree linguistiche. Pensatori accomunati dall’idea di suscitare nell’uomo la consapevolezza di essere un “enigma” a se stesso, un problema che può essere decodificato e risolto solo grazie alle risposte provenienti dalla fede in Gesù Cristo. Il metodo dell’immanenza troverà un’applicazione originale anche in Paul Tillich (1886-1965), attraverso «il metodo delle correlazioni». Tra l’uomo e Dio esisterebbe una tensione massima, ma anche una profonda correlazione come quella fra finito ed infinito: il metodo teologico dovrebbe esplicitare la dialettica che soggiace alla tensione fra la ragione che interroga e Dio che rivela, sistematizzata entro cinque grandi correlazioni rappresentate dalle coppie Ragione/Rivelazione, Essere/Dio, esistenza umana/Cristo, vita/Spirito, storia (mondo)/Regno (Chiesa). Per Tillich si può capire ciò che Dio dice solo se si è fatta la previa esperienza della domanda esistenziale alla quale la Rivelazione offre una corrispondente risposta.

In termini più ampi, la rivalutazione del soggetto in ambito teologico guarda con favore al “personalismo”, ma segnala i forti limiti del “soggettivismo”. Ci si muove così alla ricerca di un delicato equilibrio, le cui tensioni venivano già colte dal pensiero di Kierkegaard (1813-1855). Si desidera in sostanza evitare che la religione o la stessa Rivelazione vengano assorbite nei confini dell’esperienza personale, come richiesto dalle correnti moderniste, ma conservare al contempo la consapevolezza che le risposte cristiane agli interrogativi dell’uomo debbano divenire esperienza viva in un soggetto. Da parte sua, il magistero cattolico è più volte intervenuto per chiarire l’ambiguità della posizione soggettivista, specie in rapporto al problema della verità, del realismo conoscitivo e dei giudizi della coscienza (cfr. Pio X: Lamentabili, DH 3420, 3458; Pascendi, DH 3477-3478; Pio XII, Humani generis, DH 3882-3883; più recentemente, Veritatis splendor, 4, 32-34, 63, 106), condividendo allo stesso tempo, anzi sviluppando, le migliori prospettive personaliste (cfr. Gaudium et spes, 22; Redemptor hominis, 13-14).

4. L’esegesi esistenziale. All’interno del tema della centralità dell’io, quale eredità di una delle principali prospettive idealiste, va infine citata un’ulteriore applicazione, questa volta in ambito esegetico, dalla quale la teologia cattolica, ed in parte anche quella riformata, si sono andate progressivamente distanziando a partire dalla seconda metà del XX secolo. Si tratta del metodo dell’«esegesi esistenziale» proposto da Rudolf Bultmann (1884-1976). Per il teologo tedesco, la Rivelazione (che nel pensiero dei riformatori è quasi sempre sinonimo di Sacra Scrittura) ha una tale “attualità esistenziale” da non aver bisogno di fondarsi su fatti avvenuti tempo addietro. Essa fa appello alla vita presente di ogni uomo ed acquista significato nella misura in cui il soggetto la riconosce interiormente capace di formulare tale richiamo. Il procedere del tempo ha separato e separa inevitabilmente il “Gesù della storia” dal “Cristo della fede” ed è ormai impossibile operare fra i due una ricomposizione. Questa separazione non costituirebbe per Bultmann un problema, perché la Scrittura è sempre un parola pronunciata “al presente”, un “atto” mediante il quale Dio si rivela al destinatario di quel messaggio, invitandolo ad accoglierne la salvezza.

Se la posizione di Bultmann può avere il pregio di rivalutare la valenza esistenziale e la perenne contemporaneità della parola di Dio, fino a farne una regola della sua esegesi, ha però il grave difetto di indebolire la dimensione storico-realista della Rivelazione biblica, staccando la fede da ogni legame con la ragione. La dimensione oggettiva della Parola viene così completamente assorbita da una dimensione soggettivista; e ciò non solo più perché la Rivelazione viene accolta “nel soggetto”, ma perché, in prospettiva tipicamente idealista, viene “posta in atto”, creata, da colui che la annuncia e da colui che la riceve. Di conseguenza, si conclude erroneamente che conoscere ciò che effettivamente Gesù di Nazaret abbia “realmente” predicato, non avrebbe paradossalmente più alcun significato per la salvezza degli uomini.

VI. Operatività della prospettiva idealista in teologia: possibilità e valutazioni critiche

1. Esiste un’idea del cristianesimo? Un influsso sul metodo e la riflessione teologica può essere riconosciuto anche nella prospettiva idealista che sposta l’attenzione dal soggetto, che pone l’Idea, all’Idea in se stessa, concepita come Assoluto che esprime in modo unificante e razionale tutto il reale (Hegel). In sintonia con tale visione, prenderà corpo la concezione che la religione cristiana sia lo sviluppo di un’Idea e l’autodispiegamento di essa nella storia. Mentre la ragione kantiana vede nella persona di Gesù Cristo l’ideale morale dell’umanità, in cui trovano massima espressione le precedenti forme di vita etica (cfr. La religione nei limiti della semplice ragione, 1793), l’idealismo di Schleiermacher (1768-1834) vi legge l’archetipo perfetto dell’uomo inabitato da Dio. Per quest’ultimo, il cristianesimo è la religione ideale verso cui la religiosità naturale dell’umanità necessariamente tendeva, prima con forme semplici e imperfette, e poi con forme progressivamente più evolute (cfr. Discorsi sulla religione, 1799; La fede cristiana, 1822). Il cristianesimo viene fatto così corrispondere ad un’Idea unitaria e unificante, ma a prezzo di inevitabili esiti immanentisti e storicisti. L’idealismo vede la religione come un grande processo storico-ideale, orientato dal basso verso l’alto (oppure sviluppato linearmente lungo il corso della storia), ma non lascia che sia Dio ad interpretare la storia, né gli consente di venire incontro all’uomo lungo strade inedite che sorpassino, o perfino sconvolgano, il progressivo auto-sviluppo della coscienza religiosa umana, eretta essa stessa ad Assoluto.

A questa visione, che in coabitazione col razionalismo dominerà la teologia tedesca dell’Ottocento, reagirà la teologia cattolica nella prima metà del XX secolo, con K. Adam (1876-1966) e poi con R. Guardini (1885-1968), mostrando che il cristianesimo non risponde ad un’Idea, ma ad una persona, la persona di Gesù Cristo. Il problema della “essenza del cristianesimo”, posto con Schleiermacher e sbrigato criticamente da Feuerbach, viene ora sensatamente risolto rimandando alla sua fonte, Gesù Cristo, non come archetipo dell’uomo innalzato da Dio, come voleva Schleiermacher, ma come vero Dio che viene incontro all’uomo. Al cristianesimo non si accede per astrazione, ma attraverso il realismo dell’Incarnazione: «Non c'è determinazione astratta di tale essenza. Non c'è alcuna dottrina, alcuna struttura di valori morali, alcun atteggiamento religioso od ordine di vita, che possa venir separato dalla persona di Cristo, e dei quali poi si possa dire che siano l'essenza del cristianesimo. Il cristianesimo è Egli stesso; ciò che per mezzo suo perviene agli uomini, e la relazione che per mezzo suo l'uomo può avere con Dio» (Guardini, 1987, p. 83).

Il programma hegeliano di riunire tutto il reale in una sola Idea razionale sarà tuttavia fonte positiva di ispirazione per una teologia che ne correggerà l’istanza immanentista, capovolgendola in chiave trascendente e riconducendola nella logica gratuita del mistero di Dio. Avrà così luogo, dopo gli incerti tentativi della teologia romantica, un interessante recupero di importanti intuizioni idealiste in chiave estetica, prima con M.J. Scheeben (1835-1888) e poi con altri autori, fino alla proposta più recente di H.U. von Balthasar (1905-1988). Nella sua opera I misteri del cristianesimo (1865), Scheeben offrirà una grande sintesi teologica ove le dottrine ed i misteri consegnati dalla Rivelazione cristiana, richiamandosi ed illuminadosi gli uni gli altri, danno origine ad un’unica amalgama, ad un sistema superiore, certamente penetrato da una sola idea, ma un’idea che è posseduta in pienezza solo dal Logos ed è perciò indisponibile alla natura umana, che può accedervi invece nel dono e nella logica della grazia. Nella Estetica teologica (1975-1980) di von Balthasar, la Rivelazione e la sua credibilità si impongono per la loro attraente bellezza, per la grande coerenza del disegno di Dio, una coerenza capace di recuperare e dar ragione anche del momento drammatico, non come mero superamento di una contrapposizione dialettica, ma come svelamento del senso dell’esistente e come processo che riproduce la grande logica archetipa del mistero pasquale di Cristo.

2. La teologia trascendentale di K. Rahner. Merita un cenno a parte la proposta di una «teologia trascendentale» avanzata da Karl Rahner (1904-1984), ispirata alla sintesi che Joseph Maréchal fa tra la filosofia trascendentale di Kant e il pensiero di s. Tommaso d' Aquino (cfr. Le Point de Départ de la Métaphysique, Paris 1949), circa la quale egli non vuole però presupporre un giudizio di compatibilità con il cristianesimo. Secondo il teologo tedesco (cfr. Uditori della parola, 1941; Corso fondamentale sulla fede, 1976), l’intima costituzione dell’essere umano è quella di un «esistenziale soprannaturale», cioè un trascendentale a priori ontologicamente disposto alla autocomunicazione di Dio. Ancor più, ogni essere umano rappresenta, nella sua verità più profonda, le condizioni di possibilità dell'Incarnazione. Mantenendo una certa corrispondenza fra “essere” e “conoscere”, Rahner sostiene che il conoscersi dell’uomo come luogo dell’autocomunicazione di Dio, sebbene non disgiunto dalla propria libertà, definisce in fondo il suo stesso essere, perché di quella autocomunicazione l’uomo rappresenta insieme la condizione di possibilità e l’evento.

Ad una prospettiva «trascendentale» verrebbe chiamata in primo luogo la teologia fondamentale, perché invitata a riflettere sulle condizioni di possibilità, nel soggetto credente, dei contenuti della fede rivelata, per poter mostrare meglio la corrispondenza fra l’essenza formale di una rivelazione divina, generalmente intesa, ed il modo in cui questa si sia attualizzata nel cristianesimo. La ragionevolezza del cristianesimo non è una dimostrazione estrinseca, che si imponga all’esperienza come dal di fuori, bensì il riconoscimento che il cristianesimo è la “spiegazione” più profonda di ciò che l’uomo è. Si può così dare alla fede una fondazione razionale, facendole prendere la forma di una corrispondenza fra la “trascendentalità” e la “storicità” dell’essere umano; fra una conoscenza atematica, mediante la quale egli si auto-riconosce come il luogo della rivelazione-comunicazione di Dio, e una conoscenza di tipo categoriale, mediante la quale egli comprende come tale rivelazione-comunicazione si sia effettivamente data nella storia della salvezza. Tale corrispondenza indirizza al riconoscimento dell’avvento storico di un Salvatore, come manifestazione definitiva della rivelazione soprannaturale già operante nell’uomo stesso.

Sebbene l’impostazione rahneriana abbia il valore di saper mettere in evidenza la “globalità” e la “universalità” della verità cristiana, che diviene così interlocutrice di tutti gli uomini — una preoccupazione, questa, che potrebbe accomunarlo a Balthasar, ma con un utilizzo filosofico della prospettiva “idealista” che certamente lo distanzia dal teologo svizzero — l’accento posto sull’uomo anche in sede gnoseologica ed epistemologica può terminare “riducendo” la cristologia, e in certa misura la stessa teologia, ad antropologia, giungendosi così a parlare di «svolta antropologica» (cfr. Fabro, 1974). Risulta inoltre meno facile l’inquadramento del mistero del peccato all’interno dei rapporti fra l’uomo e Dio, ed occorrerà far ricorso a categorie nuove per comprendere la “gratuità” della grazia, categorie che in parte distanziano la posizione di Rahner da quanto affermato dalla maggior parte della tradizione teologica.

3. Verità e storia. La forma “storica” della Rivelazione giudeo-cristiana come “storia della salvezza” consentirà infine anch’essa un certo recupero delle istanze di rivalutazione della storia avanzate da alcune correnti idealiste. Il Novecento filosofico, ma anche teologico, non potrà più accostarsi all’antropologia prescindendo da categorie storiche, anche sulla scorta di una progressiva consapevolezza dei risultati delle scienze. Se in alcuni teologi cattolici, fra cui lo stesso Rahner, la rivalutazione della storia agirà come pungolo per cercare approfondimenti e campi di dialogo con la cultura profana, in altri autori, specie fra i riformatori, l’assunzione di una prospettiva storica dominerà a tal punto da dare origine ad uno storicismo che ingloberà anche l’immagine di Dio ed i suoi rapporti con il mondo. All’interno dello specifico oggetto teologico tale impostazione porterà a vedere un’esplicarsi della Trinità divina nella storia del mondo (J. Moltmann), mentre nei riguardi dei rapporti fra teologia e scienze essa darà luogo, specie in ambito anglosassone, ad una «teologia del processo» ispirata alla filosofia di A.N. Whitehead. Gli autori cattolici, invece, cercano piuttosto una sintesi, difficile ma non impossibile, fra prospettiva storico-fenomenologica e prospettiva metafisica, essendo quest’ultima maggiormente incline alla priorità dell’essere sul divenire, a quella dell’essenza sulla relazione, e alla possibilità di accedere dal fenomeno al fondamento.

La persistenza dell’influsso idealista sarà riconoscibile nella teologia di W. Pannenberg (La Rivelazione come storia, 1961), ove si ripropone lo schema hegeliano di una verità pienamente svelata solo al termine della storia, del senso delle parti esclusivamente alla luce del tutto, del primato dell’éschaton sulla conoscenza che abbiamo dell’oggi. Ad essa von Balthasar opporrà una teologia della storia ove il tutto si rivela nel frammento, ove la logica dell’intero si rende accessibile nella bellezza della parte. Viene così riportato alla ribalta il rapporto fondamentale fra verità e storia, che attraversa non solo la teologia, ma anche l’ermeneutica. Un rapporto che il cristianesimo riconosce non conflittuale alla luce dell’incarnazione del Verbo, pienezza dei tempi e verità fatta persona (cfr. Gal 4,4; Gv 14,6) un rapporto, infine, che la recente riflessione di Fides et ratio (1998) inquadra, in ambito filosofico prima che teologico, parlando dell’emergenza della verità — il cui accesso da parte della ragione resta pur sempre parziale e limitato — sul flusso cangiante delle interpretazioni e della storia (cfr. nn. 11-12; 87).

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