Wittgenstein, Ludwig Josef Johann (1889 - 1951)

Anno di redazione
2002

I. Wittgenstein: un profilo biografico - II. Dal Tractatus logico-philosophicus alle Ricerche filosofiche : il senso di un percorso - III. La religione come etica - IV. Wittgenstein pensatore religioso - V. Dall'interrogazione all'invocazione - VI. La fede come passione.

I. Wittgenstein: un profilo biografico

Il pensiero religioso e la teologia cristiana di questo secolo hanno in Ludwig Wittgenstein, uno dei massimi esponenti della filosofia del '900, un interlocutore di primissimo piano. Wittgenstein, pur rimanendo all'interno di una ricerca di tipo filosofico, intesa, soprattutto, come analisi del linguaggio e attività chiarificatrice, ha finito per aprire nuove strade al pensiero religioso e alla stessa riflessione teologica. Dopo di lui, nulla può essere più come prima, nella filosofia, come nell'etica e nella stessa teologia (cfr. Kerr, 1992). Dal confronto con il pensiero di questo filosofo la religione e la teologia non escono, però, sconfitte o umiliate, ma ritrovano uno "spazio" di senso, precedentemente delegittimato, se non negato, dalle filosofie neoempiriste. Ed è proprio in questo "spazio" di senso ritrovato che ogni discorso su Dio, come sapere "altro" rispetto agli altri saperi, è pienamente legittimo, potendo esso rivendicare una sua propria logica. Merito di Wittgenstein è l'aver individuato l'esistenza di logiche diverse per ogni tipo di sapere. Non, perciò, una sola logica, a cui riferire tutti i saperi, ma tante logiche, quanti sono i saperi. C'è qui il superamento della pregiudiziale antimetafisica e antireligiosa dell'empirismo logico del Circolo di Vienna, i cui componenti avevano posto la verifica empirica delle proposizioni come criterio ultimo di senso.

Solo da una lettura superficiale o parziale, il pensiero del filosofo potrebbe essere considerato ostile o contrario alla religione. Piuttosto, la stessa teologia cristiana, nella sua pretesa di parlare su Dio come dell'essere trascendente, potrà trarre grande vantaggio nel far proprio il metodo di indagine, suggerito e applicato, a questo proposito, da Wittgenstein stesso. Una ricerca, come quella wittgensteiniana, che si è impegnata a introdurre elementi di chiarificazione in tutte le affermazioni, e perciò anche in quelle etiche e religiose, e a purificare tutte quelle espressioni tradizionali, riconducibili al campo dell'esperienza etica e religiosa, da certe forme di fraintendimenti, di superstizioni e di errori, può rappresentare per il pensiero religioso contemporaneo un modello significativo a cui riferirsi in ogni sua indagine sul "sacro". Da questo modello il pensatore religioso può riprendere dei procedimenti e delle argomentazioni con i quali articolare una risposta, sufficientemente fondata, alla sfida che parte del pensiero moderno ha lanciato a ogni fede religiosa.

Ma l'importanza di Wittgenstein per il pensiero religioso non si ferma qui. Perché, dall'opera complessiva del filosofo si possono trarre delle indicazioni per la riproposizione di una critica della stessa ragione teologica, intesa come ricerca delle condizioni di "dicibilità" della teologia stessa nel mutato contesto culturale. Una critica siffatta è quanto mai necessaria oggi, se si vuole conservare alla teologia la sua capacità di parlare efficacemente ancora su Dio a un uomo, che, passato attraverso le tragedie e i drammi di questo Novecento, è seriamente impedito dal porsi il problema di Dio, soprattutto, dopo la critica devastante dei "maestri del sospetto" - Marx, Nietzsche e Freud - e l'avanzare della società secolarizzata. Qui, infatti, la religione non è affatto negata, o considerata una falsa coscienza o una illusione, o confinata al mondo del non senso, ma è recuperata nella sua essenzialità, come l'espressione della ricerca umana di Dio, un essere superiore, che si colloca al di là di ogni prova scientifica e di ogni possibile raffigurazione. La fede religiosa diventa, soprattutto, una "passione" in senso kierkegaardiano e la testimonianza sarà l'unica prova possibile a disposizione del credente. È un esito teoretico assai significativo, quello raggiunto da Wittgenstein in quest'ambito, da non rifiutare in via pregiudiziale, ma su cui riflettere attentemente. Rimane vero, però, che il credente, di fronte a questo esito, pur consapevole del valore dei risultati raggiunti, non potrà mai riconoscersi pienamente in esso, dato che lo sbocco a cui conduce porta a una fede "squilibrata" sul fronte della ragione e "diminuita" quanto alla sua pretesa di verità. L'approccio di Wittgenstein alla religione cristiana è solo un punto di partenza, non un punto d'arrivo.

Ludwig Wittgenstein nacque a Vienna il 26 aprile 1889, ottavo e ultimo figlio di una ricca e colta famiglia di origine ebraica, posta al centro della vita culturale viennese. Suo padre era protestante e la madre cattolica. Ludwig, come gli altri suoi fratelli, fu battezzato nella Chiesa cattolica e ricevette una prima istruzione religiosa in famiglia, anche se alquanto superficiale e priva di modelli di riferimento sul piano di una pratica non formale della religione. Durante la sua vita, salvo brevi parentesi, si tenne sempre lontano da una dichiarata ed esplicita professione di fede religiosa. Questo atteggiamento distaccato non gli impedì, tuttavia, di avere sempre rispetto e comprensione verso coloro che, invece, ne facevano professione esplicita nelle diverse confessioni cristiane e di manifestare grande attenzione nei riguardi della fede religiosa nelle sue diverse espressioni, sia dottrinali che rituali. Da parte sua, fu sempre alla ricerca di una qualche fede, che potesse dare senso e valore alla sua vita. Durante gli anni della prima guerra si portò dietro come viatico la Breve esposizione del Vangelo di Lev Tolstoj (1828-1910), il solo libro di cui allora riteneva di avere realmente bisogno, tanto da impararlo a memoria e da recitarlo ai suoi compagni. Da loro fu chiamato, per questo, "uomo del Vangelo" (cfr. Jaccard, 1999, p. 46). Più tardi, da maestro elementare a Trattenbach, nella Bassa Austria, pregava ogni giorno con i suoi alunni, recitando il Pater noster , prima e dopo le lezioni, nonostante il suo capo d'Istituto, Josef Putre, non fosse affatto d'accordo (cfr. Monk, 1991, p. 225). Cosi facendo, egli si sentiva di essere ugualmente un "evangelizzatore" (evangelist), perché riteneva che il suo lavoro di insegnante avesse qualcosa a che fare con la salvezza delle anime e la proclamazione di un vangelo (cfr. Bartley III, 1975, p. 123). Paul Engelmann, che negli anni della guerra, e anche successivamrnte, aveva frequentato e conosciuto assai bene il filosofo, diventandone amico, parla esplicitamente di un Wittgenstein religioso e cristiano, un credente nel quale viveva «una fede non espressa in parole» (Lettere di Ludwig Wittgenstein, 1970, p. 107).

Su un piano più generale, Wittgenstein seppe collegare la cultura della mitteleuropa alla cultura anglosassone, fino a diventare uno dei maggiori e più prestigiosi esponenti della cultura filosofica del '900. Personalità sempre inquieta e di grande levatura intellettuale, coltivò durante la sua esistenza molteplici interessi, dalla logica alla filosofia, dall'etica alla religione, dalla matematica alla psicologia, dall'architettura alla musica, lasciando dappertutto i segni della sua genialità. Negli anni precedenti l'inizio della grande guerra, Bertrand Russell (1872-1970), che di Wittgenstein era stato maestro a Cambridge, ebbe a dire che, secondo molti che lo avevano conosciuto, Wittgenstein avrebbe avuto modo di eccellere in qualsiasi cosa avesse intrapreso di fare. Fu, perciò, filosofo, pensatore etico, architetto, maestro elementare, esperto musicologo, volontario nell'esercito. Dopo la prigionia a Cassino, in seguito alla sua cattura da parte delle truppe italiane, avvenuta alla fine della prima guerra mondiale, coltivò una presunta vocazione monastica, che lo portò per qualche mese a vivere come giardiniere nel monastero di Klosterneuburg, nei pressi di Vienna, nella convinzione di uscire dalla crisi in cui si trovava e di dare così alla sua vita uno sbocco radicalmente diverso con una scelta di tipo religioso. Un desiderio di purezza accompagnò, comunque, sempre il filosofo, fino a spingerlo ad arruolarsi volontario nell'esercito austro-ungarico, durante la prima guerra mondiale, chiedendo di essere mandato in prima linea, e a prestare servizio civile nella seconda guerra mondiale nell'esercito britannico, di cui era diventato cittadino, a seguito della promulgazione delle leggi razziali in Austria.

Dal 1929, e fino alla fine, salvo brevi interruzioni, visse a Cambridge, dove insegnò filosofia nell'Università, facendo dell'analisi del linguaggio il centro dei suoi interessi speculativi. Le sue lezioni erano, soprattutto, un pensare e un parlare ad alta voce e l'eco di un tale magistero si ritrova nei suoi scritti, di difficile comprensione e molto spesso enigmatici. Nel suo insegnamento si avvertiva lo sforzo di trovare, passando attraverso una critica radicale dei tanti luoghi comuni del parlare e dell'agire, le soluzioni migliori ai problemi filosofici tradizionali, proprio a partire dall'analisi del linguaggio. Venuti meno i grandi sistemi del passato, la filosofia con Wittgenstein, diventa, soprattutto, analisi del linguaggio.

Morì a Cambridge il venerdì 29 aprile del 1951. Fu sepolto con una cerimonia di rito cattolico nel cimitero annesso alla chiesa di St. Giles a Cambridge.

 

II. Dal Tractatus logico-philosophicus alle Ricerche filosofiche: il senso di un percorso

La sua fama di pensatore è affidata soprattutto a due opere principali: il Tractatus logico-philosophicus e le Ricerche filosofiche. Sono opere, che hanno influenzato profondamente tutta la cultura, non solo la filosofia, del '900. Solo il Tractatus fu pubblicato dal filosofo, nel 1921; le Ricerche, invece, furono pubblicate postume, come tutte le sue altre opere, nel 1953, a due anni dalla sua morte. Queste opere si caratterizzano per la presenza in esse di due diverse concezioni del linguaggio, riconducibili a momenti successivi della speculazione del filosofo. Ciò giustificherebbe, secondo alcuni interpreti del suo pensiero, la distinzione tra un primo e un secondo Wittgenstein, uno legato al Tractatus, l'altro alle Ricerche. Questo passaggio da una fase all'altra si compie, comunque, quando nel filosofo matura l'idea della "vita come un tessuto", un intreccio, che costituisce lo sfondo, questo sì inesprimibile, «sul quale ciò che ho potuto esprimere acquista significato» (Pensieri diversi, p. 40). Il filosofo sa che «Non quello che uno fa in questo momento, un'azione singola, ma tutto quanto il brulicare (das ganze Gewimmel) delle azioni umane, il sottofondo su cui vediamo ogni azione, determina il nostro giudizio, i nostri concetti e le nostre reazioni» (Zettel, Lo spazio segreto della psicologia, § 567). La vita stessa diventa lo spazio della filosofia: al dicibile dei fatti della vita, però, si contrappone l'indicibile, che non è meno reale ed è ciò che realmente conta. L'invito al silenzio rappresenta qui il riconoscimento di un al di là del mondo dei fatti, che non può essere "detto", ma solo "mostrato". L'opposizione tra il "dire" e il "mostrare", così come è intesa, rimanda a due ordini di realtà contrapposte, di cui il primo è riconducibile al mondo dei fatti, l'altro al mondo oltre i fatti. Proprio quest'ultimo ordine è quello che ogni pensiero religioso rivendica come suo proprio e specifico.

A un Wittgenstein, che, all'epoca del Tractatus, intende il linguaggio in maniera rigida, come corrispondenza biunivoca tra linguaggio e fatti, se ne contrappone un secondo, quello delle Ricerche, più incline a riconoscere la molteplicità dei linguaggi, dopo che quella forma di corrispondenza, postulata precedentemente, si era rivelata per il filosofo inadeguata a cogliere l'al di là del mondo, del quale non si poteva, comunque, fare a meno. Questo passaggio da una fase all'altra si realizzerebbe, però, secondo alcuni, attraverso una rottura, con la negazione, cioè, da parte del filosofo, delle concezioni del Tractatus stesso. Una tale interpretazione, peraltro molto diffusa, non è sostenibile sul piano testuale e sul piano più generale della filosofia wittgensteiniana. Perché, riferendoci all'opera complessiva del filosofo, più che di una rottura, o di una negazione, si deve parlare di un superamento nella continuità, pur tra fasi diverse della sua speculazione. L'approccio alla problematica linguistica rimane sostanzialmente immutato, anche se diversamente orientato, e, a parte le differenze riscontrabili, una unità profonda, anche sotto un aspetto più specificamente religioso, lega il primo al secondo Wittgenstein. Forse, proprio la parte conclusiva del Tractatus, il cosiddetto "mistico" («Non come il mondo è, è il mistico, ma che esso è», n. 6.44), consente di leggere le Ricerche non in opposizione, ma come la realizzazione del percorso disegnato nello stesso Tractatus.

Difatti, nel Tractatus c'è già in nuce tutta la lezione delle Ricerche. Soprattutto, nel Tractatus si muove tutto un mondo, che è proiettato a riconoscere una dimensione diversa dall'ordine dei fatti. E come se non bastasse, tutti i problemi trattati nel libro confluiscono verso l'aforisma 7, con il quale questo stesso libro termina: «Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere». Questa espressione pone in tutta evidenza il problema del "mistico", come di qualcosa, cioè, che è da intendersi come la realtà posta al di là del mondo dei fatti e, per ciò stesso, trascendente l'ordine delle cose, di cui si ha esperienza empirica. Il silenzio che si richiede per esso dà la misura di come si è risospinti al di là del mondo, nell'"indicibile". Proprio il concetto di "mistico" costituisce il punto di congiunzione tra il Tractatus e le Ricerche filosofiche. Secondo il filosofo il "mistico" è un dato ineliminabile, di cui bisogna prendere atto ed esprime, soprattutto, il senso del limite che l'uomo avverte di fronte al mondo e l'incapacità da parte della scienza di soddisfare i desideri più profondi dell'umanità. La pretesa di parlare su tutto è assolutamente ridicola e illegittima. Più che di parlare, si tratta di "mostrare" quel mondo a cui il "mistico" fa riferimento. Il "mistico", così inteso, rompe la pretesa neoempirista di ridurre il dicibile al mondo dei fatti, così come sono percepiti, e apre l'indagine wittgensteiniana a riconoscere la varietà dei mondi di senso, vere "forme di vita". Ed è così che il progetto, enunciato nel Tractatus, si realizza nelle Ricerche, nella descrizione di queste varietà di "forme di vita". La religione stessa è, dopo tutto, una "forma di vita" accanto ad altre "forme di vita" e come tale deve essere descritta.

Il Tractatus, opera terminata nel 1918, dopo una lunga gestazione, e pubblicata, per la prima volta, nel 1921, potè, dopo non poche difficoltà, essere pubblicata a Londra in maniera definitiva l'anno successivo. Si tratta di un classico del pensiero filosofico del '900: è un testo breve, costituto da pensieri, concatenati tra loro secondo una numerazione da 1 a 7 e scritti in forma aforistica, nel quale viene delineata una teoria del linguaggio significante e si dimostra il carattere tautologico della matematica e della logica. Gli argomenti principali vertono sull'essenza del linguaggio, sulla natura del mondo, della logica, della matematica, della scienza e della filosofia. Nella conclusione il filosofo presenta in maniera assai concisa una serie di riflessioni sull'etica, la religione e il "mistico", riprese in parte dai Quaderni 1914-1916. Grande precisione logica e intensità poetica caratterizzano quest'opera. Tutto il discorso wittgensteiniano si svolge tra la constatazione iniziale che «il mondo è tutto ciò che accade» (n. 1) e l'invito finale al silenzio: «Su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere» (n. 7). La sua lettura risulta particolarmente difficile, anche se Wittgenstein stesso indica nell'etica la chiave interpretativa. Non si tratterebbe, come potrebbe sembrare, di un libro di logica, ma di un libro di etica, come riconoscono Anscombe, Toulmin, Engelmann e molti altri. Tutto il discorso si costruisce attorno alla convinzione che nulla può essere detto a proposito delle cose più importanti. Se il mondo è il mondo dei fatti, non si potrà trovare in esso né Dio, né l'etica, né alcunché che non sia esso stesso un fatto: questo è l'assunto principale. Nell'opera, come scrive il filosofo a Russell, «il punto principale è la teoria di quel che si può esprimere (gesagt) con le proposizioni, cioè con il linguaggio (e che, viene ad essere lo stesso, quel che si può pensare) e quel che non si può esprimere in proposizioni, ma solo mostrare (gezeigt); questo credo, è il problema cardine della filosofia» (cfr. Anscombe, 1966, p. 148).

Non minore importanza presenta l'altra grande opera di Wittgenstein: le Ricerche filosofiche, opera pubblicata postuma, a cui il filosofo lavorò per oltre venti anni, ma rimanendovi sempre insoddisfatto per le conclusioni raggiunte. Qui il problema del filosofo è di farsi portavoce di una concezione più pluralistica del linguaggio, che finiva per riabilitare quei problemi, anche quelli etici e religiosi, che precedentemente nell'ambito del movimento del Circolo di Vienna erano stati esclusi dalla filosofia, perché non riconducibili al mondo dei fatti e, perciò stesso, privi di senso. La teoria della raffigurazione, presupposto su cui si regge tutto l'impianto del Tractatus, è considerata assolutamente inadeguata, perché con essa si circonscrive la funzione del linguaggio alla sola denominazione, mentre, in realtà, le sue funzioni sono molteplici. Il linguaggio è definito ora come un insieme di «giochi di lingua» (Sprachspiele), intesi come attività dell'uomo (§ 7). Lo stesso parlare degli individui si costituisce come parte di un'attività e il significato delle parole deve essere ricercato nel loro uso (§ 43).

Proprio la richiesta dell'uso del significato delle proposizioni come criterio di senso delle affermazioni, formulata nelle Ricerche , si poneva come superamento della verifica empirica come criterio di senso delle proposizioni, così come era stato postulato dai neopositivisti del Circolo di Vienna, soprattutto con Carnap e Neurath. Il linguaggio viene ora considerato metaforicamente come una cassetta di attrezzi, o come un labirinto di vie, ricorrendo ad immagini come queste, quasi per dare del linguaggio un'idea più articolata e per indicare che solo attraverso una attività di tipo descrittivo diventava possibile conoscere i vari usi del linguaggio e orientarsi all'interno di saperi non facilmente circonscrivibili. L'analisi del linguaggio si configura ora non più semplicemente come analisi logica del linguaggio, ma come analisi sostanzialmente descrittiva dell'attività linguistica, che si esplicita concretamente nella molteplicità dei giochi linguistici. Il linguaggio, inteso come attività dell'uomo, è solo un gioco di lingua. Perciò tanti sono i linguaggi tanti sono i giochi di lingua e nessuno di loro può essere assimilato all'altro.

Partendo da qui, diventa possibile considerare la religione, come l'etica e ogni altro sapere, come un particolare gioco linguistico, nel senso voluto da Wittgenstein. Questa riduzione lascia aperta la possibilità per il credente di giustificare la sua fede religiosa per ciò che essa rappresenta nella sua vita, senza dover fare riferimento a logiche non pertinenti o addurre necessariamente delle prove di carattere empirico. La fede religiosa, sostiene il filosofo, non ha dietro di sé, né può avere, alcuna prova, commisurabile sul modello scientifico, ma richiama essa stessa il mondo dell'etica. La fede è, dopo tutto, una passione, «un appassionato decidersi per un sistema di riferimento, [.] è anche un modo di vivere, o di giudicare la vita» (Pensieri diversi, p. 120).

 

III. La religione come etica

La riflessione wittgensteiniana sull'etica non è limitata alla comprensione dell'etica in quanto tale, perché riguarda anche la comprensione della religione, dato che questa è assimilata all'etica. Tra etica e religione, sostiene Wittgenstein, c'è un rapporto come tra un tutto e una sua parte. L'etica, afferma il filosofo, «sorge dal desiderio di dire qualcosa sul significato ultimo della vita, il bene assoluto, l'assoluto valore» e conseguentemente «non può essere una scienza» (Lezioni e conversazioni, p. 18), d'altra parte «il significato ultimo della vita lo possiamo chiamare Dio» (Quaderni 1914- 1916 , in Tractatus, p. 173). Etica e religione hanno la stessa origine, ma non aggiungono nulla alla nostra conoscenza; sono solo un «documento di una tendenza nell'animo umano che io personalmente non posso non rispettare profondamente e che non vorrei davvero mai, a costo della vita, porre in ridicolo» (Lezioni e conversazioni, p. 19). L'etica e la religione esprimono un desiderio, una tendenza dell'uomo a rompere il piano del visibile, nel quale si è immersi, per raggiungere e possedere il piano dell'invisibile. Il silenzio è l'ultima parola dell'etica e della religione.

Secondo il filosofo, la religione, in quanto atteggiamento nei confronti della vita, è, in sostanza, soprattutto, etica. Ed è proprio l'etica a costituire la chiave interpretativa dello stesso Tractatus. Nella lettera a von Ficker, Wittgenstein considera il suo libro come un trattato di etica: «Il senso del libro è etico. Una volta volevo includere nella prefazione una proposizione, che ora di fatto lì non c'è, ma che io ora scriverò per lei, poiché essa sarà forse per lei la chiave per capire il libro. In effetti, io volevo scrivere che il mio lavoro consiste di due parti: di quello che ho scritto ed inoltre di quello che non ho scritto . È proprio questa seconda parte è quella importante. Ad opera del mio libro l'etico viene delimitato, per così dire, dall'interno; e sono convinto che questo è l' unico modo rigoroso di porre quei limiti. In breve, laddove molti altri oggi non fanno che parlare a vanvera, io sono convinto di essere riuscito nel mio libro a mettere ogni cosa saldamente al suo posto semplicemente col tacerne» (Lettere a Ludwig von Ficker, p. 72). Nella stessa lettera, Wittgenstein consiglia di leggere soltanto la prefazione e la conclusione del libro per capirne il senso più profondo. Nella prefazione al Tractatus Wittgenstein poteva scrivere: «Tutto il senso del libro si potrebbe riassumere nelle parole: Quanto può dirsi, si può dir chiaro; su ciò di cui non si può parlare si deve tacere». Come si vede, nella conclusione del libro si ripete la stessa affermazione letterale della prefazione, segno chiaro della delimitazione del dominio della parola all'ambito dei fatti del mondo.

Da un esame della Conferenza sull'etica, tenuta da Wittgenstein nel 1929 a Cambridge, si può desumere il punto di vista del filosofo sulla religione, che è rimasto sostanzialmente immutato nel corso degli anni. Etica e religione si equivalgono. Lo sbocco ultimo di entrambe rimane il silenzio; «le nostre parole usate come noi le usiamo nella scienza, sono strumenti capaci solo di contenere e di trasmettere senso e significato, senso e significato naturali» (Lezioni e conversazioni, p. 11). Da questo ambito di senso rimane fuori la domanda religiosa più decisiva: «Che so di Dio e del fine della vita» (Quaderni 1914-1916, p. 173). Siamo nel dominio dell'inesprimibile, sapendo, però, che «Quando non ci si studia di esprimere l'inesprimibile, allora niente va perduto. Ma l'inesprimibile è - ineffabilmente - contenuto in ciò che si è espresso» (Lettere di Ludwig Wittgenstein, 1970, p. 7).

L'etica e la religione, pertanto, non possono essere comunicate, perché le parole possono comunicare solo fatti, mentre esse riguardano, invece, un campo dell'esperienza altro dal mondo dei fatti. Le stesse espressioni dell'etica e della religione non sono descrivibili in termini fattuali, si può solo tentare di spiegare il "che cosa abbiamo in mente" e "il che cosa cerchiamo di esprimere" quando usiamo queste espressioni. Con esse si cerca « di andare al di là del mondo , ossia al di là del linguaggio significante». Eppure, osserva il filosofo, «un certo caratteristico uso errato della nostra lingua percorre tutte le espressioni etiche e religiose» ( Lezioni e conversazioni , pp. 14-15). Dietro questo uso distorto della lingua, il filosofo vede lo sforzo di avventarsi disperatamente contro «le pareti della nostra gabbia», che sono i limiti del linguaggio (ibidem , p. 18). Rompere i limiti del linguaggio significherebbe aprirsi un varco nell'indicibile, proiettandosi proprio nel campo dell'etica e della religione.

Di qui la necessità di rivendicare per l'etica e la religione un diverso statuto rispetto alle scienze empiriche. Né l'etica, né la religione possono essere scienza; esse sorgono «dal desiderio di dire qualcosa sul significato ultimo della vita, il bene assoluto, l'assoluto valore» e sono solo «documento di una tendenza nell'animo umano» (ibidem, pp. 18-19). Di fronte all'etica e alla religione «Posso solamente dire "Non mi prendo gioco di questa tendenza umana, mi levo il cappello di fronte ad essa". E qui è essenziale il fatto che non è una descrizione sociologica, ma che io parlo per me stesso ». Rimane ferma nel filosofo la convinzione, a cui non sarebbe venuto mai meno, che, dopo tutto, «i fatti per me non sono importanti. Ma a me sta a cuore quel che intendono gli uomini quando dicono che "il mondo c'è"» (ibidem, p. 40).

L'etica, in quanto tale, appartiene all'area del "mistico", ma nello stesso tempo essa è oggetto anche delle scienze umane. Da una parte, l'etica è una "forma di vita" e, perciò, irriducibile ad ogni fondazione e definizione razionale; dall'altra, come qualsiasi "oggetto di ricerca", si presta a una descrizione. Una teoria etica, comunque, non potrebbe mai essere dello stesso genere di una teoria delle scienze naturali. Rispetto a una teoria collegata a fatti o fenomeni propri delle scienze empiriche, quella etica ha una sua "trascendenza" riguardo al mondo e ai limiti del linguaggio. È questa, in fondo, la concezione dell'etica soggiacente al Tractatus , mentre nelle Ricerche si rivendica per l'etica, come per ogni altra "forma di vita", una grammatica specifica. Questo passaggio è attestato nella Conferenza sull'etica nel momento in cui si esplicita una medesima ispirazione rispetto al Tractatus , mentre il procedimento d'analisi seguito è quello che sarebbe stato formalizzato nelle Ricerche . Così, ad una interrogazione sulla natura dell'etica, Wittgenstein considera la questione improponibile e si ferma, invece, a presentare e ad analizzare dei casi significativi, che possano servire a chiarire le espressioni etiche più comuni.

Se questo è il procedimento di chiarificazione a cui sottoporre le espressioni etiche, lo è anche di quelle religiose. Sul piano filosofico ne consegue da qui l'abbandono di ogni pretesa di verità, o di falsità, a favore di una attività di semplice descrizione. Non si può entrare nel merito dei fatti etici e religiosi, essi possono solo essere descritti nelle azioni degli uomini, in ciò che essi dicono o fanno. La perdita del valore di verità è solo in via di principio, perché, di fatto, Wittgenstein sospende su di essi qualsiasi giudizio. Seguendo questo criterio, la verità delle affermazioni etiche e religiose viene ritrovata dal filosofo nell'agente, nell'uomo, cioè, che, credendo in certe cose, agisce in un certo modo, modellando il suo comportamento sulla credenza a cui fa riferimento. Non si dà una credenza che non si realizzi nell'esistenza del credente. Da qui prende forma il senso dell'interrogazione religiosa, che avrebbe portato il filosofo a riproporre la religione come risposta a quegli interrogativi decisivi dell'uomo, non diversamente risolvibili rimanendo nell'ambito dei fatti del mondo. Ma questi interrogativi non sono affatto astratti, perché chiamano in causa la vita stessa del credente, coinvolta, com'è, nell'avventura di una continua ricerca.

 

IV. Wittgenstein pensatore religioso

La ricerca religiosa, che intraprende nel corso degli anni, e la coscienza della posizione difficile nella quale si trova in ragione di questa ricerca, portano il filosofo a dare di sé l'immagine di un uomo assai incerto e vulnerabile, incapace di assumere una decisione definitiva, senza far dipendere dalle circostanze, favorevoli o meno, l'esito del suo percorso nella fede. «Io mi sento proprio come un cavaliere maldestro sul cavallo: se il cavallo è ben disposto, va bene, appena però il cavallo si fa inquieto, lui diventa insicuro, si accorge della sua insicurezza, e di dipendere completamente dal cavallo» (Movimenti del pensiero , p. 102). Parlando del pensatore religioso, e quindi di se stesso, dirà che questi «è come un funambolo che cammina, si direbbe, quasi soltanto sull'aria. Il suo terreno è il più stretto che si possa immaginare, eppure rimane possibile camminarvi sopra davvero» (Pensieri diversi , p. 135). Aver riconosciuto il sentiero stretto, nel quale si muove il pensatore religioso, non significa per il filosofo essere riuscito ad attraversarlo. Egli è come uno che cammina e sperimenta la fatica del camminare, perché non vede all'orizzonte il raggiungimento di una qualsiasi meta, che metta fine al suo viaggio. Non per questo, però, rinuncia alla sua ricerca, che si esplicita, invece, in due diverse direzioni: su un piano personale, come ricerca di una risposta a interrogativi esistenziali, sempre presenti alla sua coscienza, e su un piano più generale, come ricerca di una definizione della logica dell'etica e della religione. Nel suo svolgersi questa ricerca assume i caratteri di una vera e propria ricerca religiosa, che si apre al confronto con la tradizione religiosa di provenienza, con il retaggio dell'educazione cattolica ricevuta e con altre esperienze religiose dell'Oriente, prima fra tutte quella di Tagore (1861-1941).

Rimane, però, costante nel filosofo, nel corso degli anni, un desiderio di salvezza, che solo un Dio, non un uomo, può realizzare. E qui Wittgenstein vede la sua salvezza approssimarsi nell'incontro con Cristo il Salvatore, ben consapevole che Cristo, proprio perché Salvatore, non può non essere Dio. La salvezza che egli si attende è qualcosa che deve venire da Dio. «Tu non puoi, - dirà a se stesso -, chiamare Cristo il Salvatore, senza chiamarlo Dio. Perché un uomo non ti può salvare» (Movimenti del pensiero , p. 69). In realtà, tutta la sua filosofia si caratterizza come ricerca della "parola salvifica" (das erlösende Wort). Nell'attesa della salvezza, Wittgenstein può liberare il campo dagli impedimenti che potrebbero ostacolarne l'azione. Da una parte c'è la sua lotta contro il cattivo uso del linguaggio, che si manifesta in ogni ambito del sapere, non escluso quello etico e religioso; dall'altra la rivendicazione per sé del ritrovamento di una parola che lo possa liberare dalle false evidenze, nelle quali si incorre, quando si restringe l'orizzonte del senso al mondo fattuale. Ecco perché il "mettere ordine" nei pensieri e nelle parole, riferito alla credenza religiosa, costituisce lo "spazio" religioso possibile, entro cui il filosofo porta la sua riflessione al di là del linguaggio stesso. Sotto questo aspetto lo stesso "gioco linguistico" diventa ciò che può dare al "mistico" il suo proprio riconoscimento, come attestazione di un mondo non diversamente afferrabile.

Sul piano di una riflessione religiosa, oltre che filosofica naturalmente, il guadagno teoretico è evidente. Wittgenstein ha svuotato dal di dentro il programma del Circolo di Vienna , e finendo così per esercitare una profonda influenza sullo stesso pensiero religioso, che si è potuto giovare dei risultati del suo lavoro. Egli può essere considerato, a ragione, come il pensatore che ha aperto nuove vie di riflessione al pensiero religioso, dopo che il neopositivismo era arrivato a una forma di "ateismo semantico". Di Dio, così si affermava, non si poteva nemmeno parlare, perché la stessa parola "Dio" era costituita da tre lettere messe a casaccio. Era questa la conclusione di Carnap (1891-1970), su cui concordavano i maggiori rappresentanti del neopositivismo, che nei primi anni venti si riunivano a Vienna, dando vita al movimento del Circolo di Vienna . Contro la filosofia del "Circolo", il pensiero religioso aveva dovuto fronteggiare una sfida decisiva, al cui buon esito non fu estranea la ricerca di Wittgenstein stesso. La filosofia delCircolo di Vienna era chiaramente ostile ad ogni forma di religione. La stessa esperienza religiosa era considerata come un residuo del passato, un non-senso, un materiale per lo psicanalista, come, negli anni trenta, avrebbe detto Alfred J. Ayer (1910-1989), un neopositivista inglese. La riflessione wittgensteiniana va collocata in questo contesto come superamento della filosofia viennese e come ricerca di un nuovo statuto per l'etica e per la religione.

La religione, di cui Wittgenstein si fa portavoce, è una religione mistica, che rivendica una fede assoluta, senza aver dietro nessuna prova di tipo empirico e scoraggiando, piuttosto, chiunque avesse voluto fondare una religione su una qualche prova, che non fosse basata sulla testimonianza. Una qualsiasi prova, diversa da questa, ammesso che ci fosse stata, non avrebbe avuto alcun significato probante, perché sarebbe rimasta fuori da ciò che costituisce la fede in senso stretto. Questa, scriverà Wittgenstein nel 1946, si colloca a un livello molto profondo e resiste ad ogni sommovimento, «è per così dire il fondale marino più profondo e calmo, che rimane tranquillo per quante alte siano le onde in superficie» (Pensieri diversi, p. 101). Sulla scia di questa lezione wittgensteiniana la descrizione delle diverse affermazioni religiose, a cui è chiamato il pensiero religioso, potrà far conoscere i tanti "segni" religiosi, vere tracce di Dio, di cui è intessuta l'esperienza dell'uomo. Ciò vale, soprattutto, per tutto ciò che si pone come l'al di là del mondo dell'esperienza empirica. La fede, dirà il filosofo, ripetendo Kierkegaard (1813-1855), è una passione, un atteggiamento, nei riguardi di se stesso, del mondo e di Dio, immotivato, ma del quale non si potrà mai farne a meno. Non è che manchi la prova, solo che questa appartiene a un ambito assolutamente diverso rispetto al mondo dei fatti. La fede esige uno sconfinamento.

Molteplici sono le tracce, disseminate nei suoi scritti, come pure nella sua biografia, che conducono ad affermare che Wittgenstein è, dopo tutto, un pensatore religioso, aperto alla trascendenza. Queste tracce, ricomposte e lette insieme, restituiscono l'immagine di un uomo e di un filosofo, che, pur attraversato da mille dubbi e incertezze, segue una sua strada che lo porterà a cercare e, forse, anche a trovare Dio. Il silenzio su ciò che costituisce il "mistico" è solo uno degli indizi, e certamente non il più importante, che possono condurre a una interpretazione religiosa del filosofo. C'è il riconoscimento di un mondo di valori, un desiderio di salvezza, che delimitano di fatto un ambito di riflessione aperto alla trascendenza. Dopo tutto, secondo Wittgenstein, credere in Dio significa comprendere che la vita ha un senso, che c'è qualcosa di assolutamente altro al di là del mondo della fattualità. Mediante la credenza in Dio si può finalmente comprendere la questione del senso della vita. Tutto il resto, che si configura come lo spazio entro cui si dà all'uomo un Dio personale, è per Wittgenstein nebuloso e incerto. Su questo piano il filosofo si mantiene in attesa di un incontro decisivo.

Una professione di fede - egli sostiene - non può fondarsi su basi razionali. Per quanto una credenza religiosa, si pensi alla resurrezione di Cristo o al giudizio finale, possa condizionare la vita di un uomo, essa non può essere giustificata razionalmente. Se si vuole capire il senso di una credenza religiosa, è questa la lezione di Wittgenstein, bisogna cercarlo nell'agire stesso del credente, in tutto quello che egli dice e fa. È questo, in definitiva, il criterio ultimo di ogni fede religiosa ed esigere dal credente di testimoniare nelle scelte della sua vita il suo credo religioso è un'esigenza ineludibile da parte del credente stesso, oltre che di chiunque voglia comprenderne la sua significatività. «Qualunque cosa ci possa essere di vero o di falso nel Nuovo Testamento, una cosa non può essere messa in dubbio: che io per vivere giustamente dovrei vivere in maniera del tutto diversa da come mi piace. Che la vita è molto più seria di quanto appaia in superficie. La vita è di una tremenda serietà» (Movimenti del pensiero, p. 78).

Wittgenstein respinge, dunque, ogni tentativo di razionalizzazione della fede religiosa. Testi sacri, misteri, concezioni, riti della religione cristiana sono passati da Wittgenstein al vaglio di una coscienza critica, che ha sempre rivendicato per la fede religiosa non un fondamento di tipo scientifico, o causale, ma il carattere della passione, come di qualcosa che si colloca al di là del fatto puramente empirico. La ricerca e la formulazione di prove empiriche tendenti a dimostrare l'esistenza di Dio o il suo agire nel mondo è una operazione vana. Queste prove, ammesso che potessero esserci, non avrebbero potuto dimostrare nulla. «Una volta - scrive Malcolm - quando gli citai un'osservazione di Kierkegaard: "Come può essere che Cristo non esista, se io so che mi ha salvato?", Wittgenstein esclamò: "Vedi! Non si tratta di provare un bel nulla"» (Malcom, 1964, p. 99). Da qui l'aspra polemica condotta contro padre O'Hara, un gesuita, che, secondo Wittgenstein, faceva erroneamente della credenza religiosa una questione di scienza, tentando di razionalizzare la verità del cristianesimo, quando, in realtà, il cristianesimo non è affatto razionalizzabile. Perciò «Chiunque legga le Epistole troverà scritto: non solo non è ragionevole, ma è follia. [.] Quel che mi sembra ridicolo in O'Hara è la sua volontà di farlo apparire ragionevole» (Lezioni e conversazioni , p. 151). Rimane ferma la convinzione, espressa più volte dal filosofo, che, dopo tutto, «il cristianesimo dice propriamente: lascia cadere ogni intelligenza» (Movimenti del pensiero, p. 64).

La soluzione intravista da Wittgenstein va nella direzione dell'accettazione di una fede del cuore, piuttosto che di una fede della ragione. «Con la parola "credere" nella religione, scrive il filosofo, si è fatta una tremenda quantità di danni. Tutti quei pensieri intricati sul "paradosso", sul significato eterno di un fatto storico e simili. Se tu però invece di "fede in Cristo" dici: "amore per Cristo" il paradosso scompare, cioè l'irritazione dell'intelletto. Cosa ha a che fare la religione con un simile solletico dell'intelletto?» (ibidem, p. 104). Piuttosto, il credente deve lasciarsi guidare da una altra "luce" e seguire un'altra vita: «questa vita deve, per così dire, tenerti sospeso su questa terra; cioè quando vai sulla terra non poggi più sulla terra, ma sei sospeso in cielo; sei tenuto su dall' alto, non sorretto dal basso. - Questa vita però è l'amore, l'amore umano per colui che è perfetto. E questa è la fede» (ibidem, p. 102).

 

V. Dall'interrogazione all'invocazione

La frammentarietà e la contraddittorietà dei tanti riferimenti di tipo religioso, sparsi nelle opere di Wittgenstein, non consentono di delineare, a partire da essi, un sicuro itinerario verso uno sbocco decisamente religioso e facilmente identificabile. Piuttosto la posizione del filosofo nei riguardi della religione sembra esplicitarsi nella forma di una continua interrogazione, durata tutta la vita, sulla religione in generale e sulla religione cristiana in particolare. Nessuno aspetto della credenza religiosa viene risparmiato. Il filosofo, nella sua lunga interrogazione, non arretra nemmeno di fronte al mistero cristiano, al quale si avvicina con grande rispetto. C'è il mistero dell'incarnazione, c'è il mistero dell'Eucaristia, il mistero della resurrezione di Cristo, ci sono altri misteri della fede cristiana, che attirano l'interesse di Wittgenstein, perché gli indicano lo spazio entro cui si colloca la credenza cristiana.

Attraverso questa interrogazione, il filosofo si propose di comprendere il significato della religione e di estenderne i confini, quasi per dare voce a quell'inesprimibile, di cui ne avvertiva e ne riconosceva l'esistenza, e per delimitare lo spazio di senso, entro cui l'interrogazione stessa potesse essere posta e riproposta. L'interrogazione, però, è solo il primo momento della sua ricerca di Dio, perché ad essa segue un secondo momento, più personale e meno problematico, quello dell'invocazione. Ed è proprio l'invocazione a costituire lo spazio religioso possibile, che è reso, perciò, pienamente legittimo e significativo dal filosofo. L'ultima parola di ogni credenza religiosa rimane il grido accorato dell'invocazione. Le dottrine non sono poi così importanti e decisive. L'invocazione costituisce così la soglia su cui si attesta il filosofo; ma ad essa vi giunge attraverso un'interrogazione, che sposta sempre più in avanti l'orizzonte della significatività dell'esperienza religiosa. Non è, tuttavia, un'invocazione generica ad una divinità astratta, perché si riferisce, di fatto, ad una religione storica particolare, al cristianesimo nella fattispecie, di cui il filosofo conosce il corpus dottrinale, la storia e ne comprende le ragioni.

Problemi come l'esistenza di Dio, l'idea, per lui terrificante, di un Dio giudice, il peccato, la predestinazione, il valore della Scrittura, la salvezza, il significato del cristianesimo, la fede religiosa, così presenti nelle pagine dei suoi tanti diari, si trasformano, di volta in volta, in interrogativi accorati, che trasudano angoscia e disperazione, ma anche desiderio di salvezza. Dalla risoluzione di questi interrogativi si attende risposte certe, attestandosi su una linea di riflessione inquieta, dove si incontrano pensatori come Pascal e Kierkegaard e romanzieri come Tolstoj e Dostoevskij.

Sono interrogativi che rilevano i grandi problemi della fede cristiana. Ad essi il filosofo si accosta con grande rispetto, senza voler a tutti i costi demolirne le residue certezze, alle quali si affidano i veri credenti. Lui stesso avvicinandosi al mistero cristiano ne scandaglia le profondità per riaffermare, ancora una volta, la certezza della fede che egli ricerca nella religione cristiana e alla quale vorrebbe abbandonarsi, se solo gli fosse stato possibile. Egli, pur attraversato dal dubbio e dall'incertezza, aspirava alla ricerca di una verità, che potesse dare senso alla sua vita. Soprattutto nelle opere più autobiografiche viene fuori una immagine del filosofo assai diversa: un uomo che non aggira la problematica religiosa, ma vi si immerge dentro, tentando di riportarla alla luce dal "sottosuolo" dell'esistenza, come solo un assiduo lettore di Dostoevskij, come Wittgenstein, poteva fare.

Già dalle pagine dei Diari segreti emerge il profilo di un Wittgenstein inquieto, tormentato, ossessionato, disperato e pronto al suicidio, incapace di entrare in relazione con gli altri, chiuso in se stesso. Solo l'invocazione a Dio può rasserenarlo, tenendolo lontano dal suicidio, idea sempre ricorrente, a cui pensa come soluzione finale all'incapacità di vivere, a quella che egli chiama "indecenza" (Unanständigkeit). Nella difficile condizione, in cui si viene a trovare, al filosofo non rimane altro che confidare in Dio e fare la sua volontà. Egli è sicuro che con Dio accanto non gli accadrà alcun male, perché Dio lo risparmierà da ogni pericolo e da ogni paura. È da questa consapevolezza, maturata negli anni trascorsi sul fronte di guerra, che il filosofo sarà portato a sottolineare l'aspetto della sicurezza, proprio della religione cristiana. Egli scriverà che questa «è solo per colui che ha estremo bisogno di aiuto e dunque solo per chi prova un estremo sconforto [.]. La fede cristiana - così io penso - è il rifugiarsi in questo supremo bisogno di aiuto. Chi, invece di chiudersi in se stesso, in una situazione siffatta, riesce ad aprire il suo cuore, accoglie il rimedio nel suo cuore». Ma aprendosi a Dio, si finisce per aprirsi anche agli altri, perché «lo sconforto più grande è quello di un uomo che si sente perduto» (Pensieri diversi, pp. 88-89). La biografia del filosofo può confermare come questa convinzione fosse tanto radicata ed esprimesse il desiderio profondo di una fede, che egli si affannava a cercare, senza poterla raggiungere a pieno e in via definitiva.

Ed è qui che Wittgenstein recupera uno spazio per l'invocazione: di Dio non si può parlare, ma, interrogandolo, lo si può invocare. Solo dopo averlo invocato sarà, forse, possibile parlare di lui, ma ciò avverrà nel contesto di un'esperienza significativa, che non ha nulla a che fare con dimostrazioni di tipo razionale. Secondo il filosofo, dalla religione cristiana si doveva eliminare, per questo, ogni riferimento a ogni dottrina particolare per attestarsi sul piano della sola invocazione, la sola forma di espressione religiosa, che egli poteva comprendere e accettare. La religione cristiana, egli dirà, «non è una dottrina, non è una teoria di ciò che è stato e sarà dell'anima umana, ma una descrizione di un evento reale nella vita dell'uomo. Infatti, il riconoscimento del peccato è un evento reale, e la disperazione pure e così anche la redenzione mediante la fede» (ibidem, p. 28). Sotto questo aspetto, la stessa verità storica della religione cristiana diventa meno importante. Il fatto che il cristianesimo riposi su una base storica non è da intendersi come se si trattasse di una normale credenza, perché «abbiamo qui una credenza nei fatti storici diversa da una credenza nei fatti storici normali» (Lezioni e conversazioni, p. 150) Il punto decisivo rimane il "salto della fede", mediante il quale "fatti storici normali" vengono assunti come fatti straordinariamente diversi.

La religione cristiana sarebbe, in questo contesto, l'espressione personale di un atteggiamento determinato da un evento, la resurrezione di Cristo, del quale non si ricerca affatto la sua storicità, ma che interpella l'uomo e lo chiama alla fede. Banco di prova di questo atteggiamento rimane sempre la vita del credente e le scelte che egli fa, mai una teoria. Per Wittgenstein, "credere in Dio" non significava credere in una dottrina, quanto soprattutto adottare una condotta religiosa di vita. E, in questo senso, egli era certamente un credente. «Se tu ed io vogliamo vivere una vita religiosa - aveva ripetuto più volte Wittgenstein all'amico Drury - non è che si debba parlare di religione, ma è il nostro modo di vivere che dev'essere diverso» (Ludwig Wittgenstein: Personal Recollections, 1981, p. 114).

 

VI. La fede come passione

Wittgenstein, dopo una lunga e difficile ricerca, non sempre lineare, approda a una forma di fede religiosa "personale", non ancora chiaramente definita, nella quale sono riconoscibili alcuni degli aspetti caratterizzanti la religione cristiana, ma non tutti. Questo esito, quanto ai risultati raggiunti, non può essere, perciò, del tutto soddisfacente per il credente, anche se si tratta, comunque, di un serio tentativo di trovare un fondamento alla fede cristiana. In realtà, il contributo del filosofo, pur con questi limiti, rimane assai significativo: egli ha voluto dare una descrizione della religione, che ne potesse salvaguardare la sua significatività in un ambito di discorso, delimitato dal neoempirismo viennese, ma già compromesso dalle critiche ricevute. Da qui la sua insistenza nell'affermare che l'idea dell'esistenza di Dio, come ogni altra cosa che non attiene al mondo dei fatti, non può essere provata scientificamente, ma può essere solo vissuta ed è proprio la vita a costituire il suo banco di prova. «Il modo in cui usi la parola "Dio" non mostra chi - ma che cosa tu intenda» (Pensieri diversi, p. 97). Perciò l'unica vera prova è data dalla testimonianza di colui che crede. Ogni discorso, anche quello religioso, «acquista il suo senso solo dal resto delle nostre azioni» (Della certezza, p. 37). L'invito del filosofo è «di pensare sempre alla prassi» (ibidem, p. 98) come al criterio ultimo di verifica, perché è proprio la prassi che dà alle singole parole il loro senso. Qui, seguendo la lezione delle Ricerche filosofiche, l'uso del linguaggio diventa il criterio di senso.

Basterebbero già questi pochi elementi, soprattutto il richiamo alla testimonianza come criterio di verità, per caratterizzare Wittgenstein come un pensatore religioso. Ma c'è ancora di più. Tutta la riflessione religiosa del filosofo può essere vista, infatti, sotto il segno del ritrovamento di una fede, della quale egli si fa portavoce, una fede che costituisce l'uomo nella sua interiorità e alla quale egli si affida, sicuro di vivere nella certezza e di non temere alcuna paura. Da parte sua, riconosce che la sua fede è debole, mentre «un essere che ha un legame con Dio è forte» (Movimenti del pensiero, p. 35). L'interrogare, iniziato negli anni 1914-16 all'epoca della stesura dei Quaderni, trova nella fede come passione la risposta ai suoi interrogativi, posti più volte, sul senso della vita. Ciò che prima rimaneva sullo sfondo dell'esistenza del filosofo come "desiderio" di un "orientamento" sulla vita e su Dio diventa ora la "parola salvatrice", alla quale Wittgenstein non vuole rinunciare. Egli sa che «la fede è una grazia» (ibidem , p. 92).

La religione non può mai motivare le sue ragioni: può solo dire all'individuo: «"Fa' questo! Pensa così!" - ma non può motivarlo, e se appena tenta di farlo, subito ci ripugna; poiché, per ogni ragione che essa adduce, vi è una valida ragione contraria. È più convincente dire: "Pensa così - per quanto strano ti possa sembrare". Oppure: "Non vorresti far questo? - per quanto ripugnante sia"» (Pensieri diversi , p. 62). La fede diventa un appello a diventare testimoni di verità; un appello a cui non ci si può sottrarre; né si può pensare di rendere la fede più salda ancorandola a una qualche prova, che rimane, comunque, sempre inconsistente e precaria. La sapienza di questo mondo, afferma il filosofo, è sogno, mentre la fede è amore. Dovendo scegliere tra una sapienza, che è sogno, e una fede, che è amore, Wittgenstein non aveva dubbi: la sua scelta cadeva inevitabilmente sulla seconda alternativa. La fede si pone, soprattutto, come amore, non come ragione.

Il ricorso alla fede come passione costituisce lo sbocco inevitabile di un pensiero, come quello wittgensteiniano, che non rinuncia affatto alla trascendenza, ma vi giunge per vie traverse. Il filosofo alla fede cristiana chiede, soprattutto, la certezza; una certezza, però, che, più che parlare alla ragione, possa parlare al cuore del credente. Lo scotto pagato è assai alto, è una fede senza condizioni, una fede che non ricerca alcuna ragionevolezza. La fede religiosa è un "confidare" e non può nascere dalla paura, mentre la superstizione «scaturisce dal timore ed è una sorta di falsa scienza» (ibidem, p. 132). La fede, a cui giunge Wittgenstein, costituisce lo sfondo che dà significato ad ogni religione e, quindi, anche, alla religione cristiana, ma è una fede assurda, che non ha delle ragioni plausibili da presentare o da rivendicare. Anche a motivo del diverso accento posto sulla nozione di ragione, la sua prospettiva non può attribuire ad essa un ruolo significativo nell'opzione della fede, come avviene invece nella abituale prospettiva cattolica circa i rapporti fra fede e ragione, sebbene la sua linea di pensiero non sia estranea a quella di altri autori cristiani. In sostanza, il credente deve prendere atto della "paradossalità" della sua fede.

È assai significativo, a questo riguardo, un testo wittgensteiniano, risalente al 1937, nel quale il filosofo si interroga sulla resurrezione di Gesù Cristo, verità nella quale riconosce, sorprendentemente, di credere. Il senso della domanda ruota attorno alla distinzione paolina tra la sapienza umana e la sapienza della fede, basata sul presupposto della vacuità della sapienza umana rispetto agli orizzonti dischiusi dalla fede. «Che cosa porta anche me ad avere fede nella resurrezione di Cristo», se non la forza della fede, dopo che ogni argomento dimostrativo si rivela improprio ad attingere il significato profondo della resurrezione? (cfr.Pensieri diversi, p. 68).

La fede nella resurrezione fa parte allora della professione religiosa del filosofo, tanto da coinvolgerlo su un piano esistenziale. Egli è convinto che, senza la resurrezione, Gesù sarebbe "morto" e "putrefatto" e di lui, di conseguenza, rimarrebbe solo un messaggio di tipo morale, come di un qualsiasi maestro dell'antichità, ma non potrebbe mai essere di alcun aiuto per l'uomo. Sarebbe una eventualità terribile per Wittgenstein non credere nella resurrezione. Distanziandosi tuttavia dalla comprensione cristiana della resurrezione di Gesù, Wittgenstein sostiene che la dimostrazione storica non ha nulla a che fare con la fede, tanto da spingerlo ad affermare che «i resoconti storici del Vangelo potrebbero, se intesi nel senso della storia, essere dimostrabilmente falsi, e tuttavia la fede non ci perderebbe nulla» (ibidem , p. 67). L'uomo, afferma il filosofo, ha bisogno di certezza e questa gli viene vivendo nella fede; ed è qui che inizia la sua redenzione. Perché «se devo essere veramente redento , allora ho bisogno di certezza - non di sapienza, sogni, speculazione - e questa certezza è la fede». Questa fede, però, non ha bisogno di parole per essere espressa: essa «è fede in ciò di cui ha bisogno il mio cuore , la mia anima , non il mio intelletto speculativo. Perché è la mia anima, con le sue passioni, quasi con la sua carne e il sangue, che deve essere redenta, non il mio spirito astratto». Detto in altri termini, «soltanto l' amore può credere alla resurrezione. Oppure è l' amore che crede alla resurrezione» (ibidem , p. 68).

È su questo piano, d'altra parte, che si gioca il destino di una fede religiosa: «È come se qualcuno mi mostrasse, da un lato, la mia condizione disperata, dall'altro mi offrisse uno strumento di salvezza fino a che, spontaneamente o comunque certo senza esser preso per mano dall'istruttore, io mi precipiti su di esso e lo afferri» (ibidem, p. 120).

L'orizzonte dischiuso da una fede così radicale non rappresenta necessariamente per il credente, e per lo stesso filosofo, la fine del dubbio e dell'incertezza e l'inizio del tempo delle certezze. Rimane, dopo tutto, la convinzione di fondo che «la saggezza è qualcosa di freddo e, perciò, di stupido. La fede, invece, è una passione» (ibidem, p. 107) o anche che «la saggezza è grigia. Ma la vita e la religione sono piene di colori» (ibidem, p . 117). Rimanendo su questa linea di riflessione, «mi viene da pensare - afferma Wittgenstein - che una fede religiosa possa essere solo qualcosa come un appassionato decidersi per un sistema di riferimento. Dunque, benché sia una fede, è anche un modo di vivere, di giudicare la vita. È un modo appassionato di adottare una certa concezione» (ibidem, p. 120).

 

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