I. Nozione di Dio e problema di Dio - II. La domanda su Dio nel contesto delle scienze naturali - III. Possibilità di un discorso su Dio significativo per la razionalità scientifica - IV. L'immagine del Dio che si è rivelato in Gesù Cristo: i suoi rapporti con la questione su Dio posta dalla filosofia e dalle scienze.
I. Nozione di Dio e problema di Dio
1. Nozione di Dio e domande ultime. Nello sviluppo della cultura umana due questioni centrali si sono imposte alla ragione reclamandole una certa spiegazione: l'esistenza del mondo e l'emergenza dell'essere umano sul resto della realtà visibile. La riflessione filosofica e sapienziale su tali questioni ha dato origine a ciò che viene chiamato, rispettivamente, il problema cosmologico ed il problema antropologico. Nel primo, la ragione si chiede se il mondo abbia una causa che lo trascenda e quale sia questa causa; nel secondo, se la vita umana abbia un significato e sia portatrice di un progetto. Questi interrogativi vengono anche chiamati domande ultime, per indicare che in esse si cerca il senso e la ragione ultima delle cose. Sebbene nel corso del tempo tali domande abbiano assunto connotazioni diverse, nella loro sostanza si sono mantenute sorprendentemente invariate (esempi in Gaudium et spes, 10; Nostra aetate, 1; Fides et ratio, 1-4, 26-27). Questi due problemi sono legati ad un terzo, del quale rappresentano in certo modo l'accesso, e che viene indicato come il problema di Dio.
L'analisi filologica e semantica dei termini «Dio» o «divino, divinità» non fornisce particolari indicazioni in quanto si tratta di nomi comuni, mentre nelle culture e nelle religioni vengono utilizzati principalmente e originariamente nomi propri di Dio. L'etimo del greco Theós non è ben conosciuto. Vi sono deboli indizi che la parola Dio (lat. Deus, divinus) derivi da una radice indoeuropea dyeuh (luce del giorno oppure cielo, come nel latino dies), mentre la parola God o Gott pare collegata a hud (adorare). La nozione di Dio si incontra associata, come osservato, alla ricerca di una risposta alle domande ultime sul mondo e sull'uomo, ma non può ritenersi frutto delle manifestazioni più elevate di pensiero. Essa, infatti, non riguarda solo una conoscenza riflessa (filosofia speculativa), ma anche una conoscenza basata su esperienze esistenziali semplici (filosofia pratica, religione). In ogni caso, il riferimento a Dio e al divino è presente lungo lo sviluppo di tutta la cultura umana, facendone una costante antropologica fondamentale. Di fatto, la possibilità di un discorso filosofico o teologico su Dio rimanda sempre ad una certa precomprensione dell'idea di Dio, quasi una nozione verso la quale il pensiero umano si troverebbe naturalmente predisposto. Anche Tommaso d'Aquino pare alludere a questa conoscenza del tutto generale, senza però discutere la sua origine, quando espone l'itinerario filosofico delle sue celebri cinque vie, che si concludono con le affermazioni: «e questo tutti chiamano Dio»: intelligunt (prima), nominant (seconda), dicunt o dicimus Deum (terza, quarta e quinta) (cfr. Summa theologiae, I, q. 2, a. 3 e a. 2, ad 2um).
In ambito religioso-esistenziale, la nozione di Dio compare con la percezione della coscienza morale, con l'esperienza del limite e della dipendenza; in ambito filosofico, vi si accede come esercizio riflesso della ragione. Nel primo ambito essa vi cerca un appoggio concettuale per dirigersi dialogicamente ad un Essere supremo e personale, mentre nel secondo ambito, l'accesso a tale carattere presenta maggiori difficoltà. La religione si dirige verso l'idea di Dio principalmente attraverso le categorie del sacro e della trascendenza, quella di mistero (orizzonte di conoscenza e di vita superiori), attraverso la ricerca di risposte alle domande di senso e la speranza in una giustizia remuneratrice; la filosofia vi accede preferenzialmente attraverso le categorie di Assoluto, di Incondizionato, di razionalità ordinatrice, con il tentativo di mettere a tema i problemi dell'origine e del fine, dell'intero e del fondamento, e infine con la sua riflessione sulla libertà e la responsabilità ad essa collegata. Ne deriva una certa varietà di “immagini di Dio”, che coesistono con molteplicità non contraddittoria, ma il cui discernimento si rende necessario al fine del dibattito con le scienze perché, in buona misura, ne ha condizionato storicamente gli esiti.
2. Dio, oggetto della religione, della filosofia e della Rivelazione. In entrambi gli ambiti, religioso e filosofico, l'idea del divino prende avvio dall'esperienza dello stupore e della meraviglia (cfr. Platone, Teeteto, 155d; Aristotele, Metafisica, I, 2), che stimola la conoscenza filosofica ed introduce al mysterium tremendum et fascinans dell'esperienza religiosa. Ogni domanda su Dio è filosofica e religiosa al tempo stesso. Nell'accademia platonica, la ricerca filosofica della verità non era disgiunta dalla pratica religiosa della giustizia e del bene. Di fatto il pensiero religioso ha preceduto quello filosofico e lo ha nutrito continuamente con le sue categorie e le sue motivazioni. Una categoria come quella della trascendenza, ad esempio, scaturisce da un'esperienza di tipo religioso, senza la quale il pensiero filosofico non potrebbe neanche tematizzarla. Le domande ultime di cui la filosofia si occupa criticamente sono di fatto domande alle quali le religioni dell'umanità avevano cercato anch'esse di dare risposta. Il nome di Dio non è solo oggetto di speculazione teoretica, ma anche di invocazione. Esprime il luogo di un “legame” (re-ligo) fra l'uomo e quel fondamento che egli cerca come risposta alle sue domande esistenziali. Il tema dell'accesso all'Assoluto coinvolge pertanto tutte le dimensioni della persona umana, non solo il suo intelletto, ma anche la sua libertà-responsabilità, e quindi investe anche il suo comportamento etico, le sue disposizioni psicologiche o morali. Un problema di Dio suscitato all'interno di una riflessione filosofica sul sapere scientifico, se colto coerentemente, dovrebbe interessare tutte quelle dimensioni.
Nella classicità greca la dimensione religiosa associata all'esercizio della filosofia non coincideva con quella dettata dalla religiosità popolare e si trovava spesso in conflitto con essa, sebbene ne mutuasse sovente il linguaggio. Se nel primo caso il rapporto col divino si esprimeva con un legame morale verso la ricerca della verità, nel secondo caso quel legame riguardava la sfera delle necessità esistenziali immediate, quella della vita vissuta e del sentimento. Una delle novità del cristianesimo fu quella di proporre nel Dio di Gesù Cristo un'immagine divina che avesse a che vedere sia con le ragioni della verità che con quelle della vita (cfr. Ratzinger, 1971, pp. 71-72). Una volta entrato in contatto col mondo greco-romano, il cristianesimo utilizzò come punto di partenza della propria predicazione l'accesso al divino tematizzato dalla filosofia e non il politeismo della religiosità popolare, riconoscendovi quelle garanzie di universalità e quel riferimento ad un cosmo sotto gli occhi di tutti (cfr. At 14,8-18; At 17,22-31), ritenuti necessari per un adeguato appello alla ragione.
Come la filosofia e la religione, anche la teologia — che nell'originaria accezione platonica indicava il discorso razionale su Dio e sul divino — ha un proprio discorso su Dio. Essa utilizza come fonte specifica un contenuto assolutamente unico, quello ricevuto da una comunicazione personale di Dio all'uomo. Nella tradizione giudeo-cristiana, questa comunicazione ha la forma di una Rivelazione storica e diviene fonte di categorie religiose e filosofiche inedite. Essa è caratterizzata, fin dalla creazione, dall'economia di una parola pronunciata da Dio e rivolta all'uomo. Si manifesta inizialmente come una rivelazione attraverso una parola cosmica (cfr. Gen 1,3.6.9; Sal 33,6.9); poi attraverso una parola di alleanza offerta ad un popolo eletto (cfr. Dt 4,7-40), la cui memoria storica verrà affidata al ministero profetico; poi, finalmente, grazie all'irrompere nella storia del Verbo stesso fatto uomo, cioè con l'incarnazione del Figlio di Dio. Sebbene ne riferiremo più estesamente in chiusura (vedi infra, IV), occorre già segnalare che il modo con cui la Rivelazione, e quindi la teologia, parlano di Dio presuppone la nozione di Dio cui l'uomo ha accesso attraverso l'esperienza religiosa ed attraverso la riflessione filosofica (cfr. Fides et ratio, 36, 43, 73, 77). Diversamente, l'intelligenza della parola rivelata ne verrebbe irrimediabilmente sfuocata. In termini più generali, la rivelazione storica del Dio di Israele giunta a compimento in Gesù Cristo, presuppone una conoscibilità di Dio (spontanea o riflessa) a partire dalla natura, perché la parola storica dell'alleanza e della salvezza presuppone una parola cosmica, o almeno si comprende in relazione ad essa.
3. Il pensiero filosofico di fronte all'Assoluto e le vie per una conoscenza naturale di Dio. Partendo dalle riflessioni suscitate dai problemi cosmologico e antropologico, il pensiero filosofico ha formulato lungo la storia alcune argomentazioni note come “dimostrazioni dell'esistenza di Dio”. Quelle che interessano l'ambito cosmologico muovono generalmente dalla necessità di fondare catene causali (origine del moto, passaggio dalla potenza all'atto, ecc.) per le quali si vuole evitare un regressum ad infinitum, oppure dalla ricerca di una soluzione al problema della contingenza (cercare un fondamento necessario a ciò che non lo è) o, infine, dalla necessità di spiegare l'origine dell'ordine e del finalismo osservati in natura. Quelle di ambito antropologico muovono dalla percezione della coscienza e della libertà individuali, che sottintendono imperativi morali di cui si cerca un'origine fuori dell'uomo, oppure dall'esperienza dell'autotrascendenza umana, che confrontata con gli altri esseri viventi reclama una spiegazione, o anche dalla ricerca di un garante morale per le proprie esigenze di giustizia e di verità o, infine, dal tentativo di non soccombere allo scandalo del male mediante il ricorso ad una logica superiore capace di darne ragione. Non essendo questa la sede per sviluppare o valutare criticamente queste o altre prove (riepiloghi e trattazioni in Alfaro, 1981; Gonzalez, 1988; Fabro, 1989) vogliamo qui solo accennare alcune suggestioni in rapporto al pensiero scientifico.
Uno dei motivi per cui la razionalità scientifica ha manifestato una certa perplessità nei loro confronti, causando spesso malintesi nei rapporti con la filosofia, riguarda l'utilizzo del termine «dimostrazione», che le scienze riservano a prove di carattere logico-formale collegate a fatti sperimentali. In realtà si è sempre trattato di “vie”, “argomenti” o “mostrazioni” non assimilabili alle dimostrazioni delle scienze esatte, sia per il ricorso a cammini di astrazione filosofica che richiedono di elevarsi verso una conoscenza che trascenda l'ordine del dato empirico, sia, soprattutto, per l'oggetto stesso, Dio appunto, che si incontrerebbe al termine dell'argomentazione. Non cogliere il passaggio che quasi tutte queste “vie” richiedono dal dato di esperienza (solitamente effetti causali) ad un fondamento che trascende l'esperienza, conduce spesso a travisarne il senso. Kant, che confinava la certezza della conoscenza al solo ambito della ragion pura, ritenne non si potesse concludere, a partire dall'esperienza, l'esistenza di qualcosa che la trascendeva.
Ad esempio, sarebbe erroneo interpretare la prima delle cinque vie proposte da Tommaso d'Aquino (cfr. Summa theologiae, I, q. 2, a. 3), che fa appello all'origine del moto come già in Aristotele (Metafisica, XII, 6), all'interno di categorie scientifico-sperimentali, come se si trattasse soltanto di un moto fisico: in questo caso l'origine del moto materiale coinvolgerebbe la fonte dell'energia e quindi la geometria dello spazio-tempo da cui essa ha origine, rendendo la catena causale difficilmente trattabile e poco intelligibile. Perché anche una mentalità scientifica possa cogliere come e dove avvenga il passaggio trascendente al di là della causalità sperimentale, andrebbe invece suggerito di notare come una catena di causalità efficiente confluisce prima o poi verso un interrogativo irriducibile su una causalità formale, cioè verso il “perché” le proprietà dello spazio-tempo o dell'energia che vi è associata sono proprio così e non altrimenti: questo secondo tipo di causalità fonda l'ambito empirico, ma non è giustificabile all'interno di esso.
La terza via suggerita da s. Tommaso, quella che prende le mosse dalla contingenza, richiede anch'essa un trascendimento; ma in questo caso, conduce a chiedersi non già “perché le cose sono in questo modo e non in un altro” (interrogativo sulla causalità formale), bensì semplicemente “perché, pur potendo non essere, le cose sono” (interrogativo sulla contingenza). Il passaggio non presenta ambiguità in rapporto al pensiero scientifico, in quanto individua un ambito di riflessione che non interferisce con il piano dell'analisi empirica. La domanda sulla contingenza del mondo si ritrova di fatto in molte riflessioni di uomini di scienza (cfr. Wittgenstein Tractatus logico-philosophicus, 6.522 e 6.44) e viene riconosciuta significativa. Stephen Hawking, pur all'interno di un'impostazione non certo metafisica, si chiederà ad esempio «chi ha infuso la vita nelle equazioni» perché esse non solo descrivano il mondo, ma lo facciano esistere (Dal Big Bang ai buchi neri, Milano 19938, p. 196). La seconda via tomasiana, che propone un regresso lungo la linea della causalità efficiente, dal punto di vista dei rapporti col pensiero scientifico è assimilabile alla prima. Qualche precisazione merita invece la quinta via basata sull'osservazione dell'ordine e della finalità nel cosmo, esempio del più ampio argomento fisico-teleologico al quale lo stesso Kant, critico nei confronti di tutte le altre prove, prestava un certo rispetto. All'interno della odierna visione di un universo in continua evoluzione fisica e biologica, ove ordine e coordinamento sono il risultato del naturale sviluppo delle forme, se ne potrebbe apparentemente banalizzare l'istanza probativa. Ma il ricorso all'azione di leggi fisiche o biologiche, tanto nel loro aspetto costruttivo come in quello selettivo, può spiegare quell'ordine solo in ambito fenomenologico e descrittivo, e non può rimuovere il senso di domande che operino secondo maggiori gradi di astrazione. Ciò che sul piano dell'analisi fisica si manifesta come razionalità, coerenza numerica, effetto di un gradiente o frutto di una simmetria, o appare sul piano biologico come risultato di coordinamento funzionale o di adattabilità, sul piano filosofico può presentarsi ancora come finalità, ed in quello teologico rispondere ad una domanda sul significato ultimo e sul senso.
In linea più generale, un giudizio critico sulle prove cosmologiche circa l'esistenza di un Assoluto non è praticabile, per definizione, dall'interno del metodo scientifico-sperimentale. Tuttavia tali prove non appaiono contraddittorie o insensate se viste dalla prospettiva di quel metodo, perché l'esistenza di un ordine di conoscenza che oltrepassi il dato empirico, per analogia, astrazione o trascendenza, è riconosciuta compatibile con l'analisi delle scienze (vedi infra, III.1). Per quanto riguarda le prove di tipo antropologico, esse non suscitano speciale perplessità nell'ambito delle scienze naturali. Si potrebbe ricordare in proposito ancora un'affermazione di Wittgenstein, secondo la quale «noi sentiamo che anche una volta che tutte le possibili domande scientifiche hanno avuto risposta, i nostri problemi vitali non sono ancora neppure toccati» (Tractatus logico-philosophicus, 6.52). Una critica alla sensatezza del problema antropologico, e al suo corrispondente accesso a Dio, sarebbe possibile solo all'interno di una visione filosofica riduzionista, ove tutte le manifestazioni della persona umana aperte alla trascendenza, dalla libertà alla coscienza, dalla richiesta di senso ultimo al disagio di fronte al male morale, vengano non già descritte (cosa ovvia), ma ridotte (cosa assai meno ovvia), all'ambito fenomenologico della fisiologia o della neurobiologia. Ma in questo caso l'operazione non sarebbe condotta dalle scienze, che invece percepiscono l'irriducibilità della esperienza mentale (mind) alla fisiologia del corpo (body), o almeno colgono la questione come un problema aperto, bensì da una filosofia che neghi la natura trascendente dell'essere umano, situandosi così in un itinerario di esito nichilista; ne verrebbe perciò richiesto un confronto critico con altre prospettive filosofiche, ma non con le scienze.
L'utilizzo di vie per una conoscenza naturale di Dio non è un'operazione filosofica volta a determinare la natura o l'essenza dell'Assoluto. Il migliore pensiero filosofico si pone nei confronti dell'Assoluto con l'atteggiamento dell'umiltà e dell'ascolto, proprio di ogni percezione del mistero. Conoscere cosa o chi sia Dio resta per la filosofia un problema necessario ma insolubile. Se si desidera comprendere l'Assoluto si confina quasi sempre l'idea di Dio all'interno di canoni o pre-giudizi umani. Se ne rintracciano tentativi nei presocratici, che identificavano il principio divino di tutto ciò che esiste con l'acqua, l'aria, i quattro elementi o i numeri. Con Anassagora, ma soprattutto con Platone e quindi con Aristotele, si cerca di concettualizzarlo come intelligenza, sommo bene e suprema vita spirituale. Nei sistemi filosofici della modernità incontreremo la Sostanza assoluta di Spinoza o lo Spirito assoluto di Hegel. Qualcosa del genere avviene anche quando si vuole negare Dio: le filosofie che non restano aperte alla novità del reale e alla possibilità del mistero, terminano con l'introdurre o concettualizzare altri assoluti, come il “caso”, la “materia”, il “nulla”, la “vita” o la “morte”. La filosofia cede allora il passo all'ideologia, alla tentazione di porre un'idea umana alla sommità delle ragioni del proprio capire e del proprio vivere. Compito della vera filosofia è distinguere l'autentico mistero da quelli che non sono tali. Nel suo “discorso su Dio”, la teologia cristiana ha mantenuto uno speciale rapporto con la metafisica, nelle sue prospettive sia platonica che aristotelica; il suo oggetto proprio, l'ente in quanto ente e le cause ultime dell'essere, le consente di restare aperta al reale senza determinare l'Essere di Dio, ma solo indicandolo. Nel loro incontro con la cultura greca, i primi autori cristiani recuperarono i tentativi della migliore filosofia e li seppero leggere come “attributi” dell'Essere di Dio, senza per questo esaurirne l'immagine trascendente, né dissolvere il mistero: «Se vogliamo designare Dio e lo facciamo impropriamente chiamandolo Uno, o il Bene, o l'Intelletto, o l'Essere stesso, o Padre, o Dio, o Demiurgo, o Signore, non lo facciamo come proferendo il suo nome, ma in mancanza di meglio prendiamo come appoggio queste designazioni […]. Ogni singolo termine non può significare Dio, ma tutti nel loro complesso sono indicativi della potenza dell'Onnipotente» (Clemente di Alessandria, Stromata, V, 12, 82).
Considerata nei suoi rapporti con la fede, la conoscenza naturale di Dio aiuta la ragione a capire di Chi o di cosa la Rivelazione cristiana stia parlando quando parla di Dio, ma resta insufficiente, da sola, a generare l'opzione della fede, che è opzione nella libertà dell'amore, opzione verso l'essere personale di Dio. Tale opzione può realizzarsi solo contestualmente alle modalità con cui si accoglie la Rivelazione come parola personale di Dio, riconoscendola significativa alla luce della ragione e della propria esperienza esistenziale. Si tratta di un'insufficienza costitutiva, incompleta anche per un sapere credente: siamo di fronte ad una conoscenza di Dio necessaria ma insufficiente.
II. La domanda su Dio nel contesto delle scienze naturali
1. Modalità e contesti dei riferimenti a Dio nella scienza contemporanea. La domanda su Dio non è stata mai del tutto estranea all'attività delle scienze. Isaac Newton rispondeva così a Richard Bentley, che desiderava trovare nella meccanica della gravitazione sistematizzata nei Philosophiae naturalis principia matematica (1687) spunti utili per le sue conferenze su scienza e religione: «Quando ho scritto il mio trattato sul nostro Sistema, ho avuto un certo interesse a vedere come tali Princìpi potessero risultare efficaci perché gli uomini prendessero in considerazione la credenza in una Divinità; nulla mi è più gradito, dunque, che tu li possa trovare utili per questo fine» (Newton's Papers and Letters on Natural Philosophy, a cura di I. Cohen, Cambridge 1958, p. 280). A partire dalla fondazione del metodo scientifico e poi per tutta l'epoca moderna, le scienze naturali hanno ospitato, spesso come terreno di dibattito filosofico, molti aspetti della questione su Dio. Anche nell'epoca contemporanea, con linguaggi e formulazioni proprie dell'odierna visione del mondo, esistono modi con cui le scienze continuano a chiamare in causa la nozione di Dio. «Attraverso il mio lavoro scientifico — leggiamo in una pagina di Paul Davies — sono giunto a credere sempre più fermamente che l’universo fisico è costruito con un’ingegnosità così sorprendente che non riesco a considerarlo meramente come un fatto puro e semplice. Mi pare che ci debba essere un livello più profondo di spiegazione. Se si desidera chiamare tale livello Dio è una questione di gusto e di definizione» (Davies, 1993, p. 7).
Nel passaggio fra il secondo e il terzo millennio la domanda su Dio, o comunque i riferimenti più o meno diretti ad una sua nozione, sono riconoscibili nella riflessione operata da varie scienze. La biologia e la medicina ne ospitano il dibattito in collegamento con le questioni legate all'etica della vita umana. Nel problema del rapporto mente-corpo — che per bibliografia e ricercatori coinvolti vanta una produzione interdisciplinare paragonabile solo a quella della cosmologia — l'allusione a Dio è mediata dalla discussione sulla irriducibilità dell'io individuale, la cui identità personale e trascendenza sulla materia sono colte, con un passo ulteriore, in riferimento ad un Altro-da-sé. Il tema dell'evoluzione è stato poi una fonte tradizionale di confronto fra pensiero scientifico e religione. Originariamente associato all'antropologia e alla biologia, si è adesso spostato nel campo della cosmologia, che di quelle discipline ha assorbito le istanze all'interno di una visione ancor più totalizzante. La logica e la matematica, a motivo del loro maggiore collegamento genetico con la filosofia e l'analisi del linguaggio, ospitano anch'esse riflessioni sul tema dell'Assoluto, essenzialmente all'interno del problema dei fondamenti. La meccanica quantistica aveva già ingaggiato nella prima metà del XX secolo un certo dibattito con la visione religiosa del mondo attraverso la discussione sui princìpi di causalità e di indeterminazione; ora, in apertura del XXI secolo, sembra voler essere lei a proporre quali debbano essere i canoni decisivi per comprendere l'azione divina nella natura, analogamente a quanto paiono fare le nuove termodinamiche e le scienze della complessità.
Ma è nell'ambito della fisica, in modo particolare in quello della cosmologia, che la domanda su Dio appare emergere con inusitata insistenza. Uno sguardo ai libri di divulgazione scientifica apparsi negli ultimi anni mostra facilmente che riflessione sulla natura e discorso su Dio sono, a partire da queste discipline, ancora legati insieme. Sono ormai una legione gli scienziati autori di opere divulgative, o di riflessione filosofica sulla scienza, con un titolo che coinvolge esplicitamente tale legame: Dio e la nuova fisica (P. Davies, Milano 1986), La mente di Dio (P. Davies, Milano 1993), Al di là del Big Bang: Dio e le cosmologie quantistiche (W. Drees, La Salle 1990), Terribili simmetrie. Dio è un geometra? (I. Stewart, M. Golubitsky, Torino 1995), La fisica dell'immortalità. Dio, la cosmologia e la resurrezione dei morti (F. Tipler, Milano 1995), La particella di Dio (L. Lederman, D. Teresi, Milano 1996), ecc. Sebbene l'impiego di questo genere di titoli risponda oggi anche a motivi di successo editoriale, ciò testimonia l'esistenza di una nuova sensibilità, senza della quale non esisterebbe neanche uno specifico mercato. In molte opere il termine God, quando non presente nel titolo di copertina, si è ormai conquistato un posto nell'indice analitico, guadagnandosi inaspettatamente uno spazio fra geometry e Grand Unified Theories.
La cosmologia e la fisica paiono coinvolgere una domanda su Dio in tre ambiti principali, fra loro collegati. Il primo di essi riguarda il problema dell'origine o, in termini più generali, il problema delle condizioni al contorno. Il riferimento al possibile ruolo di un Dio creatore, formulato in materia certamente riduttiva rispetto ad un'immagine di Dio proveniente dalla filosofia o dalla religione, viene invocato o almeno discusso per dare un fondamento all'avvio dell'espansione originaria dello spazio-tempo, per assegnare valori opportuni alle costanti di natura, per risolvere l'irriducibilità del rapporto fra leggi fisiche del cosmo e proprietà topologiche dello spazio. La nozione di Dio viene introdotta in sostanza nel contesto tipico dei problemi di incompletezza, logica oppure anche ontologica, assumendone diverse sfaccettature. Dal punto di vista epistemologico, se questo primo ambito ha il pregio di mettere in luce l'impossibilità da parte di una scienza empirica di proporsi come una scienza completa dell'intero, disattende invece il contenuto teologico proprio del concetto di creazione con le sue numerose implicazioni sul piano filosofico, correndo inoltre il rischio di “mitizzare” il problema dell'origine, attribuendogli cioè l'onere di dispiegare, quasi di rivelare, il senso dell'intera storia.
Il secondo ambito riguarda il cosiddetto Principio Antropico e la discussione interdisciplinare che ne è derivata. Alcune interpretazioni di tale Principio ripropongono su scala cosmica, e con il conforto di numerosi risultati sperimentali, il celebre Argument from Design, familiare in filosofia. La presenza di numerose coincidenze fisico-matematiche che hanno reso possibile l'evoluzione ordinata del cosmo e la sua delicata sintonia (fine tuning) sui parametri che hanno poi reso possibile una chimica adatta alla vita ed il sorgere di ambienti ove potersi sviluppare, deporrebbe a favore dell'esistenza di un Dio progettista del mondo. Il tema, che ha progressivamente interessato a partire dalle ultime decadi del XX secolo anche l'ambiente teologico in dialogo con le scienze, reca con sé interessanti semi di revisione della cosmovisione finora dominante, ma si presta facilmente a salti di livello di astrazione nel confronto con la filosofia e con la teologia. Il Principio Antropico (la denominazione di “Principio” non è del tutto corretta, almeno nella sua formulazione debole, in quanto esso non si propone come una chiave di lettura deduttiva, ma indica sostanzialmente delle fattualità da leggere in termini di coordinamento o di coerenza), al mostrare che le costanti e le proprietà fisiche che rendono l’universo capace di ospitare la vita sono proprietà originarie, cioè congenite, ha causato un sostanziale cambio di vedute circa il posto dell'uomo nell'universo. Il paradigma di un'evoluzione che vedeva nel progressivo cieco gioco del caso e in una scala di tempi sufficientemente lunga, i principali fattori responsabili per la comparsa della vita, mostra oggi i suoi limiti. Di fatto, quanto è avvenuto nei primi 10-6 secondi dall'inizio dell'espansione dell'universo è stato, ai fini di poter poi creare una nicchia chimica per la biologia umana, assai più determinante di quanto non lo sia stato il resto della sua storia evolutiva. Le osservazioni collegate alla formulazione del Principio Antropico non costituiscono però alcuna dimostrazione scientifico-sperimentale della progettualità di un cosmo finalizzato alla vita, né dell'esistenza di un Creatore: esse indicano invece solo una “consonanza” con questa ipotesi. In primo luogo perché le delicate condizioni fisiche e biologiche necessarie per la vita sono in realtà delle condizioni necessarie ma non sufficienti per la vita stessa. In secondo luogo perché l'analisi empirica non può rivelare, con i soli metodi della scienza, l'esistenza di una finalità o di un Creatore; così come la strategia di un giocatore di scacchi può essere conosciuta solo con un maggior grado di astrazione rispetto a quello identificato dal piano delle regole del gioco, piano sul quale l'analisi empirica può mettere in luce solo la legalità e la coerenza delle sue mosse.
Il terzo ambito in cui riaffora la nozione di Dio è infine quello dell'intelligibilità dell'universo. Partendo dal dibattito sullo status ontologico delle leggi naturali, una corrente di pensiero più incline al realismo ne ha progressivamente sottolineato il valore oggettivo ed esterno al soggetto conoscente, riaprendo l'interrogativo sulla razionalità del cosmo e sulla non scontata “interpretabilità matematica” della natura (Maxwell, Einstein, Wigner). Il tema dell'intelligibilità si presenta a volta sotto forma di domande sul perché delle specificità formali dei mattoni elementari dell'universo (particelle elementari, stringhe, costanti di accoppiamento nelle leggi fondamentali, ecc.), sul motivo in base al quale agiscano con successo criteri di unificazione, o su quale sia l'origine della rigorosa identità su scala cosmologica delle particelle elementari e delle costanti di natura. Superata l'interpretazione riduttivista secondo la quale tale intelligibilità debba essere il banale risultato di una necessaria sintonia fra leggi cosmiche e leggi che regolano la mente umana, perché forgiate dal medesimo processo evolutivo (inclusa l'operatività dei suoi meccanismi di selezione), il tema è stato riconosciuto oggi significativo (cfr. T. Torrance, Divine and Contingent Order, Oxford 1981; J. Barrow, Perché il mondo è matematico?, Roma-Bari 1992; P. Davies, La mente di Dio, Milano 1993). La postulazione di livelli di spiegazione meta-matematici e meta-fisici coinvolge di solito un riferimento, talvolta indiretto, alla nozione di Logos, di razionalità universale, sebbene l'analisi empirica non abbia ovviamente gli strumenti per discernere se si tratti di qualcosa di immanente nel cosmo o trascendente rispetto ad esso, né tantomeno per chiarirne l'incerta personalità.
Il motivo del perché siano proprio la cosmologia e la fisica a suscitare in maniera più esplicita un riferimento alla nozione di Dio deriva dal fatto che tali discipline sono oggi in grado di porci di fronte all’universo nella sua globalità. La scoperta del flusso di Hubble, quella del fondo di radiazione cosmica, la riuscita applicazione della nucleosintesi degli elementi chimici nella spiegazione dell'evoluzione stellare, le reciproche conferme fra gli scenari della microfisica e quelli dell’astrofisica, le odierne teorie di grande unificazione e le loro conferme sperimentali nelle energie finora accessibili ai nostri acceleratori, forniscono una base sufficiente per trattare l’universo in un quadro fortemente unitario, come un oggetto che risponde alla medesima logica su larga scala. Di esso sappiamo che esiste un’unica storia capace di legare il passato ed il futuro, capace di associare ciò che avviene su scala locale con ciò che avviene, oppure è già avvenuto, su scala cosmica. Questo stato di cose consente allo scienziato di accedere quasi spontaneamente (e non di rado inconsapevolmente), dal livello della causalità efficiente, proprio delle scienze naturali, a quelli della causalità finale (problema dell'intero, in macrofisica) e della causalità formale (problema della specificità e dei fondamenti, in microfisica), che sono invece livelli propri della metafisica, disciplina delle cause ultime e fondanti dell'essere. Il fatto che le scienze naturali non siano metodologicamente attrezzate a concettualizzare simili trascendimenti e non possano operarli negli ambiti indicati, non evita che esse li intravedano dall'interno del loro dominio e, pertanto, che lo scienziato possa, forse debba, parlarne. Non sorprende, pertanto, che un astronomo possa affermare che «la cosmologia non è altro che la ricerca del significato della nostra esistenza e del nostro destino» (P. Benvenuti, in “Corriere della Sera”, 10.4.1990, p. 23).
Non va infine dimenticata un'ulteriore modalità, sebbene assai diversa dalle precedenti, con cui alcuni settori della scienza contemporanea manifestano la loro apertura a forme di conoscenza ed interpretazioni del reale più ampie, nelle quali trovano spazio nuove dimensioni dello spirituale e del divino: ci riferiamo a quella rappresentata dal misticismo della fisica. Resa nota soprattutto attraverso l'opera di Fritjof Capra (Il Tao della Fisica, Milano 1987) ed il movimento sorto a Princeton (R. Ruyer, La gnosi di Princeton, Fiesole 1980), la nuova visione mistica della scienza nasce dal desiderio di comprendere alcuni paradossi sorti nella fisica delle particelle e nella meccanica quantistica mediante il ricorso a filosofie religiose orientali, essenzialmente l'induismo e il buddismo, capaci di supplire con la loro visione del mondo forme logiche utili a tale scopo e apparentemente non rintracciabili nel pensiero occidentale. Di quelle cosmovisioni religiose si assumono successivamente le istanze più profonde, facendone la chiave di lettura risolutiva del rapporto fra l'uomo e la natura. Non mancano però evidenti ambiguità, come quella di una riduzione della vera contemplazione — che lo studio della natura certamente suscita — a pura sensazione, e l'incapacità di accedere ad un'immagine di Dio o del divino la quale, per essere a fondamento della logica del mondo, dovrebbe avere anche il carattere dell'alterità. Con la prospettiva del “misticismo della fisica” si intecciano certamente le proposte del New Age, ma si collega anche un ampio movimento di riscoperta della dimensione spirituale della scienza sorto recentemente in ambiente statunitense (cfr. la rivista Science and Spirit, Concord, New Hampshire). Quest'ultimo, senza sposare alcuna specifica religione confessionale, si fa interprete di un nuovo superamento del riduzionismo scientista ed intende aprire scienza e scienziato alle dimensioni dello Spirito, sebbene assai genericamente inteso. Occorre segnalare che fra i nuovi paradigmi interpretativi proposti dal misticismo della fisica — alcuni dei quali già presenti in parte nel cristianesimo, ma non riconosciuti tali a causa del maggiore approfondimento che ciò avrebbe richiesto — ve ne sono alcuni che vanno progressivamente affermandosi, perché godono di una buona capacità esplicativa in campo scientifico. Andrebbero citati ad esempio il comportamento dell'universo come soggetto-oggetto di interazione globale, la composizione non conflittuale di proprietà apparentemente opposte, la metafora della grande danza in sostituzione del meccanicismo e del vitalismo (cfr. Del Re, 2000).
2. L'ambito delle scienze come terreno storico di confronto fra affermazione e negazione di Dio. Assumendo una prospettiva di carattere storico, si può facilmente riconoscere come quasi tutte le discipline scientifiche abbiano ospitato un certo dibattito circa il ruolo da attribuire a Dio nella comprensione o nella giustificazione del mondo, uomo compreso. A partire dall'epoca moderna, dapprima con l'umanesimo, ma soprattutto con la fondazione metodologica delle scienze, lo studio della natura si impone come un ambito di riflessione critica sulla questione di Dio e diviene uno dei principali terreni di controversia per la sua affermazione o negazione. Le scienze naturali vanno progressivamente ospitando i nodi storici e concettuali di tale dibattito. Il passaggio dal sistema geocentrico a quello eliocentrico susciterà un invitabile confronto fra l'immagine della cosmologia offerta dall'establishment teologico-culturale (con le verità religiose che ne risultavano associate), e la nuova immagine del cosmo. L'affermarsi della ragione illuminista che, grazie al successo causato dalle loro scoperte, cercherà come interlocutore privilegiato proprio le scienze empiriche, porterà ad una concezione della natura ove potrà certo sussistere un riferimento a Dio, ma esso risulterà ormai separato dalla religione e dai modi tradizionali con cui questa ne ha parlato. Le scienze naturali, ancora, saranno il terreno di dibattito fra le prime forme di non credenza della modernità, dal razionalismo al positivismo, e il tentativo di affermare l'esistenza di Dio partendo dall'ordine del cosmo.
Riveste particolare interesse, in merito a quest'ultimo aspetto, il movimento denominato “Fisico-teologia”, sorto alla fine del XVII secolo in ambiente anglicano, il cui programma consisteva nel mostrare l'esistenza di un disegno nelle opere della creazione (Argument from Design). Sia la fisiologia dell'essere umano, come la biologia delle specie inferiori, come l'ordine del cosmo nel suo insieme, servivano quale punto d'avvio per risalire fino all'esistenza di una Intelligenza divina, di un Architetto del mondo. Le maggiori opere nate all'interno di questa corrente, al cui influsso non fu estraneo lo stesso Newton, hanno titoli che spiegano da sé l'intento dei loro autori: The Wisdom of God manifested in the Works of Creation (1691) e Three Physico-Theological Discourses (1693) di John Ray; Astro-Theology: or a demonstration of Being and Attributes of God from a Survey of the Heavens (1715) di William Derham; A Disquisition about the Final Causes of Natural Things (1688) di Robert Boyle; Natural Theology: or, Evidences of the Existence and the Attributes of the Deity collected from the Appearances of Nature (1802) di William Paley.
In sede storica andrebbe meglio chiarito il rapporto fra la nozione di Dio invocata da questi autori e ciò che il pensiero successivo indicherà criticamente come il Dio-tappabuchi (the God of the gaps). Quest'ultima espressione cominciò ad utilizzarsi specie in riferimento ad alcune considerazioni svolte nelle opere di Newton. L'autore della teoria della gravitazione universale, è vero, menziona Dio alla stregua di una causa che interviene nella meccanica del cosmo quando non è possibile descriverne i fenomeni mediante cause naturali, cosa che causò le puntuali critiche di Leibniz; tuttavia, la prospettiva adottata dai fisico-teologi non era necessariamente la stessa. Essi partivano dall'idea che se il mondo era opera di una causa intelligente, ciò doveva avere effetti visibili nelle creature e che le scienze naturali dovevano pertanto proporsi come una fonte di sapere su Dio. Da questo punto di vista, rappresentarono un tentativo certamente interessante di utilizzare i risultati delle scienze all'interno della filosofia e della teologia. La loro metodologia risultava all’epoca meno insolita e più facilmente accettabile di quanto lo sarebbe stato oggi perché, nel XVIII secolo, scienza e riflessione filosofica sulla scienza costituivano entrambe una medesima disciplina, quella della “filosofia naturale”. Le dimostrazioni dei fisico-teologi circa l'esistenza di un Artefice divino avevano però l'ingenuità di insistere eccessivamente su quei particolari di organizzazione, armonia e coordinamento, specie nella struttura dei viventi, che non parevano riconducibili all'azione delle sole forze della natura. Alcune delle loro argomentazioni, come ad esempio la considerazione della meravigliosa complessità dell'occhio umano, saranno destinate a sopravvivere a lungo nell'apologetica ottocentesca. Tali spiegazioni poterono certamente favorire l'idea del Dio tappabuchi quando non si prestò più attenzione a separare i diversi livelli del discorso — empirico e metafisico — consentendo così al progresso delle scienze di rimuovere facilmente il Dio Architetto od Orologiaio non appena divennero disponibili la giustificazione naturale o la completa descrizione sperimentale dell'ordinamento di molte di quelle strutture fisiche o biologiche.
Fra le conseguenze storiche della Fisico-teologia, che non tardarono a manifestarsi, due di esse rivestono un'importanza determinante ai fini di tutta la questione su Dio nel contesto delle scienze. In primo luogo, il dibattito fra teismo e ateismo andò progressivamente restringendosi al terreno della razionalità associata all'analisi empirica, lasciando drammaticamente fuori gioco altri importanti campi della ragione umana e la loro capacità di accesso a Dio (cfr. Buckley, 1987). In secondo luogo, l'interpretazione evolutiva delle forme dei viventi, affermatasi con Darwin, non poté non assumere precisi connotati anti-religiosi, proprio perché irrompeva in un contesto religioso, intellettuale e perfino linguistico, dominato dall'argomento a partire dal disegno, del quale le leggi della selezione naturale e dell'adattibilità all'ambiente distruggevano adesso le basi. In un diverso contesto filosofico e teologico, ove il discorso su Dio fosse stato associato anche ad altri argomenti, o ne fosse stato meglio spiegato il distinto grado di astrazione, la teoria dell'evoluzione non avrebbe causato una simile frattura e la teologia avrebbe potuto più facilmente operarne una rilettura alla luce di quegli spunti già contenuti nelle sue fonti patristiche e medievali.
Un esempio paradigmatico di come le scienze della natura siano state un passaggio obbligato del dibattito fra affermazione e negazione di Dio è rappresentato dal meccanicismo ottocentesco. In un clima filosofico dove leggi naturali deterministiche e razionali venivano comprese come effetto di una intelligenza, fonte di determinazione per tutto il cosmo, la teologia stessa veniva inconsapevolmente portata a presentare il meccanicismo come un'immagine dell'armonia e dell'ordine presenti nella volontà di Dio: stabilità delle leggi e stabilità del Creatore sussistevano o cadevano insieme. Quando nella presentazione di quelle medesime leggi si giunse però ad insistere di più sul loro carattere naturale, tralasciando ogni questione filosofica sulla loro origine o sulla loro specificità formale — perché questioni che avrebbero richiesto un maggiore grado di astrazione — il meccanicismo si tramutò allora in una tesi contro l'esistenza di Dio. Una volta compreso che il mondo poteva funzionare bene anche solo grazie alla propria autonomia, l'ipotesi Dio diveniva superflua, una conclusione consegnata alla storia dalla nota risposta di Laplace a Napoleone. Dal canto suo, l'idea che la scienza potesse utilizzare con successo le nozioni di trasformazione, sviluppo o evoluzione, poteva facilmente mettere in crisi l'idea di un Dio dator formarum, responsabile della molteplicità e della armonia delle forme presenti in natura, nel mondo inorganico come in quello dei viventi. In mancanza di una adeguata teologia della creazione e di una corretta immagine di Dio, la scoperta di dinamismi intrinseci della natura mediante i quali spiegare l'origine delle proprietà e delle forme, in chimica come in biologia, potè favorire in non pochi casi la visione di un mondo senza Dio.
Nel XX secolo l'attività delle scienze ha continuato ad ospitare importanti dibattiti filosofici circa la “questione su Dio” e ne ha determinato in certo modo il successivo evolversi. Faceva ad esempio appello ad un materialismo “scientifico” il tentativo di rimuovere il discorso su Dio mediante il programma marxista di una Dialettica della natura (Engels, 1875, pubblicata nel 1925). Il rapporto fra religione e scienza sarà tematizzato anche a partire dalla psicanalisi, che pur coinvolgendo l'ambito delle scienze umane, volle intenzionalmente qualificarsi come sapere di origine empirico (Freud). Muovendo invece dall'ambito della matematica e della logica, il neopositivismo ha tentato di negare significato alla nozione di Dio restringendo il valore della conoscenza a quanto empiricamente verificabile ed esprimibile col linguaggio formale delle scienze, per farsi poi protagonista di quell’incompiuto programma di riduzionismo sistematico all'empirismo logico costituito dall'Enciclopedia universale della scienza unificata (1938) di Neurath, Carnap e Dewey. È singolare che il superamento di simili visioni filosofiche, le cui presunte implicazioni per la metafisica e la teologia non erano affatto tacite, sarà operato da una critica interna e non esterna al sapere scientifico.
Ma l'ambito di discussione che ha dominato il panorama della seconda metà del XX secolo è stato senza dubbio quello del rapporto fra caso e finalità, un paradigma capace di inglobare dimensioni del problema provenienti anche da aree disciplinari differenti. La tematica ha raggiunto il grande pubblico soprattutto attraverso le tesi in ambito biologico di Jacques Monod (Il caso e la necessità, Milano 1971) e Richard Dawkins (L'orologiaio cieco, Milano 1988), anche se non sono mancati corrispettivi ugualmente noti in ambito fisico-cosmologico (per es. S. Weinberg, I primi tre minuti, Milano 1993; P. Atkins, La creazione, Bologna 1985). Può ancora rientrare fra gli esempi di una questione su Dio da decidersi riduttivamente all'interno di un paradigma caso-finalità, l'alternativa fra un universo sorto casualmente dal nulla, ove si possa rimuovere la dipendenza dal tempo (S. Hawking, Dal Big Bang ai buchi neri, Milano 1993), e un universo necessariamente legato ad una singolarità iniziale, le cui precise condizioni al contorno rivelerebbero un progetto ed eventualmente un Creatore. Nel contesto del Principio Antropico, il paradigma generale agisce discriminando fra un unico universo orientato finalisticamente alla comparsa della vita ed un insieme di infiniti universi con parametri casuali, fra i quali solo quello con i parametri casualmente giusti potrebbe avere osservatori intelligenti e dunque un carattere apparentemente finalistico.
Come nei precedenti esempi del dibattito fra affermazione e negazione di Dio, anche quello fra caso e finalità ha operato una trasposizione di categorie filosofiche in ambito empirico. Termini come caso, finalità, necessità o libertà appartengono di fatto al vocabolario filosofico, a differenza di altre nozioni tipiche delle scienze esatte, come probabilità, consistenza o coincidenza. Un dibattito presentato come base scientifica per decidere l'alternativa pro o contro l'esistenza di un Creatore, ha rappresentato in realtà un dibattito fra filosofie differenti, l'una aperta ad una nozione di conoscenza capace di trascendere l'ordine empirico, l'altra ridotta a limitarla solo all'ambito dei fenomeni e delle apparenze, l'una aperta ad un fondamento trascendente del reale capace di contenerne anche il progetto ed il senso, l'altra impegnata in una fondazione immanente autoreferenziale. Sulla filigrana dell'alternativa fra caso e finalità, possono riconoscersi spesso i canoni di una disputa filosofica fra realismo e idealismo. Di fronte all'immagine di una scienza aperta, nella quale sorgono con frequenza problemi di incompletezza descrittiva, ma anche ontologica, il soggetto conoscente può restare in ascolto del reale, senza dire di più di quanto non possa dire, oppure cedere alla tentazione di chiudere le incompletezze ricorrendo a visioni aprioristiche, che assumono spesso l'aspetto di una “filosofia del caso”. La novità sta nel fatto che simili alternative, il cui terreno di incontro e di scontro era sempre stato la filosofia, nascono adesso nelle scienze naturali e, da esse, muovono verso l'ambito filosofico, l'unico ove può svolgersi un confronto epistemologicamente significativo.
L'idea che l'immagine scientifica del mondo sia stata o sia tuttora il terreno principale ove debba giustificarsi l'esistenza di Dio e giocarsi il confronto fra credenza e non credenza, presenta dei limiti evidenti. La nozione di Dio, in realtà, assume significato dalla considerazione di numerosi altri contesti e la sua immagine va valutata e compresa sulla filigrana di un'antropologia e di una gnoseologia integrali, non riducibili a quanto dettato dalla sola analisi delle scienze. Allo stesso tempo, la teologia non può trascurare l'esigenza di comprensione e di unità fra discorso sul mondo e discorso su Dio, anche quando questa è suscitata dal contesto della conoscenza scientifica. Essa è chiamata a situare tale esigenza sui binari di una corretta epistemologia, mostrando la valenza filosofica di molte riflessioni della scienza. Ma la teologia è anche positivamente stimolata a riconoscere quali sono i contesti cosmologici, alcuni di essi ereditati certamente dal passato, nei quali essa propone non poche delle sue formulazioni. Le vicende storiche del rapporto fra discorso sulla natura e discorso su Dio potrebbero suggerirle di rileggerli, o eventualmente di mutarli, alla luce della nuova immagine fisica del mondo, sia per favorire la comprensibilità di quelle medesime formulazioni, sia per prestare un migliore servizio alla dignità del loro oggetto.
III. Possibilità di un discorso su Dio significativo per la razionalità scientifica
1. Il significato epistemologico di un discorso su Dio. In un confronto fra teologia e scienze non è sufficiente segnalare che la domanda su Dio conserva la sua perenne attualità. Occorre anche approfondire quale discorso su Dio possa essere risconosciuto significativo da una cultura modellata in buona parte dalla scienza e dalla tecnica (cfr. Gaudium et spes, 5). Il discorso su Dio, infatti, viene oggi valutato criticamente sullo sfondo delle categorie tipiche della razionalità scientifica. Il successo tecnologico da essa favorito accentua la portata critica di tale valutazione, perché la nozione di un Dio creatore, onnipotente e provvidente, comporta anche un dominio sul mondo e sui suoi effetti visibili, proprio quegli effetti sui quali la tecnica reclama, e ci ha abituato a riconoscere, il suo progressivo e sempre più sofisticato controllo. A livello filosofico, si richiede che alla nozione di Dio corrisponda un'area significativa di intelligibilità e di senso, giudicata nel contesto dell'interpretazione scientifica del mondo e del linguaggio che esprime una simile visione.
L'esclusione dell'accesso al trascendente e di ogni riferimento alla nozione di Dio all'interno dell'impresa scientifica trova la sua origine più influente nella filosofia critica di Kant. Una vera conoscenza sarebbe possibile solo nell'ambito della ragion pura, cioè quella razionalità teoretica che viene nutrita dall'esperienza delle scienze empiriche. In questo ambito non si può né affermare, né negare il trascendente: l'idea di Dio è un'antinomia, in quanto non è oggetto di possibile esperienza. La nozione di Dio avrebbe significato solo nell'ambito della ragion pratica, ove diviene oggetto di un postulato pratico, non di conoscenza, qualcosa che può essere pensato, presupposto o invocato, ma non conosciuto. La posizione di Kant non nega significato alla nozione di Dio, ma sancisce che la razionalità scientifica ne resta totalmente preclusa; ciò dovrebbe sgombrare simultaneamente il campo da supposte dimostrazioni scientifiche di ateismo e, nell'intenzione di Kant, aprirebbe anche lo spazio alla fede, intesa come incapacità della ragione filosofica di dire Dio. Tuttavia, la profonda divisione fra ragion pura e ragion pratica impedisce al filosofo di Königsberg di vedere la scienza come fonte di interrogativi umani che collegherebbero il mondo dell'esperienza con il problema dell'esistenza. Sull'eredità della visione kantiana, un discorso su Dio avrebbe senso unicamente nella sfera dei valori e dei fini (non di rado oggi giustificata su basi puramente soggettive), in quanto riguarderebbe asserti non comunicabili, carenti di validità oggettiva e non falsificabili, cioè né veri né falsi. Secondo un giudizio più severo, questa volta sull'eredità del neopositivismo logico, tali asserti non avrebbero alcun senso in nessun contesto, perché non esisterebbe altro tipo di conoscenza che quella verificabile empiricamente.
Riteniamo che la vicenda del pensiero scientifico contemporaneo abbia superato sia la visione kantiana sia quella neopositivista, manifestando invece che esiste un'area di senso e di intelligibilità, significativa anche per la razionalità scientifica — perché colta partendo da una riflessione interna al suo metodo — ove possa trovare spazio un logos su Dio, con le sufficienti garanzie di universalità e sensatezza. Lo si può mettere in luce seguendo livelli progressivi.
In primo luogo vi è ormai un ampio consenso nel negare che gli unici asserti sensati siano quelli limitati ai “fatti” delle scienze naturali trattati all'interno di un linguaggio formale. Un passo importante in questa direzione è stato compiuto da Wittgenstein: non è possibile negare il problema del senso, anche se il fatto che sia inesprimibile “all'interno del mondo dei fatti” ne fa uno pseudo-problema; se solo potessimo prendere prospettiva dal mondo logico dei fatti delle scienze ci accorgeremmo di esso, e l'accorgercene possiamo indicarlo come qualcosa di mistico. Il percorso filosofico tracciato dal filosofo viennese supera le conclusioni della ragion pura, perché la domanda sul senso e l'apertura all'indicibile nasce dall'analisi del conoscere scientifico, e non fuori di essa come sostenuto da Kant, sebbene non possa essere adeguatamente espressa; il meta-linguaggio nasce come esigenza dei limiti del linguaggio riconosciuti all'interno del linguaggio medesimo. Ma vengono superate anche quelle dei neopositivisti. Wittgenstein aveva tracciato insieme ad essi una linea di separazione fra ciò di cui si può parlare e ciò di cui si deve tacere: «la differenza è soltanto che essi non avevano nulla di cui tacere. Il positivismo sostiene — e questa è la sua essenza — che ciò di cui possiamo parlare è tutto ciò che conta nella vita. Invece Wittgenstein credeva appassionatamente che tutto ciò che conta nella vita umana è proprio ciò di cui, secondo il suo modo di vedere, dobbiamo tacere» (P. Engelmann, Lettere di Ludwig Wittgenstein con ricordi di Paul Engelmann, Firenze 1970, p. 70). In tal modo il pensiero di Wittgenstein costituisce un punto di arrivo ed un punto di partenza: concludendo la parabola dell'empirismo logico, pone la base di avvio per una filosofia capace di recuperare il significato del problema di Dio, anche se un Dio di cui non si può ancora parlare, ma solo mostrare (cfr. R. Pititto, La fede come passione. L. Wittgenstein e la religione, Cinisello Balsamo 1997). Saranno poi i teoremi di incompletezza di Gödel e le implicazioni filosofiche della complessità a mostrare come il progetto di confinare una conoscenza completa e coerente di tutta la realtà ai soli asserti della logica formale nella loro corrispondenza con oggetti sensibili e misurabili non è più scientificamente praticabile. Ci si scontrerà sempre con due problemi fisiologici: l'incoerenza logica dell'autoreferenzialità in un sistema aperto sul mondo reale e l'intrattabilità matematica compiuta di molti “fatti” delle scienze naturali.
In secondo luogo, si riconosce oggi con maggiore facilità che alla base e al di là del mondo dei fatti, oggetto del linguaggio delle scienze, vi sono dei presupposti di carattere metafisico impliciti nella conoscenza scientifica, senza dei quali la scienza stessa non sarebbe possibile. Nozioni come essere e natura, o come essenza ed esistenza, sono concetti metafisici che precedono e che fondano ogni determinazione formale osservabile: essi rendono possibile la scienza, ma la loro giustificazione è esterna al metodo scientifico. La nozione di un Dio che sia causa dell'essere e delle specificità formali della realtà naturale (cioè del perché il mondo è così come è e non altrimenti) presuppone e rende intelligibile la descrizione scientifica del mondo, ma non interferisce con essa. Non è senza significato porre in collegamento tale chiarimento epistemologico con “l'appello al mistico” suggerito da Wittgenstein e da Popper, qui proposto in successiva articolazione: «C'è davvero l'inesprimibile. Esso si mostra, è il mistico: il mistico non è come è il mondo, ma che il mondo è [esiste]» (L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, 6.44); «Come il mondo è — il fatto che esso abbia una struttura, o che le sue regioni più lontane siano tutte soggette alle stesse leggi strutturali — sembra in linea di principio inesplicabile e quindi mistico» (K. Popper, Poscritto alla logica della scoperta scientifica, Milano 1994, p. 169). L'affermazione di uno spazio concettuale per un logos su Dio, un mistico significativo anche nel contesto delle scienze, è consistente con l'evidenza che l'universo esiste, ed esiste con delle proprietà che la scienza non deduce totalmente dal suo metodo, ma riceve e scopre per induzione.
Infine, la possibilità di un discorso su di Dio che la razionalità scientifica riconosca significativo è messa in luce dalle stesse aperture alla trascendenza registrate dalle riflessioni di alcuni scienziati contemporanei. L'impresa scientifica viene da molti di essi considerata come una ricerca della verità che coinvolge tutta la persona, che non preclude, anzi manifesta, l'accesso ad un Assoluto, ad un logos colto come un'area di intelligibilità e di senso. Lo scienziato pare percepire il reale fisico come un'alterità oggettiva e coerente, caratterizzata da una specificità formale. Il collegamento fra questa percezione e la nozione di Assoluto può cogliersi considerando due aspetti di grande importanza dell'attività scientifica: l'“esperienza dei fondamenti” e l'“esperienza del sacro” (cfr. Cantore, 1987).
Lo scienziato è tornato a sorprendersi della sua capacità di dialogare con l'universo. Sa che questo può essere compreso in termini matematici, si presenta con leggi stabili nel tempo e nello spazio, possiede particelle elementari rigorosamente identiche, proprietà fisico-chimiche che seguono rigorose strutture di ordinamento, tutte cose che manifestano una sorta di “fondamento di razionalità” col quale il ricercatore viene inevitabilmente in contatto. Così lo esprimeva Albert Einstein: «Lei trova strano che io consideri la comprensibilità della natura (per quanto siamo autorizzati a parlare di comprensibilità), come un miracolo (Wunder) o un eterno mistero (ewiges Geheimnis). Ebbene, ciò che ci dovremmo aspettare, a priori, è proprio un mondo caotico del tutto inaccesibile al pensiero. Ci si potrebbe (di più, ci si dovrebbe) aspettare che il mondo sia governato da leggi soltanto nella misura in cui interveniamo con la nostra intelligenza ordinatrice: sarebbe un ordine simile a quello alfabetico, del dizionario, laddove il tipo d’ordine creato ad esempio dalla teoria della gravitazione di Newton ha tutt’altro carattere. Anche se gli assiomi della teoria sono imposti dall'uomo, il successo di una tale costruzione presuppone un alto grado d’ordine del mondo oggettivo, e cioè un qualcosa che, a priori, non si è per nulla autorizzati ad attendersi. È questo il “miracolo” che vieppiù si rafforza con lo sviluppo delle nostre conoscenze. È qui che si trova il punto debole dei positivisti e degli atei di professione, felici solo perché hanno la coscienza di avere, con pieno successo, spogliato il mondo non solo degli dèi (entgöttert), ma anche dei miracoli (entwundert)» (A. Einstein, Lettera a M. Solovine, 30.3.1952, in Opere scelte, Torino 1988, pp. 740-741).
Riflessioni analoghe le incontreremo 40 anni dopo in Paul Davies: «Per quanto le nostre spiegazioni scientifiche possano essere coronate dal successo, esse incorporano sempre certe assunzioni iniziali. Per esempio, la spiegazione di un fenomeno in termini fisici presuppone la validità delle leggi della fisica, che vengono considerate come date. Ma ci si potrebbe chiedere da dove hanno origine queste leggi stesse. Ci si potrebbe perfino interrogare sulla logica su cui si fonda ogni ragionamento scientifico. Prima o poi tutti dobbiamo accettare qualcosa come dato, sia esso Dio, oppure la logica, o un insieme di leggi, o qualche altro fondamento dell'esistenza» (Davies, 1993, pp. 5-6). Siamo dunque di fronte ad una vera e propria esperienza dei fondamenti, ad una percezione dell'Essere come fondamento ultimo, riconosciuto al di là della razionalità scientifica, ma segnalato da chi vi opera al di qua. Non è compito della scienza dimostrare se l'intelligibilità e la coerenza del cosmo risponda ad un disegno che contenga il senso del mondo, perché ciò implicherebbe il riferimento ad una causalità finale inaccessibile all'analisi delle scienze empiriche. È però assai significativo che tali domande emergano in continuità con tale analisi, come questioni che rimandano ad un'area di senso, ad un logos nella scienza che si apre ad un logos su Dio.
Ma nella sua attività lo scienziato coglie la realtà fisica anche come una sorta di alterità dialogica. Con parole di Heisenberg, lo scienziato «prende coscienza dell'ordine centrale [del mondo] con la stessa intensità con cui si entra in contatto con l'anima di un'altra persona» (W. Heisenberg, Fisica e oltre, Torino 1984, p. 225). La natura viene riconosciuta come meritevole di essere studiata, capace di motivarne il corrispondente sforzo intellettuale, perché capace di legare ad una verità ed una bellezza indipendenti dal soggetto conoscente. L'atteggiamento del ricercatore diviene allora quello di una religiosa riverenza e la sua attività lo pone di fronte alla percezione di un Assoluto. Per questo non mancano scienziati che hanno paragonato l'esperienza scientifica ad una esperienza del sacro, capace di legare (re-ligo) e di condurre fino alle porte del mistero (cfr. Cantore, 1987, pp. 155-196, 370-423; Pedersen, 1988, pp. 125-140). Analogamente a quanto rilevava Wittgenstein a partire dall'analisi del linguaggio, o Popper a partire dall'epistemologia delle scienze, anche il fisico o l'astronomo possono imbattersi nel mistico: «A volte, attraverso una forte, pressante esperienza di intuizione mistica (a compelling experience of mystical insight), si riconosce che al di là dell'ombra del dubbio si è entrati in contatto con una realtà che giace nascosta sotto il fenomeno. Ne siamo perfettamente convinti, ma non possiamo trasmettere questa certezza. È una sorta di rivelazione privata» (E. Hubble, The Nature of Science and Other Lectures, San Marino - CA 1954). Siamo di fronte ad una visione dell'attività scientifica che assomiglia ad un dialogo fra l'uomo e l'Assoluto.
L'immagine dell'Assoluto percepito dalla razionalità scientifica e la possibilità di parlarne sono senza dubbio espresse in modo filosoficamente impreciso, sovente mescolato ad ambiguità e non poche volte colorato di panteismo. La religiosità di Einstein, ad esempio, fu certamente lontana dal Dio personale della Scrittura, che il padre della relatività vedeva erroneamente caricato di antropomorfismo; ma essa testimonia allo stesso tempo una percezione del sacro, legata ad un'esperienza estetica, ad un mistero che contenga il senso nascosto del mondo, ed ha come riferimento gnoseologico una metafisica implicita, aperta sul reale e disposta ad imparare dalla natura e dalle sue leggi. In definitiva, ritenere che l'influsso della razionalità scientifica sulla filosofia e sulla cultura debba necessariamente togliere spazio ad un discorso su Dio, non darebbe ragione né del significato, né dell’essenza della vera mentalità scientifica (cfr. Tanzella-Nitti, 1996). Essa è un’attività di tutta la persona, capace di suscitare interrogativi di carattere filosofico, anche se non ha gli strumenti adeguati per rispondervi dall’interno del proprio metodo. Anche nel contesto della razionalità scientifica odierna, il mondo continua a manifestarsi come paradosso e mistero e continua ad essere ragionevole chiedersi se il mondo abbia una spiegazione. L'eventuale ricerca di questa spiegazione rimanda ad una nozione che non è considerata un nonsenso ed apre pertanto la possibilità ad un discorso significativo su Dio.
2. La fede in Dio da parte degli scienziati: incidenza e caratteristiche. La possibilità di un discorso su Dio significativo anche per il mondo scientifico possiede un versante esistenziale e si collega pertanto con la personale fede in Dio dello scienziato, cioè come egli faccia dialogare, nell'unità della propria esperienza intellettuale, ciò che sa con ciò che crede. Dal punto di vista storico, andrebbe osservato che la necessaria autonomia metodologica delle scienze non implicò alcuna richiesta di negazione di Dio, né da parte dei primi scienziati della modernità, né da parte dei loro predecessori medievali. Professione di fede religiosa ed attività scientifica sono coesistite senza strappi nella vita di quasi tutti i ricercatori, almeno fino al termine del XIX secolo. Il graduale allontamento dalla fede in Dio di una frazione significativa, ma non maggioritaria, degli uomini di scienza della fine dell’Ottocento e di buona parte del Novecento è dovuto al progressivo processo di secolarizzazione che ha investito la società occidentale, non ad istanze interne alla scienza stessa.
La percentuale di scienziati che hanno rivestito un ruolo istituzionale nelle loro chiese cristiane di appartenenza, ad esempio come chierici secolari o regolari, è stata sempre piuttosto alta; utilizzando le circa cinquemila biografie scientifiche del Dictionary of Scientific Biographies (a cura di C. Gillispie, New York 1970-1980), questa percentuale è dell'ordine del 10%, ma si avvicina addirittura al 30% se ci si ferma agli inizi del XIX secolo. La documentazione finale del volume curato da I. Tagliaferri ed E. Gentili (Scienza e Fede. I protagonisti, Novara 1989) elenca circa 150 fra sacerdoti e religiosi cattolici, nati dopo il 1600, la cui attività scientifica può essere considerata di rilevanza internazionale, mentre sono ben 80 i soli matematici ecclesiastici, ricercatori di fama, che hanno operato nell'epoca moderna (cfr. P. Pizzamiglio, Religiosi matematici, “L'insegnamento della matematica e delle scienze integrate” 21 (1988), pp. 410-438). L'incidenza di tutte queste figure di ecclesiastici nei laboratori e negli studi scientifici non è direttamente utilizzabile ai fini di un'analisi sulla fede degli scienziati in genere, ma testimonia perlomeno l'esistenza di una consolidata facilità di rapporti fra pensiero credente ed attività scientifica.
Seguendo i dati forniti da un'indagine fra i ricercatori italiani (cfr. Ardigò e Garelli, 1989), circa il 55% di essi dichiara di credere in Dio ed il 23% degli intervistati identifica la propria fede con il contenuto esplicito del credo cattolico. Fra tutti, credenti e non, ben il 60% ritiene però che attività scientifica e credo religioso non abbiano punti di contatto significativi. Risulta interessante osservare che per la gran maggioranza di essi (85%) la diffusione della mentalità scientifica e del progresso tecnologico ha modificato il richiamo alla trascendenza nella società e nella cultura, a testimonianza del peso che la razionalità scientifica esercita sul comune modo di pensare. Un'analoga ricerca compiuta in Francia, sebbene su un campione più basso (cfr. Magnin, 1994), mostra che la metà degli scienziati si professa credente, mentre del restante 50% la maggior parte si dichiara “in ricerca”. Un numero assai alto è convinto che la scienza non fornisce una comprensione esauriente della realtà (80%) e per ben il 60% di essi l'attività scientifica spinge quanto meno ad interrogarsi sull'esistenza di Dio. Ricerche analoghe condotte negli Stati Uniti (cfr. E. Larson, L. Witham, Scientists are still keeping the faith, “Nature” 386 (1997), pp. 435-436; G. Easterbrook, Science and God: a Warming Trend?, “Science” 227 (1997), pp. 890-893) indicano una sostanziale stabilità nella percentuale di scienziati credenti, attorno al 40%, dall'inizio del XX secolo alla sua fine, e segnalano che per la maggior parte di essi esiste un reale interesse per la religione.
Al di là delle differenze e delle diverse sfumature nei dati assai sommariamente citati, l'immagine dello scienziato odierno non lo mostra arroccato su posizioni atee o conflittuali. Lo mostra piuttosto aperto al dialogo, quando non già esplicitamente credente, consapevole del peso culturale della propria attività scientifica. La generalmente scarsa formazione religiosa non gli consente però di integrare bene la propria fede o la ricerca di Dio di cui si sente protagonista con le conoscenze provenienti dall'ambito dei suo studio, né possiede un'immagine di Dio sufficientemente adeguata per poter realizzare tale integrazione. Ne deriva una certa separazione fra credo religioso ed esigenze etiche di tale credo, specie nell'ambito della medicina e della biologia, o anche fra credo religioso e contenuti dottrinali o teologici ad esso associati. Generale è però il risveglio di interesse verso la religione, testimoniato dalla crescente frequenza nelle attività interdisciplinari fra scienze, filosofia e teologia. Numerose anche le associazioni di ambito accademico od universitario espressamente dedicate al dialogo scienze-teologia. Sorte specie in ambito anglosassone, ne menzioniamo a scopo documentale alcune fra le più importanti: The Center for Theology and the Natural Sciences (Berkeley, California), The John Templeton Foundation (Radnor, Pennsylvania), The Institute on Religion in an Age of Science (Star Island, New Hampshire), The European Society for the Study of Science and Theology. Non mancano neanche gli ecclesiastici impegnati nella ricerca scientifica, certamente assai meno di quanti non lo fossero nel XVIII secolo, ma sufficienti perché The Society of Ordained Scientists, fondata a Cambridge da Arthur Peacocke, possa contare oltre tremila membri in tutto il mondo. Henry Margenau e Roy Varghese (1992) hanno offerto una stimolante antologia, più volte ristampata, di interviste ad importanti uomini di scienza aventi per oggetto la loro personale posizione sul problema di Dio.
Per l'uomo di scienza, come per ogni altra persona umana, il Dio a cui si presta la propria adesione di fede viene creduto come il Dio di tutto e di tutti. La sua immagine non può non riguardare l'intera sfera del reale, pena lo svuotamento di significato della nozione di Dio. Analogamente, i contenuti trasmessi e fatti propri dalla fede religiosa — che la teologia cerca di penetrare in modo sistematico partendo dalla Rivelazione — non possono non dialogare con il resto delle conoscenze acquisite o acquisibili anche a partire dall'analisi delle scienze, pena, in questo caso, la perdita della dimensione conoscitiva della fede. Riconoscere Dio come spiegazione ultima dell'uomo e del mondo, deve condurre il soggetto, almeno come aspirazione, verso una certa unità del sapere. La ricerca di una simile unificazione si fa senza dubbio più ardua per l'uomo di scienza, a motivo della ricchezza di fonti cui ha accesso e della profondità con cui egli le esplora, ma proprio per questo diviene forse più necessaria. Il fatto che la razionalità scientifica abbia influenzato il nostro modo di comprendere la trascendenza o il trascendente, cosa sulla quale scienziati e non scienziati sono sostanzialmente d'accordo, non può condurre ad un modello di interazione dialettica o alternativa, ove il procedere della conoscenza scientifica riduca sempre più il campo dei contenuti della fede. Si richiede piuttosto il coraggio di una continua rilettura dell'una alla luce dell'altra, come in ogni processo aperto sul reale. Ma per questo occorre lo sforzo della sintesi e dell'unità cercata nel centro della persona, non bastano la simbiosi o la stratificazione.
IV. L'immagine del Dio che si è rivelato in Gesù Cristo: i suoi rapporti con la questione su Dio posta dalla filosofia e dalle scienze
Il contenuto della Rivelazione giudeo-cristiana e la natura dell'immagine biblica di Dio sono oggetto del trattato teologico sul «Mistero di Dio Uno e Trino» (cfr. Auer, 1982; Kasper, 1985; Courth, 1993). Segnaleremo sinteticamente in questa sezione solo alcuni temi collegati con quanto precedentemente visto in sede interdisciplinare.
1. L'esistenza di Dio, creatore del cielo e della terra, può essere riconosciuta dalla ragione a partire dalle cose create. La Rivelazione giudeo-cristiana parla in vari luoghi della possibilità di conoscere l'esistenza di Dio Creatore a partire dalle creature (cfr. Sap 13,1-8; Rm 1,18-20; At 14,16-17). Il magistero della Chiesa ne ha riproposto più volte l'insegnamento (cfr. Dei Filius, DH 3004; cfr. anche DH 3475, 3538; Dei Verbum, 3 e 6; Donum veritatis, 10; Fides et ratio, 36, 53), senza per questo imporre quali specifiche vie, fra quelle segnalate dal pensiero filosofico, debbano essere necessariamente percorse. Il riferimento generale delle varie dichiarazioni ecclesiali resta comunque quello di un cammino causale, tamquam causam per effectus, presentato in vari contesti. Al di là delle discussioni teologiche circa l'interpretazione da dare a questi testi magisteriali, essi trasmettono senza dubbio l'insegnamento basilare che la nozione di Dio è una nozione intelligibile all'uomo. La parola che la Rivelazione consegna quando all'immagine biblica del Dio di Israele, Signore e Salvatore del suo popolo, associa il concetto di un Creatore, causa di tutto ciò che esiste, non è parola che cade nell'anonimato. Nel parlare di Dio, la Rivelazione cristiana non introduce una categoria ignota alla ragione, ma propone un concetto che l'intelligenza umana può cogliere con le sue forze a partire da ciò che conosce.
Considerato dalla prospettiva della fede, l'insegnamento circa una conoscenza naturale di Dio ribadisce che la fede stessa suppone la condizione di questa possibilità da parte della ragione, garantendo così l'istanza di universalità posta dal problema filosofico di Dio. Nel discutere se tale conoscenza si dia realmente nella condizione storica dell'uomo, entreranno in gioco le disposizioni morali del soggetto e la considerazione delle ferite inferte dal peccato (originale ed attuale) alla ragione. I luoghi biblici tradizionalmente associati alla dottrina sulla conoscenza naturale di Dio non mancano di segnalare il “chiaroscuro” in cui essa versa, ed anche il suo storico venir meno proprio a causa del peccato (cfr. Sap 13,1; Rm 1,21; At 17,27). Già nelle loro apologie, i Padri della Chiesa non mancarono di chiarire questo punto: per comprendere la presenza e l'opera di Dio nel mondo occorre umiltà, giustizia e rettitudine (cfr. s. Agostino, Confessiones, V, 3). Dal canto suo, il Magistero lo ha ugualmente sostenuto (cfr. DH 3005).
Considerata dalla prospettiva della ragione, della conoscenza naturale di Dio ne abbiamo già precedentemente riferito (vedi supra I.3). Come segnalato, il riconoscimento dell'esistenza di Dio non può poggiarsi su una prova di carattere scientifico-sperimentale. Non soltanto, evidentemente, perché questo genere di prove valgono solo per gli oggetti percettibili ai sensi e formalizzabili in termini quantitativi, ma anche perché la conoscenza di Dio reclama un grado di coinvolgimento del soggetto assai più esplicito e carico di conseguenze sul piano esistenziale, di quello implicato quando si conosce mediante prove di carattere esclusivamente sperimentale. Nella conoscenza naturale di Dio, la ragione deve saper astrarre dalla misurabilità e cogliere le cause dell'essere delle cose come punto di arrivo di un cammino metafisico realista. «Quando si parla di prove dell'esistenza di Dio, dobbiamo sottolineare che non si tratta di prove d'ordine scientifico-sperimentale. Le prove scientifiche nel senso moderno della parola, valgono solo per le cose percettibili ai sensi, giacché solo su queste possono esercitarsi gli strumenti di indagine di cui la scienza si serve. Volere una prova scientifica di Dio, significherebbe abbassare Dio al rango degli esseri del nostro mondo, e quindi sbagliarsi già metodologicamente su quello che Dio è... Da ciò non deve tuttavia trarsi la conclusione che gli scienziati siano incapaci di trovare, nei loro studi scientifici, motivi validi per ammettere l'esistenza di Dio. Se la scienza, come tale, non può raggiungere Dio, lo scienziato, che possiede un'intelligenza il cui oggetto non è limitato alle cose sensibili, può scoprire nel mondo le ragioni per affermare un Essere che lo supera» (Giovanni Paolo II, Catechesi del mercoledi, 10.7.1985). Le prove di carattere filosofico, seguano esse una via antropologica oppure cosmologica, non causano da se stesse la fede, ma hanno solo la capacità di disporre il soggetto a giudicare intelligibile e ragionevole il contenuto della Rivelazione. Esse preparano il soggetto ad un'opzione personale per la verità, al riconoscimento del Volto presente nel mistero dell'Essere. Solo la Rivelazione biblica potrà svelare il senso ultimo di quella opzione: la risposta ad una chiamata, la donazione libera ad una Persona, l'entrata in una comunione di vita.
2. L'immagine biblica del Dio d'Israele rivelatosi in Gesù Cristo. La Rivelazione cristiana ci pone di fronte ad un'immagine di Dio in continuità con quella proveniente dall'osservazione della natura o tematizzata dal problema filosofico di Dio, ma comporta anche un'eccedenza. Essa ci pone di fronte a categorie nuove, che superano le aspettative della ragione e, in certo modo, dimostrano così di costituire un pensiero originale, rivelato, non proveniente da quell'orizzonte antropologico, ermeneutico o linguistico, all'interno del quale la parola umana appare di solito confinata (cfr. Ratzinger, 1971; Gilson, 1984). Siamo di fronte ad un Dio presente sull'orizzonte e sul senso di tutta la storia e non solo nel suo inizio. Ci spostiamo concettualmente da un Dio di cui l'uomo può parlare, ad un Dio che parla all'uomo, da un Dio che si vorrebbe interpretato, ad un Dio da cui lasciarsi interpretare.
Una prima novità riguarda la coesistenza, nell'immagine di Dio, di un concetto di portata familiare, rappresentato dall'appellativo di Padre, dal desiderio di entrare in relazione con l'uomo (rivelazione del suo nome, offerta dell'alleanza, incarnazione), ed un concetto di portata cosmica, cui rimanda la sua onnipotenza, il suo “essere nei cieli”, la sua pienezza di Essere. È la portata familiare della visibilità del Figlio, accanto alla portata cosmica del suo essere in tutto uguale al Padre invisibile (cfr. Gv 1,18; Gv 10,30); è, ancora, l'identità fra l'accessibilità di Gesù di Nazaret e l'eternità del Cristo-Verbo incarnato. La vicinanza di Dio all'uomo e la Sua disponibilità ad entrare in comunione con lui — che nel NT raggiungerà insospettati traguardi nella proposta di una filiazione adottiva mediante l'incorporazione al Figlio e la copossessione del medesimo Spirito (cfr. Gal 2,20; Rm 8,10-11) — non diminuirà per questo i caratteri di universalità, aseità o trascendenza associati all'Assoluto. Un pensiero scientifico abitualmente attento proprio a non rinunciare a quei caratteri cosmici quando debba parlare di un Assoluto colto come verità e fondamento, può ritrovarli immutati nell'immagine del Dio cristiano, nonostante la sua sconvolgente prossimità all'uomo e alla sua storia.
In Dio trascendenza ed immanenza cessano di essere concetti alternativi per divenire concetti correlativi. La novità di questo rapporto dipende essenzialmente dalla novità della dottrina della creazione ex nihilo sui et subiecti. La simultanea trascendenza ed immanenza di Dio nei suoi rapporti con il mondo è infatti implicita nella concezione di un Dio che sia simultaneamente Increato (e perciò trascendente) e Creatore (e pertanto immanente come una causa nel suo effetto). La filosofia greca non sapeva tenere unite queste due proprietà: dell'Essere o del divino si predicava l'eternità, l'immutabilità, l'assenza di principio, ma il rapporto con le creature e nelle creature era affidato al Demiurgo. Furono i Padri della Chiesa a mostrare la differenza del Dio cristiano rispetto agli dèi pagani, i quali non verificavano la condizione di essere allo stesso tempo increati e creatori. Solo un Dio che trascende il mondo come Creatore increato, può essere veramente immanente in tutte le cose, con l'intimità di chi ha in Sé la ragione fondante di tutto ciò che esiste: «Deus interior intimo meo et superior summo meo» (s. Agostino, Confessiones, III, 6).
La ragione scientifica incontra difficoltà a comporre questi due poli, perché coglie i concetti di trascendenza e di immanenza principalmente sotto l'aspetto cosmologico, legandoli alla dimensione spazio-temporale. Trascendenza vuol dire allora distacco, separazione, mentre immanenza vuol dire presenza che sostiene dall'interno; la prima risulta legata ad una dimensione di superamento storico e la seconda ad una dimensione fissista. I due concetti manifestano pertanto una certa alternativa. La stessa nozione di trascendenza viene travisata, perché comprendendola solo come distanza di Dio dalle creature, si finisce col porre i due termini — Dio e il creato — sullo stesso piano, un piano spazio-temporale. La trascendenza di Dio ha invece un significato più ricco. Essa non rimanda solo alla separazione o all'incommensurabilità di Dio, ma principalmente alla sua santità morale, all'imperscrutabilità delle sue vie. È questa una “superiorità essenziale” di Dio e non semplice trascendenza spaziale. L'immanenza divina, poi, non è limitata al sostentamento metafisico di tutto ciò che esiste, ma coinvolge la conoscenza intima delle cose, delle intenzioni più nascoste, la provvidenza verso ciò che è piccolo e apparentemente privo di significato: non è presenza/immanenza dimensiva, ma “sguardo amoroso di Dio” su ogni creatura (cfr. Sal 139).
Infine, nel Dio cristiano coesiste la rivelazione come pienezza di essere e come amore, perché nel fondamento dell'essere vi è una comunione personale, il mistero di una vita trinitaria. La capacità della relazione, cioè soprattutto la libertà, appartiene al nucleo più intimo della vita divina e coesiste anch'essa con i caratteri cosmici dell'Assoluto. L'esistenza di una vera dimensione relazionale paterno-filiale nella vita immanente di Dio, considerata dal punto di vista del rapporto instaurato dalla creatura con Dio, fa sì che all'Assoluto si possa dare del Tu senza che la trascendenza della sua immagine ne venga impoverita. La religione può dunque declinare un “io-Tu” rivolgendosi a Dio senza cadere nel mito, perché tale declinazione viene resa possibile elevando questo rapporto a partecipare di una relazione immanente preesistente, cioè come “figli nel Figlio”. Ma anche la relazione fra l'Assoluto e la creatura, che sul piano ontologico dovrebbe considerarsi solo una relazione di ragione, acquista un nuovo realismo sul piano dialogico. Dio si dirige alla creatura umana con tutto il realismo di un vero dialogo paterno-filiale retto dalla logica dell'amore e non con la semplice espansione del suo essere verso ciò che Egli ha posto, nella creazione, fuori di Sé (ad extra). Dio parla al mondo per Amore del Figlio, perché il Padre pronuncia eternamente dentro di Sé (ad intra) questa Parola e la possiede nell'amore del suo Spirito.
Affermare che nel cuore dell'Essere vi è il dialogo, e accanto alla sostanza vi è la relazione, costituisce una novità per la logica aristotelica, in base alla quale la sostanza è portatrice di significato e di fondamento, mentre la relazione è solo un accidente. Nel pensiero platonico, inoltre, la perfezione era associata all'unità indivisibile: la molteplicità si presentava sempre come un degrado proveniente dalla frammentazione di ciò che è puro e semplice. Nella visione cristiana, invece, accanto alla sostanza divina si trova necessariamente il dialogo; la relazione viene intesa anch'essa come forma originaria di essere. Il mistero della vita trinitaria suggerisce che l'unità ottenuta mediante la reciproca donazione che si attua nella libertà dell'amore “è più grande” dell'unità di chi resta Uno indiviso e non può porsi in relazione con alcuno. Nella vita intima del Dio cristiano la molteplicità non impoverisce l'unità, ma la fonda.
3. Il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe è il Dio dei filosofi e degli scienziati. Nel rapporto fra l'immagine di Dio offerta dalla Rivelazione e il debole riflesso dell'Assoluto o del mistico, intravisto dalla filosofia o dalle scienze naturali, la teologia dovrebbe evitare due rischi opposti. Da un lato, quello di ritenere che la prima immagine non abbia nulla in comune con la seconda, proprio a motivo della eccedenza e della novità delle categorie bibliche che ne delineano i tratti. Questa posizione si coniuga con un approccio totalmente (ed esclusivamente) apofatico all'Assoluto, ove la filosofia è compresa come “sapere di non sapere” ed il mistero dell'Essere non soggetto ad alcuna predicazione: un Dio così si può solo invocare, attendere che si riveli, ma di Lui la ragione non potrebbe affermare proprio nulla, neanche essere certa della sua esistenza. Dall'altro, vi è il rischio di prendere le deboli determinazioni della ragione sull'Assoluto come normative rispetto a quanto una rivelazione divina potrebbe ragionevolmente dire, rivisitando così il programma razionalista di ridurre la religione entro i limiti della pura ragione, oppure riproponendo l'abbaglio di certa neoscolastica di trasformare l'ineffabilità e l'indisponibilità dell'Essere nella disponibilità di un Super Ente o, ancora, valutando la significatività di ogni discorso su Dio solo all'interno dell'antropologia, come voluto da una mal compresa svolta antropologica della teologia. Per quando riguarda il suo rapporto diretto col pensiero scientifico, siamo convinti che la teologia, evitando i due rischi precedenti e navigando fra Scilla e Cariddi, dovrebbe prendere coraggiosamente in esame, dopo un necessario chiarimento epistemologico, sia la domanda su Dio sorta nel contesto della razionalità scientifica, sia le deboli determinazioni che essa va assumendo, nella certezza che se l’universo della scienza è reale, allora deve essere necessariamente anche lo stesso universo che Dio ha creato.
Questo tipo di navigazione, sebbene più impegnativa, le assicura un minimo ma importante raccordo di intelligibilità perché il suo discorso su Dio — la cui giustificazione ultima giace sempre all'interno della Rivelazione — sia significativo anche per la razionalità della scienza. Una prova indiretta dell'importanza di non trascurare questo raccordo ci è fornita dalla frattura che molti scienziati avvertono fra una sorta di unconventional God, la cui nozione si fa strada nelle loro riflessioni, e l'immagine del conventional God associata alle religioni tradizionali. Quando la teologia presenta un'immagine di Dio staccata da quell’itinerario ascendente che ogni ricerca della verità sul mondo incarna ed esprime, non solo corre il rischio di un nuovo fideismo, ma paga anche il prezzo di un nuovo deismo, come unica via di uscita lasciata alla ragione. Quanto qui intendiamo equivale ad affermare senza ambiguità, riprendendo un accostamento familiare, che il “Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe” è anche il “Dio dei filosofi e degli scienziati”. Non si intende però contraddire la nota aspirazione pascaliana, che avrebbe qui invece letto una disgiuntiva. Pascal parlava del Dio des savants (dunque dei “dotti”) e si muoveva su un terreno mistico ed esperienziale piuttosto che teoretico: l’interlocutore verso il quale manifestava diffidenza era il Dio di Descartes ed aveva come obiettivo una critica alla superbia della ragione. Sulla convenienza di intraprendere una simile e più impegnativa navigazione pare esprimersi anche la Fides et ratio: «L'unità della verità è già un postulato fondamentale della ragione umana, espresso nel principio di non-contraddizione. La Rivelazione dà la certezza di questa unità, mostrando che il Dio creatore è anche il Dio della storia della salvezza. Lo stesso e identico Dio, che fonda e garantisce l'intelligibilità e la ragionevolezza dell'ordine naturale delle cose su cui gli scienziati si appoggiano fiduciosi, è il medesimo che si rivela Padre di nostro Signore Gesù Cristo» (Fides et ratio, 34).
Una nozione di Dio colta come «fondamento e garante dell'intelligibilità e della ragionevolezza dell'ordine naturale» si muoverebbe in un orizzonte metafisico, ma non resterebbe confinata in un'onto-teologia caratterizzata da un'immagine dell'Essere di tipo sostanziale. Essa resterebbe aperta al suo svelarsi in progressivi e sempre nuovi livelli di profondità dinamica, in accordo con l'itinerario di inesauribile approfondimento delle verità naturali. Sarebbe riconosciuta sempre come dono, perché la scienza ha la consapevolezza di trovarsi di fronte ad una natura ricevuta, aperta all'induzione e alla scoperta, non ad una physis chiusa in se stessa, proprietaria delle ragioni ultime del proprio essere. Analogamente, la nozione di Dio che emerge nelle scienze dalla “percezione dei fondamenti” e dall'“esperienza del sacro” non si colloca nella linea di una nozione-tappabuchi o in quella di un Deus ex machina. Si tratta di una nozione associata ad un'area di significato che trascende la razionalità scientifica, un logos che non si presenta solo con i caratteri della ratio, ma anche con quelli del verbum, in certa analogia con quanto accade nel Logos divino, ove la parola razionale che sostiene il mondo è inseparabile dalla parola che rivela e interpella. È un logos il cui appello parte dalla natura ma termina nella persona, perché capace di suscitare, almeno in via di principio, domande ed esperienze di tipo esistenziale.
Compiuti gli opportuni scandagli epistemologici, la navigazione della teologia può proseguire su una rotta più propriamente dogmatica fino a sfociare nell'oceano del mistero del Verbo incarnato. È questa l'alterità, il Logos, verso cui ogni ricerca della verità — provenga essa dalle scienze, dalla filosofia o dalla teologia — si sente in definitiva coinvolta ed attratta. Poiché nel mondo della cultura scientifica rivestono un interesse decisivo i canoni dell'universalità e della generalizzazione, occorrerà anche spiegare in modo convincente i rapporti fra il Logos cristiano e l'universalità della verità, fra il discorso sul Dio di Gesù Cristo ed il discorso su Dio presente nelle altre tradizioni religiose. Ciò vuol dire accettare fino in fondo lo scandalo ed il rischio che comporta l'affermazione che la pienezza di questo Logos su Dio è visibile e accessibile nel volto umano di Gesù di Nazaret, che quell'universale ammette un concretum storico e personale. È l'annuncio sconvolgente che la verità è una Persona, è la risposta che chiarisce perché si può parlare di amore per la verità e perché la verità, per essere conosciuta, deve essere anche amata. «Evangelizzare è anzitutto testimoniare, in maniera semplice e diretta Dio rivelato da Gesù Cristo, nello Spirito Santo. Testimoniare che nel suo Figlio ha amato il mondo, che nel suo Verbo incarnato ha dato ad ogni cosa l'essere e ha chiamato tutti gli uomini alla vita eterna. Questa attestazione di Dio farà raggiungere forse a molti il Dio ignoto, che essi adorano senza dargli un nome, o che cercano per una aspirazione segreta del cuore allorquando fanno l'esperienza della vacuità di tutti gli idoli» (Evangelii nuntiandi, 26).
Non v’è dubbio che senza l’ermeneutica offertaci dal mistero pasquale, cioè quel “perché il Padre ha tanto amato il mondo”, non potremmo mai raggiungere una vera comprensione del mistero del mondo, perché il mondo non è il semplice effetto della dipendenza da un Assoluto quale fondamento della sua esistenza e chiave del suo senso ultimo, ma è l’espressione di un dono filiale. Essendo stata la creazione voluta e realizzata nel mistero del Cristo (cfr. Col 1,16-17), la piena comprensione di tutto quanto procede dalla creazione si rende possibile solo grazie all’azione dello Spirito (cfr. 1Cor 2,1-14). Ma è proprio la corrispondenza in Cristo tra creazione e salvezza a suggerire che l’ermeneutica pasquale, le cui chiavi possiede solo lo Spirito, debba includere anche la possibilità di avvicinarsi al senso del mondo attraverso la ricerca dei suoi fondamenti naturali, mediante una conoscenza scientifica che sappia restare aperta al mistero e alla logica di un dono.
Documenti della Chiesa Cattolica correlati:
Simbolo Niceno-Costantinopolitano, DH 150; Concilio Lateranense IV, DH 800; Concilio Vaticano I, DH 3001-3004; DH 3538; DH 3622; Humani generis, DH 3875-3876; Dei Verbum, 3, 6; Nostra aetate, 1-2; Dignitatis humanae, 3; Giovanni Paolo II, Io credo in Dio Padre Onnipotente. Catechesi del mercoledi, II, a cura di S. Maggiolini, Piemme, Casale Monferrato 1987, pp. 10-115; Fides et ratio, 1-4, 13-15, 26-29, 34, 53, 93-97.
Filosofia e teologia: J. Danielou, Dio e noi, Paoline, Alba 1967; J. Ratzinger, Introduzione al cristianesimo, Queriniana, Brescia 1971; C. Fabro, L'uomo e il rischio di Dio, Studium, Roma 1975; J. Danielou, La Trinità e il mistero dell'esistenza, Queriniana, Brescia 1989; J. Alfaro, Dal problema del'uomo al problema di Dio, Queriniana, Brescia 1981; J. Auer, Il mistero di Dio, Cittadella, Assisi 1982; E. Gilson, Dio e la filosofia, Massimo, Milano 1984; W. Kasper, Il Dio di Gesù Cristo, Queriniana, Brescia 1985; A.L. González, Filosofia di Dio, Le Monnier, Firenze 1988; C. Fabro, Le prove dell'esistenza di Dio, La Scuola, Brescia 1989; G. Lafont, Dio, il tempo e l’essere, Piemme, Casale Monferrato 1992; F. Courth, Il mistero del Dio Trinità, Jaca Book, Milano 1993; Giovanni Paolo II, Varcare le soglie della speranza, Mondadori, Milano 1993; G. Mura (a cura di), Una “rilettura” di Dio nella cultura contemporanea, Città Nuova, Roma 1995.
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