Sì, esistono prove filosofiche, ereditate soprattutto dal pensiero classico e medievale, che dimostrano in sede logica e metafisica l’esistenza di una Causa Prima, di un Primo Principio, di un Assoluto incondizionato. Certamente, esse non pretendono dimostrare Dio quale Essere personale che crea il mondo per amore e si impegna liberamente in favore dell’uomo: un soggetto personale, nel senso più profondo, non si "dimostra", ma può solo rivelarsi liberamente. Tuttavia, le prove filosofiche dell’esistenza di Dio hanno un loro valore specifico, in quanto dimostrano che esiste una certa nozione di Dio confacente alla ragione umana. Queste prove sono importanti anche per la teologia, dal momento che, anche grazie ad esse, l’oggetto della fede e della rivelazione può apparire alla ragione umana come "pensabile", risultando così significativo a livello intellettuale.
Filosofi come Platone o Aristotele ci hanno trasmesso prove dell’esistenza di Dio?
Sia Platone che Aristotele sono giunti a stabilire l’esistenza di un Primo Principio, considerato come realtà trascendente e intelligente.
Secondo Platone, il fatto che possiamo individuare nell’universo misura, regolarità e leggi può accadere perché esiste un ordine intelligibile, caratterizzato da una struttura logico-dialettico-geometrica che mostra una stabilità e una perfezione ben superiori a quelle di cui sono invece capaci le realtà sensibili, segnate invece, di per sé, dal divenire, dall’imperfezione e dalla finitezza. Perciò, la realtà deve essere caratterizzata dall’esistenza di due piani originari distinti: il piano dei modelli o forme della realtà, che egli chiama Idee,a cui associa anche gli Enti matematici, e quello della materia e delle entità che si trovano in essa. Come Platone spiega nel Timeo, affinché questi due livelli di realtà entrino in relazione, deve esistere un’Intelligenza che pone nella materia forme e modelli di natura intelligibile, comportandosi come un Demiurgo – che vuol dire ‘Artefice’ – il quale plasma il mondo orientandolo al Bene.
Aristotele intraprende una strada diversa da quella di Platone, tuttavia è d’accordo con lui su due assunti fondamentali: a) l’esistenza e la costituzione del mondo rinviano ad un ordine formale e intelligibile, che non si identifica con la semplice materialità dei suoi componenti; b) per comprendere tale ordine, bisogna riconoscere l’esistenza di un’Intelligenza, distinta dal mondo stesso, che ordina gli elementi e imprime loro un orientamento di fondo verso il bene.
Aristotele osserva che il cosmo è pervaso dal moto, che egli considera eterno. Ogni ente si muove, cioè passa dalla potenza all’atto, perché vi è un altro ente già in atto che ne determina il passaggio, ovvero il movimento. Perciò, affinché il divenire possa realizzarsi, è necessario che esista un Atto puro, un Motore primo e immobile, capace di provocare il movimento senza essere mosso a sua volta. L’Atto puro sarà caratterizzato dalla vita (che per Aristotele è il modo più perfetto di esistere), e dal pensiero, che è l’attività più alta e più nobile che si possa immaginare. Aristotele chiama quindi “Dio” un tale Atto, caratterizzato da Vita e Pensiero. Se poi si ammette che il pensiero di Dio sia il più alto e che Dio stesso rappresenti ciò che c’è di più nobile nel mondo, allora bisognerà concludere che Dio sia pensiero che pensa se stesso, pensiero di pensiero. Nel pensare se stesso, secondo Aristotele, Dio si costituisce come perfezione pura, capace di far muovere tutte le cose, non però come un Demiurgo, dunque come una causa efficiente, che plasma il mondo agendo direttamente sul mondo stesso. Secondo Aristotele, Dio si comporta piuttosto come una causa finale, ossia come principio che attira le cose verso la propria perfezione, suscitando quindi in ogni specie dell’universo una tensione interna verso la propria perpetuazione e verso la realizzazione del meglio. Per questo Aristotele dice che Dio si relazione al mondo come un «oggetto di desiderio» (cf. Metafisica, XII, cc. 6-9).
Che cosa sono le “Cinque vie” di Tommaso d’Aquino e che cosa provano?
Quando si parla di “prove” dell’esistenza di Dio si è solito pensare alle “cinque vie” di Tommaso d’Aquino (1225-1274), esposte nella Somma Teologica (parte I, q. 2, art. 3). Sono chiamate vie per indicare il fatto che si parte sempre dall’esperienza, per giungere all’esistenza di un Ente che “fonda” o “giustifica” tutta la realtà, secondo un aspetto diverso a seconda della via: Motore non mosso da altri, Causa Prima, Essere Necessario, Pienezza delle perfezioni, Intelligenza ordinatrice. Quindi, all’interno di ciascuna di queste vie, che seguono un’evidente logica comune, si compie l’ultimo passo, affermando che la realtà raggiunta con tale procedimento è «colui che tutti chiamano Dio». Il termine Dio non è quindi il risultato delle vie, ma è desunto dal senso religioso, indicando ciò che gli uomini da sempre credono e invocano. In sostanza, le “cinque vie” dicono che il Dio creduto ed invocato nella pratica religiosa, pur non “deducibile” dalla ragione umana alla maniera di un astratto contenuto mentale, possiede però una “controparte” filosofica, che ne pone in luce l’intelligibilità e ne mostra l’esistenza, attraverso ragionamenti rigorosi.
Di cosa parlano in sostanza queste cinque vie e quali percorsi esse propongono? La nostra ragione intraprende questi cinque “percorsi” nel momento in cui si mette alla ricerca di una valida spiegazione filosofica del divenire e della causalità, del possibile e del necessario, della gradualità di beni e perfezioni, della finalità presente nella natura.
La prima “via” riprende quanto già aveva dimostrato Aristotele, ossia che il divenire esige l’esistenza di un Atto puro, che muova senza essere mosso (è il “motore immobile”, come viene a volte colloquialmente indicato).
La seconda via concerne la causalità. Nulla può essere causa di se stesso, altrimenti causerebbe qualcosa prima di esistere. Perciò, è necessario ammettere che tutto ciò che è causato, lo sia da qualcos’altro. Se dunque esiste una concatenazione essenziale di cause tra loro diverse, deve esistere una Causa prima, causa incausata, da cui la catena causale possa essere partita.
La terza via parte dalla constatazione che molti enti sono contingenti, ossia esistono, ma potrebbero anche non esistere. Se tutto nel mondo potesse sia essere che non essere, se non ci fosse insomma niente di necessario, allora non vi sarebbe fondamento e giustificazione alcuna per la realtà. All’interno della realtà fisica, si potranno certamente considerare alcune realtà fondamentali come necessarie (così facevano gli aristotelici con i cieli e i loro motori). Tuttavia, precisa Tommaso, come nel caso delle cause efficienti, anche tra le realtà necessarie ce ne deve essere qualcuna che non appaia necessaria solo all’interno di un certo ordine, ma necessaria di per sé e quindi “prima”.
La quarta via riguarda la nostra esperienza del bene e della perfezione. Noi non potremmo riconoscere qualcosa come un certo bene, né compararlo con altri beni, se non concepissimo un grado massimo di bontà su cui misurarlo. Se applichiamo questo criterio al vero, al bene, al nobile dovremmo allora riconoscere che affinché esista qualcosa di vero, di bene o di nobile, deve esistere un Ente che sia vero, buono e nobile e che lo sia al massimo grado.
La quinta via prende constata che nel mondo ci sono realtà – potremmo pensare ad animali, piante o anche a interi sistemi fisici o biologici – che pur non essendo di per sé dei soggetti dotati di un’intelligenza individuale, sembrano agire in maniera intelligente, mettendo in atto strategie orientate a produrre effettivamente il comportamento migliore. Il mondo si presenta quindi con i caratteri dell’ordine, della razionalità e del finalismo, che rimandano ad una “Intelligenza” che deve esserne la causa.
Che cos’è la «prova ontologica» dell’esistenza di Dio?
Nel suo Proslogion, il filosofo medievale Anselmo d’Aosta (1003-1109) si chiede se non sia possibile trovare «un unico argomento» (unum argumentum), «tale da non avere bisogno di null’altro se non di se stesso» (Proslogion, proemio). Anselmo ritiene di averlo trovato, elaborando questo ragionamento: chi nega Dio affermando «Dio non esiste», dovrà pur sempre dare alla parola “Dio” un significato preciso, per rendere una tale negazione sensata. Anche per lui, Dio sarebbe «ciò di cui non si può pensare nulla di maggiore». Egli dovrebbe però ammettere che se «ciò di cui non si può pensare nulla di maggiore» fosse soltanto nell’intelletto, allora non sarebbe davvero «ciò di cui non si può pensare nulla di maggiore», perché «ciò di cui non si può pensare nulla di maggiore» solo nell’intelletto sarebbe minore di «ciò di cui non si può pensare nulla di maggiore» esistente però anche nella realtà. Perciò, «ciò di cui non si può pensare nulla di maggiore» non può trovarsi nel solo intelletto, ma anche nella realtà (cfr. Prologion, 2).
Con Cartesio questo argomento viene trasformato in una vera e propria “prova ontologica”, considerando l’essere (ecco perché tale prova è detta ontologica) come attribuzione intrinseca di un’idea, quella di Dio, che ha per contenuto l’Ente perfettissimo. Per Cartesio, noi dobbiamo affermare che il Dio di cui abbiamo una tale idea deve necessariamente esistere, perché non potremmo nemmeno concepire un ente come «perfettissimo», se ad esso mancasse una perfezione quale l’esistenza (Cartesio, Meditazioni Metafisiche, III).
Questo tipo di prova ha generato reazioni contrastanti. Capace di suscitare grande interesse in autori contemporanei come Kurt Gödel e Alvin Plantinga, essa si è anche guadagnata notevoli critiche. È di Kant la celebre formulazione secondo la quale non basta avere l’idea di una cosa che possieda tutte le perfezioni per dire che essa esista: un conto è avere cento talleri in mente, dice Kant, un altro è averceli in tasca (I. Kant, Critica della ragion pura, ii. «Dialettica trascendentale», l. II, c. 3, sezione IV). La critica kantiana non sembra però colpire propriamente l’argomento elaborato da Anselmo, dato che questi non parte, in senso stretto, da una specifica idea di Dio presente già nella nostra mente e a cui attribuiremmo l’essere passando da un piano logico ad uno ontologico, come invece fa Cartesio. Anselmo d’Aosta ha certamente voluto costruire un argomento con cui mostrare che chi nega l’esistenza di Dio si contraddice, nel momento stesso in cui concepisce una tale negazione; tuttavia, è chiaro che Anselmo non abbia fondato la propria prova sulle caratteristiche intrinseche di una qualche idea presente a priori nella nostra mente. È Cartesio, piuttosto, ad affermare che l’idea di Dio sia innata, in quanto, proprio per la sua perfezione, non può esserci derivata dall’esperienza.
Esistono anche “prove antropologiche” per mostrare l’esistenza di Dio?
Gli uomini hanno avuto accesso alla nozione di Dio attraverso due grandi ambiti: l’osservazione della natura e lo scavo della propria interiorità. In un frammento delle sue opere, Aristotele dice che fin dalle epoche più antiche gli uomini avevano ricavato la nozione di Dio da due fonti: il movimento ordinato delle stelle e l’esistenza dell’anima umana. Ritroveremo un’analoga osservazione molti secoli dopo, nella conclusione della Critica della ragion pratica di Kant: «Due cose non cesseranno mai di sorprendermi: il cielo stellato sopra di me e la legge morale in me». Perciò, a fianco di un itinerario cosmologico si può riconoscere anche un itinerario antropologico.
Le “prove antropologiche” sono quelle che partono da qualcosa che l’essere umano sperimenta dentro di sé. Un autore che, con particolare profondità, ha battuto questa strada è stato Agostino di Ippona. Si pensi ai desideri di felicità e di giustizia, al cui compimento l’uomo aspira per natura: non resterebbero forse inesorabilmente incompiuti, se la vita finisse con la morte e se non esistesse una giustizia d’ordine superiore a quella semplicemente umana? Si pensi poi alla libertà, di cui l’uomo, diversamente dagli altri animali, si riconosce come soggetto, a cui vede corrispondere una “responsabilità”, che sembra esigere precisamente lo stare di fronte a qualcuno.
A questo genere di prove possono essere aggiunte quelle, maturate in tempi più recenti, che partono dall’unicità dell’essere umano nel panorama dei viventi sul nostro pianeta (Human Uniqueness). Secondo questa prospettiva, l’esistenza di un Ente trascendente rende ragione di una tale eccezionalità (segnata da tensione al progresso, intenzionalità, auto-trascendenza) meglio di chi pretenderebbe di concepire, come sua “causa totale”, la mera materialità fisica e biologica.
Come la filosofia moderna e contemporanea, Kant in particolare, hanno valutato le “prove” dell’esistenza di Dio?
Fino a Kant, anche gli autori moderni, in continuità con quelli precedenti, hanno comunemente attribuito valore alle prove dell’esistenza di Dio. Quando lo stesso Kant le passava in rassegna, per poi criticarle, riconosceva un certo primato della “prova ontologica”, coerente con il razionalismo cartesiano, ma anche l’importanza delle prove di tipo cosmologico e teleologico, legate cioè alla finalità nella natura, tutte prove ben presenti nella filosofia accademica del suo tempo.
Kant ha criticato non tanto questa o quella prova, ma l’idea stessa di fare dell’esistenza di Dio l’oggetto di una dimostrazione razionale. Più che false, Kant riteneva tali prove inconcludenti: esse risulterebbero pertinenti se Dio fosse un oggetto riconducibile alla nostra esperienza sensibile e alla conoscenza scientifica di matrice newtoniana, che Kant considerava l’unico orizzonte entro cui produrre una conoscenza teoretica. Poiché Dio non è una realtà del genere, allora bisognerebbe concludere che la nostra ragione conoscitiva non è fatta né per dimostrare, né per negare l’esistenza di Dio. L’ambito proprio in cui porre la questione dell’esistenza di Dio, per Kant, non è quello della conoscenza razionale (Ragion pura), ma quello della morale: infatti, egli pone l’esistenza di Dio come un postulato della ragion pratica (Kant, Critica della ragion pratica, parte I, libro II, cap. II, § 5). Solo sul fondamento garantito dai principi della ragion pratica si potrà poi riconoscere la legge morale anche come comando divino, inquadrando la religione, come egli volle affermare, entro i limiti della pura ragione.
Dopo Kant, le prove filosofiche dell’esistenza di Dio sono cadute in un certo discredito; tuttavia, più che per la forza della critica kantiana in se stessa, ciò è successo perché è caduto in discredito, in modo cruciale, il terreno sul quale il valore di queste prove poteva innestarsi. E questo per tre ragioni fondamentali. In primo luogo, è stato messo in discussione il valore della metafisica, per come la tradizione occidentale l’aveva concepita a partire dai Greci fino allo stesso Kant. In secondo luogo, si è consumata una crisi dell’ideale stesso della ragione, per come la filosofia antica e medievale l’aveva concepita. In terzo luogo, in Occidente è l’intero tema di Dio ad aver perso interesse: come scrive Charles Taylor in L’età secolare, si è passati da una società in cui era virtualmente impossibile non credere in Dio ad una nella quale pensare che Dio esista è considerato non solo una delle tante opzioni possibili, ma anche una delle meno plausibili. Riconoscere questi elementi critici non impedisce però di trovare, anche nel contesto contemporaneo, significative rivalutazioni di un pensiero filosofico capace di condurre fino a Dio. Lo testimoniano, ad esempio, autori come Étienne Gilson, Jacques Maritain, Henri De Lubac, Robert Speamann, Alvin Plantinga, Barry Miller, Richard Swinburne e Alister McGrath.
Quale rapporto vi è fra il Dio dei filosofi e la rivelazione di Dio di cui parlano le principali religioni?
In ciascuna delle principali religioni monoteiste (ebraismo, cristianesimo, islam) esistono figure che hanno considerato in modo positivo il rapporto tra pensiero filosofico e rivelazione in merito all’esistenza di Dio. Possiamo pensare, ad esempio, a Filone d’Alessandria e Mosé Maimonide in ambito ebraico; ad Avicenna e Averroè in quello islamico. Per questi autori, infatti, c’è convergenza tra il Principio primo a cui giunge la filosofia e il Dio che gli uomini pregano e che si rivela loro. Nonostante l’esistenza di casi così significativi sia nell’ebraismo che nell’islam, è però nel cristianesimo, in particolare in quello occidentale, che l’idea di una relazione positiva tra religione rivelata e filosofia ha trovato uno sviluppo stabile e duraturo, pur non mancando, soprattutto oggi, figure che la mettano in discussone. Questo fenomeno è spiegabile attraverso due ragioni fondamentali.
La prima è rintracciabile nel fatto che nell’ebraismo e nell’islam è particolarmente forte l’elemento che possiamo chiamare di ortoprassi, ossia il fatto che il buon ebreo e il buon musulmano sono coloro che osservano nel modo più fedele possibile la legge religiosa. Il cristianesimo invece, pur avendo anch’esso un importante elemento pratico-legale, è però più sbilanciato sull’ortodossia, ossia sul fatto che la relazione decisiva con Dio avvenga non solo attraverso la legge, ma anche e soprattutto attraverso l’amore, che non può fare a meno della contemplazione dellaverità. L’unione tra ragione e culto, secondo Agostino, oltre a permettere proficuamente di essere «filosofi nelle questioni religiose» e «religiosi nelle questioni filosofiche» (De vera religione, 7.12), consente una diffusione inedita delle principali verità che la filosofia aveva raggiunto già presso i pagani su Dio e sull’uomo, verità che nel mondo pagano rimanevano accessibili solo ad una cerchia illuminata, molto ristretta. Grazie alla pratica religiosa cristiana, invece, quello che era conquista intellettuale di pochi può diventare regola di vita per molti.
La seconda ragione consiste nel fatto che nell’Occidente latino e cristiano è sorta, tra l’XI e il XIII secolo, l’Università, luoghi in cui veniva stabilmente riconosciuta la legittimità dell’uso della ragione nel parlare di Dio. Le Università sanciscono, in qualche maniera, non solo il diritto, ma anche il dovere di promuovere un’armonica relazione tra fede e ragione.
Filosofia e fede, secondo il percorso descritto, appaiono chiamate a mantenere un dialogo aperto e fecondo: il Logos intravisto dai primi pensatori, il Dio dei filosofi, come pure l’Intelligenza che sembra stare alla base della razionalità dei fenomeni naturali, non sono qualcosa di estraneo allo stesso Dio creatore del cielo e della terra, che i cristiani credono essersi rivelato in Gesù di Nazareth, Verbo-Logos fatto uomo.
Visita anche il Percorso Tematico La domanda su Dio in filosofia e i suoi rapporti con la religione e le scienze
• Dalle creature a Dio, di Agostino d’Ippona
• La conoscenza di Dio mediante la ragione naturale e mediante la grazia, di Tommaso d’Aquino
• Le cinque vie per mostrare l’esistenza di Dio, di Tommaso d’Aquino
• La prova ontologica dell’esistenza di Dio di Kurt Gödel, di Roberto Timossi
• Le "prove" dell'esistenza di Dio, di Giovanni Paolo II
• La “grande domanda” e le “non ragioni” degli atei, di Dario Antiseri
• Le prove dell'esistenza di Dio nella filosofia, un libro di Enrico Berti
In metafisica e in filosofia della natura la Causa prima indica la causa incausata, prima in senso logico e non solo cronologico, che implica tutto ciò che esiste e dalla quale tutto ciò che esiste trae origine. Le cause seconde ricevono dalla Causa prima l’essere e l’essenza, cioè la capacità di causare a loro volta. Le cause seconde (ad es. le leggi di natura) sono responsabili degli effetti che esse causano, a differenza delle cause strumentali (ad es. un martello), che causano solo in virtù dell’agente principale.
Nome con cui nella tradizione ebraico-cristiana si indica la Parola-Verbo, seconda Persona della Trinità divina, nella quale e per mezzo della quale sono state create tutte le cose. La dottrina teologica sul Logos creatore recupera l’ampia riflessione filosofica che pone all’origine e a fondamento del mondo la ragione dandogli il volto della Sapienza divina (ebraismo) e del Verbo, conosciuto nella sua Incarnazione nella storia (cristianesimo). Le rappresentazioni artistiche che illustrano le pagine bibliche della Genesi (ad esempio i mosaici bizantini della Basilica di Monreale o di San Marco a Venezia) raffigurano il Logos con le sembianze del Cristo, Verbo incarnato.
Ambito della riflessione filosofica noto come “filosofia dell’essere” (dal participio del verbo essere in greco, ón, óntos). Il termine, sorto nel XVII secolo, corrisponde a quanto, nell’epoca classica, veniva indicato come metafisica o “filosofia prima”. Mentre altre prospettive filosofiche si occupano delle specificazioni dell’essere, ad es. in quanto oggetto di trasformazioni, di moto o di osservazione sperimentale, l’ontologia si occupa dell’ente in quanto ente. L’ontologia, come discorso dell’essere, precede e fonda ogni altro discorso filosofico, come la filosofia della natura (discorso sull’ente in quanto mobile e in trasformazione) o l’analisi empirica (l’ente in quanto oggetto di misurazione quantitativa); precede anche la filosofia dell’esistenza, perché la riflessione sul senso dell’esistere segue la realtà dell’essere delle cose.
Con significato opposto a quello di immanenza/immanente, si riferisce a “ciò che sta al di là”, che sta oltre la realtà mondana. È un attributo di Dio inteso come ente distinto dall’universo e dalla materia.
Termine chiave della filosofia aristotelica e medievale, indica la perfezione, il compimento, la realizzazione di ciò che, incompleto o non ancora attuato, resterebbe soltanto “in potenza” (altro termine tecnico del pensiero aristotelico). Nella Metafisica, Aristotele mette in relazione l’atto principalmente con la forma (quale principio attivo) e la potenza con la materia (elemento passivo). Qualificato come Atto puro, Dio è considerato vita per eccellenza e pensiero che pensa se stesso (“pensiero di pensiero”).