Tu sei qui

Dalle creature a Dio: il senso di un itinerario cosmologico e antropologico

Agostino di Ippona
397-400

Confessiones, X

La nota pagina agostiniana ripropone l’itinerario ascendente che dall’interrogazione delle creature giunge fino alla domanda su Dio. L’interrogativo si sposta poi sul piano antropologico, accedendo alla memoria, e al riconoscimento dell’immagine di Dio nell’esercizio delle facoltà spirituali del soggetto che interroga.

VI. Che ti amo, Signore, non ho alcun dubbio; anzi ne sono certo. Con la tua parola hai toccato il mio cuore, ed io ho cominciato ad amarti; ecco che cielo, terra e tutto ciò che è in essi mi invitano dovunque ad amarti e ininterrottamente invitano tutti, affinché non abbiano scuse [cfr. Rm 1,21]. Tu sarai più largamente misericordioso verso colui del quale fosti misericordioso, userai misericordia a colui del quale avesti misericordia [cfr. Rm 9,15]: se non fosse così cielo e terra pronuncerebbero le tue lodi dinanzi ai sordi.

Ma che cosa amo amandoti? Non una bellezza corporea, né una grazia transitoria; non lo splendore di una luce così cara a questi miei occhi; non dolci melodie di svariate cantilene; non un profumo di fiori, di unguenti e di aromi; non manna né miele; non membra invitanti ad amplessi carnali. Amando il mio Dio non amo queste cose. E tuttavia nell’amare lui amo una certa luce, una voce, un profumo, un cibo, un amplesso, che sono la luce, la voce, il profumo, il cibo, l’amplesso dell’uomo interiore che è in me, dove splende alla mia anima una luce che nessun luogo può ospitare, dove suona una voce che nessun fluire di secoli può portar via, dove si espande un profumo che nessuna ventata può disperdere, dove si gusta un sapore che nessuna voracità può sminuire, dove si intreccia un rapporto che nessuna sazietà può spezzare. Tutto questo io amo quando amo il mio Dio. E che cos’è? L’ho chiesto alla terra, ed essa mi ha risposto: «non sono io»; e ogni cosa che si trova su di essa ha ripetuto la medesima confessione. L’ho chiesto al mare, agli abissi e ai rettili con anime viventi [cfr.Gen 1,20] e mi hanno risposto: «non siamo il tuo Dio; cerca al di sopra di noi». L’ho chiesto ai venti che soffiano, e tutta l’atmosfera con i suoi abitanti mi ha risposto: «Anassimene si inganna: io non sono Dio». L’ho chiesto al cielo, al sole, alla luna, alle stelle: «Neanche noi siamo il Dio che tu cerchi», rispondono. L’ho chiesto a tutti questi esseri che stanno attorno al mio corpo: «Parlatemi del mio Dio; poiché voi non lo siete, ditemi qualche cosa di lui». Ed essi acclamarono a gran voce: È lui che ha fatto noi [cfr. Sal 100,3]. La mia richiesta era la mia riflessione, la loro risposta era la loro bellezza. Mi rivolsi poi a me stesso e mi chiesi: «Tu chi sei?». E mi risposi: «Un uomo». Ed ecco che ho a disposizione un corpo e un’anima: esteriore l’uno interiore l’altra; a quale dei due dovrei chiedere del mio Dio? Con il corpo lo avevo già cercato in terra e in cielo, dovunque potei inviare come messaggeri i miei occhi. Meglio, dunque, con l’anima. A lei come a chi presiede e giudica riferivano tutti i messaggeri del corpo le risposte del cielo, della terra e di tutto ciò che è in essi: «Noi non siamo Dio», e: È lui che ci ha fatti. L’uomo interiore ha conosciuto queste cose grazie a quello esteriore; io le ho conosciute, io spirito, grazie ai sensi corporali. Ho chiesto del mio Dio alla massa dell’universo, ed esso mi ha risposto: «Io non sono Dio, ma è lui che mi ha fatto». Questa bellezza non appare chiara a chiunque, per quanto dotato di sensi. Perché essa non parla a tutti con la medesima forza? Gli animali, siano piccoli che grandi, la vedono, ma non possono farle domande: in essi non c’è infatti una ragione capace di giudicare i messaggi dei sensi. Gli uomini invece possono porre domande al fine di vedere l’invisibile Iddio attraverso la comprensione delle cose create [cfr. Rm 1,20], però essi vengono resi schiavi dall’amore per il creato: gli esseri schiavi non possono ergersi a giudici. Queste cose, d’altronde, rispondono solo a chi è capace di giudicare, e non cambiano la loro voce, cioè la loro bellezza, se uno vede soltanto, e l’altro vede e interroga: non appaiono, insomma, diversamente all’uno e all’altro, ma allo stesso modo; salvo però che per l’uno sono mute, per l’altro eloquenti. Sarebbe meglio dire che esse parlano a tutti, ma le comprendono solo coloro che confrontano tale voce ricevuta dall’esterno con la verità che è nel loro intimo. la verità, infatti, mi dice così: «Non è il tuo Dio la terra, il cielo e qualunque altro essere corporeo». Dice questo la natura delle cose, e ognuno può vederlo, perché si tratta di una massa che è minore nelle sue parti che nel tutto. Tu, anima, sei certo più importante del tuo corpo, te lo dico io, poiché sei tu a dare a lui la vita, e nessun corpo può fare altrettanto verso un altro corpo. Il tuo Dio, poi, è la vita della tua vita.

VII. Che cosa amo, dunque amando il mio Dio? Chi è questi che sta al di sopra della mia anima? Salirò a lui proprio mediante la mia anima, andrò oltre la forza che mi lega al corpo e mi permea di vita. Non raggiungerò il mio Dio per mezzo di essa: se così fosse lo raggiungerebbero anche il cavallo e il mulo che sono senza intelligenza [cfr. Sal 32,9] e i cui corpi vivono grazie a quella medesima forza. C’è un’altra forza, quella che da al mio corpo non solo la vita, ma anche la sensibilità, e che mi ha dato il Signore, comandando all’occhio di non udire ma di vedere, e all’orecchio di non vedere ma di udire, e così ad ognuno degli altri sensi l’attività risponde alle rispettive loro sedi e le loro mansioni: tutte queste diverse attività le compio, per mezzo loro, io, unico spirito. Ebbene, supererò anche quest’altra forza: anch’essa infatti è posseduta pure dal cavallo e dal mulo, perché anch’essi hanno i sensi corporali.

VIII. Andrò dunque oltre queste mie energie naturali, salendo passo passo fino a colui che mi ha creato, e raggiungerò così il vasto campo di azione della memoria, dove si sono gli innumerevoli tesori d’immagini d’ogni genere portate lì dalle sensazioni. Ivi è riposta pure tutta l’attività della nostra mente che aumenta, diminuisce, o comunque trasforma quanto percepiscono i sensi, e qualunque altra cosa è stata messa da parte e non è ancora stata sepolta nell’oblio. Quando mi trovo là dentro, posso chiedere che ne escano le immagini che voglio: alcune si presentano subito, altre si fanno desiderare più a lungo e pare si debbano strappare via da angoli più nascosti; alcune prorompono a frotte e, mentre ne vorrei altre e continuo a cercare, balzano in mezzo come per dire: «Non siamo forse noi che tu cerchi?». Io le scaccio dalla memoria, e allora emerge quello che volevo e si fa avanti uscendo dal buio; altre si aggiungono snodandosi facili e nell’ordine in cui le vado cercando, l’una dopo l’altra per ritirarsi poi là dove stanno nascoste e da dove riappariranno appena io lo vorrò. Tutto ciò accade quando racconto qualche cosa a memoria.

Là si trovano conservate ciascuna secondo il proprio genere, tutte le cose che vi furono immesse attraverso le varie vie di accesso: così la luce e tutti i colori e le forme dei corpi, che vi entrarono attraverso gli occhi; i diversi tipi di suoni attraverso gli orecchi, i vari odori per la via delle nari, i sapori attraverso la bocca, e, mediante la sensibilità di tutto il corpo, ciò che, sia fuori che dentro il corpo stesso, vi è di duro, di molle, di caldo, di freddo, di liscio, di aspro, di pesante, di leggero. La memoria immagazzina tutte queste cose nei suoi ampi recessi e nelle sue nascoste, misteriose sinuosità, per ripensarle e richiamarle al momento opportuno. Vi entrano tutte passando ognuna per il proprio accesso e vengono messe in serbo: in realtà non sono le cose in se stesse ad entrare, ma le immagini delle cose colte coi sensi. E se ne stanno lì a disposizione del pensiero che voglia richiamarle, Chi mai sa spiegare com’esse si siano formate, anche se è chiaro da quali sensi vengono colte e riposte? Anche mentre io sono al buio e nel silenzio, traggo dalla memoria, se voglio, i colori, e distinguo tra bianco e nero e ogni altro colore che mi pare; e non accade che le immagini a cui penso e che ho attinto per mezzo degli occhi vengano ad essere disturbate da suoni, quantunque anch’essi presenti e come riposti in un luogo appartato. Se mi garba di chiamare pure loro, si fanno subito avanti, mentre io, senza aprire bocca, canto in silenzio finché voglio: e le immagini dei colori presenti anch’esse nella memoria, non interferiscono né mi disturbano mentre sto adoperando quest’altro tesoro penetrato dalle orecchie. Così tutte le altre cose che vengono introdotte e messe da parte attraverso i sensi, le posso ricordare quanto mi piace: distinguo il profumo dei gigli da quello delle viole senza odorare nulla, e, senza nulla gustare né toccare, ma soltanto ricordando, preferisco il miele al mosto cotto, il dolce all’aspro. Compio queste azioni al mio interno, nella grande stanza dove abita la memoria. Ivi sono a mia disposizione cielo, terra e mare con tutto ciò che ho dimenticato. Ivi ritrovo anche me stesso e ricordo quello che ho fatto, quando, dove e con quali sentimenti l’ho fatto. Ivi è ogni cosa che io ricordo o perché sperimentata personalmente o perché creduta dal racconto di altri. Sempre da questa ricchezza di oggetti deriva la possibilità di confrontare molte altre realtà, o sperimentare direttamente o credute sulla base dell’esperienza, e posso ricollegarle con eventi passati per immaginare da qui azioni, fatti e speranze future: su tutto ciò rifletto sempre come a cose presenti. «Farò questo, farò quello», dico fra me, nell’immenso vano del mio animo pieno di così tante immagini di cose: e di fatto segue ciò che dico: «Oh, se avvenisse questo, oppure quello! Dio ci guardi da questo o da quello!», e mentre dico così fra me, ecco uscire dal medesimo scrigno della memoria le immagini di tutto ciò che nomino: se esse non fossero là, non potrei nominarne neanche una.

Grande, veramente grande è questa facoltà della memoria, o mio Dio: è un ampio, sterminato sacrario. Chi può toccarne il fondo? E questa forza appartiene al mio animo, alla mia natura. Il fatto è che neppur io comprendo a pieno ciò che sono. Ma allora l’animo è forse incapace di comprendere se stesso, dove si trova e che cosa è suo? È dunque fuori e non dentro di sé? Come mai non comprende? Sono molto meravigliato di questo, mi prende un grande stupore. Gli uomini vanno ad ammirare le cime dei monti, le onde del mare, l’ampio scorrere dei fiumi, l’oceano, i moti degli astri e poi passano inosservati a se stessi. Non si meravigliano del fatto che, mentre parlo di queste cose, non le vedo con gli occhi; ma non potrei parlarne se non vedessi nella mia memoria in tutta la loro immensità come se li avessi dinanzi nella realtà i monti, le onde, i fiumi, gli astri che ho visto personalmente e l’oceano a cui credo per sentito dire. Eppure quando li ho visti con gli occhi non è che li abbia fatti entrare in me sostanzialmente, ma solo per immagini; e so attraverso quale dei sensi corporali ciascuna mi fu impressa dentro. […]

XXIV. Quanto ho spaziato nella mia memoria per cercarti, o mio Signore, non ti ho trovato fuori di essa. Infatti non ho trovato nulla di te che non ricordassi, da quando ti ho conosciuto; poiché da quando ti ho conosciuto non ti ho più dimenticato. Dove ho trovato la verità, lì ho trovato il mio Dio, la Verità stessa, di cui non mi sono dimenticato dal giorno in cui l’ho conosciuta. Da allora tu dimori nella mia memoria, e lì io ti trovo quando ti ricordo e gioisco in te. Questa è la santa gioia che tu mi hai misericordiosamente donato volgendo il tuo sguardo alla mia povertà.

XXV. Ma dove dimori tu nella mia memoria, Signore, dove? Quale stanza ti sei costruito, quale santuario ti sei eretto? hai fatto alla mia memoria l’onore di abitare in essa, ma in quale sua parte? Questo sto cercando. Nel ricordarmi di te ho superato quelle parti della mia memoria che anche le bestie posseggono, perché lì, tra le immagini delle cose corporee, non ti trovano. Sono giunto a quelle parti dove ho riposto i sentimenti dell’animo, e nemmeno lì ti ho trovato; sono entrato proprio dove nella memoria ha sede l’anima mia (essa infatti si ricorda anche di sé), ma tu non c’eri: come non sei immagine corporea, né uno di quei sentimenti che i viventi provano quando gioiscono, si rattristano, desiderano, temono, ricordano, dimenticano, ecc., così non sei nemmeno l’anima perché sei il Dio dell’anima. E mentre tutte queste cose sono mutevoli, tu resti immutabile al di sopra di tutto; e ti sei degnato di abitare nella mia memoria, da quando ti ho conosciuto. Ma perché cercare in quale parte di essa tu abiti, quasi che vi fossero varie parti? È certo che tu vi abiti, poiché mi ricordo di te dal giorno in cui ti conobbi; ed è lì che io ti ritrovo quando mi ricordo di te.

XXVI. Ma dove ti ho trovato, per poterti conoscere? Tu non eri nella mia memoria già prima che ti conoscessi; e allora dove ti ho trovato per conoscerti, se non in te, al di sopra di me? Tu non hai un luogo: ci allontaniamo, torniamo e non hai un luogo. Tu, Verità, siedi alto su tutti coloro che ti consultano, e rispondi contemporaneamente a tutti, anche se le domande sono diverse. Tu rispondi chiaramente, ma non tutti capiscono chiaramente. Ognuno ti consulta su ciò che vuole, ma non sempre si sente rispondere come vorrebbe. Servo fedele non è tanto chi bada a sentirsi dire da te ciò che vorrebbe, ma piuttosto chi si sforza di volere quello che da te si è sentito dire.

XXVII. Tardi ti ho amato, Bellezza tanto antica e tanto nuova; tardi ti ho amato! Tu eri dentro di me, e io stavo fuori, ti cercavo qui, gettandomi deforme, sulle belle forme delle tue creature. Tu eri con me, ma io non ero con te. Mi tenevano lontano da te le creature che, se non esistessero in te, non esisterebbero per niente. Tu mi hai chiamato, il tuo grido ha vinto la mia sordità; hai brillato e la tua luce ha vinto la mia cecità; hai diffuso il tuo profumo, e io l’ho respirato, ed ora anelo a te; ti ho gustato, e ora ho fame e sete di te; mi hai toccato, e ora ardo dal desiderio della tua pace.

Confessiones, Libro X, capp. VI-VIII e XXIV-XXVII, tr. it. di A. Landi, Paoline, Milano 1987, pp. 282-288 e 304-306.