La morte è un fenomeno della vita

Nel paragrafo 49 della sua opera principale, Essere e tempo, il filosofo tedesco Martin Heidegger traccia una “delimitazione dell’analisi esistenziale della morte rispetto ad altre interpretazioni possibili del fenomeno”. Qui Heidegger distingue il morire, che costituisce una possibilità tipica dell’essere umano (anzi, la possibilità che definisce la sua stessa modalità di esistenza, quella che l’autore chiama “Esserci”) dal semplice cessare di vivere, fenomeno puramente biologico che riguarda ogni essere vivente, sia esso animale o vegetale. Tra queste due possibilità, su un livello intermedio, si pone il fenomeno del decesso, nel quale l’essere umano non ha ancora assunto la morte come orizzonte che determina il suo stesso vivere. Per il filosofo la morte dell’essere umano non è dunque una questione semplicemente medica o biologica ma ha una valenza sempre ontologica, coinvolgendo e determinando l’orientamento complessivo dell’esistenza.

L’univocità dell’interpretazione ontologica della morte deve muovere anzitutto dalla chiara consapevolezza circa ciò su cui essa non può vertere e circa ciò da cui essa non può aspettarsi alcuna informazione o indicazione.

Nel senso più largo, la morte è un fenomeno della vita. Il vivere dev’essere inteso come un modo di essere cui appartiene l’essere-nel-mondo. La vita può esser determinata ontologicamente solo in virtù di un orientamento negativo nell’Esserci. Anche l’Esserci può esser considerato come un semplice vivente. Sottoposto a una ricerca puramente fisica e biologica, esso ricade in quella regione dell’essere che noi chiamiamo mondo animale e vegetale. Su questo terreno è possibile, mediante constatazioni ontiche, raccogliere dati e istituire statistiche circa la durata della vita delle piante, degli animali e degli uomini. È inoltre possibile stabilire connessioni fra la durata della vita, la riproduzione e l’accrescimento. Si possono esaminare i diversi «generi» di morte, le cause, i «meccanismi» e le maniere del suo sopraggiungere.

Alla base di questa ricerca ontico-biologica sulla morte si trova una problematica ontologica. Bisogna chiedersi in che modo l’essenza ontologica della morte determini quella della vita. La ricerca ontica intorno alla morte in certo modo ha già sempre deciso a questo proposito. Sono in essa operanti preconcetti più o meno chiari intorno alla vita e alla morte.

Bisogna invece delinearli attraverso l’ontologia dell’Esserci. È all’interno dell’ontologia dell’Esserci, preordinataa un’ontologia della vita, che l’analisi esistenziale della morte può esser subordinata a una caratterizzazione della costituzione fondamentale dell’Esserci. La fine del semplice-vivente è stata definita come cessare di vivere. Poiché anche l’Esserci «ha» la sua morte fisiologica quale essere vivente (non tuttavia isolata onticamente, ma condeterminata dal suo modo di essere originario), anch’esso può cessare, senza tuttavia che ciò significhi la morte in senso autentico. D’altra parte, poiché dell’Esserci come tale non si può dire che cessi semplicemente di vivere, indicheremo questo fenomeno intermedio col termine decesso. Morire varrà invece come termine per indicare il modo di essere in cui l’Esserci è per-la-sua-morte. Dal che consegue: l’Esserci non cessa mai semplicemente di vivere; e può decedere soltanto in quanto muoia. L’esame medico-biologico del decesso è in grado di giungere a risultati che possono avere anche un significato ontologico purché sia stato sufficientemente assicurato l’orientamento di fondo in vista di un’interpretazione esistenziale della morte. Dovremo dunque considerare malattia e morte, anche da un punto di vista medico, come fenomeni primariamente esistenziali?

L’interpretazione esistenziale della morte precede ogni biologia e ogni ontologia della vita. Essa fonda anche ogni ricerca sulla morte di carattere storico-biografico ed etno-psicologico. Una «tipologia» del «morire», intesa come caratterizzazione degli stati e delle maniere in cui il decesso è «subìto», presuppone già il concetto della morte. D’altra parte la psicologia del «morire» verte piuttosto sul «vivere» del «morente» che sul morire stesso. Ciò non è che il riflesso del fatto che l’Esserci non muore in primo luogo e non muore autenticamente con e in un’esperienza vissuta del decesso effettivo. Parimenti, le concezioni della morte dei primitivi e i loro atteggiamenti di fronte alla morte, riflessi nella magia e nel culto, significano prima di tutto una determinata comprensione dell’Esserci, comprensione la cui interpretazione richiede già un’analisi esistenziale e un corrispondente concetto della morte.

D’altra parte l’analisi ontologica dell’essere-per-la-morte non anticipa alcuna presa di posizione esistentiva nei confronti della morte. Dal fatto che la morte sia definita come la «fine» dell’Esserci, cioè dell’essere-nel-mondo, non consegue alcuna soluzione ontica di problemi come i seguenti: se «dopo la morte» sia possibile un altro essere superiore o inferiore; se l’Esserci «continui a vivere» o se, «sopravvivendo», sia addirittura «immortale». Sull’«aldilà» e sulla sua possibilità, in questa sede c’è da decidere onticamente così poco come sul mondo «di qua»; non si tratta di suggerire norme e regole «edificanti» per fronteggiare la morte. L’analisi della morte cade interamente di qua, giacché essa interpreta il fenomeno semplicemente come esso si radica nell’Esserci e in quanto possibilità di essere di ogni rispettivo Esserci. La stessa impostazione di una ricerca intorno a ciò che vi sia dopo lamorte è possibile con senso, diritto e garanzia metodologica solo se la morte è stata concepita nella sua piena essenza ontologica. In questa sede resta indeciso se una questione siffatta sia in generale possibile come problema teoretico. L’interpretazione ontologica della morte, orientata nel di qua, precede ogni speculazione ontica orientata nel di là.

E infine cade fuori dall’ambito di una analisi esistenziale della morte ciò che potrebbe esser discusso sotto il titolo di «metafisica della morte». Questioni come quelle circa il modo e il momento in cui la morte è «comparsa nel mondo», o intorno al «senso» che essa può o deve avere come male e come sofferenza nel tutto dell’ente, presuppongono necessariamente non solo una comprensione del carattere ontologico della morte, ma un’ontologia della totalità dell’ente nel suo insieme e in particolar modo una chiarificazione ontologica del male e della negatività in generale.

I problemi della biologia, della psicologia, della teodicea e della teologia della morte sono quindi subordinati all’analisi esistenziale. Considerati onticamente, i suoi risultati rivelano la peculiare formalità e vuotezza proprie di ogni caratterizzazione ontologica. Il che, però, non deve impedirci di vedere la ricca e complessa struttura del fenomeno. Se già l’Esserci non è mai accessibile come semplice-presenza, perché al suo modo di essere appartiene l’esser-possibile in una maniera del tutto particolare, tanto meno ci dovremo aspettare di poter ricavare facilmente la struttura ontologica della morte, una volta ammesso che la morte costituisce una possibilità eminente dell’Esserci.

D’altra parte l’analisi non può attenersi a un’idea della morte casuale e arbitraria. L’arbitrarietà può essere pilotata solo mediante la determinazione ontologica preliminare del modo d’essere in cui la «fine» rientra nella quotidianità media dell’Esserci. In vista di ciò è necessario riandare alle strutture della quotidianità precedentemente esaminate. Il fatto che in un’analisi esistenziale della morte si abbiano risonanze di possibilità esistentive dell’essere-per-la-morte, dipende semplicemente dalla natura di ogni ricerca ontologica. Tanto più esplicitamente deve accompagnarsi all’elaborazione concettuale esistenziale l’affrancamento da ogni vincolo esistentivo; e ciò vale in particolar modo nei confronti della morte in cui si può rivelare nel modo più netto il carattere di possibilità proprio dell’Esserci. La problematica esistenziale tende esclusivamente a chiarire la struttura ontologica di essere-per-la-fine propria dell’Esserci.

 

da M. Heidegger, Essere e tempo, Longanesi, Milano 2005, pp. 296-299.