Bergson, Henri (1859 - 1941)

Anno di redazione
2002

I. Cenni biografici e contesto filosofico - II. Bergson filosofo dell'intuizione - III. Intuizione, conoscenza e metafisica dell'esperienza - IV. La visione dinamica del mondo e della vita - V. Il pensiero religioso - VI. L'influenza della filosofia di Bergson sul pensiero contemporaneo.

I. Cenni biografici e contesto filosofico

Henri Bergson nasce a Parigi il 18 ottobre 1859, e vi muore il 4 gennaio 1941. Allievo dell’École Normale dal 1878, ottiene dopo tre anni l’aggrégation in filosofia. Dal 1881 al 1883 insegna al liceo di Angers, poi a quello di Clermond-Ferrand sino al 1888, quando gli viene conferito un incarico alla facoltà di Lettere della locale università. Nel 1889 pubblica la tesi di dottorato che gli apre le porte del pubblico filosofico e nel 1897 appare Materia e Memoria. Vi farà seguito nell’anno successivo la nomina alla École Normale, e nel 1900 la cattedra al Collège de France. Nello stesso anno pubblica Il Riso. L’Evoluzione creatrice è del 1907 e consacra la fama mondiale di Bergson. L’autorità morale di cui gode, egli non esita a metterla al servizio del proprio paese al momento della sua entrata in guerra nel 1914. Nominato presidente della Commissione di cooperazione intellettuale dalla Società delle Nazioni alla fine del conflitto, riceve il premio Nobel per la letteratura nel 1928. Nel 1921 aveva pubblicato una raccolta di saggi dal titolo L’energia spirituale, a cui facevano seguito nel 1922 Durata e simultaneità, sulla teoria della relatività einsteiniana, e, nel 1932, Le due sorgenti della morale e della religione. L’opera Il pensiero e il movente, del 1934, rappresenta una seconda raccolta di scritti editi, ma contiene anche una messa a punto inedita sul metodo bergsoniano in filosofia. Di origine israelita, ma avvicinatosi al cristianesimo, Bergson decise tuttavia di non farsi battezzare per rimanere vicino ai suoi fratelli correligionari, di cui già poteva constatare, a causa alla marea montante dell’antisemitismo, la persecuzione.

Appassionato studioso, in gioventù, della filosofia evoluzionistica di Spencer (1820-1903), Bergson aveva però una maggiore predilezione per la matematica. È in conseguenza dell’intenzione di approfondire e perfezionare un aspetto della meccanica che egli è stato in realtà portato, quasi costretto, a riflessioni di natura filosofica. Il positivismo spenceriano si dimostra, all’analisi, incapace di rimanere fedele ai quei fatti di cui affermava di essere l’autentica interpretazione filosofica. Diviene infatti chiaro a Bergson che il concetto di  tempo, quale è analizzato dalla meccanica, non rispetta la totalità e la complessità della temporalità. È perciò in nome di una fedeltà all’esperienza, e non di una dottrina aprioristica concernente lo spirito, che Bergson rivendica la necessità di una comprensione della coscienza che la sottragga alla riduzione a epifenomeno del corpo, così come alla tesi parallela del monismo psicofisico, secondo cui la coscienza ed il cervello sono due nomi contrassegnanti due prospettive diverse con cui viene analizzato uno stesso fenomeno. La rivendicazione di un ritorno ai “dati immediati della coscienza” va dunque compresa nel quadro di una critica del materialismo positivistico che tuttavia non comporta, come in altre forme di spiritualismo, un puro e semplice rigetto della corporeità ma al contrario una sua ricomprensione filosofica.

È dunque in conseguenza di questa duplice determinazione della funzione della filosofia, concepita come riscatto dello spirito contro le mistificazioni di una affrettata lettura materialistica e però allo stesso tempo come indagine sulla e della esperienza, che Bergson ricomprende la concezione evoluzionistica derivante dalle opere di Darwin (1809-1882). La nozione di slancio (élan) vitale, che è forse quella più conosciuta di tutta la filosofia bergsoniana, esprime in effetti la convinzione che la realtà in generale è una realtà dinamica, processuale. Alla concezione del reale in termini di essere, Bergson sostituisce una concezione fondata sul divenire. La temporalità deve essere assunta e indagata dalla filosofia, invece che considerata come espressione della comprensione inadeguata dell’intemporale propria dell’uomo in quanto ente finito.

È in questo quadro che va collocata anche la polemica condotta da Bergson contro la fisica relativistica di Einstein (1879-1955) e certe sue interpretazioni filosofiche. Una temporalità correttamente compresa non nega ma, al contrario, conferma la natura spirituale e non materiale del tempo, che non può essere determinato come quarta dimensione se non al prezzo di un radicale travisamento della sua essenza. Si ha qui un esempio particolarmente chiaro di ciò che Bergson stigmatizza come concezione spazializzata del tempo: l’idea cioè, di derivazione fisica, per cui il tempo possa essere compreso come una variabile, alla stessa stregua dello spazio. Come egli scrive in La pensée et le mouvant, «Il tempo potrebbe accelerarsi enormemente, e persino infinitamente, non vi sarebbe nulla da modificare né nelle nostre formule, né nei numeri che vi facciamo entrare. Nulla risulterebbe mutato per il matematico, per il fisico, per l’astronomo. Profonda, tuttavia, sarebbe la differenza nei confronti della coscienza: non vi sarebbe più per essa, dall’oggi al domani, da un’ora all’altra, la stessa fatica dell’attesa» (p. 3: Oeuvres, p. 1255). Il ruolo della temporalità è perciò centrale per l’intera concezione filosofica di Bergson, dalla teoria dell’esperienza alla concezione della società e alla dottrina della religione. È perciò necessario esplicitarne i capisaldi.

Se si torna dunque a considerare il tempo quale è dato all’esperienza concreta, anche la più quotidiana, non si può evitare di constatare la sua lontananza dal concetto scientifico di temporalità. L’aspetto fondamentale è quello della sua incompressibilità: il celebre esempio dello zucchero, che per sciogliersi necessita di un lasso di tempo esteso, sta soprattutto ad esprimere l’idea che la temporalità possiede una natura qualitativamente, e non solo formalmente, diversa da quella dello spazio. Non è cioè tanto il fatto che il tempo abbia una durata a importare, quanto quello che il tempo è inaggirabile, non può essere ignorato che al prezzo di una comprensione falsata del reale. Se dunque la scienza non coglie questa caratteristica del tempo, o la trascura, è necessario reperire un’altra modalità di accesso ad essa. Bergson la indica nel “ritorno” alla coscienza. Il ritorno della coscienza su di sé è allora in qualche modo un ritorno allo spirito del cartesianismo, anche se, laddove Descartes (1596-1650) vedeva il raggiungimento del permanente, la sostanza pensante, Bergson vede il luogo stesso del cambiamento. Fondamentale è però l’istituzione della relazione tra tempo e coscienza.

II. Bergson filosofo dell’intuizione

1. L’intuizione come metodo. Per cogliere le modalità con cui la coscienza porta in luce la temporalità è necessario adottare un atteggiamento “ingenuo”, nel senso di evitare di interpretare l’esperienza attraverso concetti prefabbricati. È in questo senso che Bergson parla di “dati immediati” della coscienza. Ed è in questo senso che egli sostiene la necessità per la coscienza di ritornare su di sé, cioè di astrarre dal “mondo esteriore”. Ciò implica che il metodo di approssimazione ai “dati immediati” non è immediato ma progressivo, e si articola in fasi metodologiche, la prima delle quali è la “conversione” dell’attenzione verso questo mondo interiore, per poi scartare il linguaggio, in quanto creato al fine di soddisfare ai bisogni della vita sociale, e le immagini che derivano dal commercio col mondo esterno. Solo allora diviene possibile raggiungere una coincidenza con l’esperienza intima nella sua purezza. Non si tratta quindi per nulla di abbandonarsi alle impressioni fugaci, ma, al contrario, il cammino che Bergson indica è una vera e propria ascesi verso l’io interiore. La “riflessione” sulla vita della coscienza porta in luce che i suoi vari stati (idee, sentimenti, impressioni) non sono un mero allineamento di oggetti distinti, una successione discontinua, quanto un unico fluire. Di questo fluire in cui passato e presente si mescolano, e che rimane indiviso e indivisibile nonostante ciò che continuamente vi si aggiunge, o in realtà proprio grazie ad esso, si ha una “intuizione” ma non un concetto. Anzi la rappresentazione intellettuale non può che allineare stati divenuti distinti. Si pongono così due questioni: quella di stabilire come interpretare la differenza tra stati (nonché il fatto che vi sia una tendenza alla periodica “solidificazione” in stati distinti), e quella di interpretare ciò che permane e permette di dire che vi è una differenza nella continuità e non una semplice flussione anarchica.

2. Intuizione e intelligenza. L’intuizione è definita come «sguardo dell’uomo su di sé», ed in questo senso non è opposta ma distinta dall’intelligenza, che verte sulle pratiche materiali. L’intelligenza è la distinzione del reale in parti: l’analisi. Ma in quanto tale essa non è in grado di cogliere il movimento di per se stesso, che è continuità. È dunque in relazione ai fenomeni di cui si devono occupare che le due “facoltà” dell’intuizione e dell’intelligenza vengono definite. Il reale è continuità di movimento, ma per poter agire su di esso l’uomo deve poterlo scomporre in parti. L’intelligenza è allora la forma della prassi umana, ma questa non può esaurire il reale. L’intelligenza comprende ciò che non muta, perché cerca appigli solidi su cui basarsi. In questo senso lo spirito, per volgersi al movimento, deve far forza su se stesso, rovesciando le modalità con cui agisce generalmente. È allora necessario riconoscere questa modalità dello spirito in quanto essa è rovesciata rispetto all’altra, pur essendo sempre lo stesso spirito che agisce. Bergson osserva che la si può chiamare intuizione o anche in altro modo, ma ciò che conta è l’inversione di tendenza rispetto alla modalità “normale” di relazione col mondo. È però in questo modo invertito che è possibile cogliere l’essenza del vivente senza reificarlo secondo modalità che pertengono soltanto al mondo materiale inanimato.

L’intelligenza è votata all’azione utile, e perciò non si presta ad una contemplazione disinteressata. È fatta per comprendere la materia inerte, e perciò non può comprendere la vita e lo spirito che a prezzo di gravi deformazioni. E infine, poiché cerca l’immutabile, il movimento costitutivamente le sfugge. Bergson inserisce questa analisi di tipo gnoseologico nel quadro della propria metafisica quando poi sostiene che l’intelligenza è il pensiero che si arresta nel suo slancio, si volge verso le cose, e così imita il movimento di ricaduta con cui si esplica la materia. Con ciò però non condanna l’intelligenza come modalità falsa e ideologica della conoscenza, ma ne coglie le radici comunque reali. Si può però anche dire che in Bergson ricompare la distinzione, fatta già da Hegel (1770-1831), tra intelletto astratto e ragione concreta. Nel caso di Bergson, la differenza consiste nel poter considerare la durata dal di fuori, cioè come concernente eventi del mondo oggettivo — ed è il caso delle scienze —, oppure dal di dentro, ossia cogliendo in noi stessi, e secondo le modalità che ci sono proprie, il farsi stesso del tempo. Entrambe le opzioni hanno una loro legittimità, e sarebbe riduttivo rinunciare alla prima come alla seconda. Alla filosofia rimane nondimeno il compito imperativo di insistere sull’intuizione interiore di contro ad una visione del mondo esclusivamente basata sull’esteriorità del mondo oggettivo.

3. Intuizione e temporalità. È per questo che l’intuizione ha una relazione diretta con la durata: l’intuizione si definisce infatti come capacità di cogliere ciò che, come lo spirito di colui che intuisce, è vivo e mobile invece che morto e immobile. Con un paragone preso dal mondo della fotografia, Bergson caratterizza l’intuizione come facoltà che permette di cogliere il vivente o il movimento non per istantanee discrete ed immobili, ma invece “riprendendo” il movimento stesso nella sua continuità. Dunque la garanzia dell’intuizione sta nella auto-intuizione della corrente spirituale che caratterizza la soggettività. È sulla base di questa auto-intuizione primordiale che gli altri esseri viventi possono essere poi colti in maniera “simpatetica”. La coscienza che noi abbiamo della nostra propria persona nel suo fluire continuo – afferma Bergson – ci introduce all’interno di una realtà, sul modello della quale noi dobbiamo rappresentarci le altre.

Pur essendo centrata sul sé, dunque, l’intuizione è per questo anche la possibilità di comunicare con l’altro. È, in un certo senso, concentrandosi sul singolare e non sull’universale che si può poi universalizzare autenticamente la propria conoscenza, evitando la mediazione — concettuale o linguistica — che è sinonimo di dispersione ed astrazione. L’intuizione è perciò, in quanto intimamente connessa alla durata intesa come flusso della soggettività stessa, equivalente alla creatività della durata, coincidente con la durata creatrice. È l’impulso o slancio creativo al di sotto delle reificazioni. L’intuizione comincia con la percezione oscura di uno “schema dinamico” attivo nella cosa. È in direzione dell’espressione di questo schema che l’intuizione cerca la propria strada. Come tale, essa appare consistere in un lavorio di trasformazione; non però una trasformazione anodina, ma un atto pieno di valore emozionale. La creazione non è il freddo lavoro dell’intelletto, ma l’azione “supraintellettuale”, non in senso assiologico bensì logico e cronologico, dell’intuizione. È il coglimento di un’unità semplice al di sotto della molteplicità in cui è dissimulata. La semplicità è il marchio del punto di vista interiore alla cosa. Ma l’intuizione non è data come semplice sin dall’inizio, quanto piuttosto è la capacità di giungere alla semplicità. È un lavoro difficile e mai definitivo. Opera per purificazione e sottrazione, ed è disinteressata.

III. Intuizione, conoscenza e metafisica dell’esperienza

1. Intuizione e conoscenza. Con l’intuizione si manifesta all’uomo una realtà diversa da quella quotidiana, nel senso che essa consente di vedere sotto il velo delle esigenze utilitaristiche espresse dal linguaggio normale. L’intuizione è la capacità di avvicinarsi a quanto non trova espressione nel mondo dell’intelletto pragmatico. Essa fa accedere ad una conoscenza assoluta (nel senso sopra esposto) della durata, ad una conoscenza immediata, cioè non mediata, dello spirito da parte dello spirito stesso, ad una conoscenza che, in generale, ha un grado di perfezione superiore rispetto a quella simbolica e meccanicistica. Come Hegel, Bergson in fondo rimprovera Kant (1724-1804) per non aver saputo vedere la funzione positiva di una facoltà, o capacità, che trascende i limiti dell’intelletto, o meglio che non vi sottostà. Bergson non nega il ruolo, come si è visto, dell’intelligenza pratica, ma nega che essa possa esaurire le possibilità umane di conoscenza. La scienza non è affatto inutile, al contrario rappresenta l’unico modo possibile per conoscere la materia. Ma essa non può pretendere di dettare le modalità di conoscenza di zone del reale che non sono assimilabili alla materia. È l’accesso a quest’altra zona del reale, tramite l’intuizione, che può essere definito, in aperto contrasto con Kant, «metafisica positiva». Il che non significa che Kant non abbia ragione di rifiutare i sistemi dogmatici: per Bergson il banco di prova della metafisica è l’esperienza. È impossibile andare al di là di ciò che l’esperienza rivela, ed il positivismo esprime, inteso in questo senso, un’esigenza di controllo profondamente salutare. Il problema, per Bergson, sta unicamente in quella particolare forma di dogmatismo che deriva dalla restrizione arbitraria del concetto di esperienza operata dal positivismo. In particolare vi è tutto il campo dell’esperienza interiore che si sottrae a tale restrizione. Secondo il filosofo la verità è che un’esistenza non può essere data che in un’esperienza. Questa esperienza si chiamerà visione o contatto, percezione esterna in genere, se si tratta di un oggetto materiale, e prenderà il nome di intuizione quando verterà sullo spirito.

Si tratta in definitiva di riconoscere la possibilità di una metafisica dell’esperienza, che con la scienza condivide lo sforzo di precisione e il lavoro di riduzione dell’arbitrio, ma differisce da questa per il campo d’azione e la modalità d’approccio. Di contro al positivismo scientista Bergson propone allora un “positivismo metafisico”. Come caratterizzarne il metodo? Si tratta innanzi tutto di rinunciare al falso mito di un sistema logico architettonico, il cui rigore, che tanto ci colpisce, non è che lo sviluppo di un concetto direttivo che viene abusivamente preposto all’effettivo contatto con l’esperienza. Lo spirito sistematico va dalle idee alle cose, la metafisica positiva dalle cose alle idee. La metafisica dunque parte dall’esperienza delle cose per approfondirla e chiarirla. Questo esclude l’arbitrio personale. La metafisica, in questo senso, scaturisce dalle cose stesse, non è un atteggiamento astratto. Ciò richiede una precisa delimitazione del campo d’azione dell’indagine: il reale, cioè materia e spirito, senza più anelare al trascendente, al possibile. Bergson coglie dunque la nozione ed il compito della metafisica in modo diverso da quanto operato dal pensiero classico: la scienza si occuperebbe della materia, la metafisica dello spirito. Esse non sono in un rapporto di competizione, ma di collaborazione. Ognuna delle due apporterà qualcosa all’altra. Uno degli esempi più chiari al proposito è quello del rapporto tra memoria e cervello. Nello studio di questo problema scienza e metafisica si intrecciano strettamente attraverso un mutuo confronto e lo scambio reciproco di valutazioni critiche. Ciò comporta in definitiva l’affermazione di una metafisica aperta e non dogmatica, continuamente chiamata al confronto con le ricerche empiriche, ed inoltre impostata su un lavoro intersoggettivo, cioè non individuale ed idiosincratico. Si tratta in definitiva di una filosofia dell’esperienza integrale, aperta ad ogni apporto e mai pregiudizialmente chiusa ad alcunché. Il che permette a Bergson di sperare di andare oltre Descartes, di rendere l’uomo non più soltanto maestro e signore della natura, ma anche dell’uomo stesso, materialmente e moralmente.

2. Virtuale e possibile, attuale e reale. L’istituzione di una metafisica positiva dell’esperienza passa per la distinzione tra il concetto di virtuale e quello di possibile; secondo Bergson, questa distinzione, generalmente passata inosservata, sta a fondamento della possibilità di descrivere correttamente la temporalità evolutiva dello slancio vitale che pervade l’universo, sottraendo così questo concetto ad una comprensione vaga e impressionistica per consegnarlo al rigore dell’analisi filosofica. Il concetto di possibile è in realtà la illecita trasposizione di ciò che si dà ora come reale in un passato che, in effetti, non sarebbe che la copia del presente. Bergson battezza questa procedura con l’espressione «moto retrogrado del vero»: la determinazione del possibile consiste cioè nel decretare come plausibile ed imminente, in un tempo passato, ciò che poi è effettivamente accaduto. Il “prima” è cioè determinato con gli occhi del poi, e la sua legittimità del tutto fittizia deriva soltanto da un’illusione ottica, conseguita attraverso l’identificazione di quanto si dà effettivamente nel presente con un passato immaginario, ricreato a sua immagine e somiglianza, ma privato del carattere della presenza, cioè dell’esistenza. A questo concetto Bergson sostituisce quello di «virtuale»: il virtuale, a differenza del possibile, non è ciò che ora è reale, e dunque ad esso del tutto analogo, privato però della realtà che gli deriva dall’esistenza attuale, ma ciò che possiede delle linee potenziali di attualizzazione, alcune delle quali verranno poi attualizzate ed altre no. In altre parole, la differenza sta nell’indeterminatezza dell’attuale in relazione al virtuale, laddove possibile e reale sono identici e differenti solo in termini di presenza, cosa che Bergson esprime parlando di «miraggio del presente nel passato». Dal virtuale non si può predire l’attuale che con un grado più o meno alto di approssimazione, mentre il possibile determina completamente il reale, sebbene soltanto attraverso un escamotage. La derivazione dal possibile al reale perciò non implica nessun processo effettivo, mentre lo sviluppo del virtuale in attuale rappresenta l’effettuarsi dello slancio creativo che prende concretamente forma. Non vi è alcuna reale temporalità nella relazione tra possibile ed attuale, la temporalità si esprime soltanto laddove vi è indeterminatezza del futuro in relazione al presente.

3. La memoria. Reciprocamente, è necessario ricomprendere anche la natura del passato. Bergson sostiene che il passato non scompare affatto, ma si accumula costantemente ed è sempre presente. Tuttavia questa “presenza” del passato differisce da quella del presente: il passato non è ciò che il presente era o è stato, ma si costituisce contemporaneamente o simultaneamente ad esso. La modalità con cui il passato si dà è, in altre parole, diversa da quella con cui è dato il presente. Se l’uomo normalmente pensa al passato in termini di ciò che è scomparso e non è più, ciò si deve al fatto che l’intelligenza, in quanto funzione di selezione a scopi vitali, si incarica di selezionare nella memoria soltanto quei ricordi che sono utili “qui ed ora” all’azione, sopprimendo tutti gli altri, e creando così l’illusione che essi non esistano più. E tuttavia essi esistono ancora, come prova il fatto che ogni atto di rimemorazione può riprodurre un determinato settore del passato indipendentemente dagli altri e dalle condizioni in cui il soggetto si trova. Bergson afferma che il passaggio dal presente al passato non è un atto “continuo”, che implicherebbe l’omogeneità della natura del passato e di quella del presente, ma si può compiere soltanto attraverso un “salto”. Questo salto consiste nel mutare atteggiamento nei confronti del reale, passando da una considerazione di esso improntata al criterio dell’utile, ad una fondata sulla contemplazione disinteressata. Il passato è sempre presente nella memoria, basta saperlo far riemergere senza reprimerlo per scopi utilitari: Bergson stesso farà riferimento all’opportunità di un confronto tra le sue tesi e quelle di Freud (1856-1939). Ma, reciprocamente, è soltanto in questo modo che la coscienza si comprende nella sua possibilità: senza passato non vi sarebbe coscienza, la coscienza presente si annienterebbe, vale a dire che il presente puro è pura incoscienza. Il presente possiede dunque un certo “spessore” e la sua dimensione non è meramente istantanea. La coscienza, se paragonata con un “discorso” che comincia con la nascita del soggetto, è come una lunga frase in cui i singoli tratti si articolano gli uni in relazione agli altri: ogni parola è cioè in relazione alle altre per avere il senso che ha nella frase, così come ogni momento dell’esistenza è costantemente connesso agli altri. Ogni momento passato allora va ad accumularsi e si conserva indefinitamente. La coscienza è compresa in termini di azione, come funzione pragmatica, come «funzione del reale», secondo l’espressione di P. Janet (1859-1947). Se però si sospende tale orientamento e ci si disinteressa all’azione, abbandonandosi alla rêverie ed al sogno, il passato riemerge in misura proporzionale al disinteresse. Il passato è dunque presente ma al modo dell’inconscio. La possibilità di riportarlo a galla non sta nell’attenzione, ma al contrario nell’abbandonarsi a procedure che assomigliano alla liberazione delle associazioni nella pratica analitica. La dimenticanza viene spiegata con l’esigenza vitale di concentrazione sull’azione presente. Il passato non è perciò tanto annichilito quanto velato, sospeso, attutito.

IV. La visione dinamica del mondo e della vita

1. L’insorgenza della novità. In compenso, di contro all’apparente contrapposizione tra vita vera, come ritorno sognante al proprio passato, e vita inautentica, come vita attiva, Bergson trova nella tensione verso il futuro anche un’ulteriore cifra della durata interiore come “fluire”, come divenire contrapposto all’essere delle cose spaziali. La coscienza non è soltanto memoria ma anche anticipazione: «ritenere ciò che non è già più, anticipare su ciò che non è ancora, ecco dunque la prima funzione della coscienza. Ciò che noi percepiamo di fatto, è un certo spessore della coscienza che si compone di due parti: il nostro passato immediato e il nostro futuro immediato. Su questo passato siamo appoggiati, su questo futuro ci sporgiamo: appoggiarsi e sporgersi è così ciò che è proprio di un essere cosciente. Diciamo dunque, se volete, che la coscienza è un trattino d’unione tra ciò che è stato e ciò che sarà, un ponte gettato tra passato e futuro» (L’energie spirituelle, p. 6: Oeuvres, pp. 818-819).

Una situazione che si ripete non corrisponde allora ad uno stesso soggetto, perché ogni volta il soggetto è intanto cambiato dalla stessa situazione vissuta che ora è parte della sua memoria ed influisce sulla sua aspettativa. È per questo che la personalità cambia continuamente, ed è per questo che la durata è irreversibile, in quanto non si potrebbe effettivamente rivivere una situazione che cancellando tutto ciò che è seguito. Paradossalmente, anche la ripetizione identica non è realmente identica in quanto deve scontare il fatto che è ripetizione, apportando con ciò una differenza rispetto a quanto in apparenza ripete puramente e semplicemente. Se il momento successivo è ripetizione di quello precedente, rimane il fatto che quello precedente non è a sua volta ripetizione, ed in questa differenza sta per Bergson tutto il peso dell’irreversibilità. Ogni momento è dunque un atto creativo per il fatto stesso di essere questo scarto con l’altro, scarto del sé con sé che produce l’avanzamento. «Per un essere cosciente, esistere consiste nel cambiare, cambiare consiste nel maturare, maturare nel creare continuamente se stesso» (L’évolution créatrice, p. 7: Oeuvres, p. 500).

2. La concezione della libertà. Per Bergson, allora, la libertà consiste proprio in questa “creazione di sé”, che prende la forma della spinta ininterrotta che in ogni momento deriva da se stessa e soltanto da se stessa. Si potrebbe immediatamente obiettare che questa libertà è a sua volta condizionata dal “trovarsi gettati nel mondo”, per cui è costantemente necessario “prendere posizione”, fosse anche non facendo nulla, rispetto al mondo esterno (ma anche al proprio mondo interno). Per Bergson è innanzi tutto fondamentale, tuttavia, sottolineare che questa libertà, che si esprime nella durata, non può essere compresa dal determinismo scientifico. La libertà vera è quella che, al contrario, riesce a rivolgersi sul proprio passato per possederlo, invece che lasciarlo appassire e sfumare. Essere liberi significa perciò poter ridivenire se stessi, recuperarsi nonostante la propria finitudine, e quindi è il contrario dell’arbitrio, perché è l’assunzione di ciò che si è, e non l’adozione di un comportamento qualsiasi. Contrariamente a Sartre (1905-1980), dunque, Bergson definisce la libertà come determinazione dell’atto da parte della totalità dell’io o dell’io in totalità, ciò che comporta il peso del passato invece che il suo annientamento. In questo senso la libertà non è la scelta tra due azioni egualmente possibili, ma al contrario è la liberazione del proprio sé originale, il portare in luce ciò che spinge, in ogni individuo a suo modo, la propria creatività. La tesi generale di Bergson è dunque quella di cogliere l’io originario come auto-creazione libera, e libera in quanto capace di assumere se stessa e di porsi come proprio compito quello di concentrasi su di sé, allontanando da sé il mondo esterno visto come inautenticità e dispersione. Il che poi conduce Bergson a vedere in questo ripiegamento del sé anche un disvelamento dell’armonia tra il sé ed il mondo nel suo generale slancio creativo, sicché, proprio tornando in sé e alla propria interiorità più intima, il soggetto sbuca in un universo di cui si coglie come parte e che si oppone al mondo puramente oggettivante della scienza. Non è allora un caso che in tarda età Bergson dedichi molta attenzione al misticismo.

Bergson dovrà così affrontare il problema di come intendere la corporeità, avendo fondato la coscienza sulla libertà di trascendere il dato materiale. Si rende cioè necessario ripensare la corporeità stessa per non reintrodurre quei postulati materialistici che sono stati espulsi dal concetto di memoria. Bergson si è posto onestamente il problema del corpo, in una prospettiva come la sua in cui esso rischia di diventare soltanto tomba dell’anima. La sua posizione si fonda sulla tesi della condizione fisiologica indispensabile ma assolutamente non sufficiente per la coscienza. Il corpo è l’utensile dello spirito.

3. La posizione dell’uomo nel regno dei viventi. Bergson fa una netta distinzione tra la materia, in quanto inerte, e vita come introduzione di una differenza che è costituita dall’imprevedibilità e dalla libertà. In questo senso la sua concezione della materia è cartesiana. Egli conduce il parallelo tra la vita, intesa come cambiamento repentino attraverso la nutrizione, e la coscienza come dissoluzione della necessità materiale. L’essere vivente introduce un grado di indeterminazione, tesi che verrà poi ripresa e illustrata da Merleau-Ponty (1908-1961). Per Bergson, essendo la coscienza il principio stesso dell’indeterminazione, essa diventa coestensiva alla vita.

Bergson isola dunque il principio della negatività presente già nella natura vivente, facendone un principio indipendente e contrapposto alla materia, e che dalla materia può soltanto essere più o meno intaccato, più o meno intorpidito. L’uomo è allora compreso come salto qualitativo rispetto alla creatività della natura. Ogni specie vivente è caratterizzabile come condizione di equilibrio tra la propria capacità di slancio creativo e la pesantezza della propria condizione materiale. L’organismo si definisce come resistenza all’inerzia della natura. Gli organismi si possono perciò classificare a seconda del grado di disfatta dello slancio (élan) vitale che si incarna in ognuno. Vita e materia non sono semplicemente opposte ma complementari, ossia la vita non è possibile in astrazione dalla materia.

Soltanto con l’uomo, tuttavia, si ha una vera inversione di tendenza, cioè la possibilità che lo slancio vitale non si areni per la resistenza dell’inerzia materiale, ma sfoci in una ulteriore creatività. Soltanto l’uomo è in grado di inventare. Il segno della superiorità umana è la sua capacità di usare utensili. Ciò è parzialmente presente anche nell’animale, ma è in quel caso funzionale agli istinti. L’istinto agisce esattamente ma soltanto entro i limiti per cui è costruito. L’intelligenza invece, proprio in quanto non è mai “adattata” completamente, è però anche in grado di trascendere il dato ambientale. È la minore “organizzazione” dell’intelligenza rispetto all’istinto, cioè la sua maggiore “plasticità”, a consentire la possibilità di trascendere le costrizioni. Istinto ed intelligenza non vanno però visti tanto come opposti quanto come integrati: soltanto l’istinto possiede la capacità di risolvere problemi che l’intelligenza si pone, ma esso non se li porrebbe mai da solo; e soltanto l’intelligenza possiede la possibilità di porre quei problemi che l’istinto può risolvere. Vi è dunque una sorta di istintualità nell’intelligenza e di intelligenza dell’istinto che fanno dell’uomo un essere immerso comunque nella natura.

4. Il divenire universale: evoluzione e società. L’analisi di Bergson a questo punto si estende ad una considerazione più generale, che tocca di nuovo il concetto di temporalità. In effetti, il tempo è per lui sinonimo di indeterminazione nella misura in cui è soltanto in quanto si prende il tempo sul serio che si può capire che la totalità del mondo non è data simultaneamente e totalmente, ma ha appunto “bisogno di tempo”, cioè non sussiste come tale. La validità dell’analisi bergsoniana, cioè, vale in relazione ad un concetto di eternità in cui non esista il futuro autentico, proprio perché esso deve già essere dato in qualche modo (generalmente a Dio). Evoluzione significa propriamente indeterminazione di ciò che segue rispetto a ciò che precede. Soltanto in questo senso dunque si può propriamente parlare di creazione. Con questa analisi il concetto di durata viene esteso alla processualità del mondo in generale. Il mondo non è “fatto”, non è il prodotto di un demiurgo ad esso esterno, ma “si fa”. In questo senso per Bergson tutto passa, ma questo passare è un dato veramente “naturale” che come tale non desta più di tanto preoccupazioni né attenzione. Di qui deriva l’aspra critica heideggeriana al naturalismo del concetto bergsoniano di tempo. D’altra parte è anche legittimo osservare che il passare del tempo, se da una parte è sinonimo di finitudine, dall’altra è anche foriero di liberazione, nella misura in cui il passato sia peso e sofferenza: in questo senso Bergson vede l’altra faccia di quel fenomeno in sé intrinsecamente ambiguo che è la finitudine. L’indeterminazione è anche la possibilità di trascendere con un atto creativo i limiti di una situazione.

L’evoluzione dello slancio vitale tende alla costituzione di società, cioè alla possibilità che gli individui si raggruppino. Vi sono in questo senso, ad avviso di Bergson, due esempi fondamentali di società: quella degli insetti e quella degli uomini. La prima è relativamente invariabile nelle sue strutture, la seconda invece è aperta. Nella prima prevalgono gli istinti, mentre l’uomo vive in società soprattutto grazie alle abitudini, che sono veri e propri automatismi acquisiti: nell’uomo non esistono comportamenti puramente abitudinari, ma soltanto l’abitudine a contrarre abitudini. È qui che si trova l’origine dell’obbligazione morale, secondo una tesi di ascendenza aristotelica. La società impone all’individuo delle regole, ma ciò non significa che essa gli rimanga estranea. Sono le stesse difficoltà della vita a istituire il movimento di immersione dell’individuo nella società. Ogni società perciò esprime un sistema di imperativi morali con cui manifesta la propria volontà di vivere. Questo però porta necessariamente a conflitti: ogni società si afferma contro altre società. I valori che guidano le società in questo senso sono valori improntati alla forza ed all’onore di gruppo. La società che viene qui descritta è chiamata da Bergson “chiusa”. Si tratta di un tipo di società derivante dalla “natura”, nel senso che esprime esigenze che sono naturali. In essa valgono l’obbedienza ad un principio impersonale esprimentesi in formule imperative, la pressione del gruppo sull’individuo, la frammentazione dell’umanità in società ostili o quanto meno estranee l’una all’altra. Tuttavia, questa non è la sola società possibile per Bergson. Che vi sia la possibilità di una società più umana lo rivelano gli esempi degli eroi e dei santi, che distruggendo i limiti ristretti in cui l’umanità rischia di chiudersi, mostrano la possibilità di una morale dell’amore universale, una morale aperta.

V. Il pensiero religioso

1. Eroi e santi. Prima che sorgesse il cristianesimo, l’umanità aveva già conosciuto esempi di saggezza: i filosofi greci, i profeti ebraici, il Buddismo e così via. Vi è una differenza di natura, e non solo di grado, tra la moralità espressa da questi esempi e quella corrente. La morale “ufficiale” della società si rapporta a formule impersonali, quella dei grandi uomini si incarna in una persona privilegiata che diventa esempio. La generalità della prima si fonda sull’universale adattamento di una legge, quella della seconda sulla comune imitazione di un modello. Dunque la morale chiusa è di natura impersonale e deriva dalla società, mentre la morale aperta si incarna in individualità superiori. Il che deriva necessariamente dal fatto che ogni morale chiusa è una morale di esclusione (di un gruppo da parte di un altro, di determinati individui all’interno di un gruppo) e non potrebbe diventare aperta che negandosi. L’origine della morale aperta si trova nello slancio vitale che rompe le barriere della morale comune. Si tratta di un movimento che va al di là di una determinata struttura ma non rompe con la natura in generale. Bergson utilizza un’espressione di Spinoza per dire che la morale aperta spinge per tornare alla “natura naturante” al di là della “natura naturata” (cioè la particolare forma in cui la morale si è strutturata in una data società).

Lo slancio vitale si fonde dunque qui con lo slancio creatore di Dio stesso. È per questo che la morale aperta si coglie in particolare nell’esperienza mistica, fino ad identificarsi con essa. «I veri mistici — affermerà Bergson — si aprono semplicemente al fiotto che li invade. Sicuri di sé, perché sentono in se stessi qualcosa di migliore di loro, si rivelano grandi uomini d’azione, per la sorpresa di coloro per cui il misticismo non è che visione, trasporto, estasi. Quello che essi hanno lasciato scendere all’interno di sé, è un flusso discendente che vorrebbe, attraverso di essi, vincere gli altri uomini: il bisogno di diffondere attorno a loro ciò che hanno ricevuto, essi lo sentono come uno slancio d’amore. Amore al quale ognuno imprime il marchio della propria personalità. Amore che è allora in ognuno di essi un’emozione tutta nuova, capace di trasportare la vita umana in un altro tono». (Les deux sources de la morale et de la religion, pp. 101-102: Oeuvres, p. 1059).

Gli eroi cercano perciò di comunicare un sentimento di liberazione agli altri uomini. Si tratta di “superuomini”, nel senso che essi sono portatori di un messaggio di amore fraterno capace di elevare l’umanità intera. In fondo è allora la stessa società che genera questo movimento di trascendenza. È ponendo dei limiti che essa genera da se stessa la tensione che conduce l’individuo particolare ad erigersi al di sopra di essa, con un’energia di cui da solo egli non sarebbe stato capace. Ciò non accade spesso e mostra comunque la medesima tendenza generale che esiste in tutte le cose, per cui lo slancio che trova la resistenza della materia tende a ripiegarsi. Vi sono tendenze opposte all’interno delle società: esse non possono sussistere che subordinando gli individui, ma non possono progredire che lasciandoli fare. Lo sforzo di ogni società è allora quello di armonizzare le spinte individuali senza attutirle.

2. Religioni statiche e dinamiche. Un esempio di espressione del sentimento di liberazione che si ripiega su di sé è dato da quelle che Bergson chiama «religioni statiche». Le religioni tendono in questa fase a costituire soprattutto dei rimedi contro le difficoltà della vita e soprattutto contro la depressione derivante dalla morte, dalla ineliminabile finitudine dell’uomo. L’uomo sa di dover morire, sa che ogni suo progetto può fallire, prova quindi un’ansia duplice, per il momento presente ed in generale per la propria condizione, e tale consapevolezza lo rende estraneo al resto della natura. Ciò si deve all’intelligenza, ne è l’altra faccia. La religione cosiddetta statica è il rimedio suggerito dalla natura stessa a questa deviazione dell’uomo dal suo alveo. Si tratta di una reazione difensiva contro ciò che di deprimente può esserci per l’individuo. La religione statica connette l’uomo alla vita, l’individuo alla società, mediante narrazioni che costituiscono i miti religiosi primordiali. È questa la definizione di Bergson della «religione naturale», che deriva dalla funzione affabulatrice con cui la natura produce delle mitologie atte a reintegrare l’uomo nella natura stessa. Ma con ciò non riesce che a mantenere l’umanità in un conformismo che conduce alla stagnazione, costringendolo in un sistema di divieti ed interdizioni che fanno di essa una religione chiusa.

All’opposto, lo slancio creatore suscita una forma diversa di religione, che mira al rinnovamento ed al movimento. Questa è la religione propria dei grandi mistici cristiani. «Ai nostri occhi, il misticismo è una presa di contatto, e di conseguenza una coincidenza parziale, con lo sforzo creatore che la vita manifesta. Questo sforzo è di Dio, se non è Dio stesso. Il grande mistico è una individualità che supera i limiti assegnati alla specie dalla sua materialità, che prolunga così l’azione divina» (Les deux sources de la morale et de la religion, p. 233: Oeuvres, p. 1162). La creazione appare allora come una impresa di Dio per “creare dei creatori”. Il mistico coglie tutto questo con un’identificazione che non è di ordine intellettuale, ma intuitivo ed affettivo. Il mistico “vede” l’amore universale che Dio prova per le sue creature. Si tratta di un amore che in definitiva si identifica con Dio stesso. Dio è in questo senso lo stesso slancio creatore che si manifesta nell’universo. È sorgente, ma sorgente presente ovunque, agente ovunque, ovunque creatrice. In una tale prospettiva, già l’esperienza dinamica dell’io profondo è anticipazione della visione mistica. È l’intuizione di una più profonda unità al di sotto della frammentazione dell’esperienza quotidiana. Il Dio dei mistici, che viene colto come amore e dall’amore, non è allora il dio dei filosofi.

Va osservato che in questo aspetto, affermando cioè che Dio si manifesta unicamente nell'esperienza mistica, il pensiero di Bergson di distanzia dalla dottrina cattolica, secondo la quale esiste un accesso a Dio anche attraverso la conoscenza della natura e, soprattutto, attraverso l'auditus fidei. Bergson oppone il Dio “dei filosofi”, da lui considerato come dio morto e immobile, al Dio dell’intuizione propria dei mistici, come Dio vivo e identico al movimento universale. Non sorprende pertanto che alcuni autori, anche a motivo della difficoltà del linguaggio di Bergson, abbiano rilevato nel filosofo francese la tentazione del panteismo. Egli vuole soprattutto rispettare l’intuizione di una sovrabbondanza del divino rispetto alle sue manifestazioni ed alla capacità intellettiva dell’uomo, e vuole esprimere la trascendenza sempre rinnovata dell’assoluto rispetto al relativo.

Qual è il destino dell’uomo in questo quadro? Il dramma del mondo moderno, di cui guerre e rivoluzioni sono l’espressione, è il dramma di una rottura tra moralità e tecnica: l’evoluzione della seconda non è stata seguita da una corrispondente evoluzione della prima. Sul piano materiale si ha un uomo nuovo, più potente, ma dall’animo piccolo. Il “corpo” umano, ingrandito dalle acquisizioni tecniche, è così vasto da essere divenuto sproporzionato alla sua anima. Si rende così necessario un “supplemento d’anima” per reindirizzare il mondo meccanico. Tuttavia la mistica non deve ergersi contro la tecnica, ma andare al di là di essa. Non si può tornare indietro. La tecnica è un punto di non ritorno dell’uomo, e come tale richiede uno sforzo della mistica, non le si oppone. Reciprocamente la mistica deve fare i conti con la tecnica senza ignorarla. Il divenire spirituale si fonda sulla condizione materiale come sua condizione di possibilità. Del resto mai il misticismo è stato maggiormente favorito: l’uomo tradizionale ha sempre subito la natura, soltanto ora è davvero in grado di trascenderla, di riconnettersi allo slancio creatore.

È appoggiandosi alla materia, e grazie alle acquisizioni della scienza, che l’uomo può ora elevarsi davvero autenticamente al di sopra di essa. La mistica chiama la tecnica. La crescita materiale prepara e rende pensabile una trasfigurazione dell’umanità e l’uomo ha la possibilità di connettersi definitivamente al movimento originario. Movimenti sociali apparentemente opposti come il macchinismo (machinisme) e le correnti democratiche e socialiste in realtà muovono insieme verso questo fine. L’umanità sembra essere vicina ad avere in mano il proprio destino. Sta ad essa il saperne approfittare. Non si tratta di aspettare un evento messianico, di esserne passivi ricettori; si tratta al contrario di prepararlo attivamente, di esserne attori. «Non contiamo troppo sull’apparizione di una grande anima privilegiata. In mancanza di essa, altre influenze potrebbero distoglierci dalle ciarle che ci divertono e dai miraggi attorno a cui ci dibattiamo» (Les deux sources de la morale et de la religion, p. 333: Oeuvres, p. 1241). «L’umanità geme, a metà schiacciata sotto il peso dei progressi che ha compiuto. Essa non sa abbastanza che il proprio divenire dipende da lei. Sta ad essa di vedere innanzi tutto se vuole continuare a vivere. Sta poi ad essa di domandarsi se vuole soltanto vivere, o vuole inoltre fornire lo sforzo necessario perché si compia, perfino sul nostro pianeta refrattario, la funzione essenziale dell’universo, che è una macchina per fare dèi» (ibidem, p. 338: Oeuvres, p. 1245).

VI. L’influenza della filosofia di Bergson sul pensiero contemporaneo

La fama delle opere di Bergson è stata grande ed il loro influsso sulla cultura contemporanea profondo. La produzione artistica ha presto fatto proprie molte delle tesi ispirate dal bergsonismo. Da Proust al simbolismo, dall’impressionismo pittorico all’ermetismo, è notevole il ruolo della meditazione bergsoniana sulla temporalità, sulla percezione e sulla coscienza, nonché quello della sua critica al positivismo, per le trasformazioni avvenute nell’estetica. Ma naturalmente la sua dottrina ha avuto un peso maggiore per quanto riguarda la riflessione filosofica. William James (1842-1910) ha avuto contatti diretti con Bergson e, se i due pensatori si sono divisi su determinate questioni, non c’è dubbio che le influenze reciproche siano state grandi. Più difficile giudicare l’effetto del bergsonismo su Alfred North Whitehead (1861-1947), ma è certo che nelle opere sistematiche di quest’ultimo il nome del filosofo francese ricorre spesso, mentre, d’altra parte, è noto come Bergson giudicasse fondamentale l’opera di Whitehead per avere una prospettiva radicalmente diversa sul significato filosofico della rivoluzione scientifica del Novecento, in particolare per ciò che concerne la Relatività einsteiniana. In campo fenomenologico, se Edmund Husserl (1859-1938) ha dichiarato di non avere mai letto a fondo Bergson, ben diverso è stato l’influsso di questi su Max Scheler (1874-1928), e quindi su Martin Heidegger (1889-1976). Quest’ultimo pensatore, in particolare, ha condotto in Essere e tempo (1927) un’analisi della temporalità che si oppone frontalmente alla dottrina di Bergson per ritrovarne tuttavia, in modo quasi sotterraneo, molti degli aspetti più importanti. In Francia la fenomenologia ha attaccato Bergson con Sartre, mentre il giudizio di Merleau-Ponty è molto più sfumato e complesso, e Emmanuel Levinas (1905-1995) ha ripreso il tema della differenza non ontologica dello spirito dalla materia in modo originale, ma non senza riferimenti espliciti alle opere di Bergson.

Una derivazione esplicita dal pensiero di Bergson la si avrà con l’opera di Edouard Le Roy (1870-1954), in cui la realtà è vista come dinamismo, processo evolutivo continuo verso un progresso della perfezione, incomprensibile dall’intelletto astratto e schematico, ma accessibile all’intuizione vitale e alla fede religiosa, quest’ultima interpretata in chiave modernista, e dunque in opposizione ad una conoscenza di tipo dogmatico, come dinamica di autocreazione e autosuperamento. Ma l’influenza forse più importante e più feconda è stata quella esercitata da Bergson su Pierre Teilhard de Chardin (1881-1955). In opere come Il fenomeno umano, La comparsa dell’uomo, La visione del passato, L’ambiente divinoe L’avvenire dell’uomo (tutte pubblicate postume, a causa dei noti eventi legati al pensiero dell'antropologo francese), Teilhard ha tentato di rileggere in chiave radicalmente non positivistica e non materialistica la concezione evolutiva della vita, dandone un’interpretazione finalistica, in cui lo slancio vitale di Bergson prende più esplicite forme teistiche e si esprime nell’avvento della figura del Cristo: «Credo che l’universo sia una Evoluzione. Credo che l’Evoluzione vada verso lo Spirito. Credo che lo Spirito si compia in qualcosa di Personale. Credo che il Personale supremo sia il Cristo Universale».

In campo epistemologico è da notare il profondo apporto di spunti e suggestioni provenienti da Bergson sull’opera di Gaston Bachelard (1884-1962) e di Georges Canguilhem (n. 1904). Si può dire cioè che Bergson stia alle spalle della corrente più importante ed originale dell’epistemologia non anglosassone. A Bergson si sono inoltre esplicitamente ispirati scienziati come René Thom (n. 1923) e Ilya Prigogine (n. 1917): in entrambi è prevalente l’interesse per la genesi delle forme, per l’analisi di strutture complesse irriducibili al paradigma meccanicistico classico ma che mostrano di possedere un ordine proprio. Questa prospettiva viene direttamente posta in connessione con la critica bergsoniana del determinismo e con la necessità di comprendere l’insorgenza di forme sempre più evolute non previste dalla situazione da cui originano. È da segnalare infine l’opera di Michel Serres (n. 1930), impegnato a rilevare gli elementi di aleatorietà che indeboliscono ogni interpretazione puramente razionale della realtà. Serres ricava da Bergson la convinzione che la filosofia non possa sottomettersi ad un sistema astratto e aprioristico di concetti da cui derivare un modello del reale, ma debba saper descrivere il reale stesso seguendone ed assecondandone le morfologie anche quando esse mettono in crisi il modello prevalente di razionalità. Come per Bergson, anche per Serres è il reale a guidare il pensiero e non viceversa.

Per quanto riguarda infine i rapporti con il pensiero metafisico, la rivalutazione della dimensione della coscienza e della storia operata dall’opera di Bergson non vuole necessariamente opporsi in chiave dialettica alla metafisica nella sua accezione di filosofia delle cause ultime e fondanti dell’essere. La filosofia di Bergson esprime piuttosto il tentativo di cercare nuove sintesi sul piano dell’esperienza, della fenomenologia e dell’antropologia, rimanendo tuttavia, in tal senso, una sintesi difficile e di fatto ancora incompiuta.

 

Bibliografia

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