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Newman, John Henry (1801 - 1890)

Anno di redazione: 
2002
Fortunato Morrone

I. Vita e opere - II. Fede e ragione - III. L’Università luogo d’incontro tra scienza e fede - IV. Il ruolo delle scienze, della teologia e della fede - V. Fede e scienza tra conflittualità e dialogo - VI. Fede cristiana e teoria dell’evoluzione.

I. Vita e opere

Newman nasce il 21 febbraio 1801 nella città di Londra e il 9 aprile dello stesso anno viene battezzato nella chiesa di St. Bennet Fink. Suo padre era banchiere, sua madre apparteneva ad una famiglia protestante francese, rifugiata in Inghilterra in occasione della revoca dell'editto di Nantes. Nel 1808 Newman entra nella scuola di Ealing restandovi fino al 1817, anno in cui accede a Oxford nel Trinity College. Qui, a soli 21 anni, entra a far parte della più prestigiosa fellowship di Oxford, quella del collegio di Oriel. Nel 1824 è consacrato diacono della Chiesa anglicana e l'anno successivo presbitero, decidendo di scegliere il celibato come via più consona per servire il Signore. In questi anni Newman supera l'influsso dell'Evangelicalism, di matrice calvinista, ma entra nell'orbita del razionalismo tipico del clima intellettuale oxfordiano rimanendovi fino al 1828, anno in cui una grave malattia e la morte della sorella Mary lo ridestano dal sogno del liberalismo dei Noetici della evidential school.

Nello stesso anno gli viene affidata la cura pastorale della parrocchia universitaria di St. Mary, che lo rende popolare per i suoi sermoni domenicali, ascoltati sia dalla semplice gente di campagna che dagli studenti e professori universitari. Nel 1832, dopo aver ultimato la sua prima opera Gli Ariani del IV secolo, nella quale muove il suo primo attacco al liberalismo razionalistico, intraprende un viaggio nel Mediterraneo. In Sicilia cade gravemente ammalato e in questa circostanza Newman intuisce una chiamata particolare di Dio a rinnovare la sua Chiesa d'Inghilterra.

Nel 1833, prendendo le mosse da un famoso discorso di John Keble, On National Apostasy, in cui si denunciava il distacco della nazione inglese dalla pratica della fede e l'asservimento della Chiesa allo Stato, espressa nellaReform Bill, con alcuni amici che condividevano gli stessi ideali (Keble, Froude, Pusey), fonda il “Movimento di Oxford”. L’intento è di ritornare alla Chiesa indivisa dei Padri, attraverso una riforma spirituale, dogmatica e liturgica della Chiesa anglicana, lontana dalla Riforma luterana, ma, per alcuni versi, simpatizzante della grande tradizione della Chiesa di Roma. Il Movimento, con la pubblicazione periodica dei Tracts for the times, si proponeva di penetrare nella coscienza degli ecclesiastici come dei semplici fedeli, posta tra due fuochi estremi: il sentimentalismo evangelical da una parte e il razionalismo dall’altra. In questi anni Newman si propone di fondare teologicamente la pretesa teoria anglicana di essere «Via Media» tra gli eccessi del “romanismo” e del protestantesimo. È uno studio rivolto in più direzioni. Ma il filo conduttore che dà consistenza a questo progetto è la ricerca della verità, espressa nella santità di vita, la quale una volta trovata reclama l'assenso e l'ossequio dell'intelligenza.

Sono anni di una febbrile attività intellettuale. Nel marzo del 1834 pubblica il primo degli otto volumi dei Parochial and Plain Sermons, e nello stesso anno inizia una serie di conferenze su questioni di ecclesiologia, di teologia della grazia, del rapporto tra fede e ragione, pubblicati successivamente e rispettivamente con i seguenti titoli: Lectures on the Prophetical Office of the Church viewed relatively to Romanism and Popular Protestantism, ripubblicato nel primo volume di The Via Media of the Anglican Church (1837); Lectures on The Doctrine of Justification (1838); Sermons preached before the University of Oxford (1843).

Il Saggio sull’ufficio profetico della Chiesa, in particolare, intendeva essere un contributo alla formazione della teologia ufficiale anglicana, per prendere le distanze dal sistema romano, fondando l'argomentazione sulla Tradizione e sulla dottrina della Chiesa primitiva. Ma lo studio successivo svolto sui Padri e sulla controversia monofisita del V secolo, porta progressivamente a polverizzare tale teoria teologica. Un articolo del sacerdote cattolico Wiseman (poi eletto Cardinale) sul Dublin Review scuote profondamente Newman. La frase securus judicat orbem terrarum, citata da s. Agostino, lo mette sull'avviso che probabilmente il suo lavoro lo avrebbe condotto in tutt'altra direzione. La frase di s. Agostino apriva inequivocabilmente la strada a riconoscere l'argomento, non solo dell'apostolicità, ma soprattutto della cattolicità a favore della sede di Roma. Newman si sarebbe lucidamente accorto che la vera Chiesa, durante i secoli, era rimasta quella di Roma, l’unica a suo avviso fedele allo spirito del Vangelo, pur nello sviluppo della dottrina di fede, considerato, al contrario, dai protestanti quale espressione di degenerazione della purezza della fede.

In questa linea, nel 1841 Newman, nel Tract 90, propone un'interpretazione “cattolica”, ma non romana, dei 39 Articoli di Fede dell'anglicanesimo. Ma viene condannato dall’Hebdomadal Board dell’Università e poi dai vescovi. Fedele al principio di ossequiare la verità, Newman decide di rinunciare all'insegnamento universitario per ritirasi nella residenza di Littlemore. Qui tra la preghiera e lo studio, inizia a tirare le fila di una riflessione che lo accompagna esistenzialmente e intellettualmente da anni: se la Chiesa cattolica romana è nella continuità apostolica, come giustificare quelle dottrine che sembrano non avere un immediato riscontro nel Nuovo testamento e nel cristianesimo primitivo? Newman elabora così il principio dello sviluppo autentico della fede che permette di individuare nella crescita della dottrina credente della Chiesa romana la legittima depositaria dell’insegnamento apostolico. Già i dogmi dei primi secoli sono i segnali chiari di uno sviluppo interno a quell’organismo vivente e vitale che è la Chiesa di Cristo.

E così, mentre sta completando uno dei suoi capolavori, il Saggio sullo sviluppo della dottrina cristiana (1845)approdo teologico della sua leale ricerca, non senza sofferenza per l’abbandono della Chiesa in cui era cresciuto, decide di diventare membro della Chiesa Cattolica, nella quale sarà ricevuto il 9 ottobre del 1845. È un passo che fece scalpore nell'Inghilterra protestante antiromana, per la statura culturale e morale del neo-convertito.

Dopo qualche mese di studi svolti a Roma, Newman viene ordinato sacerdote il 30 maggio 1847. Inizia così il secondo periodo della sua vita, non meno facile del precedente, anche se ora, il futuro cardinale, aveva trovato nella Chiesa cattolica la pace nella sua ricerca della verità. Ritornato in Inghilterra, fonda a Birmingham (1848) il primo Oratorio inglese di s. Filippo Neri. Nel 1849 pubblica Discourses to mixed congregations, nel 1850 le Lectures on Anglican difficultes, e l’anno dopo a Birmingham inizia le Lectures on the present position of catholics. Nello stesso anno accoglie l’invito dell’arcivescovo Cullen di erigere la prima Università cattolica irlandese. Dopo cinque anni di permanenza a Dublino come rettore dell’Università, deve rassegnare le dimissioni essendo i suoi vasti orizzonti culturali fraintesi e invisi ai vescovi. Da quest’esperienza nasce un’altra opera significativa del suo genio: L’idea di una università (The idea of university defined and illustrated, 1852). Nello stesso anno in cui lascia l’Università accetta la direzione del Rambler dove scrive un saggio sul ruolo dei laici nella Chiesa: Sulla consultazione dei fedeli in materia di dottrina (1859)L’articolo, in cui si evidenzia il consensus fidelium come parte integrante dell'indefettibilità della Chiesa, suona eretico alle orecchie degli ultamontani inglesi e viene denunciato a Roma, dove l’ortodossia di Newman rimane sospetta fino al 1867.

Inizia per Newman un periodo difficile di diffidenza da parte cattolica e, per alcuni versi, di calunnia da parte anglicana. Qui si mette in dubbio la sua buona fede nel passaggio alla Chiesa cattolica. Dopo un attacco, mosso in tal senso da Kingsley, il quale metteva in discussione la sincerità del clero cattolico e in particolare quella dell’Oratoriano, Newman risponde con la famosa Apologia pro vita sua (1864), un classico della letteratura autobiografica, paragonata alle Confessioni di s. Agostino, e scritta in soli tre mesi.

Con l’Apologia Newman riacquista lentamente la popolarità e il rispetto da parte cattolica come da quella anglicana. Nel 1870 pubblica il Saggio per una grammatica dell’assenso,esito di un cammino iniziato teologicamente con iSermoni Universitari, e risolto nella possibilità razionale di giustificare la fede dei semplici nel loro assenso alle verità rivelate: la mente umana può giungere alla certezza in materia di fede, contro ogni riduzionismo razionalistico o fideistico. Nel 1874 l’ex primo ministro Gladstone critica negativamente i decreti del Concilio Vaticano I (1870), ritenendoli inconciliabili con la lealtà dei cittadini cattolici nei confronti dello Stato. Sollecitato dal duca di Norfolk a prendere posizione in difesa dei cattolici inglesi, Newman risponde con la Lettera al Duca di Norfolk (A letter addressed to his grace the Duke of Norfolk, on occasion of Mr. Glastone’s recent expostulation, 1875), un classico di riferimento per il delicato tema della coscienza morale. Nel 1879 Newman viene elevato da Leone XIII alla porpora cardinalizia e, dopo un’intera vita spesa in favore della verità, lascia questo mondo per la casa del Padre, il giorno 11 agosto del 1890.

L'opera teologica newmaniana è indissolubilmente legata alla sua avventura umano-religiosa e, nello stesso tempo, non può essere scissa dall'ambiente religioso, politico e sociale dell'età vittoriana segnato dal romanticismo e dall'evangelicalismo da una parte, e dal liberalismo razionalista dall'altra. È un periodo segnato da un frenetico sviluppo industriale ed economico che produce un clima sociale dominato — con espressione di G.K. Chesterton — dal «freddo razionalismo mercantile» e dal «volgare ottimismo utilitario». Una contingenza particolare che imprime alla cultura un’esuberanza difficilmente riscontrabile in altre epoche. Una cultura che si trova in una fase di passaggio e che è alla ricerca di nuove sintesi e sistemi di pensiero. È il periodo dello sviluppo delle scienze naturali e fisiche che offriranno nuove grandi sfide alla credibilità della fede. In questo tempo pensatori come Charles Darwin (1809-1882) e John Stuart Mill (1806-1873) esprimono il meglio della loro produzione. Di quest'ultimo Newman ha attentamente studiato, dopo il 1857, il Sistema di Logica (1843), preparandosi indirettamente a stendere la suaGrammatica dell’assenso, così come si è interessato al pensiero di filosofi scozzesi contemporanei, quali Hamilton e Mansel. Newman riconosce nell’anima inglese l’influsso morale esercitato da David Hume (1711-1776) e da Jeremy Bentham (1748-1832), infiltratosi prepotentemente nella stessa Chiesa anglicana, fino a produrre quel liberalismo religioso di stampo razionalista e utilitarista contro cui egli ha lottato per tutta la vita. Ma, nello stesso tempo, e sul versante opposto, a uomini della corrente romantica, quali Scott, Coleridge, Wordsworth, Newman riconosce un influsso benefico esercitato sulla nascita del Movimento di Oxford.

In questo crogiolo di tensioni culturali non manca la corrente evangelical, che si rivela una grande benedizione contro l’utilitarismo del tempo, come “religione del cuore, senza ortodossia di dottrina”, ma che, pur trovandosi agli antipodi del razionalismo, si dimostrava poi ad esso affine nel rifiutare ogni oggettività della fede.

Come teologo, rispetto a contemporanei quali Rosmini (1797-1855) o Möhler (1796-1838) — di quest’ultimo Newman conosce e apprezza la Simbolica (1832) —, all’oxoniano manca quel bagaglio filosofico, inteso in modo classico e di ampio raggio, che gli assicuri la struttura concettuale sistematica tipica della teologia. Tra gli autori antichi emerge l'Aristotele dell'etica e della poetica, di rigore negli studi ad Oxford. La sua riluttanza nei confronti dell’universale, quale fondamento dell’essere e della conoscenza, lo legano alla tipica tradizione inglese di F. Bacone, Locke e Hume, studiati sistematicamente e presenti criticamente in alcune sue opere. Più forte è il legame culturale-filosofico con il vescovo Joseph Butler (1692-1752) il quale, con la sua opera L’analogia della religione, naturale e rivelata (1736), è stato punto di riferimento per Newman nella critica allo scetticismo di Hume, soprattutto in relazione alla Rivelazione.

  

II. Fede e ragione

Per contestualizzare il pensiero di Newman in relazione al rapporto tra fede e scienza, è necessario situarlo brevemente all’interno della sua analisi sulla natura della ragione in relazione alla fede cristiana, in dialogo polemico con l’ambiente razionalista secondo cui solo il metodo scientifico, fondato su una concezione della ragione intesa in senso illuminista-empirico, può pervenire alla verità delle cose, se mai ve ne sia una.

Il rapporto fede-ragione in Newman viene colto all’interno della relazione salvifica che si instaura tra Dio e la sua creatura (God and myself), rapporto che trova la sua dimensione pratica nella coscienza morale del singolo e si dispiega in tutta l’esistenza personale il cui cuore, come motivo ultimo che dà consistenza alla stessa riflessione teologica, è la santità (Holyness first). Praticare una teoria della conoscenza al di fuori di questo tessuto esistenziale e di grazia che lega l’uomo a Dio è fuorviante e inconcludente.

Newman sviluppa lo studio sull'atto di fede come atto del credente, non sopra la ragione, ma dentro l'esperienza razionale della fede. Egli si colloca sul versante della composizione, non tattica ma esistenziale, del rapporto fede-ragione, in forza della logica stessa della Rivelazione. Dai Padri della Chiesa Newman ha attinto l'equilibrio del giudizio che si risolve nella dialettica dell'et-et mutuata dal nucleo centrale della fede cristiana: l'incarnazione del Verbo. Lo schema dualistico, tipico delle grandi eresie, combattuto energicamente dai Padri, non poteva non riverberarsi, a livello più strettamente teoretico, nell'aut-aut tra fede e ragione, naturale e soprannaturale, religione e rivelazione, minando al cuore la novità del cristianesimo. Con la stessa energia, dunque, Newman combatte sia il fideismo degli evangelicals e l’ultramontanismo cattolico, sia il razionalismo del liberalismo religioso.

Pertanto, Newman rifiuta la nozione di ragione così com’era praticata nella tradizione inglese, situata tra il razionalismo cartesiano e l’empirismo di Locke che pretende di bollare come irrazionali tutte quelle “credenze scontate” che in realtà stanno alla base della vita quotidiana e non possono essere provate con i cosiddetti metodi “scientifici”. In tale via svanirebbe tutta l’esperienza umana accumulata e assimilata nel tempo e vissuta in modo “irriflesso”.

Newman vive e respira il clima dell’empirismo inglese e in qualche misura ne è debitore per alcune analisi fenomenologiche, come si evince dalla terminologia utilizzata nei Sermoni Universitari e nella Grammatica dell’assenso. Ma non ne rimane circoscritto al loro interno: se l’analisi della conoscenza parte dall’esperienza, essa approda ad una visione che è capace di interpretare il reale con una ragionevolezza, propria dello spirito umano, più ampia ed estesa del termine “ragione” attribuito dall’illuminismo o dall’empirismo. La ragione va colta nella concretezza dell’esperienza umana dei singoli, fatta di relazioni, di immaginazione, di sentimenti, di puntuali e limitate contingenze storiche. Questa preziosa facoltà umana possiede una sua dinamica che tende inesorabilmente alla verità, «è fatta per la verità e trova base nella verità [...], la può raggiungere e una volta raggiunta la può tenere; la può conoscere e le può conservare il suo riconoscimento» (Grammatica, p. 135). Ora, questa tensione è incomprensibile al di fuori dell’atto creativo di Dio il quale costituisce l’uomo come spirito incarnato; perciò la complessità dell’uomo non può essere ridotta alla capacità di raccogliere dati sensibili e di catalogarli secondo lo schema razionalistico. A Locke, Newman rimprovera: «gli stessi modi di ragionare e convincimenti che per me sono naturali e legittimi per lui sono irrazionali, emotivi, spuri ed immorali; e ciò, credo, perché egli si richiama ad un suo ideale di come la mente dovrebbe agire, anziché indagare la natura reale della mente umana» (ibidem, p. 99).

Da qui emerge quella filosofia della scienza che, pur riconoscendo una sua dignità alla religione, relega quest’ultima nell’ambito del sentimento privato che non ha valore in termini di conoscenza certa. Se poi a sostegno della fede religiosa si riconoscono argomentazioni razionali, queste restano comunque circoscritte alla sfera della coscienza del singolo, non attribuendogli credito in campo scientifico. A ben vedere l’ambito della ragione empirica è, tutto sommato, ristretto rispetto all’intera realtà che non è riducibile né mossa da questa “ragione”, ma da altre ragioni non meno reali. In fondo la stessa tradizione empirica ammette dei limiti alla ragione: è il buon senso dello “spirito filosofico” che con umiltà cerca di interpretare i fatti secondo la lezione iniziata da Bacone. Nel rispetto di tali limiti si può giungere a risultati validi nel campo della conoscenza.

In questa via Newman difende la fede come atto intellettuale dell’uomo che nella sua interezza si apre al mondo. Confortato dalla Sacra Scrittura, Newman ribadisce: «è chiaramente impossibile che la fede sia indipendente dalla ragione, che sia un nuovo modo di raggiungere la verità: il Vangelo non altera la costituzione della nostra natura, non fa che integrarla e perfezionarla; ogni conoscenza comincia con la vista e si completa con l’esercizio della ragione […tuttavia] la ragione non è necessariamente l’origine della fede quale essa esiste nel credente, per quanto la controlli e la verifichi» (Sermoni Universitari, pp. 600-601). Fede e ragione non sono dunque due atteggiamenti opposti dello spirito umano, ma non possono confondersi: ogni confusione conduce o al razionalismo o al fideismo. La fede è sostanzialmente «influenzata in modo preponderante da considerazioni antecedenti [...] la ragione dà una prova diretta e precisa [...]. La fede è un principio d’azione [...] mentre la ragione si basa sulla dimostrazione, la fede è sotto l’influsso delle aspettative (essa) nasce nello spirito non tanto dai fatti quanto dalle probabilità» (ibidem, pp. 605 e 607), intese secondo l’Analogia della religione di Butler. La fede, pertanto, come esercizio della ragione aiuta a ricomprendere questa facoltà umana in un senso più ampio e complesso di quanto propone il razionalismo e l’empirismo che «vede la fede come un semplice atto morale, subordinato ad un previo processo di chiara e prudente ragione» (ibidem, p. 618).

Nell’analisi fenomenologica della ragione, Newman evidenzia una multiforme varietà di processi mentali che sorreggono le azioni quotidiane più comuni ma che non sono rigorizzabili secondo metodi scientifici. Ed è in questa dinamica che si formano le personali convinzioni, che sono le ragioni implicite dell’azione ma che nella prassi non si presentano chiaramente dotate di evidenza razionale. Eppure queste sostengono l’esistenza creando certezze. Si può allora ragionare senza dover “dimostrare” nel senso illuminista del termine. Avere ottime ragioni per credere non corrisponde necessariamente a mostrare tali ragioni. Per cui, se un semplice credente non argomenta sufficientemente la sua fede questo non equivale a un atteggiamento irrazionale: le “probabilità” del suo credere possiedono ragioni sufficienti, anche se non esplicitate razionalmente.

Alla persona incolta, ma credente, Newman dedica la sua Grammatica dell’Assenso, dove si sviluppa una vera e propria teoria della conoscenza di fede: l’atto di fede non è dissimile da una situazione analoga che si sviluppa in ogni altro tipo di scelta umana dove tutte le facoltà dell’uomo sono impegnate ed investite. In quest'opera troverà spazio la riflessione sul «senso illativo» (illative sense) che consente alla ragione di dirigersi verso l’atto di fede tenendo conto di tutte le fonti di conoscenza che essa possiede: anche se alcune di esse non potranno venire espresse in termini rigorosi, tutte, nel loro insieme, sono sufficienti a generare l'assenso; come una corda intrecciata da deboli fili può offrire, grazie alla forza della trama, quella sicurezza che il singolo filo non sarebbe in grado di dare.

  

III. L’Università luogo d’incontro tra scienza e fede

Se «la fede implica una fiducia nella mente dell’uomo» (Sermoni Cattolici, p. 150) va riconosciuta, pertanto, nell’uomo un’apertura ontologica alla verità, a tutta la verità, e se la scienza è ricerca di verità allora un possibile conflitto tra scienza e fede o è frutto di equivoci, o è una conseguenza della perdita dell’orizzonte veritativo dell’annuncio cristiano, il cui principio ermeneutico si trova nel Verbo Incarnato. Solo l’arroganza della ragione o la miopia di una fede arroccata possono creare quel terreno di ostilità o di contrapposizione che non poche volte ha caratterizzato, almeno dopo l’illuminismo, i rapporti tra le scienze naturali e il cristianesimo. Scrive puntualmente Newman: «il cristianesimo è stato descritto come un sistema che sbarra la via al progresso, in campo politico come in campo educativo o scientifico [...]. Il sentire sospetto e mostrare timidezza (da parte dei cristiani), nell’assistere all’ampliamento del sapere scientifico, equivale a riconoscere che tra esso e la rivelazione possa sussistere qualche contraddizione» (Sermoni Universitari, pp. 464-465).

Una tale affermazione, all’inizio della sua attività accademica e pastorale, dà la misura della statura del pensatore e del credente. Certo, qui, non si parla di una sorta di concordismo, ma di un bisogno di chiarimento, nei confronti dei credenti e/o degli scettici, dell’ampio raggio della fede, il cui spazio d’azione non è al di fuori dell’esperienza umana, ma all’interno, comprendendola tutta. In questa via, la capacità intellettuale di Newman di ripensare in modo originale la proposta cristiana, in un clima non certamente favorevole posto tra il razionalismo e il sentimentalismo/fideismo, si evidenzia in quella larghezza di orizzonte che permette di elevare la fede dalle sterili difese tipiche di un certo manualismo accademico, presenti sia nell'anglicanesimo che in certa teologia cattolica del tempo, a riflessione critica della fede che non teme il dialogo e il confronto con la cultura letteraria, filosofica e scientifica, anzi la ritiene necessaria per la natura stessa della Rivelazione cristiana che investe, provoca ed eleva tutto l’umano.

Nell’opera di Newman, tuttavia, non troviamo una trattazione sistematica sul rapporto tra fede e scienza. Spunti e riferimenti significativi sono presenti nelle sue innumerevoli lettere, nei Sermoni Universitari, nella Grammatica, e in una serie di sette brevi saggi apparsi sul The Times nel 1841 con lo pseudonimo Catholicus (The Tamworth Reading Room). Per tale motivo ci riferiremo particolarmente alla sua opera L’idea di una università, dove il tema viene affrontato in modo coerente in alcuni dei Discorsi tenuti al pubblico di Dublino.

Contro la Queen’s University of Ireland fatta erigere dallo Stato anglicano per i cattolici irlandesi, ma il cui insegnamento era ispirato da un freddo agnosticismo religioso, l’Arcivescovo di Dublino Cullen, dopo aver vietato ai cattolici l’iscrizione all’Università, aveva chiesto a Newman di erigere un’università cattolica, la prima del Regno Unito. Ma le vedute e le attese di Cullen e di altri vescovi non potevano reggere il confronto con gli orizzonti culturali di Newman, il quale sarà costretto dopo appena cinque anni a dimettersi. L’esperienza universitaria oxoniana, prima del suo passaggio alla Chiesa cattolica, aveva inciso profondamente sullo spirito di Newman, il quale non poteva accettare di istituire un’università sulla falsariga di un seminario maggiore, aperto unicamente ai cattolici. C’era, inoltre, l’esigenza di ripensare l’università attrezzata culturalmente per non cadere nelle trappole di un bieco dogmatismo religioso o di uno scientismo razionalistico riduttivo, propri dello spirito del tempo. Da qui, l’università non è intesa come luogo di propaganda religiosa, quanto di formazione intellettuale “universale”, dove la religione è di casa come la scienza e la filosofia. In questa linea Newman si attivò subito per aprirvi le Facoltà di Filosofia, Lettere e Medicina. Altre Facoltà scientifiche avrebbero visto la luce se Newman non fosse stato allontanato.

Nei nove Discorsi pensati per la fondazione dell’Università e pubblicati nel 1852, e in altri dieci Argomenti scritti in occasioni diverse e pubblicati insieme ai primi nel 1873, Newman definisce i compiti dell’istituzione universitaria, che va considerata come istituzione umanistica, dove i cattolici non sono blindati in un mondo a sé stante, ma aperti ad ogni persona che ricerchi la verità, che ami la verità, secondo la tradizionale cultura filosofica. Il sapere di cui tratta qui Newman non è sottoposto a fini utilitaristici e trova il suo ambiente nell’Università come luogo dove si viene educati alla libertà del sapere, una conoscenza del sapere disinteressato “liberale” per cui: «si forma un abito mentale che dura tutta la vita [...] cioè quanto in un discorso precedente mi sono arrischiato a chiamare abito filosofico» (Idea di Università, p. 835). Questo habitus assapora la conoscenza come “sapere” e offre la possibilità di unificare le altre conoscenze per darle significato. Le singole scienze, interessate ad un particolare oggetto di ricerca, risultano in se stesse incomplete e bisognose le une delle altre, cosicché: «vero arricchimento mentale è soltanto quello che consiste nella capacità di considerare un insieme di molte cose come un tutto, di riferirle una per una al loro posto nel sistema generale» (ibidem, p. 864). In realtà il soggetto conoscente è uno, come una è la verità, pur nella molteplicità del suo concedersi alla ricerca dell’uomo.

Maturando in questo abito filosofico sarebbe assurdo per gli studiosi sopprimere qualche insegnamento, come si tentava di fare nelle università inglesi nei confronti della teologia. Siamo di fronte all’abuso e all’arroganza di quella “ragione” operata dal liberalismo che Newman aveva combattuto fin dai primi tempi di Oxford. C’è una ragione scientifica che pretende di essere l’unica capace di interpretare il reale con dichiarati metodi obiettivi e di offrire conoscenza, mentre la religione, che non può offrire condizioni di obiettività scientifica, relegata nell’ambito del privato e del sentimento, non può avere accesso all’insegnamento universitario. Contro questa pretesa assurda derivante dallo scetticismo di stampo empiristico, Newman ribadisce: «la dottrina religiosa è conoscenza in senso altrettanto pieno in cui lo è la dottrina di Newton. […] La teologia è sicuramente un settore del sapere» (ibidem, pp. 783 e 764).

In questo senso, il rapporto tra fede e scienza colto al di fuori dello spazio del sapere universale è fuorviante. L’universalità del sapere viene intesa come unità del sapere dove si costituisce spazio per i molti, per il diverso, per l’altro. Ma la diversità viene accolta solo nel grembo dell’unità, di una sapienza, cioè, che sta a monte e che permette di far interagire le scienze, non in un modo estrinseco di stampo positivistico, secondo cui l’unità è un assemblaggio di parti diverse con la conseguente frantumazione del sapere nelle varie specializzazioni della scienza. Crediamo che, in questa prospettiva newmaniana, giochi molto il principio dell’Incarnazione per cui la diversità della natura umana e divina trova unità nella Persona del Verbo, senza confusione, senza alterazione. Nell’unità le diverse parti trovano la loro autonomia e identità. Un’unità del sapere che trova, dunque, la sua scaturigine nella fede stessa.

Non a caso Newman dedica quattro Discorsi dell’Idea alla teologia per l’importanza che essa riveste all’interno del sapere umano, o meglio della conoscenza della persona umana la cui tensione positiva verso la verità si esprime nell’esigenza di riconoscere una reductio ad unum del sapere, quale sapienza e habitus filosofico che offre la capacità di pervenire ad una visione unitaria della realtà, pur nelle rispettive autonomie delle varie conoscenze offerte dalle differenti discipline scientifiche. Ora, questa larghezza di vedute è frutto di quella fiducia nella mente umana che si coniuga con la chiara consapevolezza dei propri limiti creaturali e che Newman chiamaimperial intellect (cfr. Idea, p. 1130). Con tale espressione egli intende la «capacità di riferire ogni cosa al posto che le spetta nel sistema generale, di comprendere i diversi aspetti di ciascuna delle sue parti, di afferrare l’esatto valore di ciascuna, di far risalire ciascuna al suo principio, e di proiettarla verso il fine che le è proprio [...]. Essa fa sì che ogni cosa conduca ad ogni altra cosa [...] come la parola “creazione” rimanda ad un “Creatore”» (Sermoni Universitari, pp. 682-683). In tal senso ogni scienza possiede un suo ambito proprio di ricerca della verità sempre necessaria di ulteriore cammino e di umile e inevitabile connessione con le altre scienze.

La presenza della teologia, perciò, non va legittimata in relazione ad una possibile università cattolica o cristiana, ma essa si colloca come scienza tra le altre scienze del sapere umano (cfr. Idea, Discorsi V e X) e, in quanto è frutto di un’educazione “liberale” (cfr. ibidem, Discorso VII, 1), non necessariamente deve portare il timbro di “cristiana”. La fede possiede una sua ragionevolezza, espressa nella riflessione critica, propria del pensare umano. In questa visione “universale” del sapere umano, aperto ed articolato, Newman fa interagire la teologia, scienza della fede, con le altre scienze del sapere umano. Il suo carattere scientifico viene ribadito contro ogni sua riduzione a sentimento (evangelical) o ad etica, come nel razionalismo di Kant.

Se «il sapere viene definito come scienza, o come filosofia, quando subisce l’azione della ragione, quando ne è informato e per così dire imbevuto» (Idea, p. 843), la teologia non è estranea a questo processo, anzi «la retta ragione, cioè la ragione rettamente esercitata, conduce la mente alla fede cattolica» (Idea, p. 904). Questa pretesa trova il suo fondamento nel principio dell’Incarnazione che permette ad ogni uomo di essere aperto alla Rivelazione per cui «quando la Provvidenza si rivela, non inizia da capo, ma si serve dell’ordine esistente» (Essay critical, vol. II, p. 194), come capita nell’intimo della coscienza umana, maestro interiore e tramite tra il Creatore e la sua creatura. In questa via l’uso della ragione all’interno dell’atto di fede o dell’esplicazione riflessa propria della teologia non può essere diverso (pur cambiando la metodologia) dal procedere “razionale” delle scienze: l’uomo che pensa e crede è sempre la medesima persona. E se la «verità è il principio guida della teologia» (inteso qui propriamente come Rivelazione) così come lo è per le scienze, «lo strumento della teologia è la ragione» (Via Media, I, XLI). Certo la teologia, rispetto alle scienze, si interessa di quel giudizio intellettuale della fede dipendente dalla testimonianza altrui o anche del giudizio pratico insito nel dinamismo proprio della volontà e libertà personale, per cui le verità della fede non sono suscettibili di dimostrazione formale. In tal senso la via della riflessione teologica possiede un carattere personalistico che mal sopporta i percorsi dell’apologetica razionale del XVIII secolo o di autori come William Paley; l’oggetto formale della fede non si identifica sic et sempliciter con la veracità di Dio. E tuttavia: «la struttura intellettuale della teologia è precisa e coerente […] elaborata con metodo razionale che porta a risultati necessari e immutabili» (Idea, p. 804). Questo suo procedere sistematico e rigoroso permette alla scienza della fede di assidersi allo stesso convito delle scienze con pari dignità, anzi con uno sguardo sulla realtà molto più ampio delle ultime. Perciò, conclude Newman, «per teologia intendo la scienza di Dio, […] proprio come abbiamo una scienza delle stelle che chiamiamo astronomia, o della crosta terrestre che chiamiamo geologia» (ibidem, p. 799).

  

IV. Il ruolo delle scienze, della teologia e della fede

L’approccio ad ogni scienza, compresa quella teologica, va quindi nella stessa direzione e richiede un pensare in modo preciso e logicamente coerente. Ora, le scienze prendono in considerazione determinati elementi della realtà e, anche se a precise domande esse dovrebbero poter fornire risposte altrettanto precise, si tratta sempre di conoscenze parziali rispetto alla totalità del reale. Ignorare questo comporta assolutizzare il “relativo”. L’esercizio della filosofia (imperial intellect) quale “sapere del sapere”, esercita una funzione regolativa nei confronti di tutte le scienze e nei confronti della stessa teologia, salvaguardandole dagli sconfinamenti epistemologici operati dagli uomini di scienza in campi d’azione non propri.

Il procedere delle scienze in campi d’azione autonomi, secondo criteri e metodologie proprie, dovrebbe impedire di travalicare indebitamente il proprio terreno di ricerca. Se la fisica stabilisce le leggi intra-mondane che rendono conto dei fenomeni naturali, tale spiegazione prescinde da una finalità soprannaturale, o quanto meno, non rimanda immediatamente ad un’Intelligenza creatrice (cfr. Sermoni universitari, p. 610).

Tra le ipotesi esplicative delle scienze fisiche e un interesse per le prove cosmologiche dell’esistenza di Dio non esiste una consequenzialità. Newman non intende negare la possibilità di un’analogia entis, quanto evidenziare la dimensione spirituale della sua “partenza” circa la presenza di una Potenza creatrice. L’invisibile, sperimentabile nella profondità della coscienza, possiede più “consistenza” del visibile ed è come più “reale”. Le scienze che si occupano del visibile non possono rendere conto dell’invisibile, cioè di quella conoscenza religiosa che apre l’uomo all’Assoluto e lo pone nella condizione di agire rettamente. Perciò, di fronte ad una scienza sicura di sé nell’offrire all’uomo conoscenze sempre più precise sulle realtà create, aperte ad un progresso e benessere illimitato, quasi fosse una nuova religione, Newman ricorda che la morale non si insegna con le scienze naturali.

Nel 1841 egli aveva già avuto modo di esprimere le sue riserve nei confronti di una fiducia incondizionata nel progresso nelle The Tamworth Reading Room (cfr. Discussion and Arguments, pp. 254-305, riprese in Grammatica, pp. 56-58) in cui tocca il tema del rapporto tra la scienza la morale e la religione. Gli ideali utilitaristici-scientifici, sotto l’influsso di Jeremy Bentham, quale via per il progresso dell’umanità, non sono in sé errati. Il problema emerge quando la scienza pretende di dar vita a quelle virtù morali che elevano l’uomo affrancandolo da ataviche schiavitù. Sostituendosi alla religione nel suo aspetto sociale, la scienza, inesorabilmente, la relega nell’ambito privato della coscienza e del sentimento. Se la cultura tecnica è la nuova religione, il messaggio cristiano è irrilevante per il destino e per l’oggi degli umani, è al massimo un devoto esercizio di estetica.

Ora chi propone l’equazione fra crescita scientifica e crescita etica è fuori dal sano realismo cristiano, per il semplice motivo che la conoscenza profonda dell’uomo non è appannaggio della scienza. La conoscenza in sé, per quanto vasta, non assicura all’uomo una maturità morale, poiché punta a modificare esternamente le condizioni umane di vita che, per quanto lodevoli, non cambiano gli uomini dal di dentro. Qui bisogna lavorare per la vera crescita morale, senza misconoscere l’apporto che possono dare le scienze. Sarebbe un inganno pensare che l’uomo cambi con una nuova invenzione che faccia sperare, ad esempio, in una illusione di immortalità: non si può sottomettere «l’ira, la passione, il dolore allo studio di conchiglie e di erbe, alla classificazione di rocce o a calcoli matematici. Se la virtù controlla la mente e il suo fine è l’azione, se la sua perfezione è l’ordine interiore, l’equilibrio e la pace, dobbiamo cercarla in luoghi più seri e santi di una biblioteca o di una sala di lettura» (Discussion and Arguments, p. 268). Non necessariamente le scienze aprono alla crescita morale dell’uomo, specie quando non sono normate da princìpi etici che solo la religione può assicurare.

La società viene rigenerata dal Vangelo della Grazia, poiché, come ci insegna la fisica, il fiume non scorre più in alto della sua sorgente. Chi riconosce questa verità riconosce nel cristianesimo la capacità di innalzare l’uomo dalla sua condizione di fragilità estrema a mete più alte del possibile progresso tecnologico. In sostanza l’uomo non può salvarsi da se stesso ed è questo il punto cruciale di ogni vera conoscenza: la scienza fa crescere l’uomo se riconosce il suo stesso limite e rimane nel suo campo di ricerca. Al fondamento di ogni insegnamento va posta la verità annunciata dal cristianesimo: in questo, ricorda Newman, la fede precede ed orienta la conoscenza, e così la coscienza precede la scienza, come la grazia fonda la natura. Per quanto nobili e meritevoli siano i lavori scientifici, per l’indiscusso benessere apportato all’umanità, questi non possono essere considerati come «strumento di formazione etica; la fisica non fornisce la base, ma solo del materiale al sentimento religioso e [...] l’invisibile è l’unico principio conosciuto capace di vincere il male morale, di educare il popolo e di formare la società» (Discussion and Arguments, p. 304). Ora, se le scienze naturali non hanno bisogno di Dio come ipotesi sperimentale, queste non possono insegnare all’uomo il suo dovere morale, poiché se la fisica insegnasse all’uomo la morale, cesserebbe di essere fisica (cfr. ibidem, pp. 229 e 303). Ma «la scienza che necessariamente prescinde dall’idea di male morale» (Idea, p. 944) può condurre nella prassi a conseguenze disastrose per la civiltà.

La scienza, cioè, deve convincersi che l’uomo non è solo fisicità, ma soprattutto coscienza, anima. Ciò che, per esempio, afferma la medicina nel suo campo risponde certamente alla dinamica della fisiologia umana. Perciò, per guarire dalla malattia bisogna seguire il percorso offerto da questa scienza. Ma in ultima istanza è la coscienza della singola persona a decidere se esista un principio che normi la verità offerta della scienza. Una religiosa infermiera che contrae una malattia assistendo gli ammalati, preferendo disobbedire alla legge della autoconservazione fisica per obbedire al principio dell’amore sopra ogni cosa, sarà censurata dalla scienza il cui errore consiste «nel non comprendere che v’erano altre verità più elevate della propria» (ibidem, p. 1171). Nel conflitto appena menzionato è in gioco il seguente principio: quale scienza è superiore all’altra? La scienza teologica-morale o quella medica? Ora, tutto ciò che è “scientificamente” vero nella propria scienza, non è sempre lecito nella prassi.

La scienza si fonda sui sensi e sull’evidenza, non altrettanto la religione e la morale che si fondano sui fenomeni che sono i dettami della coscienza e della fede: pur non potendo negare la presenza della coscienza, i suoi segni si presentano deboli come le montagne oscurate dalla foschia. Perciò, la coscienza, la ragione, le tradizioni della fede «non possono come fondamenti di scienza rivaleggiare con i duri palpabili fatti materiali che costituiscono la provincia della fisica». In questa condizione di debolezza, il sussurro dell’invisibile legge morale presente nella coscienza dei singoli, impercettibile agli strumenti scientifici, viene garantito unicamente dalla visibilità della Chiesa, testimone dell’invisibile, eppure reale, verità della fede. La Chiesa garantendo la coscienza in un mondo che si presenta come «un aspro antagonista della verità spirituale» (ibidem, pp. 1174-1775) è la sola che, nello stesso tempo, può salvaguardare la scienza dalla deriva utilitaristica.

La pretesa della teologia di far parte integrante a pieno titolo del sapere universale, in quanto costituisce un ramo della conoscenza (a branch of knowledge),risulta, dunque, condizione necessaria per moderare la scienza, per evitare che, debordando l’ambito della sua ricerca, questa perda il senso stesso della sua scientificità, utilizzando, in campi non suoi, strumenti di conoscenza inadeguati, fuorvianti la verità. In tal senso, secondo Newman, non giova insistere sul carattere scientifico della conoscenza di Dio, così come avveniva nel razionalismo teologico del suo tempo, poiché ci si pone sul piano di quella “razionalità” praticata dalle scienze naturali e da uomini che si considerano credenti. In realtà il Dio da loro professato non è diverso dal Fato dei pagani, provvidenza generale che si confonde con le leggi dell’universo. In tal caso, la riflessione teologica così concepita, semplice «poesia del pensiero» o «produzione parassitaria» della filosofia e della scienza (cfr. ibidem, p. 780), non potrebbe pretendere un posto tra le altre scienze nelle Università.

  

V. Fede e scienza tra conflittualità e dialogo

Ora, se il presupposto è che le scienze e la teologia possiedono lo stesso oggetto di ricerca (la verità) e lo stesso livello di conoscenza a partire dal medesimo intelletto, è possibile che la contrapposizione sia inevitabile, e ci si debba chiedere chi dei due abbia ragione, come accadrebbe ad esempio nel caso dell’evoluzionismo. Ma se l’oggetto e i contenuti sono considerati così diversi tra loro, ci troviamo di fronte al caso contrario: non esiste possibilità alcuna di scontro né di incontro. Contro questi due estremi Newman propone un modello dialogico di relazione tra le scienze che tiene conto dei rispettivi metodi e competenze in forza del carattere unitario della conoscenza e del sapere: una sorta di tessuto dove una parte non può essere isolata, ma interagisce necessariamente con le altre. Le scienze si accostano all’unico oggetto da varie angolazioni, sono come il «riflesso soggettivo della verità oggettiva» (Idea di Università, p. 787), per cui nessuna scienza può venire tralasciata senza arrecare danno all’intero sistema delle conoscenze umane. La stessa teologia, in quanto «scienza della religione», non può fare a meno delle altre scienze poiché anch’essa partecipa di quella legge «cui è sottoposta ogni attività mentale, cioè all’imperfezione ineliminabile dall’astratto, quanto questo tenta di determinare il concreto»; pertanto a chi pretende che la teologia sia posta a margine delle altre scienze, Newman risponde: «Quando Newton potrà fare a meno del metafisico, allora potrete fare a meno di noi» (ibidem, pp. 791-792). E così «nessuna scienza al mondo, per quanto ampia possa essere, potrà evitare di incorrere in gravi errori, se viene elevata a unica interprete di tutte le cose che esistono in cielo e in terra» (ibidem, p. 811).

Nessuno, tuttavia, può negare il dato della conflittualità tra la scienza e la fede. Newman nota che la base del conflitto si situa tra il carattere essenzialmente non progressivo delle materie umanistiche, compresa la teologia, e il progresso continuo delle scienze che consiste in un processo di accumulazione. Ne deriva un differente linguaggio che produce non poche incomprensioni. Il linguaggio della scienza è analitico, rispetto a quello della fede, atto più a definire che a descrivere. Il significato di un termine scientifico non è fissato una volta per tutte, ma cambia con le nuove acquisizioni della singola scienza e la frammentazione delle scienze apre ad altri linguaggi sempre più specialistici. Al di fuori di una concezione unitaria del sapere, venendo a mancare un linguaggio comune o quantomeno integrabile, il dialogo tra le scienze sarà caratterizzato da inevitabili incomprensioni e sovrapposizioni indebite. Nel conflitto tra fede e scienza, così come preannunciano i tempi futuri segnati da uno scientismo sempre più spavaldo, Newman propone un atteggiamento costruttivo. La scienza è uno strumento di conoscenza che può arrecare un gran bene all’umanità se viene aiutata a servire la verità, anche se dovesse procurare errori. Esperto della storia del cristianesimo e della dinamica del cammino della Chiesa verso la Verità, nonostante le tante eresie, Newman, è ottimista circa il sano progresso delle scienze: «L’errore può prosperare per un certo tempo, ma alla fine la verità prevarrà. In ultima analisi l’unico effetto dell’errore è quello di far progredire la verità. [...] Gli errori di certe menti nella ricerca scientifica sono più fecondi della verità di altri» (Idea, p. 1145).

Pertanto i cultori della teologia, se intendono aiutare le scienze, devono imparare il loro linguaggio e il loro metodo, instaurando con esse un dialogo critico così come hanno insegnato i Padri e i teologi della scolastica. Anzi, proprio nel periodo della scolastica, considerato “oscuro” dall’illuminismo, la Chiesa ha espresso il massimo della sua “liberalità” nei confronti della ricerca filosofica. Quest’attitudine intellettuale alla ricerca opportunamente utilizzata, d’altra parte, avrebbe impedito tensioni e disagi nelle menti di tanti cattolici di fronte ai casi di Copernico e Galileo, nei confronti dei quali, ricorda Newman, la Chiesa non si è mai pronunciata formalmente pro o contro le loro teorie (cfr. ibidem, pp. 1135-1138).

L’autonomia del pensiero scientifico, riconosciuta nello specifico dei metodi propri delle varie scienze, va perciò salvaguardata: da qui inizia ogni possibile collaborazione e leale dialogo critico. Il teologo, di conseguenza, non può presumere di determinare l’orbita di Giove basandosi sul Pentateuco, né lo scienziato può offrire una riflessione teologica sulle basi delle sue ricerche astronomiche (cfr. ibidem, p. 831). La fede, in sostanza, non può dissertare in materie che non le competono, né è pensabile che un credente apporti conoscenze scientifiche migliori di un miscredente, perciò: «non c’è nessun bisogno impellente di un Euclide o di un Newton cattolico» (ibidem, p. 996).

Se dunque si accetta che ogni scienza ha per oggetto la verità, va da sé che la verità non può contraddire la verità: il presunto antagonismo tra la fede e la scienza viene qui destituito di ogni fondamento. Precisa Newman: se «la teologia è la filosofia del mondo soprannaturale e la scienza la filosofia del mondo naturale, teologia e scienza sia nel concetto che nella realtà dei campi che occupano sono distinte, incapaci di urtarsi; esse al più hanno bisogno di essere collegate, non di essere riconciliate» (ibidem, p. 1106).

  

VI. Fede cristiana e teoria dell’evoluzione

Alcuni anni dopo la pubblicazione di L’idea di una università, viene divulgata la teoria darwiniana dell’evoluzione, esasperata successivamente da scienziati dichiaratamente agnostici — come T.H. Huxley, segretario di Darwin — secondo i quali la “scoperta” di Darwin metteva in discussione e in crisi l’idea di un Creatore. L’uomo, quale risultato del processo evolutivo, non sarebbe distinto dal mondo animale in virtù della dimensione spirituale, ma resterebbe legato ad esso nella linea della continuità biologica. Il racconto della Genesi, poi, sarebbe ridicolo se confrontato con i dati della scienza, e la possibilità di una tensione teleologica all’interno della natura sarebbe soppiantata da processi meccanici casuali, o varianti fortuite, derivanti dalle circostanze e dal tempo. Per Newman, tuttavia, le obiezioni più insidiose hanno rafforzato la riflessione critica della fede. Non c’è motivo di sopravvalutare la portata ateistica della teoria evoluzionista, anzi la sfida portata alla fede dalla nuova ipotesi scientifica dovrebbe indurre la Chiesa a riflettere in modo più appropriato sul contenuto della Rivelazione (> Scienze naturali, utilizzo in teologia), per non confondere il piano salvifico con improbabili indicazioni di carattere scientifico, com’è accaduto nel caso di Galileo, il quale a sua volta si è intromesso nel campo dell’esegesi che non era di sua competenza (cfr. Idea, pp. 936 e 1139).

Dopo la pubblicazione dell’opera di Darwin L’origine delle specie (1859), Newman, in alcune sue corrispondenze, sostiene di non vedervi un’insanabile contraddizione tra la nuova teoria e il racconto della Genesi, a meno che non si intenda la Sacra Scrittura in senso letterale come nel caso dell’orbita solare intorno alla terra. Secondo Newman è possibile ipotizzare un uomo “pre-adamitico” che possieda la facoltà della ragione ma non la coscienza di essere aperto a Dio. L’atto della creazione dell’uomo va colto nel momento in cui Dio si comunica alla sua creatura rendendolo capace di “una naturale conoscenza” della Sua presenza e successivamente di una Sua piena rivelazione. In questo Darwin, sostiene Newman, non sembra opporsi alla religione (cfr. The Letters and Diaries XXV, pp. 74 e 137-138; XXI, pp. 394-396).

Secondo Stanley Jaki, Newman non ha valutato appieno, almeno in un primo momento, la teoria di Darwin, probabilmente perché non conoscendo e non possedendo direttamente il testo lo ha considerato poco attendibile sul piano logico (cfr. Jaki, 1991, p. 24). In realtà, per Newman, la riconciliazione tra le scoperte e le teorie scientifiche con la Scrittura non era un problema insormontabile per la Chiesa: la questione dell’ispirazione della Scrittura non riguarda direttamente le questioni scientifiche: il caso Galileo, ricorda Newman in una corrispondenza, ha reso più prudente la Chiesa nel ritenere che, ad esempio, la Genesi sia una racconto scientifico (cfr. Ker, 1988, p. 735). Anzi, per Newman un conflitto insanabile tra l’autorità religiosa e la scienza, in realtà «non esiste, dato che le scienze laiche, come esistono oggi, sono una novità nel mondo, e non c’è ancora stato tempo per una storia dei rapporti fra la teologia e metodi scientifici; si può dire che la Chiesa vi è rimasta estranea, come prova il sempre citato caso di Galileo» (Apologia, p. 232).

Ora, se esiste generalmente un progresso nel campo della conoscenza umana, questa legge non può essere considerata uniforme per tutte le scienze. Lasciato alla sola ragione l’uomo contemporaneo non avrà né più né meno prove per conoscere il suo destino dopo la morte di un uomo dei primi secoli del cristianesimo. In tal senso «nella teologia non può esistere un progresso analogo a quello che costantemente avviene in farmacia [...], nessuna di queste scoperte ha rilevanza sulla questione se l’uomo sia giustificato per la sola fede» (Idea, p. 1111). Da qui, poiché la proposta credente tocca i temi che riguardano il destino ultimo dell’uomo, la fede non sarà turbata dalle nuove scoperte scientifiche. Per cui, in questa via, sostiene Newman, non necessariamente la teoria dell’evoluzione deve contrastare con la dottrina della creazione (cfr. Ker 1988, p. 624).

In realtà il problema posto dal darwinismo più che sul versante strettamente scientifico, cosa che non interessa direttamente la fede, provoca la riflessione teologica sul versante del pensiero filosofico. In una sua nota del 1861 richiamandosi alla teoria evoluzionista, Newman scrive: «A mio modo di vedere è sorprendente che uomini abili diano per scontato che la nozione delle leggi fisse sia una nuova idea dei tempi moderni che sta rimpiazzando e deve rimpiazzare la vecchia idea di una Provvidenza [...]. È la vecchia idea di Fato o di Destino che troviamo in Omero […]. Tra le filosofie della Provvidenza e del Fato c’è stata però competizione fin dall’inizio. Forse il Fato ha ora argomenti nuovi e migliori, ma la Provvidenza ha saputo controbatterlo per 3000 anni, e non v’è motivo alcuno per non continuare a mantenere le sue posizioni, nonostante la filosofia del Fato potrà continuare ad avere sostenitori» (Ward, 1913, vol. II, pp. 342-343).

Con «fato» qui Newman intende il caso secondo l’interpretazione meccanicistica dell’evoluzione. D’altra parte a Newman non è estraneo il termine «evoluzione»: anche all’interno della Chiesa esiste uno sviluppo dogmatico (cfr.Apologia, pp. 107-109; Lo sviluppo della dottrina cristiana, p. 169). Contro il protestantesimo, che vedeva nella “novità” dei dogmi cattolici la falsificazione della verità evangelica, Newman trova nei dogmi i segnali concreti della vitalità della verità rivelata, consegnata una volta per tutte (depositum fidei) da Cristo alla sua Chiesa. Ma l’idea filosofica di casualità insita nella teoria dell’evoluzione darwiniana è ben altra cosa rispetto alla categoria teologica newmaniana dello sviluppo della dottrina cristiana: qui si confessa nel Verbo Incarnato la verità escatologica dell’uomo già rivelata e apparsa definitamente nella storia. Nel darwinismo la verità, soggetta al caso, si trasforma, nel senso che non si parte da alcunché di certo né si perviene ad una verità indiscussa, per cui la fede cristiana che in Cristo confessa l’Alfa e l’Omega del creato, nello schema evoluzionistico, sarebbe semplicemente un mito. In tal senso il pensiero di Newman è ben distante dal darwinismo; il suo impegno è stato precisamente quello di salvaguardare la scienza dal divorzio kantiano tra ragione e volontà, così come andava esprimendosi nel liberalismo razionalistico, influenzato dalla filosofia di Hume, da lui ostinatamente combattuto per tutta la sua esistenza. In questo clima culturale con molta disinvoltura la scienza fisica veniva utilizzata contro la Scrittura, la cui interpretazione proposta dalla Chiesa era intesa come una sfida a quella scienza positivista che aveva ormai messo tra parentesi la categoria di creazione (cfr. Ker, 1988, p. 669). Questo è uno dei motivi per cui, aveva notato Newman da anglicano, gli scienziati generalmente sono inclini all’incredulità (cfr. Sermoni Universitari, p. 610).

Ora, se l’evoluzione degli organismi è casuale per il darwinismo, ricorda Newman, non lo è certo per Dio (cfr. The Letters and Diaries, XXVI, 77). Come cattolico, d’altra parte, Newman ritiene che la mera probabilità di un fatto scientifico non autorizza ad esprimersi contro un’interpretazione della Scrittura diffusa nella Chiesa. In fondo ciò che è probabile rimane tale finché non è provato il contrario. L’evoluzione della vita vegetale e animale rimaneva perciò, nel contesto della sua epoca, una probabilità che non doveva impensierire la fede (cfr. ibidem, XXX, 69-70).

In realtà il vero nodo è ancora sul versante filosofico: quale dialogo è possibile, scrive Newman qualche anno dopo la pubblicazione del testo darwiniano La discendenza dell’uomo (1871)tra cristiani ed evoluzionisti se questi ultimi deridono i primi sulla possibilità dei miracoli in relazione alla resurrezione di Cristo? (cfr. ibidem, XXX, p. 359; cfr. anche Jaki, 1991, p. 31). Newman, tuttavia, secondo Jaki, non offre a Darwin una chiara risposta critica per una sua mancanza di pensiero metafisico. A noi pare che, se la posizione di Newman nei confronti dell’evoluzionismo è tutto sommato defilata e meno preoccupata di altri intellettuali credenti del suo tempo, questo lo si deve alla sua particolare visione dinamica della realtà che tende inesorabilmente alla verità, la quale prima o poi si imporrà, poiché: «la verità non può mutare» (Grammatica, p. 135).

  

Bibliografia: 

Dell'opera di Newman pubblicata (37 voll.) da vari editori, è reperibile una ristampa anastatica (28 voll.) a cura della casa editrice Christians Classic - Westminster Maryland. Il catalogo bibliografico completo è stato curato da V.F. Blehl, John Henry Newman. A Bibliographical Catalogue of His Writings, Univ. Press of Virginia, Charlottsville 1978. Ulteriori orientamenti bibliografici in C.S. DESSAIN, Newman. Man and Humanist e M.J. SLAVIC, Newman's Philosophy and Theology, in D.J.DE LAURA(a cura di), Victorian Prose. A guide to research, The Modern Language Association of America, New York 1973, pp. 115-165 e 166-184. Per un approccio tematico ragionato: J. RICKABY,Index to the works of John Henry Newman, Longmans, London 1914; J. ARTZ, Newman Lexikon, Matthias-Grunewald Verlag, Mainz 1975.
Edizioni delle opere di Newman citate nel testo: The Via Media of the Anglican Church, Longmans, Green and Co., London 1888; Essay Critical and Historical, Longmans, Green and Co., London 1897; Discussion and Arguments on various subjects, Longmans, Green and Co., London 1911; The Letters and Diaries of J.H. Newman, edited at Birmingham oratory, I-XXII, Nelson, London 1961-1972; XXIII –XXXI, Clarendon Press, Oxford 1973-1977; Lo sviluppo della dottrina cristiana, a cura di A. Prandi, Il Mulino - EDB, Bologna 1967; Apologia pro vita sua, a cura di M. Giudacci e G. Velocci, Vallecchi, Firenze 1970; Grammatica dell’assenso, Jaca Book - Morcelliana, Milano 1980; Sermoni cattolici, Jaca Book - Morcelliana, Milano 1983; Sermoni Universitari e Idea di Università in J.H.NEWMAN, Opere, a cura di A. Bosi, Utet, Torino 1988. Altre opere di Newman in lingua italiana: Gli Ariani del IV secolo, Jaca Book - Morcelliana, Milano 1981; Sermoni Anglicani,Jaca Book - Morcelliana, Milano 1981; Sulla consultazione dei fedeli in materia di dottrina, a cura di P. SPINUCCI, Morcelliana, Brescia 1991; Che cosa ci salva, Corso sulla dottrina della giustificazione, a cura di F. Morrone, Jaca Book, Milano 1994; Lettera al Duca di Norfolk. Coscienza e libertà, a cura di V. Gamba, Paoline, Milano 1999.
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