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La pace nella fede

Nicolò Cusano
Utet, Torino 1971
pp. 956
ISBN:
8802018596

In Opere religiose, a cura di P. Gaia, Utet, Torino, 1971, pp. 617-673

Edizioni recenti in lingua italiana: Cusano e la pace della fede, a cura di Davide Monaco, Città Nuova, Roma 2013; N. Cusano, La pace della fede, tr. it. a cura di M. Arrigoni, Jaca Book, Milano - Lugano 2018. Per l’edizione completa e l’originale latino delle opere di Cusano, la fonte di riferimento, in più volumi, è Nicolai de Cusa Opera omnia, (a cura di Ernst Hoffmann et al.), Felix Meiner, Amburgo 1932-2006.

Il contesto dell’opera: il dialogo interreligioso tra Medioevo e Rinascimento

In un contesto politico certamente conflittuale, che non impediva però significativi confronti anche sul piano culturale, compare in epoca tardomedievale un’estesa letteratura che affronta i rapporti fra cristianesimo, ebraismo e islam, soprattutto finalizzata a sostenere l’impegno missionario, sebbene non si limiti alla preparazione dei predicatori ma confluisca con frequenza nel genere polemico.[1]Raimondo Martí scrive una Explanatio symboli apostolorum (1257) finalizzata a convincere ebrei ed islamici, ma in modo ben più polemico dirige contro i primi la sua opera principale Pugio fidei (1278). Il suo allievo Raimondo Lullo, che svilupperà un pensiero eclettico e a tratti geniale, sarà autore di un gran numero di operette sotto forma di dialoghi fra esponenti di fedi diverse. Per i toni letterari e il quadro conciliante, va ricordato Il libro del gentile e dei tre savi (1273), elegante e arguto apologo che pone a confronto un ateo che cerca sinceramente la verità e i rappresentanti delle tre religioni abramitiche. In epoca tardorinascimentale conoscerà una certa diffusione il De christiana religione (1568) di Marsilio Ficino, scritto nel quale un’iniziale difesa del sensus religiosus come esperienza comune a tutti i popoli, sulla quale edificare un possibile dialogo ecumenico, lascia il passo ad un’insistente polemica antigiudaica e ad una critica dell’islam. All’interno di questo lungo periodo di circa tre secoli, una breve opera redatta agli albori del Rinascimento umanista offre maggiori spunti delle altre, coniugando insieme una seria proposta ecumenica ed una concisa ma profonda esposizione della fede cristiana, le cui pagine intercettano ancora oggi i principali temi dibattuti a partire dalla modernità. Ci riferiamo al De pace fidei (1453) di Nicolò Cusano. Opera dibattuta, spesso interpretata come una presentazione conciliante e concordataria delle religioni e delle fedi del mondo, che condurrebbe ad una concezione annacquata (quando non relativista) del cristianesimo. Preferiamo vedere in essa l’esposizione essenziale di quanto, nel cristianesimo, si aggancia con trasparenza ad una religione di istanza universale, radicata nella stessa natura umana, unita ad una implicita trattazione della credibilità del cristianesimo. Nell’ottica prescelta da Cusano, egli presuppone ragionevolmente che i suoi interlocutori riconoscano l’esistenza di un Dio Creatore e l’esistenza di una virtù di religione, fondata su una legge morale naturale.

L’Autore

Autore che sintetizza in sé la tradizione neoplatonica, l’incipiente spirito scientifico rinascimentale e la mistica tedesca, Nicolò Cusano (1401-1464) è stato a ragione considerato uno dei precursori della nuova visione del mondo e della società che, una volta esauritosi l’impianto medievale, andrà gradualmente imponendosi a partire da Copernico e dalle grandi scoperte geografiche. Nato a Cues, nei pressi di Treviri, studioso di diritto e di teologia a Heidelberg, Padova e Colonia, ben noto anche come filosofo e matematico, Cusano fu creato cardinale nel 1448 da Niccolò V divenendo poi vescovo di Bressanone nel 1450. Le varie componenti della sua formazione, scientifica, filosofica e mistica, si forgiarono soprattutto nel suo soggiorno a Colonia (1425-1432), ove l’impostazione di scuola dovuta ad Alberto Magno, ancora viva, mediava componenti aristoteliche e neoplatoniche, dando spazio all’osservazione scientifica e all’esperienza. Qui Cusano entrò in contatto con le opere di Raimondo Lullo, diffuse ormai fuori della Catalogna, anch’esse interpreti di una ricerca filosofica in dialogo con la matematica e le scienze. Nella medesima temperie culturale si andava affermando la mistica renana e la sensibilità religiosa di Meister Eckhart. La vita intellettuale di Nicolò Cusano si intrecciò ben presto con la sua attività ecclesiale e diplomatica, che lo vide protagonista in un momento delicato per la Chiesa cattolica, segnato dalle tensioni conciliariste, dai tentativi di riunificazione con diverse confessioni scismatiche e dalle pressioni belliche di Turchi e Saraceni sui territori della cristianità. Fu proprio la sanguinosa invasione turca di Costantinopoli del 1453, una città che Cusano conosceva bene essendosi recato lì anni prima per preparare con i Padri orientali il Concilio di Firenze, che lo spinse a riflettere sulla necessità di promuovere la pace fra le diverse fedi religiose, dando origine al breve trattato La pace nella fede. La proposta di dialogo interreligioso che essa contiene – ma anche di implicita giustificazione del cristianesimo di fronte alla ragione naturale e alla religione – fa seguito ad un precedente scritto di finalità ecumeniche, De concordantia catholica (1433), in cui si sosteneva l’armonia delle diverse confessioni cristiane, preparato da Cusano in occasione del Concilio di Basilea. Le idee sviluppate ne La pace della fede riflettono la sensibilità dell’Autore per un argomentare debitore alla logica e alla matematica, ma rivelano anche la sua forte prospettiva cristocentrica ed universalista, da qualcuno definita “cristologia umanistica”, ben presente in opere precedenti, come il De docta ignorantia (1440).

 

Una religione comune che garantisca la pace

Facendo ricorso alla costruzione letteraria di una visione mistica, avente come oggetto una conversazione presso la sede celeste del “Re dell’universo”, che riunisce insieme rappresentanti di filosofie, culture e religioni del mondo, Cusano pone sulla bocca di un Arcangelo orante un’accorata preghiera. L’Arcangelo chiede a Dio di far cessare la contraddittoria lotta fra diverse fedi e credenze – il cui pluralismo sembra però esprimere l’inevitabile diversità culturale dei popoli – e di concedere all’umanità che vi sia una sola religione e un solo culto di latria, come uno solo è Dio. Subito in avvio del problema posto, che si presenta assai delicato perché sembra porre la ricerca della pace come bene sommo, l’Autore introduce, attraverso le parole del Re dell’universo, il ruolo normativo del Verbo di Dio, che viene opportunamente identificato con la Ragione e la Verità che devono accompagnare ogni vera ricerca della sapienza. È il Verbo stesso a dichiarare infelice ed irrazionale il conflitto fra le religioni e ad ottenere dal Padre il dono di muovere i popoli verso l’unità, sotto l’emblematico riferimento alla città di Gerusalemme. La religione esprime ed interpreta il desiderio umano di vita eterna, ma tale desiderio non può che essere desiderio di verità, e questa verità è proprio il Verbo, che Dio ha voluto come Verbo incarnato per garantire all’uomo di poterla conoscere e raggiungere: «questa Verità che pasce l’intelletto non è altro che il Verbo stesso, in cui tutte le cose sono compendiate e dal quale tutte le cose si esplicano».[2]La discussione è così posta sulle sue basi, mediante un intelligente impiego del platonismo, ma anche in piena fedeltà alla Rivelazione. Il Verbo-Sapienza-Verità può essere dunque riconosciuto, senza strappi, da chiunque cerchi sinceramente una risposta ai suoi interrogativi religiosi. Ben diverse, anzi opposte, saranno le basi sulle quali la medesima questione della conflittualità fra le religioni verrà impostata nella prima modernità. Prima con Hobbes e poi con l’agnosticismo colto, la pace può essere assicurata solo sacrificando la dimensione pubblica e universale della verità, demotivando l’impegno a volerla raggiungere; mentre per Cusano – e con lui la migliore tradizione teologica da Giustino fino a Tommaso d’Aquino – ciò che assicura l’unione degli intelletti e dei cuori è la comune e sincera ricerca del vero e del bene.

I messaggeri che intervengono alla corte celeste in rappresentanza delle diverse fedi sono ben più numerosi delle tre religioni abramitiche. Con sorprendente cosmopolitismo, mostrando una sensibilità che anticipa gli sviluppi più recenti del dialogo interreligioso, il filosofo di Cues dà voce anche a correnti filosofiche (Greci, filosofie islamiche dell’Arabia e della Persia, Induisti…), a popoli e culture (Sciti, Germani, Italiani, Tartari, Armeni, Boemi…). Ciascuno di essi esprime perplessità e rivolge obiezioni in merito al fatto che si possa davvero giungere ad una comune religione che adori l’unico e vero Dio, tutti inizialmente «persuasi che ogni singola nazione difficilmente accetterà una fede diversa da quella che finora ha difeso anche col proprio sangue».[3]Eppure, ad ogni passo del dialogo, Cusano introduce con intelligenza e franchezza un nuovo aspetto della fede cristiana, adoperandosi per riunire il comune consenso attorno all’accettazione dei principali insegnamenti dogmatici. Con grande vivezza narrativa le argomentazioni in risposta alle obiezioni sono condotte dalla stessa persona del Verbo, collocato accanto al Padre, dall’apostolo Pietro e infine dall’apostolo Paolo. Il dialogo e le obiezioni coprono un po’ tutti gli aspetti della fede apostolica, spingendosi fino alla difesa dei sacramenti; ma affinché il processo “converga” – ed è questo il punto che richiede una corretta ermeneutica – l’Autore si sforza di ancorare l’essenza della fede creduta dai cristiani a qualche contenuto della religiosità naturale, a verità colte dalla ragione filosofica, ad aspetti di un’antropologia condivisa o condivisibile.

Tale modo di argomentare, con il tacere risvolti della fede e del vissuto cristiano che, nell’ordine della prassi, sono considerati normativi per il credente, può sembrare riduttivo e perfino eterodosso, specie se ci fermiamo su un parallelo, più volte invocato da Cusano, che paragona i diversi riti entro un’unica religione alla varietà delle religioni e di culture osservate nel mondo. In realtà il filosofo di Cues intende mostrare l’idoneità del cristianesimo a poter aggregare le diverse religioni e culture mediante una sorta di “cristocentrismo inclusivista”. Ovvero, il mistero di Cristo, morto e risorto, i suoi insegnamenti e la sua realtà di Verbo Incarnato, Dio che viene incontro all’uomo, viene considerato capace di includere (non rimuovere o negare) le aspirazioni di tutte le religioni della terra. «Non si tratta di cambiar fede – dichiara il Verbo al suo primo interlocutore, esponente della filosofia greca – ma di presupporre in tutte la stessa ed unica religione».[4]L’itinerario, proposto con un linguaggio platonizzante, si muove oltre la strategia dei Padri della Chiesa che segnalavano la presenza dei “semi del Verbo” e privilegia l’impiego dell’analogia e della partecipazione. Cusano anticipa anche la prospettiva contemporanea di una convergenza fra cristologia e antropologia. All’Autore non interessa giustificare, in quest’opera, tutti i singoli aspetti della fede cristiana e cattolica, bensì mostrare che nulla, in questa fede, divide gli uomini: in linea di principio, attorno ad essa è possibile costruire una religione comune, che garantisca la pace, perché essa interpreta le istanze della ragione e della natura umane, lecitamente espresse in una pluralità di culture. La maggior parte delle soluzioni che emergono dal dialogo, è vero, hanno un valore ideale e vengono accettate con una condiscendenza retorica. Ci si muove in fondo entro un “sistema di principi” che potrebbe aver poco a che fare con la vita reale. La “questione di principio” che sta a cuore all’Autore è che una reciproca comprensione ed una convergenza devono essere possibili, perché unico è il Creatore, una sola la sapienza e la verità cercata, unica la natura umana. A questo fondamento, stabilito su basi intellettuali piuttosto che pragmatiche, potranno poi allegarsi i successivi chiarimenti e le necessarie mediazioni. Riprendiamo qui alcuni degli argomenti trattati nel dialogo.

 

Chiarimenti sulla fede trinitaria

Muovendosi lungo una prospettiva cristocentrica, favorita dalla decisione di Cusano di scegliere come portavoce divino il Verbo stesso sullo sfondo del Logos platonico, i primi interlocutori vengono invitati a convergere con successo verso l’identificazione fra Parola del Creatore e sapienza, fra ricerca della sapienza e ricerca di Dio, fondando la necessità che tale ricerca sia in accordo, essendo la sapienza una sola, con una fede monoteista. Quest’ultima viene giustificata dapprima su basi filosofiche, in dialogo con rappresentati della filosofia greca, italiana e araba, e poi argomentando con il rappresentante della filosofia indiana, al quale si risponde che anche coloro che adorano idoli e simulacri, in realtà, cercano in essi la divinità, di cui quegli idoli sono in fondo un debole simbolo, come la vita stessa e l’esperienza si incaricheranno presto o tardi di mostrare. In questo contesto si sceglie di innestare il necessario chiarimento sulla fede trinitaria. In dialogo con i Caldei e i Giudei, il Verbo divino fa osservare che la molteplicità numerica delle creature rimanda ad una unità eterna da cui esse discendono, così come la loro disuguaglianza qualitativa rimanda ad un principio di uguaglianza eterna da cui derivano le differenze; l’una e l’altra, unità ed uguaglianza, hanno poi al loro interno la logica di una relazione fra le parti che uniscono e si assomigliano, e dunque un nesso altrettanto eterno. Proposta in questi termini, la fede nella Trinità non è assimilabile ad alcun politeismo mascherato: negarla, sarebbe negare la fecondità della virtù creatrice divina, l’esemplarità delle cose con il loro Creatore, la loro riconducibilità all’Uno. «Nel senso quindi in cui gli Arabi e i Giudei negano la Trinità, essa dev’essere certamente negata da tutti; ma nel senso in cui la verità della Trinità è stata sopra spiegata da noi, essa deve essere necessariamente ammessa da tutti».[5]Come già l’analogia psicologica di Agostino e gli altri argomenti sviluppati dalla tradizione teologica, anche quelli addotti da Cusano non hanno come fine generare una fede trinitaria, ma rendere più intelligibile, a chi già possiede questa fede, la comprensione delle cose credute, specie in merito al primato dell’unicità di Dio; mentre nei confronti di chi non crede possono servire per difendere la fede dalle accuse di irrazionalità e di contraddizione.

 

La questione dell’Incarnazione

Un secondo gruppo di obiezioni vengono introdotte dalla constatazione che «nel mondo esiste ancora il più grande contrasto, in quanto alcuni affermano che il Verbo si è fatto carne per la redenzione di tutti, mentre altri la pensano diversamente»,[6]una questione qualificata “di difficile soluzione” per rispondere alla quale il Verbo cederà la parola all’apostolo Pietro. Analogamente al precedente intento di creare consensi attorno al dogma trinitario, anche in campo cristologico si procede dapprima sgombrando il campo dagli errori e dai fraintendimenti. Si nega l’identità contraddittoria fra eterno e temporale, fra infinito e finito, fra Dio e l’uomo: quanto si predica dell’umanità non si confonde con quanto si predica della divinità. Cusano si sforza di cercare analogie e immagini che facciano comprendere in cosa consista una “assunzione” della natura umana da parte del Verbo-Sapienza, e di come ciò non contraddica quanto prima stabilito sull’unità e trascendenza di Dio. In dialogo con un Persiano, si parte dall’ammissione, condivisibile anche dagli altri interlocutori, che il Cristo Messia sia un vero uomo elevato ad un massimo grado di unione con Dio. Tale unione, argomenta Pietro additando la vita terrena di Gesù, non è suscettibile di ulteriore crescita, ma raggiunge in lui un grado non incrementabile, una sorta di “infinito attuale” si direbbe oggi in matematica. All’obiezione che una simile assunzione continuerebbe a muoversi nell’ordine di un’unione di grazia, e non di una unione personale nell’Ipostasi del Verbo, si risponde che tale massimo grado identifica gli stessi attributi della divinità, e che dunque l’unico soggetto in grado di sostenerli è Dio stesso. Come il ferro è attirato in alto dalla calamita e, una volta unito ad essa, senza perdere la sua natura diviene esso stesso calamita, così la natura umana assunta verso l’alto dal Verbo ascende al massimo grado, non perde la sua identità ma viene sostenuta in tutto dal Verbo. Nei confronti degli Ebrei, invece, non vengono allegati argomenti, ma rinnovato in modo non conflittuale l’invito, in linea con la tradizione patristica, ad aprirsi al messaggio delle comuni Scritture sulla figliolanza divina del Messia promesso.

 

Il desiderio della felicità eterna e la testimonianza di Cristo

L’apertura delle diverse religioni e culture al riconoscimento dell’Incarnazione del Verbo, viene sostenuta anche su basi antropologiche ed esistenziali. La fede comune nella vita eterna implica la capacità dell’uomo di prendere parte alla vita di Dio; ma questa fede include anche il desiderio di una vita umana, una vita futura nella quale ciascuno continui ad essere ciò che è, non un angelo o un altro vivente. Tale fede e tale desiderio trovano entrambi la loro garanzia e il loro fondamento nel Verbo incarnato e nella sua risurrezione dai morti. «Se comprendo bene – riconosce l’interlocutore Siro rivolgendosi a Pietro – la fede nella risurrezione dei morti presuppone l’unione della natura umana con quella divina, senza la quale quella fede sarebbe impossibile; poi asserisci che tale unione avviene in Cristo; e quindi concludi che quella fede presuppone Cristo». E Pietro, riferendosi a Gesù Cristo: «quest’uomo è la via attraverso la quale tutti gli uomini hanno accesso a Dio come al supremo dei loro desideri. È Cristo quindi che viene presupposto da tutti coloro che sperano di conseguire la felicità eterna».[7]Pietro dichiara che la credibilità della missione divina di Gesù è basata sulle profezie e sui miracoli: «È sufficiente che sia gli Arabi che i cristiani e quanti resero testimonianza con il loro sangue attestino – in base alle parole che i profeti dissero di Lui ed alle opere, superiori alle forze umane, che Lui stesso ha operato mentre era nel mondo – che Egli è venuto».[8]Nei confronti degli Ebrei si accetta con rispetto che una convergenza sarà sempre possibile purché essi continuino ad attenderlo con sincerità, professando che, se non è ancora nato, un giorno finalmente nascerà. Riguardo ancora alla vita terrena di Gesù, a coloro che negano il suo concepimento verginale Cusano risponde che un simile concepimento è esigito dal quel massimo grado di attribuzione divina al quale la sua natura umana è unita, in quanto, essendo Cristo l’uomo più perfetto, egli non potrebbe avere come padre se non Colui dal quale ogni paternità deriva. A coloro che, come i maomettani, negano la morte reale di Gesù sulla croce, egli oppone la storicità delle narrazioni degli apostoli, suffragata dalla testimonianza del loro martirio, ma ancor più il valore testimoniale della croce in sé, come luogo supremo sul quale lo stesso Gesù dimostra al mondo la sincerità e la verità dei suoi insegnamenti, una verità di cui la sua risurrezione dai morti rappresenta «la prova definitivamente certa».

Le numerose narrazioni storiche e la predicazione degli apostoli, che sono morti per la verità, portano necessariamente a credere che Cristo è morto crocefisso. Infatti i profeti predissero che Cristo doveva essere condannato ad una morte obbrobriosa, cioè alla morte in croce. E la ragione è questa: Cristo, inviato da Dio Padre, è venuto per annunciare il regno dei cieli, e su di esso ha detto delle verità che non poteva dimostrare in modo migliore che con la testimonianza del suo sangue. Perciò, per essere obbedientissimo a Dio Padre e per fornire la prova più certa delle verità che annunciava, è morto di morte obbrobriosa, affinché ogni uomo, conoscendo che Cristo ha subito volontariamente la morte per testimoniare la verità, non rifiutasse di accoglierle. […] Il mondo ebbe la prova definitivamente certa di quella verità quando seppe che l’uomo Cristo, morto in croce dinanzi agli occhi di tutti, era risorto dai morti e viveva, come testimoniarono molti che lo videro vivo e subirono la morte appunto per essere fedeli testimoni della sua risurrezione.[9]

 

Varietà dei riti, unità della fede in Dio e legge dell’amore

Ad ostacolare la formazione di un’unica religione capace di accomunare tutti gli uomini restano infine le diversità di riti e di consuetudini, specie quelli considerati necessari alla salvezza eterna, fra i quali spiccano la circoncisione per gli ebrei e il battesimo per i cristiani. A fornire una risposta su come affrontare questa diversità, in vista di provvedere ad un’unificazione del culto di latria, è chiamato in causa l’apostolo Paolo. Ricordando a tutti la priorità della fede sulle opere, Paolo afferma che la varietà dei riti non deve sconcertare, essendo stati istituiti ed accolti come segni sensibili delle verità di fede, sebbene, egli precisa, i segni possono subire cambiamenti ma non la verità da essi significata. La salvezza, sulla quale i dialoganti hanno prima a lungo discusso, è dunque subito ancorata alla fede, qui introdotta come una “risposta alle promesse di Dio”, risposta sulla cui convenienza tutti assentono. Le argomentazioni che Cusano affida a Paolo toccano qui un delicato equilibrio. Se da un lato la priorità della fede è facilmente condivisa da chi ha ormai abbracciato una religione monoteista aperta alla rivelazione del Verbo di Dio e alla sua missione nel mondo, dall’altro potrebbe essere considerata insufficiente da chi pratica una religione specifica, retta da sacramenti, riti e liturgie. Ancora una volta, Cusano pone una questione “di principio”: è dalla fede che vanno conosciute e comprese le opere e non viceversa. Tuttavia, per conferire una sufficiente universalità alla prassi, egli opera un aggancio alla legge morale naturale, nella quale include la legge della carità; a quest’ultima spetta di “informare” anche la fede, ricostruendo così quella necessaria circolarità fra fede e opere su cui il credo cristiano è esplicito e di cui, fino alla crisi protestante, si possiederà una comune ermeneutica. «I comandamenti di Dio – fa dichiarare l’Autore all’apostolo Paolo – sono pochissimi, notissimi a tutti e comuni a tutti i popoli. Anzi, la luce che ce li manifesta è innata nell’anima razionale. Difatti in noi parla Dio ordinandoci di amare Lui, dal quale riceviamo la vita, e di non fare agli altri se non ciò che vorremmo fosse fatto a noi. L’amore pertanto è la pienezza della legge di Dio, e tutte le leggi si riducono a quella».[10]Sintesi morale essenziale di Antico e Nuovo Testamento, la strada della fede e della carità è l’unica capace di condurre alla pace: la prima perché in grado di esprimere la comune risposta all’unico Dio il cui Verbo è verità e sapienza, la seconda perché unisce gli uomini sul piano della coscienza e della prassi. «Accontentiamoci pertanto, conclude Paolo, di fondare saldamente la pace sulla fede e sulla legge dell’amore, tollerando vicendevolmente i rispettivi riti». In questa prospettiva viene anche presentata la necessità relativa e non assoluta della circoncisione e del battesimo, esposta, nel caso del battesimo, in modo rispettoso della tradizione cristiana. Il segno trae significato e forza vincolante dal suo esprimere l’adesione nella fede, secondo una modalità e un linguaggio che la natura umana riconosce ad essa confacente.

 

L’Eucaristia

Un ultimo riferimento è dedicato ai sacramenti cristiani in genere, cominciando da quello dell’Eucaristia, la cui non contraddittorietà Paolo si impegna a mostrare ad un interlocutore Boemo. Anche in questo caso, l’immediatezza del segno – un nutrimento corporale figura di un nutrimento spirituale – ne rende comprensibile l’universalità per chi ha fede in Dio e nel Suo Verbo, facendo «sperare che tutti gli uomini credenti vogliano pregustare in questo mondo, nella fede, quel cibo che nell’altro mondo sarà, nella realtà, il nutrimento della nostra vita».[11]L’obiezione, tuttavia, resta esplicita: come potranno tutti i popoli accettare che la sostanza del pane è in questo sacramento convertita nel corpo di Cristo? L’apostolo Paolo propone dapprima l’analogia fra la dinamica soprannaturale di questo sacramento e la dinamica della nostra unione presente e futura con Dio, in Gesù Cristo vero Dio e vero uomo, già oggetto di una fede condivisa; poi egli dichiara l’orizzonte assolutamente spirituale in cui tale trasformazione deve essere compresa, di fatto estranea ad una conoscenza puramente sensibile, evitando così interpretazioni discordi di ciò che apparterrebbe ai sensi. Un’ulteriore analogia è mostrare che la natura già realizza, in ogni credente, la trasformazione metabolica del pane nel corpo di chi lo riceve; questo sacramento riproporrebbe nel mistero un’analoga trasformazione, di cui Dio, creatore della natura, sarebbe autore immediato, ovvero trasformare il pane nel corpo umano del suo Figlio. Stabilita la sua convenienza e la sua non contraddittorietà, la ricezione di questo sacramento non può divenire fonte di disunione e di discordia fra i popoli, sia perché esso non è un sacramento necessario alla salvezza, sia perché liberamente lo riceveranno solo coloro che condividono la fede esplicita nella presenza reale di Gesù Cristo. Nuove argomentazioni vengono brevemente allegate ai sacramenti dell’ordine e del matrimonio, le cui finalità sono presenti in tutte le religioni, ma a giudizio di molti, osserva Cusano, hanno conservato solo nel cristianesimo la purezza più lodevole.

 

Osservazioni conclusive

È in questo modo, termina l’Autore, che «si concluse, nel cielo, la discussione fatta su basi razionali, circa la concordia delle religioni».[12]La risoluzione verso cui il lettore viene indirizzato è riassunta dalle parole fatte proprie da san Paolo: «se non si può raggiungere la conformità nel modo di praticare tali atti religiosi, si permettano ai popoli le loro proprie devozioni e cerimonie, purché sia salva la fede e la pace», convenendo tutti i rappresentanti in dialogo «che tutte le divergenze riguardano piuttosto i riti che il culto dell’unico Dio».[13] Nonostante la sua impostazione platonica ed astratta – che al costituirne la forza ne rappresenta anche il limite –, una volta contestualizzati gli espedienti retorici e le ingenuità, il De pace fidei di Cusano può forse ancora insegnarci qualcosa. In primo luogo l’importanza di non archiviare l’idea che la ricerca della verità e della sapienza sia ancora in grado di accomunare gli uomini, riflesso di quella necessaria convergenza fra religione e filosofia che aveva caratterizzato buona parte del pensiero patristico e medievale entrando a pieno titolo anche nell’umanesimo cristiano. L’itinerario lungo il quale esplorare tale convergenza, ci ricorda ancora Cusano, non è solo filosofico, ma cristologico. Qui la teologia esplicita la capacità e la portata “inclusivista” del cristianesimo, proposto come vero umanesimo, che il cristianesimo rivela e sostiene. L’Autore ci invita dunque a riportare l’attenzione sulle verità essenziali, condivisibili, come via propedeutica al dialogo interreligioso o anche a quello fra credenti e non credenti.

 

Bibliografia

G. CHRISTIANSON, T. IZBICKI (edd.), Nicholas of Cusa. In search of God and wisdom, Brill, Leiden 1991.

K.-H. VOLKMANN-SCHLUCK, Nicolò Cusano. La filosofia nel trapasso dal Medioevo all’età moderna, Morcelliana, Brescia 1993.

G. SANTINELLO, Introduzione a Niccolò Cusano, Laterza, Roma - Bari 2008. 

K. FLASCH, Niccolò Cusano. Lezioni introduttive a un’analisi generica del suo pensiero, Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento, Torino 2010.

 M. WATANABE, G. CHRISTIANSON, T. IZBICKI (edd.), Nicholas of Cusa. A Companion to his Life and his Times, Ashgate, Farnham - Burlington 2011.

G. Gusmini, L'uomo nel mistero di Cristo. L'antropologia teologica nelle opere di Niccolò Cusano, Glossa, Milano 2012.


[1] Lo studio ripropone, con lievi adattamenti, quanto esposto dall’autore di questa presentazione in G. Tanzella-Nitti, Teologia della credibilità, Città nuova, Roma 2015, vol. 1, pp. 373-384.

[2] Citiamo sempre dalla tr. it. La pace nella fede, in Opere religiose, a cura di P. Gaia, Utet, Torino, 1971, 617-673. Qui, p. 624.

[3] Ibidem, p. 626.

[4] Ibidem.

[5] Ibidem, p. 640.

[6] Ibidem, pp. 642-643. Per la sezione cristologica del dialogo, cf. pp. 643-659.

[7] Ibidem, pp. 654-655.

[8] Ibidem, p. 655.

[9] Ibidem, pp. 656-657 e 658.

[10] Ibidem, p.666. 

[11] Ibidem,p. 669.

[12] Ibidem, p.673; il corsivo è nostro.

[13] Ibidem, pp. 672 e 673.

 

Ordinario di Teologia Fondamentale, Pontificia Università della Santa Croce
2020