M. Heidegger, Sein und Zeit, «Jahrbuch fur Philosophie und phänomenologische Forschung», VIII, pp.1-438, Niemeyer Verlag, Halle, 1927.
trad. It. Pietro Chiodi, Essere e tempo, a cura di F. Volpi, Longanesi, Milano 2005.
La produzione filosofica di Martin Heidegger (1889-1976) prende avvio con la pubblicazione della dissertazione di laurea su La teoria del giudizio nello psicologismo (1913) e la tesi di libera docenza su La dottrina delle categorie e del significato in Duns Scoto (1916). Formatosi sotto la guida del filosofo neo-kantiano Heinrich Rickert a Friburgo, Heidegger diviene assistente di Edmund Husserl, padre della fenomenologia, al quale dedica «con venerazione e amicizia» il suo capolavoro Essere e tempo (1927), prima parte di un più ampio progetto che resterà incompiuto. La dedica viene omessa dalla quinta edizione (1941), a dimostrazione di un progressivo allentamento dei rapporti fra i due. In questo allontanamento non può non aver pesato il mutamento di clima politico, con l’adesione di Heidegger al partito nazionalsocialista e la sua nomina a rettore dell’Università di Friburgo (1933).
Struttura e temi dell’opera
Dopo l’Introduzione dedicata alla “Esposizione del problema del senso dell’essere”, la prima (e unica) parte del lavoro si suddivide in due sezioni, “L’analisi fondamentale dell’esserci nel suo momento preparatorio” ed “Esserci e temporalità”[1], ognuna delle quali articolata in sei capitoli. A partire dall’Introduzione, in cui si afferma la «necessità di una ripetizione esplicita del problema dell’essere» (Heidegger 1927, §1), l’interrogazione ontologica si specifica, ponendo al centro della riflessione l’ente stesso che pone la domanda: «Questo ente, che noi stessi sempre siamo e che fra l’altro ha quella possibilità d’essere che consiste nel porre il problema, lo designiamo col termine Esserci [Dasein]» (ivi, §2, trad. it. p. 19). La comprensione dell’essere da parte dell’Esserci ha come proprio orizzonte la dimensione della temporalità, poiché «l’ente è concepito nel suo essere come ‘presenzialità’, cioè viene compreso in riferimento a un determinato modo del tempo, il presente» (ivi, §6, p. 39). Il senso della riflessione heideggeriana sta pertanto nel superamento della concezione dell’essere come semplice presenza e ha come obiettivo la «distruzione della tradizione ontologica» (ivi, §6, p. 41) tramite l’attuazione di un metodo fenomenologico, che vada per così dire «alle cose stesse» (ivi, §7, p. 42).
La ricerca inizia dunque con la descrizione e l’interpretazione delle strutture fondamentali dell’Esserci (analitica dell’Esserci), prima fra tutte l’essere-nel-mondo (In-der-Welt-sein; ivi, sez. I, cap. II), determinazione originaria in cui sono riconoscibili diversi momenti: mondità del mondo, cap. III; con-essere ed esser-se-stesso, cap. IV; in-essere, cap. V; Cura (Sorge) come senso esistenziale dell’Esserci, cap. VI. L’Esserci è l’ente la cui modalità di essere è l’esistenza (ex-sistere, stare fuori), vale a dire un poter essere che richiede progetto e decisione. Rispetto ad esso, il mondo non si presenta come qualcosa di estraneo e ‘oggettivo’: la nozione di essere-nel-mondo indica la coappartenenza originaria e costitutiva di quelli che la tradizione metafisica occidentale ha pensato come soggetto e oggetto[2]. In questo senso l’Esserci è aperto alla realtà di ciò che è, non deve entrare in relazione con l’essere ma è già da sempre coinvolto in esso per via, in primo luogo, della sua situazione emotiva (Befindlichkeit). Nella trattazione heideggeriana delle tonalità emotive si può apprezzare una rivalutazione di quell’ambito dell’esperienza sensibile che la tradizione filosofica (e in particolare aristotelica) aveva indicato con il termine πάθη, passioni: «Il carattere della presente ricerca non permette l’interpretazione delle diverse modalità della situazione emotiva e della connessione dei loro fondamenti. Questi fenomeni sono noti onticamente da lungo tempo e furono studiati dalla filosofia sotto il nome di emozioni e sentimenti» (ivi, §29, p. 172). L’esser sempre situato in una tonalità emotiva (Stimmung) costituisce una delle tre determinazioni esistenziali dell’Esserci insieme alla comprensione (Verstehen) e al discorso (Rede). Se per ‘comprensione’ bisogna intendere una determinazione pratica (e dunque non teoretica), attiva e progettuale della vita umana («Nella comprensione è insito, esistenzialmente, il modo di essere dell’Esserci in quanto poter-essere», ivi, §31, p. 177), con il termine ‘discorso’ si intende il «fondamento ontologico-esistenziale del linguaggio» (ivi, §34, p. 197), inteso nella sua complessiva capacità significativa.
L’Esserci di cui Heidegger delinea le strutture essenziali non è omogeneo rispetto agli oggetti di scienze come l’antropologia, la psicologia e la biologia, né coincide con il soggetto trascendentale della tradizione kantiana. In riferimento a una considerazione immediata e non filosofica (come, appunto, quella delle scienze) si può parlare di dimensione ontica, da intendersi in contrapposizione a una dimensione ontologica, portata alla luce dalla riflessione sulla specifica modalità d’essere dell’ente; riguardo poi al concreto modo di essere dell’Esserci, un’analoga distinzione si pone tra dimensione esistentiva ed esistenziale. Ciò che preme all’autore è di presentare l’Esserci nel suo esser-gettato (Geworfenheit), ovvero nella sua effettività di ente finito e posto nel mondo, muovendo da una considerazione del suo essere inautentico per giungere alla dimensione dell’autenticità (Eigentlichkeit). La dialettica tra autentico e inautentico non deve essere considerata in senso morale ma come duplice possibilità di essere secondo possibilità proprie (che scaturiscono dalla stessa costituzione dell’Esserci) o improprie (mutuate dall’ambiente sociale, che si cristallizza nella formula impersonale del ‘si’, Man, come per es. nelle espressioni ‘si dice’, ‘si fa’ ecc.). In questo contesto trovano spazio le acute descrizioni di fenomeni come la chiacchiera (§35), la curiosità (§36), l’equivoco (§37) e della situazione emotiva fondamentale, l’angoscia (§40).
Considerata da Heidegger come situazione emotiva fondamentale, l’angoscia si distingue dalla paura a causa dell’indeterminatezza del suo oggetto: se infatti «il davanti-a-che della paura è sempre un ente intramondano» (si ha sempre paura di qualcosa di definito), «il davanti-a-che dell’angoscia è l’essere-nel-mondo come tale» (ivi, §40, p. 227). Ciò che procura angoscia, in altre parole, non è nessuna minaccia specifica, ciò che ci opprime non è nulla di determinato; si può dire anzi che il mondo nella sua totalità sprofondi in uno stato di «insignificatività». Perdendo di vista il carattere determinato e utilizzabile degli enti che costituiscono il mondo, l’Esserci viene spinto dall’angoscia di fronte al suo proprio «esser-possibile» (ivi, p. 229), viene posto cioè davanti alla sua stessa libertà. Nella spaesatezza, nel «non-sentirsi-casa-propria» (ivi, p. 230) che costituisce il nucleo dell’angoscia, si apre per l’Esserci la possibilità di un’autenticità sottratta al discorso pubblico, medio, articolato dal Man (il ‘si’ impersonale): «l’angoscia racchiude la possibilità di un’apertura privilegiata per il fatto che isola» (ivi, p. 233).
Al termine della prima sezione, preparatoria, Heidegger riconosce che «l’analisi esistenziale dell’Esserci finora condotta non può avanzare la pretesa della originarietà» (ivi, §45) o, in altre parole, che tale analisi ha il carattere dell’inautenticità e della non totalità. Per fornire una descrizione completa ed esauriente del modo d’essere proprio dell’Esserci, a partire dalla sua temporalità, nella seconda sezione vengono dunque affrontati l’essere-per-la-morte (Sein zum Tode; cap. I), la questione della decisione (cap. II), il poter-essere-un-tutto autentico da parte dell’Esserci e la temporalità come senso ontologico della Cura (cap. III), il rapporto tra temporalità e quotidianità (cap. IV), tra temporalità e storicità (cap. V), temporalità e intratemporalità come origine del concetto ordinario del tempo (cap. VI).
Definito l’Esserci in termini di possibilità, la morte risulta essere «la possibilità della pura e semplice impossibilità dell’Esserci» (ivi, §50, p. 301). In questo modo la morte risulta la possibilità più propria dell’Esserci, il cui essere si rivela come un essere-per-la-morte, illuminato dall’orizzonte ultimo cui non può sfuggire ma che può assumere su di sé tramite l’anticipazione. Tale assunzione richiede una decisione, cui l’Esserci è chiamato dalla voce (Stimme) della coscienza. «La chiamata non afferma nulla, non dà alcuna informazione su eventi mondani, non ha nulla da dire» (ivi, §56, p. 327), perché intima all’Esserci di prendere in carico la modalità d’essere che gli è propria, e lo fa nella tonalità emotiva dell’angoscia (Angst), con un’evidente ripresa di tematiche kierkegaardiane. Solo scegliendo se stesso l’Esserci diviene libero: «con la decisione è stata ormai raggiunta la verità dell’Esserci più originaria, perché autentica» (ivi, §60, p. 354). L’anticipazione della possibilità della morte nella decisione, insieme all’essere-stato connesso alla colpevolezza dell’Esserci (da intendersi non in senso morale ma ontologico, come esser-gettato) e al presentificare in cui si profila il rapporto con gli enti intramondani, costituiscono tre aspetti del fenomeno della temporalità, in sé unitario e individuato come «senso della Cura» (ivi, §65, p. 387) in cui l’Esserci si mostra come esistente, nel senso di ‘proteso fuori di sé’. Per questo motivo Heidegger può parlare della temporalità come «unità delle estasi» (ivi, §65, p. 390). Nei paragrafi successivi l’autore ritorna sulle determinazioni della comprensione, dell’essere-situato e del discorso indagandone le specifiche modalità temporali (rispettivamente: anticipazione, essere-stato, presentificazione), distinguendo le forme autentiche e inautentiche dei fenomeni a esse connesse nella quotidianità dell’Esserci. I capitoli finali si concentrano sul rapporto tra temporalità e storicità, in un confronto con l’ermeneutica di Dilthey e le riflessioni di Yorck, e sulla differenza tra la temporalità dell’Esserci e il concetto ordinario di tempo, con un esame delle posizioni di Aristotele e Hegel.
Heidegger, Carnap, Wittgenstein
A distanza di due anni dall’uscita di Essere e tempo, Heidegger pubblica la prolusione Che cos’è metafisica? che pone con radicalità la questione dell’essere nella forma dell’interrogativo di derivazione leibniziana «perché è in generale l’ente e non piuttosto il Niente?» (Heidegger 1929b, trad. it. p. 67). In questo breve scritto si può apprezzare la rielaborazione di temi già presenti nella sua opera principale, primo fra tutti la riflessione sull’angoscia come situazione emotiva fondamentale, capace di rivelare il Niente come negazione dell’ente nella sua totalità.
Le reazioni alla filosofia di Heidegger si concentrano su questo testo, preso dal neo-positivismo logico e dalla filosofia analitica come esempio di uso scorretto del linguaggio. Tra gli altri, Rudolf Carnap riconosce in frasi come «il Niente nientifica» (una delle formulazioni che compaiono in Che cos’è metafisica?) uno dei vizi più caratteristici della metafisica, vale a dire l’uso di parole prive di riferimento e di proposizioni non verificabili empiricamente (Carnap 1931).
Diversa invece la reazione di Ludwig Wittgenstein, autore del Tractatus logico-philosophicus (1922), tra i testi ispiratori del neo-positivismo logico. In una conversazione tenutasi il 30 dicembre del 1930 a Vienna, in casa di Moritz Schlick, e pubblicata in appendice alla Conferenza sull’etica (1965), Wittgenstein afferma: «Posso bene immaginare che cosa intenda Heidegger per essere e angoscia» (Wittgenstein 1967, pp. 68-69). L’affinità tra il pensiero di Heidegger e la riflessione di Wittgenstein si può trovare nel comune tentativo di porre la questione ‘perché l’essere piuttosto che il nulla?’, collegata nella Conferenza sull’etica al sentimento di meraviglia per l’esistenza del mondo.
La ‘svolta’
A circa un ventennio di distanza dalla pubblicazione di Essere e tempo, nella Lettera sull’‘umanismo’, Heidegger spiega retrospettivamente l’incompiutezza della sua opera, segnata da un rifiuto del soggetto della tradizione metafisica come attore principale del pensiero:
Esperire in modo sufficiente e partecipe a questo pensiero diverso, che abbandona la soggettività, è reso peraltro più difficile dal fatto che con la pubblicazione di Sein und Zeit la terza sezione della prima parte, Zeit und Sein, non fu pubblicata […]. Qui tutto si capovolge. La sezione in questione non fu pubblicata perché il pensiero non riusciva a dire in modo adeguato questa svolta (Kehre) e non ne veniva a capo con l’aiuto del linguaggio della metafisica (Heidegger 1946, trad. it. p. 52).
La ‘svolta’ cui fa riferimento Heidegger non riguarda tanto il suo itinerario filosofico quanto l’essere stesso (Ferraris 1990, p. 38) e la storia della filosofia, che non può sottrarsi al suo destino. Nella svolta – da intendersi più come un tornante che come una frattura – il pensiero di Heidegger raggiunge nuove profondità e si sofferma su questioni come la differenza ontologica tra essere ed ente, il rapporto dell’uomo con il linguaggio, la tecnica come esito e destino della metafisica occidentale, l’opera d’arte come accadere della verità dell’ente.
In questo percorso un elemento di continuità può essere rintracciato nella trattazione di tematiche religiose. Nella fase precedente alla stesura di Essere e tempo, Heidegger dedica alcuni seminari e corsi alla mistica medievale, alla fenomenologia della religione e al pensiero di Agostino di Ippona. La pubblicazione di Essere e tempo dà poi nuova linfa alla riflessione ermeneutica, che in Schleiermacher e Dilthey trova i suoi precursori, ed eleva l’interpretazione da modalità di accesso al testo (in particolare al testo sacro) a struttura generale della vita umana. Contestualmente Heidegger rivolge un’aspra critica alla tradizione ontoteologica occidentale, colpevole di aver inteso l’essere nei termini della semplice presenza. Dopo la svolta, la riflessione torna talvolta su tematiche mistiche, di ispirazione eckhartiana e silesiana (Heidegger 1957; Id. 1959; Gianfelici 2006), pur tenendo ferma l’inassimilabilità del pensiero dell’essere a qualunque forma di adesione a una religione positiva. In un’intervista del 1966 Heidegger conclude idealmente la propria parabola, intrecciando la riflessione sul futuro dell’umanità con quella sul destino della metafisica occidentale come dominio della tecnica:
La filosofia non potrà realizzare direttamente nessun cambiamento nell’attuale situazione del mondo. Questo non vale solo per la filosofia ma principalmente per tutta l’attività del pensiero umano. Solamente un dio ci può salvare. Per noi resta l’unica possibilità nel campo del pensiero e della poesia la quale significa preparare una disposizione per l’apparizione di Dio o per la sua assenza in un tempo di tramonto; dato che noi, di fronte a un Dio assente andiamo a sparire (Heidegger 1966, trad. it. p. 136).
Bibliografia
Carnap, R. (1931) Überwindung der Metaphysik durch logische Analyse der Sprache, «Erkenntnis», 2, pp. 219-241.
Fabris, A. (2000) Essere e tempo di Heidegger. Introduzione alla lettura, Carocci, Roma.
Ferraris, M. (1990) Cronistoria di una svolta, in M. Heidegger, La svolta, il melangolo, Genova 1990, pp. 37-106.
Gianfelici, L. (2006) Filosofia e mistica in Martin Heidegger, Edizioni scientifiche italiane, Napoli.
Heidegger, M. (1927) Sein und Zeit, «Jahrbuch für Philosophie und phänomenologische Forschung», VIII, pp.1-438, Halle (trad. It. Essere e tempo, a cura di F. Volpi sulla versione di P. Chiodi, Longanese, Milano 2005).
Id. (1929a) Kant und das Problem der Metaphysik, Friedrich Cohen, Bonn (trad. It. Kant e il problema della metafisica, a cura di M.E. Reina, Laterza, Roma-Bari 2006).
Id. (1929b) Was ist Metaphysik?, Friedrich Cohen, Bonn (trad. It. Che cos’è metafisica?, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 2005).
Id. (1946) Brief über den ‘Humanismus’, in Id., Platons Lehre von der Wahrheit. Mit einem Brief über den ‘Humanismus’, Francke, Bern 1947 (trad. It. Lettera sull’‘umanismo’, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 2006).
Id. (1949) Die Kehre, in Id., Die Technik und die Kehre, Neske, Pfullingen 1962, pp. 37-47 (trad. It. La svolta, a cura di M. Ferraris, il melangolo, Genova 1990).
Id. (1957) Der Satz vom Grund, Neske, Pfullingen (trad. It. Il principio di ragione, a cura di F. Volpi e G. Gurisatti, Adelphi, Milano 1991).
Id. (1959) Gelassenheit, Neske, Pfullingen (trad. it. L’abbandono, a cura di A. Fabris, il melangolo, Genova 2004).
Id. (1962) Zeit und Sein, in Id., Zur Sache des Denkens, Niemeyer, Tübingen 1969, pp. 1-25 (trad. it. Tempo e essere, a cura di C. Badocco, Longanesi, Milano 2007).
Id. (1966) Nur noch ein Gott kann uns retten, «Der Spiegel», 31.V.1976, pp. 193-219 (trad. it Ormai solo un Dio ci può salvare, Guanda, Parma 1987).
Vattimo, G. (1997) Introduzione a Heidegger, Laterza, Roma-Bari.
Volpi, F. (1984) Heidegger e Aristotele, Dafne, Padova.
Wittgenstein, L. (1965) A Lecture on Ethics, «Philosophical Review», 74, pp. 3-26 (trad. it. Conferenza sull’etica, in Id., Lezioni e conversazioni su etica, estetica, psicologia e credenza religiosa, Adelphi, Milano 1992, pp. 5-18).
Id. (1967) Wittgenstein und der Wiener Kreis. Gespräche, aufgezeichnet von Friedrich Waismann, Suhrkamp, Frankfurt a.M.
[1] A queste due sezioni, nelle intenzioni dell’autore, si sarebbe dovuta aggiungere una terza, intitolata “Tempo e essere” (Heidegger 1962). La seconda parte, a sua volta, si sarebbe presentata ripartita in tre sezioni, dedicate rispettivamente alla dottrina kantiana dello schematismo e del tempo (Heidegger 1929a), al fondamento ontologico del cogito cartesiano e alla trattazione aristotelica del concetto di tempo.
[2] La distinzione heideggeriana tra i tre modi di essere dell’Esserci (Dasein), dell’utilizzabilità (Zuhandenheit) e della semplice presenza (Vorhandenheit) viene messa in relazione da Franco Volpi con la triplice ripartizione aristotelica dell’attività umana. La poiesis corrisponderebbe all’utilizzabilità degli oggetti adottati come strumenti; la theoria sarebbe da accostare alla semplice presenza dell’oggetto contemplato; la praxis sarebbe il modo d’essere proprio dell’Esserci, considerato nella sua determinazione pratica e progettuale (Volpi 1984, pp. 90-116).