The Ages of Gaia, A Biography of Our Living Earth,
Norton, London 1988
Nell’ultimo capitolo di Le nuove età di Gaia: una biografia del nostro mondo vivente, intitolato significativamente “Dio e Gaia”, James E. Lovelock (nato nel 1919 a Letchworth Garden City, UK) scrive: «Quando ho scritto il primo libro su Gaia, non avrei mai immaginato che venisse preso come un libro religioso. Per me si trattava di un argomento scientifico […]. Gaia appartiene al nostro universo e possiamo pensarla come una parte di Dio. Sulla Terra è la fonte di ogni vita e in questo momento è viva anch’essa: ha dato vita all’umanità e noi siamo parte di lei. Ecco perché, ai miei occhi, Gaia è un concetto religioso oltre che scientifico […]. Anche la teologia è una scienza, ma se deve operare con le stesse regole del resto della scienza, non c’è posto per le fedi e per i dogmi» (pp. 207-209).
Tali affermazioni rendono immediatamente comprensibile la rilevanza di uno studio su questo testo divenuto oramai un classico dell’ecologia e l’urgenza di una seria riflessione sul concetto di “interdisciplinarietà”. Tuttavia la posizione di Lovelock è quella di un agnostico laddove chiarisce di riferirsi sostanzialmente più ad un modo di guardare il nostro pianeta e noi stessi come parte di qualcosa di molto più complesso di quanto avevamo immaginato fino adesso; inoltre, pur ammettendo di vedere il concetto di Gaia come scientifico e spirituale al contempo precisa: «mi piace pensare che le caratteristiche dell’universo siano tali da rendere inevitabile la comparsa della vita e di Gaia. Ma non posso accettare l’affermazione che sia stato creato a questo scopo […]. In nessun modo […] vedo Gaia come un’entità cosciente, un surrogato di Dio» (pp. 208-219). Ciononostante, alcune pagine conclusive del testo sono pervase da una sorta di nostalgia del culto della Madre Terra accostato con una certa superficialità alla figura della Vergine Maria, un culto a suo avviso più accessibile rispetto a quello tributato ad un Dio padre Onnipotente distaccato «allarmante e inaccostabile» che gli «pare bloccare ogni possibilità di meraviglia» (pp. 208-209).
La Terra vista dallo spazio: genesi e sviluppo dell’Ipotesi Gaia
La genesi dell’Ipotesi Gaia, come si legge nel capitolo introduttivo (pp. 20-30), è legata allo stupore che suscitò la visione della Terra rilucente contro il buio dello spazio, con la sua luminosa bellezza e unicità entro il nostro sistema solare. Essa può ben essere metafora del mutamento di paradigma: «quando mutano i paradigmi, il mondo stesso cambia con essi […] È quasi come se la comunità degli specialisti fosse stata improvvisamente trasportata su un altro pianeta […]» (T. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, 1962). Nel caso dell’ipotesi Gaia il nuovo pianeta è la Terra, ma vista in modo inedito.
L’Ipotesi Gaia è una teoria incentrata sul concetto di “coevoluzione” e sull’idea della Terra come “sistema autoregolantesi” il cui attore principale è la vita. Secondo Lovelock, infatti, la vita, nel corso dell’evoluzione, avrebbe “stabilito” le condizioni materiali favorevoli alla propria sopravvivenza manipolando l’ambiente circostante mediante il controllo delle condizioni fisico-chimiche. Lungi dall’essere un “incidente di percorso” adattatosi a condizioni fortuitamente favorevoli, come vorrebbe ad esempio la visione di Monod de Il caso e la necessità, essa avrebbe “guidato” l’evoluzione del nostro pianeta rendendolo “il migliore di tutti i mondi possibili” per se stessa. In breve, l’oggetto di questa teoria è «l’evoluzione del più grande organismo vivente che esista: Gaia» (p. 11).
I detrattori dell’Ipotesi Gaia, tra i quali i neodarwinisti Dawkins e Doolittle, vi hanno visto un “pericoloso” riavvicinamento alla visione teleologica della natura, dal loro punto di vista un’eresia. Parlare di una “Terra vivente” e attribuirle, secondo il suggerimento dello scrittore William Golding, lo stesso nome con cui i Greci denominarono la dea della terra, è stata, in effetti, una mossa audace che ha suscitato peraltro grande entusiasmo sia negli ambienti della New Age — che in essa hanno visto una riattualizzazione del panvitalismo primitivo e di legittimazione del culto della “Madre terra” — sia nelle frange più estreme del movimento ambientalista, da cui Lovelock ha però preso nettamente le distanze, sebbene, per sua stessa ammissione, la teoria di Gaia tocchi il rapporto scienza ed etica da un lato, e scienza e religione dall’altro. La strumentalizzazione che ne è seguita ha alimentato una serie di fraintendimenti che hanno oscurato proprio l’aspetto scientifico di quella che oggi è una teoria che vanta illustri predecessori, quali J. Hutton (padre della geologia, definì la Terra un superorganismo sostenendo l’approccio “fisiologico” e paragonò la circolazione degli elementi alla circolazione del sangue), lo studioso russo V. Vernadskij (padre del concetto di biosfera ripreso da Seuss, considerò la totalità degli organismi viventi come “il più potente agente geochimico sulla faccia della Terra” senza la quale vi sarebbe solo una “bonaccia chimica”; considerò, inoltre, lo scudo dell’ozono, un prodotto creato dal biota per il biota: cfr. V. Vernadskij, La Biosfera, RED, Como 1993).
La teoria è costruita sulla base di dati condivisi da una parte della comunità scientifica come l’ecologo A. Lokta (Johns Hopkins University), G.E. Hutchinson (biologo e limnologo americano influenzato dalle idee di Vernadskij, fondatore di un’importante scuola di ecologia alla Yale University), A. Redfield (oceanofrago inglese) e Eugene Odum, allievo di Hutchinson che nel suo testo più famoso, Fondamentals ofEcology, cita espressamente l’ipotesi Gaia e descrive gli ecosistemi secondo una prospettiva fisiologica (trad. it. Basi di Ecologia, Piccin, Padova 1988). In sostanza, tutti questi studiosi hanno riconosciuto il ruolo attivo della vita nell’evoluzione dell’ambiente e i dati raccolti da Lovelock parrebbero suffragare l’ipotesi che il pianeta si comporti “come un” (as an) organismo vivente capace di autoregolarsi, dove “as an” sta per “uso metaforico” del concetto di Gaia, come precisato dallo scienziato in seguito alle critiche ricevute, un’immagine utile dunque alla costruzione del nuovo paradigma della geofisiologia che «non nega la grande visione di Darwin, ma la completa con l’osservare che l’evoluzione delle specie non è indipendente da quella del loro ambiente circostante. Anzi, le specie e il loro ambiente sono strettamente correlati e si evolvono come un sistema solo» (p. 11). Un concetto ben diverso dunque dall’interpretazione “letterale” che ne ha dato il movimento New Age.
Nel 1961 J. Lovelock viene invitato a collaborare alla prima missione lunare della NASA, all’interno della divisione di bioscienze, con l’incarico specifico di progettare strumenti e ideare esperimenti atti ad analizzare le superfici e le atmosfere dei pianeti ed identificare la presenza o meno della vita su altri pianeti. La sua formazione lo rende particolarmente adatto a questo compito: medico, biofisico, chimico e inventore, ricercatore presso il National Institute for Medical Research di Londra, dove ha conseguito il dottorato di ricerca in medicina e svolto ricerche nei più diversi campi, quali virologia, fisiologia, biochimica, biologia sperimentale; nel 1954 ottiene la Rockfeller Travelling Fellowship, una borsa di studio che lo porta a Harvard, e nel 1959 diviene Dottore in Biofisica (Doctor of Science) all’Università di Londra. Un tratto peculiare della personalità dello scienziato inglese è legato alla sua attività di inventore di strumenti scientifici, passione che gli ha permesso di autofinanziare le sue ricerche e di rimanere uno scienziato indipendente; ha attualmente più di cinquanta brevetti di invenzioni che hanno portato a numerose scoperte scientifiche e a notevoli progressi nell’analisi ambientale, in oceanografia, in meteorologia; alcune di queste invenzioni sono state adottate nei programmi di esplorazione spaziale dalla NASA.
Nell’ambito del lavoro d’équipe, formata soprattutto da biologi in quel momento “ossessionati” dalla biologia molecolare, Lovelock si rende immediatamente conto dell’inadeguatezza di un approccio riduzionistico ai fini del compito assegnato; suggerisce così di privilegiare un approccio di tipo olistico: l’approccio “microscopico” (microscopic bottom-up approach) va integrato con quello “fisiologico dall’alto verso il basso” (physiological top-down approach), poiché il primo da solo, pur non negandone i meriti, è insufficiente quando si affronta un oggetto complesso come la vita. Semplicemente, porre la questione in termini di alternativa è «una polemica alquanto sciocca» (cfr. pp. 215-218), poiché i due metodi sono a suo avviso due modi diversi e coessenziali di vedere un sistema vivente, ma l’approccio “fisiologico” è stato suggerito, come suddetto, dalla ricerca della vita su Marte, nella speranza di poter aggiungere un nuovo tassello nel novero dei tentativi di risposta all’enigmatica domanda: “Che cos’è la vita, e come dovrebbe essere identificata?”, nonostante la refrattarietà della vita stessa, per quanto tanto familiare nell’esperienza immediata, ad essere definita. Ora, caratteristica di tutte le forme viventi, osserva l’A., è quella di muoversi “controcorrente”, cioè dal disordine all’ordine verso stati di complessità crescente, rispetto a quanto indicato dal secondo principio della termodinamica. A differenza dei sistemi chiusi, in cui si stabilisce uno stato di equilibrio chimico e non sono più possibili reazioni chimiche, i sistemi viventi sono sistemi aperti che si mantengono in uno stato stazionario lontano dall’equilibrio, caratterizzato da reazioni chimiche e flusso di energia e di materia continui, sono capaci di diminuire la loro entropia interna a spese dell’energia libera prelevata dall’ambiente e poi di restituirla in forma degradata. Ciò non contraddice il secondo principio della termodinamica poiché, vivendo, un organismo “produce” continuamente entropia e l’entropia complessiva aumenta sempre: nel mondo vivente ordine e disordine vengono sempre creati simultaneamente. Ciò suggerisce chiaramente l’idea di un “confine” tra la zona operativa dove l’entropia è ridotta localmente e l’ambiente circostante che riceve i prodotti di rifiuto. L’A. rileva una gerarchia di confini interni: l’involucro dell’atmosfera, poi i confini di un ecosistema, la pelle di un animale, la membrana di una cellula e il suo stesso nucleo all’interno del quale è racchiuso il DNA. Ora, «se la vita è definita un sistema auto-organizzato, caratterizzato da un minimo di entropia che viene conservato in modo attivo, allora, visto dall’esterno di ciascuno di questi confini, quel che sta all’interno è vivo» (p. 42). Da qui, la coesistenza paradossale di cambiamento e stabilità; apertura quanto a flusso di energia e materia, e chiusura quanto al confine entro cui si strutturano ordine e forma, attivamente mantenuti. È questa una definizione molto ampia del concetto di vita, tipica del pensiero sistemico che segue la direzione tracciata da E. Schrödinger, L. Boltzmann, O. Reynolds e J.D. Bernal, cui si aggiunge il più recente contributo sulle “strutture dissipative” di I. Prigogine.
Laddove noi troviamo dunque un’aggregazione molecolare altamente improbabile, può esservi la vita o uno dei suoi prodotti. Gaia dovrebbe essere la più grande manifestazione di una distribuzione improbabile di molecole, un fenomeno su scala planetaria diverso dai singoli organismi della Terra come il nostro corpo lo è dalla somma delle singole cellule. La vita è dunque anche un «un fenomeno sociale [che] esiste sotto forma di comunità e di collettivi» (p. 34). Oltre a riconoscere gli organismi viventi per il fatto di essere circoscritti da confini precisi — pareti, membrane, superfici cutanee — entro cui essi si servono di energia e materia per conservare la propria identità, altrettanto importante è dunque la tendenza a raggrupparsi in unità più complesse le cui proprietà è impossibile individuare a partire dall’analisi di un solo organismo, analogamente a quelle che i fisici chiamano “proprietà colligative” o proprietà dei gruppi, come la temperatura e la pressione. Una di queste è la capacità degli organismi viventi di mantenere l’omeostasi, intesa qui come capacità di mantenere condizioni ottimali per la vita stessa (temperatura, composizione dell’atmosfera, acidità, salinità ecc…). L’omeostasi planetaria sarebbe dunque l’effetto dei processi attivi di feedback svolti automaticamente dal biota. Creatività, capacità di manipolare l’energia, autonomia, mutamento e stabilità è ciò che percepiamo degli esseri viventi. Tutte queste caratteristiche possono essere estese, stando alla teoria di Gaia, alla Terra nel suo insieme. In conclusione, Gaia è “viva” in quanto condivide con gli organismi viventi le seguenti proprietà: ha limiti e confini esterni, assume energia libera, elimina prodotti di rifiuto ad alta entropia, mantiene attivamente un mezzo interno costante malgrado i mutamenti delle condizioni esterne. In sostanza, ha un metabolismo, si evolve, effettua la termostasi, la chemiostasi e l’autoguarigione.
Il concetto di Gaia non è pertanto sinonimo di biosfera né di biota, poiché è qualcosa di più sia della parte della Terra in cui esistono gli organismi viventi che dell’insieme di essi e di esso fanno parte anche le rocce, gli oceani e l’atmosfera: «la vita e il suo ambiente sono uniti così strettamente che l’evoluzione riguarda l’intera Gaia, non gli organismi o l’ambiente presi separatamente» (p. 35). Gaia ha pertanto proprietà che non sono deducibili dalla sola osservazione delle singole specie viventi o di una parte di essa, ma individuabili solo attraverso l’approccio geofisiologico, e il persistere di quella sorprendente “anomalia” rappresentata dell’atmosfera terrestre chiama in causa un complesso “sistema di controllo” automatico ma non finalistico (p. 54) cui Lovelock dà il nome di Gaia, «la più grande manifestazione della vita» (p. 54).
La geofisiologia è dunque la scienza che studia il nostro pianeta come un sistema fisiologico ovvero la modalità del funzionamento e dell’evoluzione della Terra come sistema, descrizione oggetto dei capitoli successivi del testo. L’approccio, inevitabilmente interdisciplinare, unendo fisica, chimica, biologia, ecologia, geologia e meteorologia cerca di comprendere come esso si evolva e risponda allo stress e a tutto ciò che minaccia il suo equilibrio. Per tale motivo la geofisiologia, come studio sistemico della Terra, è proposta dall’a. come guida allo sviluppo di una “medicina planetaria”, una nuova disciplina e pratica in grado di diagnosticare e curare i mali del pianeta, e di una nuova professione, quella del “medico planetario”, proposta che Lovelock approfondirà successivamente nel 1991, nel volume Gaia: the practical science of Planetary Medicine (tr. it. Gaia: Manuale di medicina planetaria, Zanichelli, Bologna 1992).
Fu sulla via di tali considerazioni, allora allo stato iniziale, che Lovelock propose ai colleghi della NASA di ricercare una riduzione di entropia quale sistema più sicuro per identificare la presenza della vita su altri pianeti, in primis analizzando l’atmosfera, poiché «la vita su un pianeta dovrebbe per forza utilizzare l’atmosfera e l’oceano per il trasporto di materiali grezzi e per l’eliminazione dei prodotti metabolici, e questo cambierebbe la composizione chimica dell’atmosfera e la renderebbe visibilmente diversa da quella di un pianeta privo di vita» (p. 21). Un pianeta “morto”, al contrario, dovrebbe avere un’atmosfera determinata solamente dalle condizioni fisiche e chimiche e di conseguenza essere vicino allo stato di equilibrio chimico, come quella di Marte, dominata dall’anidride carbonica: dal punto di vista chimico “uno sfondo nero” in confronto a cui «la Terra brilla come uno zaffiro marmoreggiato» (p. 82). La proposta di Lovelock rendeva peraltro irrilevante il problema della scelta della “area-bersaglio” su cui far atterrare eventuali strumenti.
Dal nuovo paradigma della geofisiologia al modello matematico di Daisylandia
L’idea di cercare una riduzione di entropia quale segno di vita è divenuto così il punto di partenza dell’ipotesi Gaia, e i dati raccolti convinsero Lovelock che l’unica spiegazione possibile dello stato “altamente improbabile” dell’atmosfera terrestre — una miscela altamente reattiva con componenti instabili eppure compresenti in quantità costanti, quali ossigeno, azoto, metano e altri gas reattivi, con poche tracce di anidride carbonica — è che essa sia stata “manipolata” nel corso dell’evoluzione, poiché le stesse quantità, nell’ordine di tonnellate, vengono annualmente re-immesse. La stabilità per periodi di tempo assai lunghi di uno stato così improbabile entro i ristretti limiti in cui la vita può esistere deve essere attivamente mantenuto in omeostasi da “meccanismi di controllo” che regolano le condizioni fisiche e chimiche quali salinità, acidità, temperatura, condizioni climatiche generali, similmente a quanto avviene nel corpo umano, entro il quale determinati processi mantengono costante la temperatura indipendentemente dalle condizioni esterne. Tale situazione, se paragonata a quella di Marte e Venere, sarebbe inspiegabile su base abiologica: lo scambio di gas prodotto biologicamente sarebbe uno tra i fattori principali del particolarissimo stato della nostra atmosfera. In questo processo i microrganismi disseminati nelle rocce e nelle acque avrebbero svolto un ruolo fondamentale. In conclusione, le leggi della chimica e della fisica, benché fondamentali, non sono sufficienti da sole a comprendere i fenomeni atmosferici; le leggi biologiche devono avere uguale considerazione.
Tutta la ricerca successiva di Lovelock è consistita nell’individuazione dei “meccanismi gaiani” di autoregolazione della Terra, osservata come se fosse un unico organismo vivente le cui componenti sono collegate da meccanismi di feedback che mantengono il sistema stabile, e le cui proprietà generali vanno ben oltre la somma delle proprietà dei singoli costituenti. L’ipotesi Gaia ha richiesto vent’anni di lavoro finché è divenuta un vero e proprio modello di ricerca, con l’ausilio previsioni e prove empiriche che hanno condotto alla scoperta di nuovi composti chimici-vettori di elementi essenziali, quali il dimetilsolfuro e il metilioduro prodotti dagli organismi marini che trasferiscono così zolfo e iodio dagli oceani alla terraferma.
Lovelock parlò per la prima volta pubblicamente della sua ipotesi nel 1968, in occasione di un convegno sulle origini della Terra organizzato dall’American Astronautical Society a Princeton, al quale partecipò la biologa Lynn Margulis, dotata di una vastissima conoscenza delle forme viventi e dei loro habitat e il cui contributo si sarebbe rivelato essenziale nel dare consistenza all’ipotesi Gaia; successivamente, in articoli pubblicati in note riviste 1 , finché nel 1979 uscì il primo libro intitolato Gaia: A new look at life on earth, Oxford University Press (tr.it. Gaia. Nuove idee sull’ecologia, Bollati Boringhieri, Torino 1981). In The Ages of Gaia, Lovelock presenta non più un’ipotesi ma una teoria, e questo grazie anche alle critiche dei neodarwinisti W. Ford Doolittle e R. Dawkins, i quali sostengono che l’adattamento può emergere solo per selezione naturale e conseguentemente rifiutano l’idea di un pianeta come sistema unitario autoregolantesi che sviluppi una sorta di “altruismo su scala globale”. È noto come tra i neodarwinisti sia unanimemente accettato una sorta di “universale egoismo”, al punto che i casi di apparente altruismo sono interpretati come forme di “egoismo mascherato”. È anche noto anche che l’ambiguità del linguaggio antropomorfo da essi utilizzato non contribuisca di certo ad una maggiore chiarezza, la cui precondizione dovrebbe essere la distinzione tra il piano del dato scientifico e quello dell’interpretazione filosofica di esso, quest’ultima presentato invece dai neodarwinisti come “fatto”. Dawkins paragonò l’ipotesi Gaia ad un programma televisivo definendola “BBC Theorem”, con un riferimento spregiativo alla visione poetica di una natura tutto equilibrio e armonia tipica di alcuni documentari. Egli non poteva concepire l’evoluzione di un’omeostasi a livello planetario se non in relazione ad una “selezione interplanetaria”: l’universo dovrebbe essere pieno di pianeti morti la cui regolazione omeostatica è venuta meno, attorniati da una manciata di pianeti ben regolati e ben riusciti, di cui uno è la Terra. Tanto più inverosimile sembrava l’idea che i microrganismi avessero avuto un ruolo fondamentale nel mantenere il nostro pianeta adatto alla vita. Secondo l’apporto più consistente della biologa L. Margulis, i microrganismi come “veri piccoli alchimisti” avrebbero cioè modificato la faccia della Terra, immesso l’ossigeno nell’atmosfera, costruito enormi strutture rocciose, e, grazie a complessi processi di simbiosi, sarebbero stati i principali artefici della nostra comparsa sulla Terra (nove su dieci delle cellule che costituiscono il corpo umano discenderebbero da batteri che nuotavano nei mari primordiali miliardi di anni or sono). Le cellule sarebbero dunque comunità di microrganismi un tempo indipendenti, così come i mitocondri e cloroplasti, un tempo batteri che vivevano di vita autonoma e che successivamente avrebbero stabilito con un’altra cellula procariote ospite una relazione simbiotica evolutasi verso una sempre maggiore interdipendenza, originando un nuovo tipo di cellula: le cellule eucariote. All’evoluzione per competizione la biologa ha dunque sostituito l’idea dell’evoluzione per endosimbiosi a partire da comunità simbiotiche di cellule procariote di una o più specie: la cooperazione e la mutua dipendenza, piuttosto che la competizione, sarebbero il motore dell’evoluzione.2 I neodarwinisti non scartarono a priori la teoria dell’endosimbiosi, ma obiettarono che una cooperazione su scala planetaria che regolasse addirittura il clima e la composizione chimica dell’atmosfera e oceanica equivaleva “all’idea panglossiana di una gigantesca tata planetaria”.3
Altre critiche vennero dal climatologo S. Schneider e dal geochimico H.D. Holland, entrambi convinti della spiegazione esclusivamente chimica e fisica dell’evoluzione di rocce, oceani, atmosfera e clima, sopravvivendo tra gli organismi viventi soltanto i più adatti. In sintesi, la principale obiezione tuttora rivolta alla teoria di Lovelock è che quest’idea così materna della natura appartenga più alla filosofia e alla religione che non alla scienza, in quanto “concetto teleologico non verificabile” e, dopo il postulato dell’obiettività della natura di Monod di chiara ispirazione baconiana, una forma di regressione inaccettabile al finalismo immanente, dal momento che la teoria di Gaia implicherebbe che gli organismi viventi abbiano sviluppato una sorta di capacità di “preveggenza” e pianificazione in vista del raggiungimento e del mantenimento delle condizioni ottimali per la vita stessa. Queste critiche furono, in realtà, una tappa fondamentale per un’elaborazione più rigorosa perché grazie ad esse lo scienziato si accorse della sua incompletezza: mancava un modello matematico che descrivesse il funzionamento di Gaia senza dover ricorrere al finalismo e che elaborò con l’aiuto dell’oceanografo e biochimico Andrew Watson.4
Ne Le nuove età di Gaia, dunque, l’A., è in grado definire con contorni più netti quel disegno che in precedenza era solo una bozza, non senza ribadire l’utilità della termodinamica e del concetto di entropia quale “sfondo nero” a partire dal quale possiamo comprendere la peculiarità degli organismi viventi e abbozzare anche una definizione di “vita”, per quanto non esaustiva.
Il modello matematico denominato “Daisylandia” illustra il funzionamento di un pianeta in grado di mantenere l’omeostasi nonostante l’aumento della radiazione solare o il verificarsi di eventi catastrofici.Daisylandia coniuga biodiversità, flessibilità e stabilità proprio sulla base dell’ intima relazione tra il biota e l’ambiente naturale, e oltre che una replica ai neodarwinsti vuol essere anche una risposta a problemi lasciati irrisolti dall’ecologia teorica e dal darwinismo, inadeguati a spiegare la stabilità di un ecosistema nonostante la presenza di numerose specie. Nei modelli classici dell’ecologia teorica, che escludono l’ambiente fisico–chimico, le popolazioni fluttuano infatti in modo caotico, simili modelli sono così in grado di descrivere ecosistemi instabili, ma non l’evidente stabilità di più complessi sistemi naturali. Nel modello di Daisylandia invece il sistema è tanto più stabile quante più sono le specie, il che costituisce tra l’altro una voce a favore della biodiversità e offre ragioni più solide in sua difesa, Secondo il paradigna geofisiologico un ecosistema complesso ha dunque maggiore resistenza e capacità di superare i cambiamenti climatici e compensare eventuali perturbazioni; al contrario, un ecosistema povero ha una limitata capacità di interagire col suo ambiente ed è più esposto a perturbazioni e fluttuazioni di temperatura, tanto più violente quanto più la biodiversità è ridotta.
Si tratta ovviamente di un modello semplificato popolato di margherite di colore diverso, chiare, scure e di colore intermedio, che, grazie all’uso di un calcolatore, ha potuto via via essere arricchito di un numero maggiore di specie, a rappresentare un sistema più complesso e realistico. Tale modello, del quale tralasciamo i dettagli, prende in considerazione una sola variabile in rapporto all’evoluzione delle margherite: la temperatura; ma può essere applicato anche alla relazione tra la vita e altre variabili, come per esempio l’alcalinità e l’acidità.
La temperatura media è determinata cioè unicamente dalla relazione tra il calore ricevuto dalla stella radiante, il colore del suolo e delle margherite, altre variabili che incidono sull’albedo sono state eliminate. Le margherite crescono tra i 5°C e i 40°C, al di sotto e al disopra dei quali non si sviluppano o muoiono, il feedback positivo esercitato inizialmente dalle margherite scure inciderebbe sull’aumento della temperatura dell’ambiente circostante, il che, a sua volta, inciderebbe positivamente sul tasso di crescita delle margherite, sulla lunghezza della stagione calda e su un ulteriore aumento della temperatura. La crescita delle margherite scure non potrebbe però aumentare all’infinito, il suo tasso si fermerebbe a causa delle condizioni proibitive per un loro ulteriore sviluppo. A ciò si aggiungerebbe l’effetto della maggiore diffusione delle margherite chiare, cresciute in competizione con quelle scure grazie all’aumento della temperatura. A questo punto si verificherebbe un’inversione di tendenza: le margherite chiare inizierebbero ad aumentare grazie alla loro capacità di tenersi fresche e di resistere e adattarsi meglio alle nuove condizioni determinate anche dall’effetto della maggiore intensità della radiazione solare, non più ottimali per quelle scure; al contrario, le margherite scure inizierebbero a morire, ciò fino a che, come succederà anche nel nostro sistema solare fra circa 4 miliardi di anni, il flusso di calore è talmente intenso che nemmeno una popolazione di margherite interamente chiara è in grado di mantenere la temperatura al di sotto del valore critico di 40°C. A questo punto il pianeta torna ad essere spoglio e senza vita. Il sistema non viola peraltro l’evoluzione attraverso la selezione naturale, esso è stabile in virtù del feedback ambientale tra la temperatura e biota, e ciò senza dover chiamare in causa alcuna consapevolezza o finalismo, analogamente a quegli ecosistemi coinvolti nell’effetto albedo .5
Altro aspetto interessante del modello è la coerenza con la teoria evolutiva degli “equilibri punteggiati” di S.J. Gould e N. Eldredge, i quali negano l’onnipresenza della selezione naturale come unica causa delle speciazioni e chiamano in causa altri fenomeni come l’isolamento o grandi catastrofi. La pressione selettiva si intensificherebbe in corrispondenza di questi momenti al termine dei quali si perverrebbe ad un nuovo stato stabile. Coerentemente, la teoria di Gaia prevede lunghi periodi di omeostasi con poche variazioni ambientali e speciazioni, interrotti da bruschi cambiamenti prodotti da una causa esterna o interna o al sistema, quale anche il rafforzarsi di una nuova specie, come quella umana. Secondo il modello di Daisylandia hanno maggiore probabilità di sopravvivenza gli organismi che mantengono condizioni favorevoli all’omeostasi planetaria. Il concetto di adattamento, usato secondo l’a. non di rado in maniera dogmatica, viene ad assumere in questo quadro teorico nuovo significato: «su scala locale, l’adattamento, è il sistema con cui gli organismi affrontano un ambiente non favorevole, ma su scala planetaria il collegamento tra la vita e il suo ambiente è così stretto che il concetto di adattamento — concetto che, come si è visto, è in odore di petizione di principio — non ha ragione di esistere» (p. 48).
Con queste considerazioni si conclude la parte dedicata alla teoria nella sua formulazione generale. Nei capitoli successivi Lovelock ricostruisce l’evoluzione del nostro pianeta alla luce del nuovo paradigma geofisiologico, ipotizzando alcuni “meccanismi gaiani”, in cui interviene cioè la vita, per la regolazione del metano, dell’ossigeno, dell’azoto, della salinità degli oceani, del calcio, dell’anidride carbonica, della temperatura e del clima, per la circolazione degli elementi essenziali alla vita (carbonio, zolfo, fosforo, sodio, calcio, selenio, iodio, magnesio, potassio ecc…).
Conclusione: biocentrismo o antropocentrismo?
Nei capitoli conclusivi, oltre ad ipotizzare un’eventuale colonizzazione di Marte, Lovelock si diffonde su considerazioni riguardanti i problemi ambientali, particolarmente interessanti dal punto di vista interdisciplinare e del confronto tra una visione biocentrica e antropocentrica ai fini dell’individuazione di un’etica ambientale. La teoria di Gaia, egli ha affermato, «stona all’orecchio dei fautori della superiorità dell’uomo […]. Entro il concetto di Gaia, noi siamo solo una specie come le altre, e non i proprietari o i direttori del nostro pianeta. Il nostro futuro dipende più da un rapporto corretto con Gaia che dal dramma infinito degli interessi umani» (p. 29). Quanto a Gaia, «la sua finalità inconsapevole è un pianeta adatto alla vita. Se l’uomo si metterà sulla sua strada, sarà eliminato…» (p. 214). Emerge qui la tipica visione biocentrica o “preservazionista” secondo cui la vita è un valore in sé, indipendentemente dalla fruizione da parte dell’uomo. Ciò che in questo contesto teorico appare però problematico è proprio la compatibilità tra la concezione ‘gaiana’ dell’uomo quale mero epifenomeno dell’evoluzione naturale, che peraltro invalida a rigor di logica qualsiasi tentativo di individuare un sistema etico, con la pretesa responsabilità che, secondo gli stessi fautori del biocentrismo, egli dovrebbe assumersi nei confronti della natura. A dispetto dell’entusiasmo per la sua maggiore utilità ai fini dell’individuazione di un’etica ambientale, il passaggio dalla scienza all’etica anche in tal caso è fortemente problematico, dal momento che la posizione biocentrica, dal punto di vista etico presenta delle evidenti aporie la cui radice è ravvisabile in un’impostazione fortemente egualitaria che non riconosce alcuna specificità all’uomo, al punto che il biocentrismo, per quanto esso si ammanti di una maggiore dignità scientifica, assume i connotati di una concezione metafisica (accusa mossa dagli stessi fautori del biocentrismo ai sostenitori dell’antropocentrismo), con una tendenza a sconfinare nel panteismo e nella nostalgia del culto della Madre Terra.
Il paradigma olistico rischia di apparire altrettanto riduttivo nei confronti dell’uomo quanto il riduzionismo conclamato, salvo poi affermare che fra tutte le forme di vita egli è il più devastante, in un sistema naturale concepito in termini di comunità biotica o ecosistema che lasciato a se stesso continuerebbe ad autoregolarsi autoguarirsi e, in fin dei conti, a funzionare benissimo. A ciò si aggiunga l’affermazione secondo cui, al contrario, è l’uomo ad essere vulnerabile e non la natura o la vita terrestre in generale; ma da questo punto di vista una preoccupazione maggiore nei confronti dell’uomo e minore nei confronti delle altre specie sembrerebbe allora tanto più giustificata. Riduzionismo neodarwiniano e olismo dal punto di vista etico sfociamo, in sostanza, nella stessa impasse, e non è un caso poiché sono accomunati dalla stessa problematica affermazione di un continuum tra natura e cultura. Ora, tanto la naturalizzazione dell’egoismo, quanto quella dell’altruismo, snaturano l’uomo.
In conclusione, l’alternativa tra biocentrismo e antropocentrismo finisce per apparire priva di senso poiché nel biocentrismo manca un argomento forte in grado di fondare la responsabilità dell’uomo, e ciò è una logica conseguenza delle sue premesse, poiché non vi è, all’interno di questa prospettiva, un soggetto privilegiato di responsabilità. L’assunzione indifferenziata di una prospettiva biocentrica renderebbe, infatti, assai difficile un’opera di discernimento morale in tutte quelle situazioni conflittuali in cui vi è la necessità di mediare tra diverse istanze Si pensi alle diverse istanze tra la prospettiva animalista ed ecologista. In quest’ultima ad esempio alcune specie sono viste come dannose per la stabilità di un ecosistema, tanto da giustificarne la soppressione, soluzione inaccettabile per gli animalisti. Il problema della fondazione di un’etica ambientale è ben lungi dunque dal trovare a partire da questo approccio radicalmente egualitario o comunque biocentrico, una soluzione soddisfacente.
A ben vedere, inoltre, la prospettiva olistica presenta un aspetto “baconiano” poiché ad una migliore comprensione dell’ecosistema globale corrisponde una maggiore possibilità della loro gestione, il che è già di per sé sufficiente ad affermare una posizione privilegiata dell’uomo. Ora, però, ad un aumento di potere deve corrispondere una accresciuta consapevolezza ed una maggiore responsabilizzazione, affiancata dall’umiltà che riconosce la dipendenza dal pianeta che ci sostiene quale condizione di possibilità della nostra esistenza, in modo che la baconiana “licenza di dominio” si trasformi in “licenza di cura”, in un “farsi carico” volti a rendere abitabile la Terra e, con l’ausilio della tecnologia finalizzata a questi scopi, lo sviluppo sostenibile. Il riconoscimento della nostra interdipendenza non deve però misconoscere la specificità e unicità dell’uomo, così come porre l’accento sulla centralità dell’uomo quale principale fonte di valore non comporta necessariamente l’affermazione di uno sfrenato antropocentrismo.
Il ruolo dell’uomo va chiaramente riaffermato, proprio nel momento in cui l’impatto delle sue attività si fa sempre più invasivo e la questione ambientale più urgente. A nostro avviso, questa è l’unica strada percorribile per la fondazione di un’efficace etica ambientale, in vista di un’estensione della considerazione morale anche alle altre specie, a partire da quell’irriducibile sorgente di valore che è l’uomo. Va dunque sottolineata la irriducibilità dell’humanum come luogo primario e unico di esperienza etica e di una riflessione che metta al centro il rapporto tra uomo e natura, tra mezzi e fini, tra potere e dovere.
1 Cfr. Gaia as seen through the atmosphere in «Atmospheric Environment» 6 (1972), pp. 579-580). Seguirono articoli sulle riviste «Tellus» 26 (1974), pp. 2-10, e «Icarus» 21(1974), pp. 471-489, nei quali l’atmosfera terrestre veniva paragonata ad un sistema circolatorio prodotto e sostenuto dal biota quale anello di congiunzione tra regno animale e vegetale e viceversa. Questo concetto venne spiegato dettagliatamente nell’articolo scritto in collaborazione con Margulis e intitolato The Atmosphere as Circulatory System of the Biosphere, in «CoEvolution Quarterly» 6 (1975), pp. 30-41, che riprendeva un’idea piuttosto antica, ovvero quella della similitudine tra microcosmo e macrocosmo.
2 Cfr. L. Margulis, Symbiosis in Cell Evolution, Freeman, San Francisco 1981; L. Margulis, C. Sagan, Microcosmo, Mondadori, Milano 1989.
3 Cfr. W.F. Doolittle, Is Nature Really Motherly?, «CoEvolution Quarterly», 29 (1981), pp. 58-63; R. Dawkins, The exetended Phenotype: the Gene as the Unit of Selection, Freeman, Oxford - San Francisco 1982.
4 Cfr. Biological homeostasis of the global environment: The parable of Daisyworld, in «Tellus» 35B (1983), pp. 284-289.
5 Le foreste di conifere si comportano, ad esempio, come le margherite scure poiché il loro colore scuro assorbe la luce, mentre le foreste pluviali, con la loro coltre di nubi provocata dall’evapotraspirazione, assolvono la funzione delle margherite bianche nel riflettere la luce e mantenere fresche le regioni tropicali, così come le coltri di nubi provocate dalle fioriture di alghe sull’oceano (due terzi della superficie terrestre) di colore blu scuro e eventualmente ben più caldo.