Lettere dal lago di Como. La tecnica e l’uomo

L’autore

Romano Guardini nasce a Verona da genitori italiani nel 1885. Un anno dopo la sua famiglia si trasferisce a Magonza a motivo del lavoro di suo padre, commerciante. La formazione di Romano si svolgerà interamente in ambiente tedesco. Uomo di ampi interessi, si dedica inizialmente agli studi di chimica a Tubinga (1903), ma dopo due anni decide di cambiare facoltà universitaria e iscriversi a scienze politiche a Monaco di Baviera (1905). Un anno dopo intraprende studi filosofico-teologici, prima a Berlino e poi ancora Tubinga. Entrato in seminario a Magonza nel 1908, viene ordinato sacerdote nel 1911. Ottenuti i gradi accademici in teologia, insegna a Bonn (1920-1922), a Breslavia e a Berlino (1923-1939), a Tubinga (1945) e, infine, a Monaco di Baviera (1948).

Guardini è conosciuto soprattutto come teologo e filosofo della religione. I suoi saggi sono in costante dialogo con la cultura contemporanea, che egli cerca di comprendere e decodificare, anche a motivo delle circostanze in cui operò e dell’ambiente universitario al quale si diresse, costituito soprattutto da giovani. Emblematico, al riguardo, il titolo della cattedra che egli ricoprì a Berlino dal 1923, Katolische Weltanschauung, poi soppressa dal nazismo nel 1939: Guardini vi promosse lezioni sulla dimensione religiosa della letteratura, sul problema di Dio, sulla personalità di Gesù di Nazaret, proponendosi in definitiva di esplorare il significato della “forma cristiana” per la storia della cultura umana e per la società. Fra le sue opere più significative vanno ricordate, fra le altre, Il Signore (1937), L’essenza del cristianesimo (1938), Fenomenologia e teoria della religione (1958), la raccolta di saggi teologici Fede, religione, esperienza (1923-1963), Mondo e persona (1939), La visione cattolica del mondo (1923) e La fine dell’epoca moderna (1950).

Romano Guardini è anche autore di saggi che esaminano il ruolo del pensiero scientifico e della tecnologia, specie in merito al rapporto fra progresso scientifico e progresso umano, i più noti dei quali sono Lettere dal lago di Como (1927) e Il potere (1951). L’importanza delle Lettere dal Lago di Como, saggio che qui presentiamo, e in certo la modo la sua fortuna, deriva dal fatto che questo beve testo anticipa e inquadra, con quasi un secolo di anticipo, le linee essenziali del rapporto fra uomo e tecnica che segnerà con forza, nei decenni successivi, prima le vicende belliche che portarono alla progettazione e all’impiego della bomba atomica, poi l’avvento della tecnologia e dell’informatica. È l’uomo soggetto e padrone della tecnica che egli produce oppure finisce col diventarne oggetto e schiavo? Deve la tecnica essere ridimensionata, limitata e regolarizzata, o deve l’essere umano crescere per saperla gestire responsabilmente? Nelle Lettere dal Lago di Como, Guardini affronta questi temi attraverso una pausata meditazione, riflessioni a voce alta svolte durante i suoi soggiorni estivi in Italia, sul Lago di Como.

 

Il contenuto delle Lettere

La finestra temporale entro cui l’A. compone le Lettere occupa gli anni fra il 1923 e il 1925. Gli scritti apparvero sotto forma di lettere, appunto, inviate alla rivista Schildgenossen e poi riunite tutte in unico saggio. Esse mantengono pertanto la loro forma originaria di scrittura, cogliendo i pensieri e gli stati d’animo dell’A., la cui riflessione si vede svilupparsi e mutare con il passare dei mesi. Pur leggibili singolarmente, per la loro genesi e il loro fine le Lettere acquisiscono valenza principalmente come testimonianza di un cammino che l’A. invita il lettore a percorrere con lui. Vediamone dapprima, schematicamente, il contenuto.

Nella Lettera prima, intitolata La questione, l’A. rammenta la sua emozione di fronte alle valli rigogliose, opulente, coltivate con cura diligente che fanno da sfondo al suo viaggio in Italia: tutta quanta la natura è lavorata e modellata dall’uomo. In forma davvero armoniosa si presentavano davanti a suoi occhi i frutti di una vera e propria “cultura”, intesa nel senso più raffinato: le linee dei tetti delle case parevano progettate secondo una chiara unità, il loro tracciato correva per tutta la cittadina, lungo le ondulazioni di una vallata, e culminava nella slanciata linea di un campanile. Ma nella costante fuga di profili l’A. scorge il grossolano edificio di una fabbrica, si erge una ciminiera che rovina tutto. La questione è ormai posta. Potrebbe mai darsi un’armonia fra questa produzione umana e la natura che l’uomo aveva trasformato in cultura?

La Lettera seconda, Artificialità dell’esistenza, riprende le precedenti impressioni applicandole questa volta all’osservazione di una barca a vela, dove le masse del legno e della vela si armonizzano con la forza del vento, tali da diventare sempre più leggere: l’uomo signoreggia sull’acqua e sul vento, compiendo un primo allontanamento dalla natura. La sfera dell’operare umano diventa sempre più artificiale, meno umana la sua connotazione. Nella Terza Lettera, L’astrazione, Guardini riflette sul desiderio dell’uomo di liberarsi dall’unicità perpetuamente ripetuta, di fronte alla quale, a lungo andare, dovrebbe soccombere: egli vuole passare dal singolare e dall’effimero all’universale e al permanente. Per realizzare questo passaggio l’essere umano astrae dal particolare, formalizza la natura trasformandola in simboli, creando uno strumento valevole per molti e divenendo così in grado di dominare interamente la realtà. Le rappresentazioni create, però, non sono che semplice forma, concetto, formula matematica, strumenti che non esauriscono il senso delle cose rappresentate. Questo dominio – osserva Guardini – si paga con il sangue. Ormai l’uomo non ha più la primitiva e vivente relazione con l’oggetto in carne e ossa: «vive un mondo derivato, artificiale, un mondo di succedanei, di improprietà e di segni convenuti. Segni che non s’adattano più alla cosa particolare, ma a tutte le cose della stessa specie; segni collettivi, dunque, astrazioni. L’uomo vive ora nell’astratto» (p. 29).

Una nuova considerazione viene proposta dalla Quarta Lettera, quella in cui l’A. riflette su La presa di coscienza, ovvero quel modo di “dominare la realtà” costituito dal nostro tornare sulle cose, rendendoci conto dei processi in noi e fuori di noi, quando esaminiamo e organizziamo, psicologicamente, le nostre conoscenze: «Incontriamo dappertutto un uomo che non si accontenta più solamente di essere, di vivere, di agire, ma che, nello stesso tempo, si rende conto di tutto ciò, ne conosce le cause, ne intuisce i rapporti, ne scopre le analogie, osserva i meccanismi interni degli avvenimenti. E questo comportamento è caratteristico precisamente di ogni campo dell’attività umana del giorno d’oggi e lo riscontriamo sia nella determinazione di un fine tecnico, sia nella vita quotidiana» (p. 38). Questo continuo “prendere coscienza” in modo riflessivo delle cose potrebbe però trasformarsi in ostacolo… L’A. cita l’esempio di quando, scendendo le scale, ebbe coscienza dei movimenti che stava compiendo: questo gli faceva perdere l’istintiva sicurezza del sistema muscolare, facendolo dubitare sul saper camminare. Sembrerebbe come se la vita avesse bisogno della protezione dell’incoscienza. La vita, si chiede Guardini, può sopportare questa continua riflessione su se stessi e sulle cose, e continuare a restare, spontaneamente, vita?

Vi è poi Lo sguardo d’insieme, titolo della Quinta Lettera, ovvero la tendenza dell’essere umano a organizzare le conoscenze in un’ottica globale, completa, cercando sistemi di spiegazione sempre più generali ed efficaci, a testimonianza della sua capacità di possederli. Le varie discipline vanno strutturandosi come precise visioni del mondo, risultato del loro essere andate in passato in profondità, ma adesso effetto della loro possibilità di integrarsi. È il rapporto fra analisi e integrazione, non equilibrato, che può generare ostacoli. Sembra arrivato il momento, dice Guardini, di dirigere il lavoro verso l’intensità: dalla molteplicità verso la convergenza, dalla dispersione verso la profondità.

A partire dalla Sesta Lettera, il tema sembra entrare verso un suo punto algido, quello di una riflessione esplicita sul Dominio. «In questi giorni ho più che mai compreso – afferma l’A. – che vi sono due specie di conoscenza. Di queste l’una conduce a immergersi nell’oggetto e nel suo contesto, per cui l’uomo che vuol conoscere cerca di penetrarlo, di vivere in lui. L’altra, al contrario, raduna le cose, le decompone, le ordina in caselle, ne acquista padronanza e possesso, le domina» (p. 55). Guardini ritiene che ormai l’uomo, mediante la scienza, accresce la sua volontà di dominio sulle cose e non avverte più il bisogno di rispettare l’equilibrio della creazione. L’uomo sceglie i suoi fini traendoli da considerazioni puramente razionalistiche. La vita sembra ormai inquadrata in un sistema di macchine: può essa rimanere vita?

Navigando accanto alla riva del lago di Como e osservando la bellezza delle ville settecentesche, Guardini cede ad un fremito di pessimismo. La cultura, l’arte, la filosofia, l’amore alla sapienza, egli afferma, purtroppo sono coltivate da pochi. Soltanto una minoranza ha la sensibilità per occuparsene. La grande Massa– è questo il titolo della Settima Lettera – si muove in tutt’altra direzione. La saggezza deve andare controcorrente. Vi è il rischio che la “massa” operi una distruzione culturale: potremmo sopravvivere ad una tale devastazione? Al di là dello sfogo nostalgico, ma non ideologico o classista, Guardini vuole mettere in luce il fatto, evidente al suo tempo, che la cultura non era certo una cultura di massa. Eppure, le sorti degli stati e delle società dovrebbero essere rette da uomini colti.

Nella Lettera Ottava, alla quale dà per titoloIl venire meno dell’organico, l’A. pone il lettore di fronte a una duplice considerazione: da una parte, la storia mostra che l’uomo ha costruito ogni cosa ponendo la sua umanità al centro, modellando ogni cosa attorno ad essa, in certo equilibrio con la natura, dolcemente adattandola alle sue esigenze. Il paesaggio del lago sembra mostrarlo ad ogni angolo: il tutto è organico. Dall’altra, pare che la “misura umana” sia in verità oggi scomparsa e sia destinata a scomparire sempre più. La volontà, sciolta da tutti i suoi legami organici, può fissare i suoi scopi a suo piacimento e ottenere il loro conseguimento violentando le forze della natura, dominandole razionalmente. Lo sguardo sulla vita e l’urbanizzazione del lago di Como gli fanno vedere come «tutto è costruito partendo dall’uomo e perciò tutto è assolutamente umano. E tutto trae origine da un’unione con la natura e perciò è così profondamente naturale. Ma questo, appunto, è ciò che va perdendosi» (p. 84). Ecco, il problema è ormai posto nella sua crudezza, e siamo solo nel 1927: il progresso e la scienza sembrano inesorabilmente diretti e farci perdere ciò che è naturale, ciò che è umano.

 

Il “colpo d’ala” della Lettera Nona: non fermiamo il progresso, ma cresciamo in umanità per saperlo gestire

Dopo il rientro di Guardini in Germania, trascorre del tempo, quasi due anni. L’A. sente la necessità di offrire una risposta ai problemi suscitati dalle prime otto Lettere, ma non trova ancora la soluzione e rende il lettore partecipe del suo travaglio. Si rende conto che le risorse ereditate dalla cultura precedente restano inadeguate per affrontare il rapporto dell’uomo con la tecnica; quest’ultima pare un intruso, un elemento venuto a turbare uno statu quo durato secoli, millenni. L’essere umano deve e vuole costruire qualcosa di umano ma pare non riuscirci più: «La questione che mi tormentava era questa: è ancora possibile, in mezzo a tutto ciò che accade, un tipo di vita che sia completamente imperniato sulla natura dell’uomo e sull’opera dell’uomo?» (p. 92). Può la tecnica consentirlo ancora?

La risposta giungerà dopo un’attenta meditazione ed una maturazione psicologica. Occorre che l’essere umano faccia un salto di qualità, spicchi il volo verso un nuovo piano culturale, quello che gli consentirà di “umanizzare” la tecnica. Il progresso non può e non deve essere fermato, ma l’uomo deve crescere per essere capace di integrarlo e dargli forma. Le risorse culturali del passato non saranno sufficienti, ne servono di nuove. «Ora il farsi padrone di queste materie prime e di queste forze – osserva l’A. – il raccoglierle, il dar loro una forma, il metterle in rapporto, tutto ciò per cui si crea un “mondo”, una “cultura”, non è in potere dell'uomo che faceva parte di quel mondo antico al quale si era conformato» (p. 94). Serve una nuova cultura, un umanesimo che dovrà potersi dire scientifico e tecnologico. Siamo di fronte ad un compito tutto da realizzare: evitare nostalgie del passato, discernere nel presente ciò che va giudicato criticamente, informare ciò che di positivo ha il progresso, conferendogli una forma umana. Così Guardini riassume il nuovo compito e lo spirito con cui affrontarlo: «Non dobbiamo irrigidirci contro il “nuovo”, tentando di conservare un bel mondo condannato a sparire. E neppure cercare di costruire in disparte, mediante una fantasiosa forza creatrice, un mondo nuovo che si vorrebbe porre al riparo dai danni dell'evoluzione. A noi è imposto il compito di dare una forma a questa evoluzione e possiamo assolvere tale compito soltanto aderendovi onestamente; ma rimanendo tuttavia sensibili, con cuore incorruttibile, a tutto ciò che di distruttivo e di non umano è in esso. Il nostro tempo è dato a ciascuno di noi come terreno sul quale dobbiamo stare e ci è proposto come compito che dobbiamo eseguire» (p. 95).

Al pessimismo, o comunque al nostalgico realismo delle prime otto Lettere, segue dunque la proposta innovativa e profetica della Nona Lettera, intitolata Il nostro compito. L’uomo deve vivere il suo tempo e la tecnica è parte di esso. Non può farlo però ingenuamente, ritenendo che si tratti solo di apportare alcuni pochi aggiustamenti. Occorre mettersi al livello di forze nuove, inedite, quelle con cui la tecnica oggi ci invade, e saperle dominare senza esserne dominati. «In primo luogo, dunque: bisogna dire “sì” al nostro tempo. Il problema non sarà risolto con un tornare indietro, né con un capovolgimento o con un differimento; e neppure con un semplice cambiamento o miglioramento. Si avrà la soluzione soltanto andandola a cercare molto in profondità» (p. 99). Sarà un dominio intelligente, che non frena ma canalizza, non rifiuta ma purifica e discerne. È in questa parte delle Lettere che l’A. introduce il riferimento al cristianesimo come fattore positivo per la realizzazione di tale ambizioso compito. Il cristianesimo, che è stato all’origine della scienza e del progresso del mondo occidentale, sarà un bacino di risorse importanti affinché lo spirito umano, ricordando il compito affidato dal Creatore ai progenitori, sappia orientare il nuovo senza entrare in conflitto con esso. Il cristianesimo, che ha insegnato a vedere il lavoro come servizio e il progresso come promozione, potrà anche oggi svolgere un ruolo determinante in proposito.

È dunque la forza della vita umana, che risiede in ultima analisi nello spirito, a dover informare la tecnica, sapendo trarre vantaggio dalle sue potenzialità. «Per poter renderci padroni del “nuovo”, dobbiamo in giusto modo penetrarlo. Dobbiamo dominare le forze scatenate onde farle attendere alla elaborazione di un ordine nuovo, che sia riferito all'uomo. Ma, in ultima analisi, questa opera non può compiersi ove si prendano come punto di partenza i problemi tecnici; essa è resa possibile solo partendo dall'uomo vivente. Si tratta, è vero, di problemi di natura tecnica, scientifica, politica; ma essi non possono essere risolti se non procedendo dall'uomo. Deve formarsi un nuovo tipo umano, dotato di una più profonda spiritualità, di una libertà e di una interiorità nuove, di una capacità di assumere forme nuove e di crearne» (pp. 97-98).

 

L’attualità della riflessione di Guardini nelle Lettere dal Lago di Como

Riletto a distanza di quasi un secolo, questo breve saggio di Guardini appare come un testo profetico. Non lo è nel senso di annunciare l’espansione della tecnica, poi puntualmente realizzatasi, trattandosi di uno sviluppo facilmente prevedibile. Il senso della sua profezia sta piuttosto nell’aver indicato qual è la logica di fondo che potrebbe aiutarci a gestire il progresso tecnico-scientifico, indicandoci una strada che dobbiamo ancora imparare a percorrere. La sua soluzione è portare la cultura e lo spirito dell’uomo ad un livello superiore, adeguato alle forze che dobbiamo adesso gestire. Siamo di fronte alla proposta implicita di un “umanesimo scientifico”, in controtendenza rispetto ai modelli oggi dominanti per rappresentare i rapporti fra l’uomo e la tecnica. È infatti frequente l’idea che la tecnica abbia un valore solo “strumentale”, sia un mezzo neutrale estraneo alla sfera dei fini. O, anche, sia destinata ad un rapporto “conflittuale” con l’uomo: occorrerebbe ridimensionare o frenare la tecnica per avere un mondo più “umano”. Il primo modello non vede il progresso e la ricerca scientifica come fonti di cultura in sé, di umanesimo appunto, in grado di ispirare una prassi informata dallo spirito. Tecnica e spirito avrebbero ambiti diversi. Il secondo modello genera invece una reazione di difesa nei confronti del progresso tecnologico, considerato un attentato pericoloso alla vita dell’uomo e al suo equilibrio con la natura. Non dimentichiamo che nello stesso anno in cui Guardini terminava le Lettere, Heidegger pubblicava il suo Essere e tempo, preludio di una critica alla tecnica che attraverserà buona parte del Novecento, non di rado associata ad una critica al messaggio biblico di “assoggettare la terra”, la cui lettura frettolosa conduceva a vedere in esso l’origine del dominio despotico dell’uomo sulla natura.

La lezione di Guardini ci dice che la tecnica non va svuotata di senso ed impiegata come mero strumento, né frenata o demonizzata. La riflessione della nona e ultima delle sue Lettere dal lago di Como ci insegna che siamo noi, esseri umani, a dover crescere per porci al livello delle nuove forze che dobbiamo gestire. Come in altre epoche della nostra storia, solo capendo il nuovo e la cultura che esso genera potremo informare di umanità ciò che costruiamo, elaboriamo o scopriamo. In questo processo il cristianesimo non è un ostacolo, bensì una risorsa, perché grazie al principio dell’Incarnazione, insegna che le realtà terrene sono in sé buone ed adeguate ad essere informate dal logos divino.

 

Brani antologici proposti:

La tecnica e l'uomo

 

 

Giuseppe Tanzella-Nitti e Pallotti Antonio