G. Reale, Introduzione, traduzione e commentario della Metafisica di Aristotele, testo greco a fronte, Bompiani, Milano 2004.
La Metafisica di Aristotele (384/83 – 322 a. C.) è uno dei capolavori assoluti della storia della filosofia occidentale. Non fu l’autore a dare all’opera il titolo con cui è passata alla storia: egli, in realtà, non fece neppure uso del termine “metafisica”, che assai probabilmente risale ai primi seguaci della sua scuola, ma gli preferì l’espressione “filosofia prima”, con la quale intese indicare la forma di sapere più alta e importante, quella, cioè, che riguarda ciò che sta al di sopra e al di là del mondo fisico. Non casualmente, Aristotele ricorse anche al termine “teologia”, che fa comprendere bene la sua volontà di occuparsi della realtà situata oltre quella sensibile. Tuttavia, la parola “metafisica” ebbe grande fortuna e venne prescelta fin dall’antichità per individuare il titolo e il contenuto della monumentale opera aristotelica. Proporre una sintesi della Metafisica è un’impresa sicuramente ardua: mi accingo a tentarla, contando sul sostegno di quanto su di essa ha scritto Giovanni Reale, uno dei maggiori storici della filosofia antica del nostro tempo, vissuto fra il 1931 e il 2014.
La definizione di metafisica e la questione delle cause
Aristotele stesso fornì ben quattro definizioni di “filosofia prima” (o metafisica) direttamente dipendenti dall’individuazione dell’oggetto da essa indagato: 1) le cause e i principi primi; 2) l’essere in quanto essere; 3) la sostanza; 4) Dio. In tal modo, lo Stagirita teneva conto delle tappe fondamentali del percorso compiuto dal pensiero precedente: infatti, la ricerca del principio primo (archè) era stata la principale preoccupazione dei filosofi naturalisti a partire da Talete; Parmenide, a sua volta, aveva messo in primo piano il problema dell’essere e Platone lo aveva ulteriormente approfondito; il superamento del monismo eleatico aveva poi reso necessario stabilire quale fosse, fra i tanti, l’essere più vero, quello che potremo definire anche con la parola “sostanza”; infine, in un siffatto contesto storico e teoretico, non si poteva eludere la questione di Dio e del Divino, la quale diveniva, anzi, la più rilevante proprio dal punto di vista della metafisica. Una volta divise le scienze in “poietiche”, che hanno come scopo il fare e il produrre, “pratiche”, che mirano alla perfezione etica, e “teoretiche”, che vanno alla ricerca del sapere per se stesso, Aristotele afferma che queste ultime detengono la massima dignità e un indiscutibile primato rispetto alle altre, e sostiene pure che la più alta di tutte è la metafisica, dal momento che, come si è visto, essa indaga gli oggetti più elevati. Scrive il filosofo: “Tre sono di conseguenza le branche della filosofia teoretica: la matematica, la fisica e la teologia. Non è dubbio, infatti, che se mai il divino esiste, esiste in una realtà di quel tipo. E non è dubbio, anche, che la scienza più alta deve avere come oggetto il genere più alto di realtà. E mentre le scienze teoretiche sono di gran lunga preferibili alle altre scienze, questa è, a sua volta, di gran lunga preferibile alle altre due scienze teoretiche” (Metafisica, VI, 1, 1026 a 18-23). Afferma ancora Aristotele a tale proposito: “Essa [la metafisica], infatti, fra tutte le scienze è la più divina e più degna di onore. Ma una scienza può essere divina solo in questi due sensi: o perché essa è scienza che Dio possiede in grado supremo, o, anche, perché essa ha come oggetto le cose divine. Ora solo la sapienza [la metafisica] possiede ambedue questi caratteri: infatti, è convinzione a tutti comune che Dio sia una causa e un principio, e, anche, che Dio, o esclusivamente o in grado supremo, abbia questo tipo di scienza” (Metafisica, I, 2, 983 a 4-10). Secondo il filosofo di Stagira, la metafisica non ha scopi pratici ed empirici, e ciò, lungi dal costituire un limite, conferisce a essa una straordinaria libertà che la rende valida di per sé, figlia dello stupore che l’uomo prova dinanzi al mondo e che lo spinge a voler conoscere il significato ultimo della realtà. La metafisica è pura contemplazione e, per tale ragione, eccelle e si colloca al di sopra di ogni altro sapere finalizzato a ottenere qualche risultato tangibile. Essa accomuna l’uomo a Dio perché gli fa sperimentare il sapere totalmente disinteressato: si tratta di un’ esperienza che permette all’essere umano di realizzare appieno la sua vocazione più autentica e che rappresenta il vertice della felicità, il cui raggiungimento costituisce il fine primario dell’esistenza.
Iniziando a esaminare la questione delle cause, Aristotele afferma che esse sono quattro: formale, materiale, efficiente e finale. La prima corrisponde all’essenza delle cose, la seconda è rappresentata da ciò di cui una realtà è fisicamente costituita (il bronzo di una statua, per esempio), la terza è all’origine del movimento e del cambiamento dello stato delle cose (come nel caso di un calcio a una palla), la quarta, infine, è lo scopo per il quale ogni realtà è o diviene (per lo Stagirita è questa la causa più importante, essendo egli convinto che qualunque ente trovi il suo significato più vero nella realizzazione dello scopo per il quale esiste). L’argomento delle cause rappresenta una sorta di anello di congiunzione tra la dimensione fisica e quella metafisica: l’acquisizione nuova e fondamentale che caratterizza la trattazione svolta a questo proposito nella Metafisica consiste soprattutto nella sua apertura “teologica”, ossia nel suo pervenire alla causa ultima di ogni movimento, al Motore immobile. Una valida sintesi di quanto Aristotele sostiene riguardo alla metafisica come “aitiologia”, ovvero come dottrina delle cause, è contenuta nelle seguenti sue considerazioni: “Il sapere e il conoscere che hanno come fine il sapere e il conoscere medesimi, si trovano soprattutto nella scienza di ciò che è in massimo grado conoscibile; infatti, colui che desidera la scienza per se medesima, desidera soprattutto quella che è scienza in massimo grado, e tale è appunto la scienza che è in massimo grado conoscibile. Ora conoscibili in massimo grado sono i primi principi e le cause; infatti mediante essi e muovendo da essi si conoscono tutte le altre cose, mentre, viceversa, essi non si conoscono mediante le cose che sono loro soggette. E la più elevata delle scienze, quella che deve comandare sulle dipendenti, è la scienza che conosce il fine per cui viene fatta ogni cosa; e il fine, in ogni cosa, è il bene, e, in generale, nella natura tutta, il fine è il sommo bene” (Metafisica, I, 2, 982 a 30 – b 10).
La dottrina dell’essere e il problema della sostanza
Si è detto che Aristotele definisce la metafisica anche “dottrina dell’essere in quanto essere”: è dunque di fondamentale importanza soffermarsi a indicare gli aspetti fondamentali dell’ontologia aristotelica. Innanzitutto, va detto che l’espressione “essere in quanto essere” denota, come sostiene Giovanni Reale, “la molteplicità stessa dei significati dell’essere e la relazione che formalmente li lega e che fa sì, appunto, che ciascuno sia essere”: ciò lo possiamo dire anche in altro modo, ossia affermando che l’essere in quanto essere è la sostanza. Merita una sottolineatura speciale la convinzione di Aristotele secondo cui l’essere esprime una molteplicità di significati, convinzione che è alla base della sua ontologia e che lo proietta oltre le aporie dell’eleatismo e le difficoltà proprie del trascendentismo platonico: per lo Stagirita l’essere è originariamente e strutturalmente molteplice. Tale molteplicità di significati è sintetizzata da Aristotele distinguendo le seguenti quattro possibilità: l’essere nel senso dell’accidente, quando esso non esprime l’essenza di ciò a cui si riferisce (per esempio, se affermo “quell’uomo è architetto”, architetto è un dato accidentale, perché un uomo può essere anche medico, ingegnere ecc.); l’essere per sé, che indica l’essenza o, per usare un termine tipicamente aristotelico, la sostanza (a questo riguardo, bisogna ricordare che, in taluni casi, come essere per sé Aristotele indica anche tutte le categorie: oltre la sostanza, la qualità, la quantità, la relazione, l’agire, il patire, il dove e il quando. Le categorie rappresentano i significati in cui si divide l’essere, sono i “generi” supremi dell’essere); vi è poi l’essere come vero, che è puramente mentale, al quale viene opposto il non-essere come falso; infine, abbiamo il significato dell’essere come potenza e atto: la potenza indica la possibilità, la capacità di attuarsi (come nel caso della ghianda che possiamo considerare una quercia in potenza), mentre l’atto è la realizzazione della potenza stessa: si tratta di concetti importantissimi nell’economia della speculazione aristotelica, in quanto permettono allo Stagirita di risolvere il problema del movimento e del mutamento, problema che, come è noto, aveva creato gravi difficoltà ai filosofi precedenti. E’ possibile affermare che tutti i diversi significati dell’essere presuppongono le categorie, le quali, però, non stanno tutte sul medesimo piano: in particolare, ve n’è una che occupa il primo posto e dalla quale tutte le altre dipendono, come afferma con precisione Aristotele stesso: “E in verità, ciò che dai tempi antichi, così come ora e sempre, costituisce l’eterno oggetto di ricerca e l’eterno problema: «che cos’è l’essere», equivale a questo: «che cos’è la sostanza» […]; perciò anche noi, principalmente, fondamentalmente e unicamente, per così dire, dobbiamo esaminare che cos’è l’essere inteso in questo significato” (Metafisica, VII, 1, 1028 b 2-7).
Il tema della sostanza è una dei più delicati e complessi di tutta la Metafisica aristotelica. Al centro di esso sta il problema, risalente al dibattito filosofico che precedette Aristotele, relativo alla questione se le sostanze esistenti siano soltanto quelle materiali, come pensavano i naturalisti, o vi siano anche sostanze soprasensibili, come sostenevano i platonici. Aristotele ritiene che ambedue le posizioni contengano una parte di verità: infatti, a suo parere, sono sostanza sia la forma, sia la materia, sia il loro composto, che egli definisce “sinolo” (“tutt’uno”). Dunque, la sostanza è la forma, intesa non come caratteristica visibile bensì come intima natura delle cose (nel caso dell’uomo, l’anima). La forma – prosegue il filosofo di Stagira – deve pur informare qualcosa, ovvero un corpo materiale, e per tale motivo anche la materia è a suo modo sostanza. Da ciò risulta chiaro che sostanza è pure il composto di forma e materia, quello che Aristotele definisce, appunto, “sinolo”. Inoltre egli sembra proporre cinque caratteristiche che determinano la sostanza: il fatto che non inerisce ad altro e non si predica di altro, che ha una sussistenza autonoma, che è qualcosa di determinato (“tode ti” in greco, traducibile con l’espressione “il questo qui”, per indicare l’individuo), che è unitaria e non molteplice, che è in atto. Aristotele non ha chiarito in maniera inequivocabile se dobbiamo ritenere che sostanza in senso eminente sia la forma o il “sinolo”: la prima lo sarebbe dal punto di vista più squisitamente metafisico, mentre il secondo da quello della constatazione empirica. Possiamo tuttavia affermare che sia l’una che l’altro sono sostanza a pieno titolo, anche se la forma, in un certo senso, lo è per eccellenza, in quanto è essa che, strutturando la materia, fa sussistere il “sinolo” medesimo. Al primato della forma corrisponde il primato dell’atto. L’atto, infatti, come si è detto, è realizzazione, mentre la potenza, proprio perché tale, non si è ancora attuata. Conclusivamente, per comprendere meglio quale grande importanza Aristotele annetta alla sostanza può essere utile la seguente citazione: “Così, dunque, anche l’essere si dice in molti sensi, ma tutti in riferimento ad un unico principio: alcune cose sono dette esseri perché sono sostanze, altre perché affezioni della sostanza, altre perché vie che portano alla sostanza, oppure perché corruzioni, o privazioni, o qualità, o cause produttrici o generatrici sia della sostanza, sia di ciò che si riferisce alla sostanza, o perché negazioni di qualcuna di queste, ovvero della sostanza medesima […] Dunque, se questo primo è la sostanza, il filosofo dovrà conoscere le cause e i principi della sostanza”. (Metafisica, IV, 2 1003 b 5-10; 17-19)
La teologia
La riflessione sull’atto conduce Aristotele a interessarsi dell’Atto puro, dell’Atto primo, e ad aprire così l’ultimo e importantissimo capitolo della sua Metafisica, quello riguardante Dio, quello che fa sì che la metafisica aristotelica presenti anche i caratteri di un’autentica, altissima forma di teologia. Il Nostro fu decisamente convinto dell’esistenza della sostanza soprasensibile. Una prova di tale esistenza è direttamente collegata al movimento, che Aristotele considera eterno al pari del tempo. Tale eternità presuppone un Principio che, come causa eterna, è all’origine del movimento stesso. Inoltre, questo principio deve essere immobile, altrimenti non potrebbe essere la causa prima del muoversi delle varie altre sostanze e dell’intero universo: si tratta, dunque, di un motore immobile. Ancora: questo principio deve essere pienamente realizzato e privo di ogni potenzialità, deve essere, cioè, un atto puro. Riepilogando: siccome c’è un movimento eterno è necessario che ci sia un Principio eterno che lo produce e che sia a sua volta eterno, immobile e totalmente attuato, ovvero che sia atto puro. Il motore immobile produce il movimento come causa finale, ovvero per attrazione, come l’oggetto di amore attrae l’amante. Dobbiamo affermare che ci troviamo di fronte a una causa finale e non a una causa efficiente, o, al massimo, che tale causa è efficiente soltanto in virtù del suo essere finale. Il Dio aristotelico non detiene le caratteristiche del Creatore e il mondo non ha avuto un inizio, ma è stato sempre qual è. Nel rispondere alla domanda riguardante il genere di vita vissuto dal Principio primo, lo Stagirita non manifesta dubbi e scrive pagine di straordinaria intensità: “Il suo modo di vivere è il più eccellente: è quel modo di vivere che a noi è concesso solo per breve tempo. E in quello stato Egli è sempre. A noi questo è impossibile, ma a Lui non è impossibile, poiché l’atto del suo vivere è piacere. E anche per noi veglia, sensazione e conoscenza sono in sommo grado piacevoli proprio perché sono atto e, in virtù di questo anche speranze e ricordi. […] Se, dunque, in questa felice condizione in cui noi ci troviamo talvolta, Dio si trova perennemente, è meraviglioso; se Egli si trova in una condizione superiore, è ancor più meraviglioso. E in questa condizione Egli effettivamente si trova. Ed Egli è anche vita, perché l’attività dell’intelligenza è vita, ed Egli è appunto quell’attività. E la sua attività, che sussiste di per sé, è vita ottima ed eterna. Diciamo, infatti, che Dio è vivente, eterno ed ottimo; cosicché a Dio appartiene una vita perennemente continua ed eterna: questo, dunque, è Dio”. (Metafisica, XII, 7, 1072 b 13-18 e 24-30) Dio pensa perché questa è l’attività che, essendo la più elevata, propriamente gli compete; e pensa se stesso, essendo Egli l’oggetto più alto pensabile e non potendo fermarsi a un gradino più basso. Ecco perché Aristotele definisce Dio “pensiero di pensiero”, cioè quella realtà che pensa se stessa che pensa, ovvero che compie l’attività più sublime avendo per oggetto l’oggetto più sublime. In questo contesto si situa pure la questione del rapporto che il Dio aristotelico intrattiene con la realtà mondana. Questo Dio, che è assolutamente perfetto e che si autocontempla eternamente, può avere relazioni con il mondo e, in particolare, con gli uomini? Il filosofo non ha fornito una risposta chiara ed esauriente al riguardo: sembra tuttavia certo che Egli non possa interessarsi degli esseri umani. Il Dio aristotelico non nutre alcuna attrattiva per gli individui, essendo Egli completamente realizzato e pienamente beato e perciò del tutto autosufficiente. Il Dio di Aristotele è amato ma non amante: il pensiero classico, seppure in una delle sue manifestazioni più eccelse qual è quella rappresentata dalla Metafisica aristotelica, non è riuscito ad andare oltre e a pensare all’esistenza di un Dio che crea il mondo e lo ama.
Bibliografia
E. Berti, Profilo di Aristotele, Studium, Roma 1979
AA.VV., Aristotele. Perché la Metafisica, a cura di A. Bausola e G. Reale, Vita e Pensiero, Milano 1994.
F. Brentano, Sui molteplici significati dell’essere secondo Aristotele, tr. it., Vita e Pensiero, Milano 1995
Brani antologici proposti:
L'ascesa al Primo Motore attraverso l'analisi del moto, Libro XII, 7-9
Il ruolo della ricerca filosofica e della metafisica nella conoscenza del reale, Libri II, 1; IV, 1; VI, 1