Struttura e contenuto dell’opera
La cena de le Ceneri, è il primo dei dialoghi cosmologici di Giordano Bruno, composto nel 1584 durante il periodo che l’autore trascorse in Inghilterra dopo l’esperienza francese. Egli infatti si rifugiò a Londra dall’aprile del 1583 sino alla fine del 1585. Insieme con il De la causa principio et uno e il De l’infinito universo e mondi, La cena presenta il nucleo della filosofia naturale bruniana, affrontando i temi dell’infinità del cosmo e dell’infinità dei mondi, e sostenendo le teorie astronomiche copernicane.
L’opera è uno dei cosiddetti dialoghi italiani[1] di Bruno ed è dedicata a Michel de Castelnau, ambasciatore francese a Londra, mecenate e protettore del Nolano. La forma dialogica è una scelta letteraria e stilistica con cui l’autore intende ricostruire la vivacità e l’immediatezza del discorso filosofico, tratteggiando i contorni di diversi personaggi, in modo da far sì che il dibattito sia caratterizzato da una polivocità di temi e di posizioni, che tendono sempre a mettere in risalto la coerenza logica e la fondatezza metafisica del pensiero bruniano.
La forma dialogica rimanda direttamente alla scuola platonica e, in primo luogo, a Platone stesso, col quale il dialogo assurge a forma letteraria della filosofia. Giordano Bruno, pertanto, aderisce alla tradizione platonica condividendone anche alcuni aspetti stilistici e formali.
Come chiarisce il titolo stesso dell’opera, le vicende narrate avrebbero avuto luogo la sera del Mercoledì delle Ceneri del 1584, durante un banchetto allestito dal nobiluomo Fulke Greville– proprio nel giorno dalla Chiesa dedicato alla penitenza e al digiuno – col desiderio di discutere insieme ai suoi ospiti delle questioni più importanti della filosofia. I convenuti erano Bruno medesimo, Teofilo (ovvero “colui che ama Dio”; personaggio di fantasia presente anche in altri dialoghi, egli espone le tesi del Nolano ed è il narratore), Giovanni Florio (precettore di lettere, di religione valdese), gli accademici oxoniensi Torquato e Nundino (nel racconto di Bruno emblemi della pedanteria che egli intende contrastare e mettere in ridicolo), e un anonimo cavaliere.
Teofilo ricorda e racconta quanto accadde durante la cena e i suoi nuovi interlocutori sono Smitho (un amico di Bruno), Prudenzio (saccente accademico) e Frulla (personaggio un poco frivolo e goliardico). Con Torquato, Nundino e Prudenzio l’autore stabilisce fin da subito l’obiettivo polemico della sua narrazione, ossia gli aristotelici e gli scolastici delle accademie, i quali per Bruno si coprono “sotto la bandiera di Aristotele” (p.86)[2], e in generale tutti i falsi filosofi, che si allontanano dall’“antiqua vera filosofia” (p.19) per divenire “pappagalli d’Aristotele, Platone, et Averroe dalla filosofia de quali son promossi poi ad esser teologi” (p.79). Come scrive nel frontespizio del Candelaio, il Nolano si considera “academico di nulla academia”, e si scaglia contro i dottori di Oxford – luogo dal quale fu allontanato poco dopo aver iniziato a tenere un ciclo di lezioni –, ritenendo che essi ragionino “come colui che quello che dice, lo dice per una fede e per una consuetudine, e quello che niega, lo niega per una dissuetudine e novità” (p.64).
La cena de le Ceneri si compone di cinque dialoghi, preceduti da alcuni versi iniziali e dalla dedica “Proemiale epistola”; all’inizio dell’opera è presentato l’argomento di ogni dialogo, come l’autore usa fare anche in altri scritti. Nella prima sezione, il tema centrale è la discussione intorno alle teorie copernicane proposte nel De revolutionibus orbium coelestium; nel secondo dialogo è narrato, in modo molto colorito, il viaggio dei commensali verso il luogo dell’appuntamento, e Londra viene dipinta come una città lugubre e pericolosa, popolata da persone rozze e incolte; il terzo dialogo esamina il problema del moto sulla Terra e della Terra; la quarta parte è dedicata a “raggioni ed inconvenienti teologali” (p.8), e riflette sul ruolo della Sacra Scrittura nelle questioni cosmologiche, mettendo al centro il tema della materia eterna universale.
Il rapporto con Copernico
“Lui avea un grave, elaborato, sollecito e maturo ingegno: uomo che non è inferiore a nessuno astronomo che sii stato davanti a lui” (p.18). Così il Nolano scrive di Niccolò Copernico, profondendo nei suoi confronti parole di apprezzamento e condividendone le tesi astronomiche (ancor più lo scienziato sarà apprezzato nel capitolo III del De immenso).
Ne La cena l’autore contrasta la concezione geocentrica e sostiene che i corpi celesti – tra cui la Terra – si muovono, mentre il cielo resta fermo e il variare che lo coinvolge è soltanto un moto apparente dovuto alla rotazione dei pianeti. Bruno dichiara la propria adesione al copernicanesimo, benché la sua cosmologia, così come l’intera filosofia nolana, sia segnata da una forte connotazione magico-ermetica, soprattutto per quanto riguarda il metodo di indagine rispetto alla natura[3].
Tuttavia, nel XVI secolo non è ancora possibile distinguere nettamente la nascente mentalità scientifica dalla cultura magico-ermetica; a questo proposito, resta comunque dibattuta la questione dell’influenza ermetica subìta da Copernico, in quanto è probabile che in Italia l’astronomo polacco abbia avuto modo di recepire il pensiero di Cusano e, più in generale, i temi del neoplatonismo. Infatti, alcuni elementi fondamentali dell’ipotesi astronomica copernicana manifestano una marcata impronta ermetica e pitagorica: l’affermazione della centralità del sole e la ricerca dell’armonia matematica che governa il cosmo sferico sono espressione di un orientamento culturale – prima che di una teoria scientifica – derivante dall’impostazione ermetica rinascimentale.
Bruno considera l’universo illimitato e innumerevoli i mondi in esso contenuti, i quali scaturiscono dalla materia infinita, gravida di ogni forma e che tutte le contiene. In tal senso, egli reinterpreta il concetto di infinito spaziale, intendendolo non primariamente come una nozione matematica, e dunque di carattere quantitativo, ma come una nozione metafisica, ovvero di carattere qualitativo. Infatti, l’Uno-Tutto è qualitativamente infinito e contiene al suo interno una quantità infinita di mondi; pertanto la costante ed eterna generazione delle forme individuali è governata dal vitalismo universale e dalla vicissitudine, non essendo soggetta a regole geometrico-matematiche.
Da questa impostazione cosmologica e ontologica emerge una radicale adesione alla tradizione ermetica rinascimentale, che sulla scorta dei concetti neoplatonici di microcosmo e macrocosmo asserisce l’identità strutturale tra l’uomo, costituito da un corpo e da un’anima – l’anima individuale – e la Terra, costituita del corpo della physis e dall’anima del mondo, come sarà spiegato ampiamente nel De la causa.
Pur apprezzando l’ipotesi di Niccolò Copernico, il Nolano muove una critica importante al metodo copernicano: l’uso della geometria quale strumento fondamentale per indagare i moti celesti avrebbe portato l’astronomo a non entrare nella verità della natura e a non andare oltre il semplice meccanismo fisico-geometrico che regge l’universo. Lo scienziato, dunque, non sarebbe stato capace di avvicinarsi alla dimensione divina del cosmo, ma si sarebbe fermato al piano delle scienze empiriche.
Infatti, nel dialogo I de La cena, Copernico è descritto come “più studioso de la matematica che de la natura”, a motivo di “quel suo più matematico che naturali discorso” (p.18). Il Nolano sembra in qualche modo distante dal nuovo orientamento scientifico, che in età moderna si stava affermando come anticipatore dell’imponente rivoluzione scientifica che rifonderà le scienze naturali. La ricerca filosofica e cosmologica di Bruno si inscrive, nella tradizione ermetica rinascimentale, sebbene egli sostenga il nuovo modello eliocentrico di Copernico, contrastando con convinzione l’antico geocentrismo di stampo tolemaico.
Per un infinito metafisico: la materia una e divina
Giordano Bruno riconosce la materia e la forma come due principi divini posti sullo stesso piano ontologico, che determinano in una stessa realtà l’unità perfetta tra la potenza e l’atto. È quindi negata la possibilità per la materia di accogliere in sé la forma – e le infinite forme accidentali –, perché questa strada condurrebbe a un’unità mediata dal processo del divenire: i principi avrebbero due realtà ontologiche diverse e la materia prima risulterebbe superiore alla forma, che sarebbe un prodotto della materia interno alla materia stessa.
Il movimento delle forme che si alternano nel processo di generazione e di corruzione degli enti è mosso da “la vicissitudine de la rinovazione de le parti” (p.72), secondo un ciclo retto da una forza cosmica che segna l’impetuoso alternarsi dei contrari nel sostrato materiale che accoglie ogni determinazione. Al logos della tradizione greca Bruno sostituisce la vicissitudine, attribuendo al divenire non un ordine razionale esterno ad esso, ma un movimento dettato da una forza intrinseca al sostrato, da un principio determinato e determinante rispetto alla natura. La vicissitudine, infatti, muove il divenire in modo necessitato, pur non seguendo una consequenzialità logica di tipo causa-effetto. Il logos bruniano, di conseguenza, non può essere interpretato come un principio intellettualistico, perché la vicissitudine prevede un andamento ciclico, secondo un’alternanza che provoca il prevalere ora di un contrario, ora di un altro, e quindi “non è cosa alla quale naturalmente convegna esser eterna, eccetto che alla sustanza, che è la materia, a cui non meno conviene essere in continua mutazione” (p.99).
Il tema dell’infinito è il punto nodale del pensiero di Giordano Bruno, che egli affronta con uno stile molto diverso da quello geometrizzante degli astronomi: tutta la sua filosofia è una teoria dell’infinito, intesa sia come riflessione metafisica che come sistema cosmologico.
Nel dialogo III de La cena de le Ceneri Teofilo afferma: “il Nolano, il quale vuole il mondo essere infinito, e però non esser corpo alcuno in quello, al quale simplicemente convegna essere nel mezzo, o nell’estremo” (p.63). Anche da un punto di vista astronomico la necessità di un universo aperto, popolato da infiniti mondi, per Bruno si giustifica con l’assunto teologico per cui dalla traboccante potenza illimitata della causa prima si genera un effetto altrettanto inesauribile. Alla fine dal dialogo I l’autore definisce l’universo come “l’infinito effetto dell’infinita causa, il vero e vivo vestigio de l’infinito vigore” (pp. 22-23). Poiché Dio è l’atto in sé, il mondo – suo simulacro – si presenta come una continua attualizzazione di tutte le forme possibili, inerenti a una materia infinita e ricca degli innumerevoli enti che si alternano senza sosta nel processo del divenire: “sappiamo certo che, essendo effetto e principiato da una causa infinita e principio infinito, deve, secondo la capacità sua corporale e modo suo, essere infinitamente infinito” (p. 64).
L’affermazione dell’infinito in atto è il segno della distanza del pensiero nolano rispetto alla filosofia scolastica. Bruno sostiene che vi è sempre qualcosa al di fuori di un corpo, e confuta la tesi aristotelica secondo cui il cosmo è perfetto perché concluso, e dunque finito. Egli asserisce invece, che un universo limitato è segnato dal disvalore della privazione.
Giordano Bruno propone una visione immanentistica della natura, dichiarando che l’infinità divina e l’infinità della materia coincidono fino a costituire l’Uno-Tutto, unione dinamica di forma e materia, ossia di natura naturans e di natura naturata, e risultato dell’attualizzazione infinita dell’illimitata potenza di Dio. Pertanto, il Nolano accetta la coesistenza di potenza e atto nel principio divino, e ciò determina che i singoli enti contingenti, che emergono dal ciclo vicissitudinario del divenire e in esso ritornano, sono parti “del” Tutto, non solo parti “nel Tutto”, con la conseguenza che Dio stesso si identifica, in ultima istanza, con l’infinità della materia generata e generante[4].
Massimo cosmologico e minimo fisico
Più in generale, come sarà particolarmente chiaro nel De triplici, minimo et mensura, la riflessione bruniana sull’infinito si declina in modo duplice: da una parte analizza l’infinitamente grande – ovvero la dimensione cosmologica a cui abbiamo fatto riferimento –, dall’altra coinvolge l’infinitamente piccolo – in senso fisico e metafisico. Interlocutore privilegiato del Nolano è Aristotele, che egli ritiene all’origine di ogni errore logico e filosofico che oscura la ricerca della verità, lasciando l’uomo nell’ignoranza.
Giordano Bruno considera la grandezza una struttura discreta e gli atomi gli elementi indivisibili da cui è costituita la materia infinita. Poiché gli enti fisici sono formati dal processo di aggregazione e disgregazione degli stessi atomi, il filosofo può sostenere che tutto è in tutto e che i mondi esistenti sono formati da un’unica materia, sono mossi dalla forza vitalistica della vicissitudine e sono retti dalle stesse leggi che danno forma al nostro mondo.
La teoria aristotelica del minimo naturale distingue la divisibilità della materia dalla divisibilità della forma. Per lo Stagirita, l’indivisibilità esiste solo nei movimenti qualitativi, mentre dal punto di vista della quantità non è data una grandezza minima. Bruno non recupera la distinzione aristotelica tra divisibilità astratta del numero e divisibilità concreta della sostanza: mentre Aristotele nega l’infinità attuale rispetto al massimo, ma la accetta come infinità positiva nell’illimitatamente piccolo, per Bruno il massimo e il minimo coincidono, anche se l’infinito attuale è ammesso solo rispetto alla dimensione cosmologica. Così, la contraddittorietà del pensiero bruniano si manifesta sia dal punto di vista quantitativo che da quello qualitativo.
Nel primo caso, Bruno estende le dimensioni del cosmo sino a descrivere un universo infinito, ma non applica la stessa categoria logica alle dimensioni più piccole. L’indagine naturale perviene dunque al minimo fisico, individuandolo nell’atomo, che si oppone alla struttura di un cosmo illimitatamente aperto, poiché “nella fisica divisione d’un corpo finito è pazzo chi crede farsi progresso in infinito, o l’intenda in atto o in potenza” (p. 61).
Nel secondo caso, pur giustificando l’infinito cosmologico in atto con l’incontenibile potenza creatrice di Dio, che produce incessantemente tutte le forme possibili, il Nolano nega che la stessa infinità divina possa essere applicata all’infinitamente piccolo. In tal modo, Bruno afferma la necessità teologica dell’infinitamente grande e fa del minimo il limite stesso di Dio.
Influenza dell’opera sul dibattito scientifico moderno e contemporaneo
Giordano Bruno ha esercitato sulla cultura d’età moderna un’influenza importante, risultando uno tra i più discussi e citati filosofi del Rinascimento. In particolare, spesso la storiografia ha esaminato il rapporto tra il Nolano e la rivoluzione scientifica, fino a vagliare l’eventuale lascito dell’autore alla scienza contemporanea; in tal senso, La cena de le Ceneri è certamente una delle sue opere più conosciute, a motivo delle tesi cosmologiche e ontologiche in essa presentate.
Come abbiamo considerato, Bruno intuisce alcuni dati importanti che saranno al centro del nuovo dibattito astronomico e che col tempo si dimostreranno come esatti e veri: anzitutto l’affermazione del geocentrismo e l’allargarsi delle dimensioni dell’universo, come attestato ne La cena.
Tuttavia, il Nolano guadagna questi risultati non grazie all’uso del metodo osservativo, bensì mediante la speculazione filosofica. Nel dialogo non rintracciamo un procedere sperimentale, benché talvolta – o spesso – questa opera e il suo autore siano stati indicati come riferimenti per la scienza moderna. Inoltre, non può essere sottovalutata la forte matrice ermetica del pensiero bruniano, presente anche nel primo dei dialoghi londinesi.
Per Giordano Bruno, dunque, la tesi dell’infinità del cosmo e dei cosmi non è tanto una teoria scientifica, quanto una teoria metafisica e quindi, filosofica e teologica. Egli non supporta le proprie argomentazioni con dati sperimentali, non fornisce calcoli matematici derivanti dall’osservazione del cielo, e non propone alcun modello per giustificare l’ampliamento del cosmo rispetto al tradizionale sistema tolemaico. Piuttosto, come prova della fondatezza della propria posizione, Bruno propone la non dimostrabilità della tesi avversaria, asserendo che “non è possibile giamai di trovar raggione semiprobabile, per la quale sia margine di questo universo corporale, e per conseguenza ancora li astri, che nel suo spacio si contengono, siino di numero finito; ed oltre, essere naturalmente determinato centro e mezzo di quello” (p. 64). Il Nolano, peraltro, resta estraneo al dibattito astronomico che animava la seconda metà del XVI secolo e pare non interessato a corroborare la propria tesi con il supporto delle teorie astronomiche del tempo.
Bibliografia essenziale consigliata
M. Ciliberto, Giordano Bruno, Laterza, Roma-Bari 2000.
H. Gatti, The Renaissance Drama of Knowledge: Giordano Bruno in England, Routledge, London-New York 2013.
S. Mancini, La sfera infinita. Identità e differenza nel pensiero di Giordano Bruno, Mimesis, Milano 2000.
F. Meroi (ed.), La mente di Giordano Bruno, Olschki, Firenze 2004.
[1] Cfr. anche: De la causa, principio et uno; De l’infinito, universo e mondi; Spaccio de la bestia trionfante; Cabala del cavallo Pegaseo con l’aggiunta dell’Asino Cillenico; De gli eroici furori.
[2] Per le citazioni dall’opera di Bruno, La Cena de le Ceneri, si farà riferimento all’edizione a cura di A. Guzzo, Mondadori, Milano 2009.
[3] A tal proposito, cfr. innanzitutto gli studi di Frances Amalia Yates, che per prima ha considerato il rapporto tra Bruno e l’ermetismo: Giordano Bruno e la cultura europea del Rinascimento, Laterza, Roma-Bari, 2006; Giordano Bruno e la tradizione ermetica, Laterza, Roma-Bari, 2010 (indichiamo qui le ristampe delle traduzioni italiane).
[4] Cfr. S. Mancini, Congetture su Dio. Singolarità, finalismo, potenza nella teologia razionale di Nicola Cusano, Mimesis, Milano, 2014, p. 40.
Brani antologici proposti:
Selezione di testi sulla pluralità dei mondi, da De l’infinito, universo et mondi e da La cena de le Ceneri