God and the New Physics, Penguin Books, London 1983
L'Autore e lo scopo del libro
Paul Davies è nato a Londra nel 1946. Dopo aver insegnato matematica al King's College di Londra è stato professore di fisica teorica a Cambridge, a Newcastle upon Tyne e ad Adelaide (Australia). Ha successivamente ricoperto una cattedra di Filosofia Naturale presso l'Australian Centre for Astrobiology, nella Macquarie University a Sidney. Come ricercatore si è occupato di problemi legati alla quantizzazione della gravità, alla fisica dei black holes e agli effetti quantistici della curvatura dello spazio-tempo, approdando infine all'astrobiologia. Fin dagli inizi della sua attività Paul Davies si è imposto all'attenzione del pubblico per le sue doti di valente divulgatore, anche in programmi radiofonici e televisivi, prediligendo quegli aspetti della scienza contemporanea, principalmente della fisica e della cosmologia, che offrono collegamenti con la filosofia e la religione. Il graduale, continuo coinvolgimento in queste ultime tematiche gli ha meritato nel 1995 il Premio Templeton per il progresso della scienza e della religione. Con stile attraente e vivace (tale da guadagnarsi una nomina come Fellow della Royal Society of Literature nel 1999), Davies è capace di guidare anche il lettore non esperto verso la comprensione di quei fenomeni e di quegli scenari fisici che hanno più fortemente trasformato la nostra visione della natura, recando con sé importanti conseguenze anche per altri ambiti del sapere. Davies è divulgatore assai prolifico e tutte le sue maggiori opere sono tradotte in lingua italiana, generalmente subito dopo la loro pubblicazione in lingua originale, molte delle quali oggetto di diverse edizioni e varie ristampe. Vanno ricordate: L'universo che fugge (Mondadori, Milano 1979), Universi possibili (Mondadori, Milano 1981), Sull'orlo dell'infinito (Mondadori, Milano 1985), Superforza (Mondadori, Milano 1986), Il cosmo intelligente (Mondadori, Milano 1989), La mente di Dio (Mondadori, Milano 1993), Siamo soli? Implicazioni filosofiche della scoperta della vita extraterrestre (Laterza, Roma-Bari 1994), Gli ultimi tre minuti (Sansoni, Firenze 1995), I misteri del tempo (Mondadori, Milano 1996), Un solo universo o infiniti universi? (Di Renzo, Roma 2002), e ancora The Fifth Miracle. The Search for the Origin and Meaning of Life (1999) e How to Build a Time Machine (2001).
Il volume Dio e la nuova fisica apparve originariamente nel 1983. Disponibile già l'anno successivo in edizione italiana, fu successivamente più volte ristampato (ne citeremo qui i brani dall'edizione più recente, Oscar Saggi Mondadori, Milano 2002) e rappresenta probabilmente una delle opere più emblematiche dello scienziato e divulgatore anglo-australiano. Inizialmente critico verso le riflessioni della filosofia e della teologia sui grandi temi del cosmo e dell'esistenza, è a partire da quest'opera quando l'A. manifesta la consapevolezza che la visione scientifica del mondo si mescola inevitabilmente con interrogativi di ordine filosofico e religioso, sebbene egli sia principalmente preoccupato di valutare quali ripercussioni la scienza abbia sulla filosofia e sulla religione e non viceversa. Siamo dell'avviso che l'A. sia stato protagonista di un percorso intellettuale che lo ha condotto, negli anni successivi alla pubblicazione di questo volume, ad affrontare le tematiche interdisciplinari con profondità crescente. Ormai verso la metà degli anni 1990, egli giunge ad un riconoscimento esplicito dell'apertura che la conoscenza scientifica ha verso un fondamento filosofico e verso la stessa Trascendenza, e dell'importanza che la religione riveste per la genesi delle idee e il futuro dell'uomo sul pianeta. Da questo punto di vista, Dio e la nuova fisica rappresenta ancora una riflessione transitoria ed il modo di riferirsi alla nozione di Dio conoscerà una progressiva maturazione nelle opere successive. Ciononostante, essa ha costituito, e costituisce tuttora, una fonte di riferimento per gran parte degli autori che riflettono sui rapporti fra scienza e religione, probabilmente anche a motivo dell'esplicita menzione di Dio nel suo stesso titolo, cosa divenuta oggi quasi di moda, ma che all'inizio degli anni 1980 era da considerarsi una novità per un libro di divulgazione scientifica. È l'influenza esercitata da questo volume, e non tanto la maturità delle riflessioni filosofiche che vi si contengono, non scevre, al contrario, da ingenuità e da imprecisioni, a suggerirci di darne menzione nelle pagine di questa rubrica di orientamento bibliografico.
Sono tre le considerazioni di sintesi suggerite dalla lettura dell'opera. In primo luogo va riconosciuta l'abilità di Davies nel mettere bene in luce l'ampia gamma di ambiti della ricerca scientifica ove le conoscenze acquisite paiono interagire o comunque confrontarsi con quanto la religione tradizionalmente afferma al parlare di Dio e dei suoi rapporti con il mondo: «questo libro non vuole trattare di argomenti religiosi: si occupa, piuttosto, di valutare l'impatto esercitato dalla nuova fisica su questioni che un tempo erano esclusivamente di pertinenza della religione» (p. 10) In secondo luogo, buona parte delle riflessioni proposte dall'A. offrono un esempio paradigmatico di come gli scienziati possano condurre tale confronto con insufficiente rigore epistemologico, correndo facilmente il rischio di attribuire alla teologia (come scienza) quanto appartiene invece al modo comune o popolare di parlare di Dio, imbattendosi in opposizioni fra scienza e religione che sono assai spesso il frutto di un'incauta collocazione di Dio sul medesimo piano della natura. A questo medesimo rischio cede anche l'A., non disponendo ancora - almeno così si evince dalle pagine di questo libro - né di una coerente metafisica della creazione, né di un'adeguata conoscenza degli attributi teologici associati all'immagine rivelata di Dio. In terzo luogo, il volume persegue con successo il risultato di porre il filosofo, e soprattutto il teologo, di fronte ad un panorama del mondo fisico, della sua struttura e della sua dinamica, la cui influenza sul modo di parlare di Dio , e dunque anche sul modo di fare teologia, non può più essere ignorata. Al di là delle osservazioni critiche che possono essere dirette alla sua opera, a Davies va riconosciuto l'importante merito di aver toccato, forse per la prima volta nella divulgazione scientifica, in modo organico, esauriente e mai polemico, tutti quei settori delle scienze naturali ove il tema di Dio, direttamente o indirettamente, viene chiamato in dibattito. Contestualmente, rappresenta essa stessa un riepilogo proprio di quei punti deboli e di quei luoghi comuni in cui il confronto interdisciplinare cade sovente quando non condotto con adeguato rigore. Per entrambi i motivi, l'opera può rappresentare ancora oggi un riferimento di indubbio interesse.
Una frase che Davies - non senza enfasi di provocazione intellettuale - scrive nella Prefazione di questo libro, sarà successivamente più volte citata da innumerevoli autori: «Può sembrar strano, ma ho l'impressione che la scienza ci indichi la strada verso Dio con maggiore sicurezza di quanto non faccia la religione». Quanto qui l'A. intende non è un impiego apologetico della scienza né la riproposizione di un argomento cosmologico in linguaggio contemporaneo. Egli, invece, desidera solo ribadire la tesi principale del libro, già prima segnalata; la frase, infatti, continua così: «A torto o a ragione, ciò che è certo è che la scienza ha raggiunto oggi un punto in cui può affrontare seriamente questioni ritenute un tempo esclusivamente religioso: e questo fatto stesso è indicativo delle implicazioni della nuova fisica» (p. 11). Tuttavia, a merito di Davies, va detto che tale tesi non può essere interpretata in chiave scientista: «perché ho scritto questo libro? - continua infatti l'A. - Perché sono convinto che c'è di più, nel mondo, di quanto non sembri a prima vista» (ibidem).
Quali sono, dunque, i campi ove la scienza contemporanea affronta questioni ritenute un tempo solo pertinenza della religione? Una prima risposta a questa domanda la si ricava dando una scorsa ad alcuni titoli dei capitoli del volume: Perché esiste l'universo? - Che cos'è la vita? - Mente e anima - Libero arbitrio e determinismo - Caso o proposito? - I miracoli - La fine dell'universo, ecc. Ma qui va fatta un'importante considerazione. Quelli che Davies chiama correttamente i «Quattro Grandi Interrogativi dell'esistenza» e che, come tali, vengono proposti nella Prefazione del libro, ovvero: «Perché le leggi naturali sono quelle che sono? Perché l'universo è fatto come è fatto? Come è nato ciò che costituisce l'universo? Come si è determinata l'organizzazione dell'universo?» sono, appunto, interrogativi dell'esistenza, e dunque filosofici , piuttosto che scientifici in senso stretto. Sorge allora spontanea una domanda da indirizzare all'A.: la "nuova" fisica parla di Dio perché la scienza sta togliendo progressivamente spazio alla religione (come previsto dal positivismo Comtiano), oppure la fisica è "nuova" perché, superato il riduzionismo ed il meccanicismo, lo scienziato si apre ai grandi interrogativi sul fondamento e il fine dell'esistenza, domande che nella loro essenza non possono non restare filosofico-religiose? Forse non è la nozione di Dio a migrare (o a cadere) nell'ambito della razionalità scientifica formalmente intesa, ma lo scienziato ad estendere la sua ricerca intellettuale e personale verso quel «che c'è di più, nel mondo, di quanto non sembri a prima vista», e che il neopositivismo scientista aveva privato per lungo tempo di significatività, non solo nell'ambito delle scienze, ma in quello più generale della conoscenza umana come tale. Davies, come lo saranno molti suoi colleghi nelle decadi degli anni 1980 e 1990, è secondo noi testimone, per certi versi forse inconsapevole, di questa "estensione" epistemica, che è ciò che fa la scienza veramente "nuova".
Esigenze nuove ed incertezze nel valutare i rapporti fra Dio e la natura, fra teologia e scienze
Anche se Davies fa una certa attenzione a non riproporre lo schema positivista di una scienza che sostituisca la religione, insistendo egli di più sulle implicazioni della prima sulla seconda, a tratti si ha l'impressione che tali implicazioni debbano giungere fino a rimpiazzare quanto affermato dalla religione (si veda ad es. il capitolo su "I Miracoli" o quello su "La fine dell'universo"). Inoltre, analogamente a quanto accade nelle opere di molti autori di ambito anglosassone che scrivono sui rapporti fra scienza e religione, ad interagire con le scienze è più spesso una nozione generica di religione (che rasenta a tratti quella presente nell'immaginario popolare), e non una teologia di matrice ebraico-cristiana, fondata su una Rivelazione correttamente interpretata, e sviluppata a partire da una filosofia dell'essere costitutivamente aperta ad un'istanza metafisica.
Il volume Dio e la nuova fisica , pur nel lodevole tentativo di segnalare il motivo per cui scienza e religione non possono più ignorarsi, visto che ambedue parlano adesso di Dio, rappresenta al tempo stesso un emblematico (e talvolta bizzarro) esempio proprio di tutte quelle modalità, ingenue e piuttosto superficiali, che la maggior parte della divulgazione scientifica oggi ci propone quando intende discutere ed impostare il rapporto fra Dio e i fenomeni del mondo naturale, uomo compreso. Di ciò non escludiamo sia cosciente lo stesso Davies, che potrebbe in parte indulgere alle ingenuità come espediente retorico, per di far cogliere ad un pubblico più ampio possibile le problematiche ivi implicate, ma non potendo così evitare di restare confinati in diversi luoghi comuni (e buona parte del libro pare restarvi, in definitiva), senza erigersi ad un livello di riflessione più pertinente e rigorosa. In linea più generale, il lettore va avvertito che tutto il volume fa continuamente ricorso allo stile retorico, cosa che rende difficile distinguere le tesi sostenute dall'A. dal semplice riferire l'opinione comune che la gente ha in materia. Segnaliamo qui a continuazione, a puro titolo esemplificativo, alcune tematiche ove quanto diciamo pare essere più esplicito.
La trattazione dei rapporti fra teologia e scienza in merito al tema dell'origine dell'universo e alla già trascorsa competizione fra teoria dello stato stazionario e teoria del Big Bang, si conclude, nel capitolo II intitolato "Genesi", riproponendo considerazioni alquanto semplicistiche: «Quindi Dio risulta del tutto assente nel modello dell'universo stazionario. In primo luogo perché l'energia primaria necessaria per la creazione della materia non viene essa stessa creata, ma deriva semplicemente dall'accumularsi di energia negativa in un altro sistema; poi perché spazio e tempo non sono stati creati, ma esistono da sempre. [...] Il fatto che la moderna cosmologia ha fornito prove convincenti di ordine fisico sull'esistenza di una creazione è fonte di grande soddisfazione tra i teologi» (p. 43). Espressione di un preciso luogo comune in questo genere di divulgazione scientifica, le precedenti affermazioni verrebbero facilmente contraddette dall'applicazione di una corretta metafisica dell'atto creatore, come già chiarito secoli fa da Tommaso d'Aquino (rimandiamo il lettore interessato alla voce Creazione , on line su questo Portale). Poco più avanti, però, lo stesso Davies, sembra esserne conscio: «Dunque la creazione della materia dallo spazio vuoto [energia presente nella densità dello spazio-tempo vuoto, ndr], forse senza nemmeno bisogno d'energia, equivale al concetto di creazione ex nihilo della teologia? Si potrebbe obiettare che la scienza ancora non spiega l'esistenza dello spazio (e del tempo). Anche ammettendo che la creazione della materia, da sempre attribuita all'intervento divino, si possa (forse) spiegare ricorrendo alle scienze fisiche, bisogna pur sempre riconoscere che solo ricorrendo a Dio si può motivare l'esistenza stessa dell'universo. Perché, in primo luogo, esistono spazio e tempo, di modo che da essi possa nascere la materia?» (p. 54)
In merito al principio di causalità, il libro sottolinea la critica operata dalla meccanica quantistica e la difficoltà di impiegare tale principio in teologia naturale, riproponendo tuttavia entrambe le considerazioni in modo piuttosto convenzionale. «L'argomento cosmologico si fonda sul presupposto che ogni cosa deve avere una causa; e arriva alla conclusione che almeno una cosa (Dio) non è causata da alcunché: l'argomento è dunque intrinsecamente contraddittorio. Inoltre, se si ammette che qualcosa - e cioè Dio - possa esistere senza causa, viene meno la necessità del concetto di Dio. Infatti, anche l'universo stesso potrebbe esistere senza una causa esterna a sé. Supporre che l'universo sia causa di se stesso richiede una sospensione dell'incredulità non maggiore che dichiarare che Dio è causa di se stesso» (p. 61). Anche qui, basterebbe un riferimento al problema filosofico della contingenza per dirimere la questione, o almeno per porla nei suoi giusti termini, evitando di collocare Dio e il mondo sullo stesso piano. Il punto interessante è che l'A. pare finire con il rendersene conto quando, proprio al termine del capitolo III intitolato "Dio ha creato l'universo?" afferma: «Anche se possiamo attribuire una causa a ogni evento (e ciò è improbabile, a quanto ci dice la fisica quantistica) rimarrebbe sempre misterioso perché l'universo è fatto come è fatto, o perché c'è un universo mentre potrebbe non esserci» (p. 67). E poco più avanti: «Dio quindi non è tanto causa dell'universo quanto spiegazione dell'universo stesso» (p. 71). Siamo di fronte ad una sorta di "filosofia spontanea", che con linguaggio incerto, ma intuendo in fondo la portata del problema, cerca di esprimersi come può «L'universo è così com'è perché Dio ha deciso che fosse così. La scienza, che per definizione si occupa solo dell'universo fisico, potrà riuscire a spiegare ogni cosa ricorrendo ad altre cose, ma la totalità delle cose fisiche richiede una spiegazione dall'esterno» (pp. 72-73).
Nelle pagine di Davies possiamo rintracciare quelle incertezze, comuni a molti divulgatori, che emergono al momento di valutare le supposte conseguenze teologiche di una legge unitaria e onnicomprensiva della realtà o di infiniti universi oltre il nostro, entrambi invocati per ridurre significatività alle "coincidenze" espresse dal Principio Antropico e ricondurle così al risultato naturale di una legge universale, deduttiva e immanente, o al cieco gioco delle probabilità. Lo schema riproposto ricopia da vicino quello comune (e filosoficamente insufficiente) che attribuirebbe ad un creatore divino la sintonizzazione delle coincidenze antropiche in un solo, unico universo, e ne vedrebbe reso superfluo il ruolo se tali coincidenze fossero ricavabili deduttivamente da un legge cosmica universale, ancora sconosciuta, o se fossero semplicemente selezionate dalla nostra presenza in uno degli infiniti universi esistenti. Pur nella insufficienza dell'analisi filosofica proposta (il lettore interessato può consultare la voce Antropico, Principio in questo Portale per vedere i motivi di tale insufficienza), le conclusioni cui l'A. perviene sono in fondo quelle condivise dal senso comune, e rappresentative di buona parte degli scienziati: «Va detto che non è facile resistere alla tentazione di ritenere che l'attuale struttura dell'universo, così sensibile ai minimi mutamenti numerici, sia stata attentamente meditata. Si tratta di un'impressione, naturalmente, che può essere del tutto soggettiva: alla fine si tratta, come sempre, di credere o non credere. Ma è più facile credere all'esistenza di un ordinatore del cosmo o alla molteplicità di universi necessaria perché il principio antropico debole stia in piedi? Non si vede come sia possibile una verifica, in senso scientifico, di entrambe le ipotesi: poiché, come si è visto nel capitolo precedente, non è possibile recarsi di persona negli altri universi, né comunque sperimentarli direttamente, la convinzione nella loro esistenza è una questione di fede, esattamente come è questione di fede la convinzione dell'esistenza di Dio. Può essere che in futuro la scienza ci fornisca qualche prova meno indiretta dell'esistenza di questi altri universi; ma fino a quel momento la coincidenza, si direbbe miracolosa, dei valori numerici delle costanti fondamentali di natura resta la più convincente fra le testimonianze della presenza, nel cosmo, di un elemento di intenzionalità e di un disegno» (p. 262). Ma il punto in questione, che sembra sfuggire allo stesso Davies, è che se esiste una Causa prima o una Causa finale la cui inferenza fosse possibile dall'osservazione della natura, allora nei suoi confronti non vi sarebbe da esercitare alcun atto di fede, bensì un esercizio della ragione, quello di una ragione filosofica che prende le mosse da un mondo oggetto anche della scienza. Ovviamente la fede si rende necessaria per aderire a Dio che si rivela in modo personale nella storia, la cui immagine filosofica, alla quale la ragione naturale accede, rappresenta un debole, ma vero riflesso.
Non pare si distanzi ancora dal "luogo comune", sfortunatamente tipico in molti libri che esplorano il rapporto fra scienza e teologia, il modo un po' troppo approssimativo con cui l'A. si accosta ai testi biblici e all'immagine di Dio che in essi si rivela. Nel parlare dell'origine della vita e della persona umana, ciò conduce Davies: a non impostare adeguatamente il rapporto fra volontà creatrice di Dio e progressiva apparizione delle diverse forme di vita, scegliendo la facile soluzione di optare per l'allegoricità delle narrazioni, opponendola innecessariamente alla loro storicità (cfr. pp. 87-88); a ritenere erroneamente che la Scrittura offra una visione dualista del rapporto fra anima e corpo (cfr. pp. 114-115); a pensare che l'immagine di un Dio eterno sia incompatibile con la natura personale, internamente feconda e attiva di Dio nella storia (cfr. p. 187); a porre in antitesi dialettica l'onnipotenza di Dio e l'esistenza del male (cfr. p. 200). È anche un insufficiente approccio biblico della nozione di miracolo - di cui si ignora la profonda dimensione cristologica per restare confinati all'idea di evento portentoso - a non permettere all'A. di uscire dal circolo vizioso della sua irriconoscibilità in un contesto scientifico, e dunque della sua (supposta) inutilità in ambito apologetico o religioso.
Non possiamo infine condividere quanto l'A. afferma nelle pagine introduttive del volume quando - in parte riferendo l'opinione comune e in parte aderendovi egli stesso - sostiene che fra i motivi per i quali la gente si allontanerebbe oggi dalla religione non vi è solo l'obsoleta visione del mondo che questa continuerebbe a proporre, ma anche il ruolo delle religioni nell'innescare conflitti sociali, la condizione della donna in diverse religioni del pianeta (cattolicesimo compreso), gli intrecci fra religione e potere, più frequenti nel passato ma oggi ancora presenti (cfr. pp. 16-18). Così come l'idea che la religione sia per sua natura conservatrice, e la scienza progressista (p. 20), schemi che, evidentemente, stanno stretti sia all'una che all'altra.
Sebbene, come abbiamo segnalato all'inizio, Davies mostrerà nelle opere successive una certa maturazione di pensiero, il modo in cui il Dio e la nuova fisica illustra il rapporto fra religione e scienze ricopia un cliché che eredita un'impostazione già presente nell'ambiente scientifico, e che a sua volta ne influenzerà la permanenza: la religione si occuperebbe dei valori umani e la scienza degli enunciati sulla natura, la prima consiste in dogmi immutabili che cercano di resistere alle novità delle scoperte, mentre la seconda spinge la conoscenza verso nuove frontiere. La verità delle scienze sarebbe sempre rivedibile e riguarderebbe l'utile, quella della fede avrebbe una natura non falsificabile, la religione guarderebbe indietro, verso la verità rivelata, la scienza guarderebbe avanti, verso nuove prospettive e nuove scoperte.
La percezione del problema della contingenza e delle causalità formali
Nei capitoli finali di Dio e la nuova fisica , Davies riepiloga l'itinerario svolto ed approda in modo filosoficamente forse inaspettato alla percezione del "problema della contingenza". Queste riflessioni rappresentano a nostro avviso la parte più interessante del libro, alle quali fanno eco analoghe pagine di altri autori, sebbene le loro opere possano restare nella sostanza autoreferenziali e chiuse alla Trascendenza. In ogni seria analisi, scientifica o filosofica, che parta dal reale, il problema della contingenza è inescapable . Giunge a percepirlo lo stesso Stephen Hawking quando, pur all'interno di un'impostazione non certo metafisica e tesa alla ricerca di una legge immanente e generale in grado di descrivere l'origine e la dinamica dell'intero universo, si chiederà a un certo punto, quasi stupito, «chi ha infuso la vita nelle equazioni» perché esse non solo descrivano il mondo, ma lo facciano esistere ( Dal Big Bang ai buchi neri, Milano 19938, p. 196).
Dopo aver esposto in modo divulgativamente assai attraente le caratteristiche delle particelle e le rigorose leggi di simmetria che ne regolano le proprietà, Davies affronta il tema delle teorie di grande unificazione, fra i cui risultati vi sarebbe anche quello di "dar spiegazione" di quelle proprietà stesse. «Se la teoria della supergravità - egli afferma - raggiunge l'obiettivo che si propone, ci dirà non solo perché ci sono le particelle che esistono, e non altre, ma anche perché hanno la massa, la carica e le altre proprietà che le contraddistinguono. Tutto ciò potrebbe derivare da una teoria matematica che raccogliesse tutta la fisica (in senso riduzionista) in un'unica superlegge. Ma si propone di un uovo l'interrogativo: perché quella superlegge, e non un'altra? È questo l'interrogativo ultimo, terminale: la fisica potrà forse spiegare il contenuto, l'origine e l'organizzazione dell'universo fisico, ma non le leggi (o la superlegge) della fisica stessa. Tradizionalmente si attribuisce a Dio l'invenzione delle leggi di natura e la creazione delle cose (lo spaziotempo, gli atomi, gli uomini e tutto il resto) su cui tali leggi si applicano. Nello scenario del "pasto gratuito" bastano le leggi soltanto: l'universo al resto può provvedere da sé, la propria creazione compresa. Ma, e le leggi? Occorre che già esistessero, le leggi, in modo che l'universo potesse esistere. Bisogna in un certo senso che la fisica quantistica esista affinché una transizione quantica possa generare il cosmo» (p. 298).
Ci troviamo, in sostanza, di fronte al motivo ultimo del perché le cose sono, e del perché sono così come sono, esprimibile in termini filosoficamente più rigorosi come l'interrogativo circa le ragioni ultime dell'esistenza e dell'essenza, ovvero della natura di ogni cosa. Se il primo interrogativo rimanda alla domanda sulla contingenza e sull'essere, il secondo fa accedere alla causalità formale: perché esistono delle formalità specifiche in natura? La causalità formale è spesso percepita dallo scienziato in modo più immediato e indolore rispetto alla causalità finale, in quanto non è necessario ricorrere a nessuna ipotesi di un architetto o di un ordinatore cosmico che regoli l'universo dal di fuori, immagine verso la quale ogni uomo di scienza prova un certo disagio. La causalità formale, al contrario, è interna alla natura di ogni ente ed è nondimeno capace di esprimere finalismo, ma in modo naturale, dapprima immanente e solo in seconda istanza in riferimento ad una causa trascendente. Il problema della finalità non viene glissato né assorbito, ma colto secondo un'articolazione filosoficamente più congeniale a chi studia la natura, perché ricondotto, appunto, ad una filosofia della natura.
È facile constatare che, se non si danno riflessioni addizionali (senso comune, istanza metafisica della conoscenza, teologia naturale, ecc.), l'esito cui può condurre un'analisi condotta sul mero piano delle scienze empiriche può giungere anche ad oscurare il problema della contingenza, ritenendo davvero possibile, e filosoficamente autoconsistente, l'idea che le leggi siano nel loro insieme inseparabili dall'universo stesso, e dunque mettano semplicemente in luce la dimensione informazionale, intelligente se si vuole, insita nell'esistenza delle cose. In tal caso si cade nel panteismo, che se ha il vantaggio di concepire un universo in cui trovi spazio una mente, ha lo svantaggio ben noto di lasciare insoluto il problema della contingenza. A questo esito pare pervenire nel presente libro Paul Davies quando si vede obbligato ad introdurre il concetto di "Dio naturale", ovvero di una mente che presiede al disegno del cosmo, ma della quale non si possa dire molto di più (e la quale non ha nulla da dire a noi). «Bisogna dunque concludere che la filosofia secondo cui si ricerca un'unica soluzione fisica alla fondamentale equazione logico/matematica dell'universo comporta la negazione dell'esistenza di Dio? No di certo. Tale filosofia rende superflua l'idea di un Dio creatore, ma non esclude affatto l'esistenza di una mente universale che partecipa dell'universo fisico: sarà semmai un Dio naturale e non sovrannaturale» (p. 306). Eppure l'inevitabilità di un almeno residuale problema della contingenza (qui percepito in collegamento ad un suo riflesso fisico nel progressivo raffreddamento del cosmo) consente al nostro autore di porsi un'ultima domanda (che è anche, grammaticalmente, l'ultimo "punto interrogativo" del volume): «giacché la mente comporta un'organizzazione, l'esistenza della mente è minacciata dalla seconda legge della termodinamica. L'universo viene lentamente soffocato a morte dalla sua propria entropia: morirà dunque anche Dio?» (ibidem). Un Dio "naturale", dunque, può morire con l'universo stesso: c'è bisogno di ben altro per dare ragione dell'essere delle cose.