Convivio

Introduzione

 

Il Convivio, considerata dalla critica una delle “opere minori”di Dante, riveste in realtà un ruolo di primo piano nella comprensione del pensiero del poeta e del suo itinerario intellettuale. Per comprendere meglio il suo contenuto e la sua struttura, partiamo dalle parole con cui l’autore presenta il suo lavoro:

 

E io adunque, che non seggio a la beata mensa, ma, fuggito de la pastura del vulgo, a’ piedi di coloro che seggiono ricolgo di quello che da loro cade, e conosco la misera vita di quelli che dietro m’ho lasciati, per la dolcezza ch’io sento in quello che a poco a poco ricolgo, misericordievolmente mosso, non me dimenticando, per li miseri alcuna cosa ho riservata, la quale a li occhi loro, già è più tempo, ho dimostrata; e in ciò li ho fatti maggiormente vogliosi. Per che ora volendo loro apparecchiare, intendo fare un generale convivio di ciò ch’i’ ho loro mostrato, e di quello pane ch’è mestiere a così fatta vivanda, sanza lo quale da loro non potrebbe esser mangiata. E questo [è quello] convivio, di quello pane degno, con tale vivanda qual io intendo indarno [non] essere ministrata. E però ad esso non s’assetti alcuno male de’ suoi organi disposto, però che nè denti nè lingua ha nè palato; nè alcuno settatore di vizii, perchè lo stomaco suo è pieno d’omori venenosi contrarii, sì che mai vivanda non terrebbe. Ma vegna qua qualunque è [per cura] familiare o civile ne la umana fame rimaso, e ad una mensa con li altri simili impediti s’assetti; e a li loro piedi si pongano tutti quelli che per pigrizia si sono stati, che non sono degni di più alto sedere: e quelli e questi prendano la mia vivanda col pane, che la far[à] loro e gustare e patire (I,1, 10-14; 1, 10-12).

 

Dante non si ritiene un filosofo o un teologo, come sono coloro che siedono alla «beata mensa» del sapere, ma soltanto un uomo «fuggito alla pastura del vulgo» e desideroso di conoscere e di raccogliere dai vari sapienti quel poco che gli era possibile, per metterlo a disposizione de «li miseri», imbandendo un «convivio», un banchetto in cui verranno serviti «la mia vivanda col pane». I «miseri» a cui Dante si rivolge sono coloro che non hanno potuto accedere alla conoscenza filosofica perché impediti dalla natura (ciechi, sordi, muti) o dalla cura famigliare o civile, non solo gente umile, ma anche nobile: «principi, baroni, cavalieri, e molt’altra nobile gente, non solamente maschi ma femmine, che sono molti e molte in questa lingua, volgari e non litterati» (I, 9, 5; 1, 62). Oppure, «ma questo è degno di biasimo e d’abominazione» (I, 1, 5; 1, 8), perché vinti dalla pigrizia, motivo per cui non avranno la possibilità di sedersi al tavolo, ma ai piedi degli altri convitati. La misericordia nei loro confronti spinge Dante a condividere il sapere, in quanto sinonimo di felicità: è proprio nella scienza che risiede l’ultima perfezione dell’animo umano e, conseguentemente, la felicità di ogni persona. Il «pane» a cui Dante allude è il commento che ha predisposto alle canzoni d’amore, le «vivande» già preparate dal poeta in anni precedenti («ciò ch’i’ ho loro mostrato»), ma senza il quale queste sarebbero risultate incomprensibili. Una lirica amorosa sotto forma di canzone, considerata l’espressione più alta della poesia di inizio ‘300, seguita da un lungo commento in cui spiegare il significato nascosto dai versi poetici, questa è la struttura pensata da Dante per «la presente opera, la quale è Convivio nominata» (I, 1, 16; 1, 12).

Nella preparazione del suo lavoro, Dante aveva pensato di servire ai suoi commensali quattordici vivande, «quattordici canzoni sì d’amor come di vertù materiate» (I, 1, 14; 1, 12), tuttavia, per la fortuna di noi contemporanei molto attenti alla dieta e a non ingerire eccessive quantità di cibo, ha interrotto la preparazione delle portate dopo la terza vivanda. Ritornando ad un registro più serio, ciò significa che il Convivio è composto da tre trattati a commento di altrettante canzoni (Voi, che ‘ntendendo; Amor, che ne la mente mi ragiona; Le dolci rime), preceduti da un trattato proemiale. Rimane un’opera incompiuta, almeno secondo il progetto originario dell’autore, in quanto, verosimilmente, la stesura della Commedia, la cui composizione iniziò proprio in quegli anni, sottrasse il tempo necessario per ultimare il lavoro.

Il commento alle liriche venne scritto da Dante durante i primi anni dell’esilio (tra il 1304 e il 1307), mentre, come ci ha informato l’autore stesso, il componimento delle canzoni deve essere collocato cronologicamente assai prima della condanna all’esilio del 17 gennaio 1302.

Forse proprio perché rimasto incompiuto, il Convivio non ebbe una grande diffusione, né lo stesso Dante l’ha fatto conoscere durante la sua vita. Tale affermazione è suffragata dalla tradizione manoscritta dell’opera: solo due dei 45 manoscritti pervenutici sono trecenteschi, tutti gli altri sono databili al XV secolo. Inoltre, come hanno notato Folena e Gorini, i frequenti errori e le lacune di quasi tutti i codici sono riconducibili ad un «archetipo alquanto malconcio» [1], oppure allo stesso originale che «si presentava in forma provvisoria, come scrittura privata e abbozzo non trascritto in pulito» [2]. Nonostante la pubblicazione dell’editio princeps nel 1490 a Firenze presso Francesco Bonaccorsi, nel XVI e XVII secolo il testo del Convivio non venne più stampato (unica eccezione tre stampe venete dei primi anni del 1500); solo nel 1723 ritroveremo una nuova pubblicazione sempre a Firenze presso Torrentini e Franchi. La prima vera edizione del Convivio che mise un po’ di ordine alla complessa situazione testuale venne alla luce solo nel 1921 grazie al lavoro di Parodi e Pellegrini, il cui testo venne successivamente utilizzato da Vasoli e De Robertis nel 1988, per quello che viene considerato il più ampio e approfondito commento del Convivio. Altre edizioni critiche degne di nota sono quella offerta da Maria Simonelli nel 1966 e da Franca Brambilla Ageno nel 1995 nell’ambito dell’Edizione Nazionale delle Opere di Dante.

Seguirà ora un’esposizione dei principali argomenti presenti nei quattro trattati.

 

I Trattato

Come abbiamo già avuto modo di dire, il primo trattato, composto da tredici capitoli, vuole essere una grande introduzione all’opera, alla quale l’autore desidera affidare sostanzialmente due funzioni principali: difendersi dalle accuse che hanno cagionato la sua condanna all’esilio e giustificare l’uso del volgare, invece del latino, come lingua impiegata per i commenti alle liriche.

Per Dante era necessario iniziare il Convivio difendendosi dalle accuse che gli erano state mosse e poter ripristinare la propria fama – «per che fatto mi sono più vile forse che ‘l vero non vuole» (I, 4, 13; 1, 30) – altrimenti non gli sarebbe stato possibile conquistare la fiducia del proprio lettore e conseguentemente poter trasmettere il suo messaggio. Tuttavia, comprendendo che parlare di se stesso in un’opera di natura filosofica poteva risultare molesto, l’autore decide di portare gli esempi di Boezio e di Agostino (cfr. I, 2, 13-14; 1, 18-19): il primo parlò di sé raccontando la profonda ingiustizia del suo esilio; il secondo, al fine di edificare i suoi confratelli e tutti i cristiani, scrisse le Confessioni, insegnando una via di felicità attraverso l’esempio della propria vita personale.

Se agli inizi del ‘300 il volgare veniva già utilizzato per la poesia, ciò non avveniva per tramandare contenuti filosofici o teologici; di questo Dante è profondamente consapevole, tant’è che sente il dovere di giustificare lungamente questa sua scelta di stile, che poteva essere considerata una sorta di peccato originale e, riprendendo l’immagine del banchetto, come se il pane (del suo commento) fosse preparato con il biado e non con il frumento (cfr. I, 5, 1; 1, 31). Il latino è certamente una lingua superiore, questo Dante lo riconosce con estrema franchezza, ma la sua scelta è dettata da altri motivi. Innanzitutto si sarebbe creata una disomogeneità tra le liriche scritte in volgare e il commento in latino. Come poteva essere scritto in una lingua più nobile il commento alle liriche che, secondo le intenzioni del poeta, rappresentano il punto più alto del Convivio? Un po’ come se il pane fosse migliore delle pietanze. Il latino avrebbe ristretto il numero dei lettori e questo sarebbe andato contro l’intenzione di scrivere un’opera destinata al più vasto pubblico possibile. Del resto il Convivio è un commento alle canzoni, deve essere il più immediato, il più comprensibile, il più diretto possibile, un commento destinato ai «miseri», non ai letterati, i quali non ne hanno bisogno, perché sono in grado di comprenderle autonomamente. Negli ultimi quattro capitoli il lettore viene a conoscenza di alcuni motivi personali che legano particolarmente l’autore al volgare: intravede nel volgare la lingua che ha aiutato l’unione dei suoi genitori, cioè ha causato la sua esistenza; inoltre, grazie al volgare ha appreso il latino, la lingua che gli ha consentito di conoscere la scienza, la filosofia, la teologia, ossia di imparare ad essere buono. Il primo trattato si conclude con uno splendido e profetico elogio di questa nuova lingua: «Questo sarà luce nuova, sole nuovo, lo quale surgerà là dove l’usato tramonterà, e darà luce a coloro che sono in tenebre e in oscuritade per lo usato sole che a loro non luce» (I, 13, 12; 1, 88-90).

 

II Trattato

Canzone: Voi che ‘ntendendo il terzo ciel movete

 

Il secondo trattato è composto da 15 capitoli, il primo dei quali è interamente dedicato ad un’esposizione delle chiavi di lettura delle canzoni, necessaria per comprendere meglio il contenuto del testo e, rimanendo nell’immagine del banchetto, «però che più profittabile sia questo mio cibo, prima che vegna la prima vivanda voglio mostrare come mangiare si dee» (II, 1, 1; 1, 108). Dante riprende i quattro sensi con cui può essere letto un testo: letterale, allegorico, morale e anagogico (che saranno anche i modi con cui leggere la Commedia, riportati nella lettera a Can Grande della Scala). Il primo, quello più immediato, è il senso letterale, «è quello che non si stende più oltre che la lettera de le parole fittizie» (II, I, 3; 1, 113). Non ha bisogno di ulteriori spiegazioni e Dante stesso, oltre questa riga, non dedica altro spazio. Il senso allegorico «è quello che si nasconde sotto ‘l manto di queste favole, ed è una veritade ascosa sotto bella menzogna» (II, I, 3; 1, 113). Il significato allegorico è il senso nascosto dalla lettera che Dante, in questo caso, definisce «bella menzogna» in quanto, prendendo l’esempio delle favole, il significato letterale è di per sé falso, non storico, ma dietro questa “falsità” si nasconde un altro messaggio: «sì come quando dice Ovidio che Orfeo facea con la cetera mansuete le fiere, e li arbori e le pietre a sé muovere; che vuol dire che lo savio uomo con lo strumento de la sua voce fa[r]ia mansuescere e umiliare li crudeli cuori, e fa[r]ia muovere a la sua volontade coloro che non hanno vita di scienza e d'arte: e coloro che non hanno vita ragionevole alcuna sono quasi come pietre» (II, 1, 3; 1, 113-114). Dante precisa che esiste un differente uso del senso allegorico-poetico e quello allegorico-teologico: i teologi, infatti, non possono intendere il testo sacro come una favola sotto la quale è celata una verità, mentre i poeti, attraverso una favola inventata ed irreale, «una bella menzogna», propongono una verità. Nel Convivio è utilizzato il senso allegorico dei poeti. Il senso morale «è quello che li lettori deono intentamente andare appostando per le scritture, ad utilitade di loro e di loro discenti» (II, 1, 5; 1, 115), ossia un’interpretazione pedagogica. Dante stesso porta come esempio la scena evangelica in cui Cristo porta sul monte solo tre discepoli, attribuendogli il significato che degli avvenimenti particolarmente rilevanti e segreti che avvengono nella vita di una persona solo in pochi devono esserne al corrente. Infine il senso anagogico, «cioè sovrasenso; e questo è quando spiritualmente si spone una scrittura, la quale ancora sia vera eziandio nel senso litterale, per le cose significate significa de le superne cose de l’etternal gloria» (II; 1, 6; 1, 115-116), cioè il senso che spinge ad accordare al testo un significato ultraterreno. Dante riporta come esempio il Salmo In exitu Israel che oltre a significare la liberazione del popolo ebraico dalla schiavitù dell’Egitto si può anche interpretare come l’uscita dell’anima dalla situazione di peccato. Di questi quattro modi di leggere un testo, il primo da seguire è il senso letterale, senza il quale sarebbe impossibile l’interpretazione secondo gli altri sensi. Pertanto, Dante comunica al lettore che di ogni canzone prima proporrà un commento a partire dal senso letterale e successivamente esporrà il significato allegorico ed eventualmente anche quello morale e anagogico.

La spiegazione letterale non sarà solamente la prima da un punto di vista cronologico, ma anche quantitativo, non solo nel secondo trattato, dove ben 10 capitoli su 15 sono dedicati alla spiegazione letterale, ma anche nel terzo e nel quarto. Con ogni probabilità Dante vuole comunicare al lettore che per comprendere a fondo l’allegoria è necessario aver inteso bene il significato letterale del testo, altrimenti si rischierebbero interpretazioni erronee.

Come anticipato nell’introduzione, le canzoni sono state composte prima dell’esilio; in particolare il testo di Voi, che 'ntendendo è da collocare cronologicamente tra la fine del 1293 e gli inizi del 1294, dal momento che la poesia ci comunica che erano trascorsi tre anni dalla morte di Beatrice, avvenuta l’8 giugno 1290. In questa canzone Dante ci parla del nuovo amore in cui è riuscito a trovare il sostegno dopo la morte di Beatrice, la donna amata il cui amore è un elemento centrale sia nella Vita Nuova sia nella Commedia. Il significato testuale della canzone descrive la battaglia tra il volere e il non voler cedere al nuovo amore che sta prendendo piede nel poeta. Questa situazione lo conduce a rivolgersi agli “arbitri” dei pensieri d’amore, ossia gli angeli che presiedono il terzo cielo. Per capire quale sia il terzo cielo Dante apre un lunghissimo inciso di cosmologia, in cui descrive il numero degli otto cieli individuati dagli antichi (Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte, Giove, Saturno e Stelle fisse) a cui si aggiunge il Primo Mobile o Cristallino ad opera di Tolomeo ed infine l’Empireo. Il terzo cielo, dunque, è quello di Venere. A loro volta i cieli compiono un movimento grazie alle intelligenze angeliche, le quali sono suddivise in tre gerarchie: la prima (prima perché più vicina alla terra e agli uomini) è composta dagli Angeli, Arcangeli,Troni; la seconda da Dominazioni, Virtù, Principati; la terza da Potestà, Cherubini e Serafini. Le gerarchie angeliche contemplano le tre persone della Trinità, ma per distinguere i tre ordini interni a ciascuna gerarchia, Dante considera ciascuna delle tre Persone della Trinità rispetto a se stessa e alle altre due in ciò che è loro peculiare, ossia la relazione di paternità, filiazione e amore: quindi i Serafini contemplano il Padre rispetto a se stesso, i Cherubini rispetto alla relazione paternità/filiazione e le Potestà contemplano il padre nella sua relazione con lo Spirito Santo. Ogni gruppo angelico muove un cielo, seguendo un ordine preciso: il cielo della Luna è mosso dagli Angeli, Mercurio dagli Arcangeli e Venere dai Troni, «li quali, naturati de l’amore del Santo Spirito, fanno la loro operazione, connaturale ad essi, cioè lo movimento di quello cielo, pieno d’amore, dal quale prende la forma del detto cielo uno ardore virtuoso, per lo quale le anime di qua giuso s’accendono ad amore, secondo la loro disposizione» (II, 5, 13; 1, 165). Sono quindi i Troni la causa di ogni amore sulla terra e anche del nuovo amore dantesco, motivo per cui sono gli unici che possono capire il suo stato d’animo. Le stanze centrali della canzone sono invece intrise di un intenso dialogo tra l’anima e lo spirito, impegnate in una faticosa battaglia. Esattamente a metà del II trattato troviamo un altro inciso dedicato alla spiegazione dell’immortalità dell’anima.

 

Terminata la spiegazione letterale, con il dodicesimo capitolo Dante presenta il significato allegorico della canzone, che possiamo anche intendere come il significato “vero” da attribuire al testo, dal momento che, come aveva spiegato nel trattato precedente, l’allegoria in poesia è «una veritade ascosa sotto bella menzogna». Dopo la morte prematura di Beatrice, visto che non riusciva a confortare la propria anima, gettò tutto se stesso nello studio della filosofia, sperando di trovare la felicità laddove diversi l’avevano incontrata prima di lui. In questo periodo, tra il 1292 e il 1295, inizia a frequentare la scuola dei domenicani di Santa Maria Novella, dei francescani di Santa Croce e degli agostiniani di Santo Spirito, riuscendo ad ottenere un’eccellente preparazione filosofica. Ed è proprio la filosofia la donna di cui Dante si innamora, «figlia di Dio, regina di tutto, nobilissima e bellissima» (II, 12, 9; 1, 211). La filosofia viene immaginata come donna gentile a cui si sente legato da un amore profondo: «Ove si vuole sapere che questa donna è la Filosofia; la quale veramente è donna piena di dolcezza, ornata d’onestade, mirabile di savere, gloriosa di libertade [...] e là dove dice: Chi veder vuol la salute, Faccia che li occhi d’esta donna miri, li occhi di questa donna sono le sue demostrazioni le quali, dritte ne li occhi de lo ‘ntelletto, innamorano l’anima, liberata da le contradizioni» (II, 15, 3; 1, 264). Anche il termine «amore» è da leggere in chiave allegorica e rappresenta lo studio: «Onde è da sapere che per amore, in questa allegoria, sempre s’intende esso studio, lo quale è applicazione de l’animo innamorato de la cosa a quella cosa». (II, 15, 10; 1, 268). Conclude questo secondo trattato un parallelo tra i cieli e le arti del trivio e del quadrivio: al cielo della Luna corrisponde la Grammatica, a Mercurio la Dialettica, a Venere la Rettorica, al Sole l’Aritmetica, a Marte la Musica, a Giove la Geometria, a Saturno l’Astrologia, a quello delle Stelle fisse la Fisica e la Metafisica, al Primo Mobile la Filosofia morale, all’Empireo la Teologia. Conseguentemente coloro che muovono il terzo cielo, ossia i Troni, sono gli amanti della filosofia, i quali vengono conquistati dai suoi bellissimi occhi, ossia le dimostrazioni filosofiche.

«E così, in fine di questo secondo trattato, dico e affermo che la donna di cu’ io innamorai appresso lo primo amore fu la bellissima e onestissima figlia de lo imperadore de lo universo, a la quale Pittagora pose nome Filosofia». (II, 15, 12; 1, 268-269)

 

III Trattato

Canzone: Amor che ne la mente mi ragiona

 

Di tutte le canzoni dantesche del Convivio, Amor che ne la mente mi ragiona è sicuramente la più nota, poiché ripresa nel secondo canto del Purgatorio, quando il musico Casella inizia a cantare per Dante e le altre anime il testo di questa canzone.

Anche il terzo trattato è composto da 15 capitoli e, come annunciato nell’introduzione, Dante inizia il suo commento letterale. Dal commento al primo verso della canzone, troviamo la definizione di mente e di amore: «Amore è unimento spirituale de l’anima e de la cosa amata» (III, 2, 2; 1, 298); la mente invece è la facoltà intellettiva, l’anima razionale, presente negli uomini, negli angeli e in Dio, ed è in questa facoltà che l’amore parla all’uomo, in quanto è la facoltà più prossima al divino. Dante ascolta l’«amore», ma non riesce a cogliere, comprendere e a tradurre in parole la grandezza delle cose dette alla donna amata.

Se nel secondo trattato erano stati descritti i cieli e le gerarchie angeliche, in questo terzo troviamo un altro tema cosmologico: la terra quale centro dell’universo, l’alternanza delle fasi del giorno e della notte, del caldo e del freddo: «per che vedere omai si puote, che, per lo divino provedimento, lo mondo è sì ordinato che, volta la spera del sole e tornata a uno punto, questa palla, dove noi siamo, in ciascuna parte di sé riceve tanto tempo di luce quanto di tenebre» (III,5, 21; 1, 356-357).

Quando deve commentare il verso «Ogni Intelletto di là su la mira» apre un altro tema filosofico, quello relativo all’ordine dell’universo, all’ordine causale e alla causalità (temi che verranno ripresi in forma poetica anche nella Commedia). Secondo Dante ogni ente è in grado di conoscere la causa che l’ha generato nella misura in cui partecipa alla causa stessa e può conoscere ciò che a sua volta causa. Pertanto Dio, essendo causa di tutta la realtà, è in grado di conoscere tutto; viceversa gli enti creati possono conoscere Dio per quel poco che Dio partecipa di sé quando li crea, ossia li chiama all’esistenza. I gradi di partecipazione sono infiniti e non sono presenti salti: Dio, gli angeli, gli uomini, gli animali, le piante, i minerali, la terra. La donna amata, però, è «perfettissima ne la umana generazione, ma più che perfettissima in quanto riceve de la divina bontade oltre lo debito umano» (III, 6, 9; 1, 366-367). La sua anima diventa così in grado di mostrare la verità, in quanto è bontà e bellezza, entrambe riflesso degli attributi di Dio, che traspaiono maggiormente dagli occhi e dal sorriso. Contemplare la bellezza della donna amata è motivo di pace e di gioia, anche se non è paragonabile a quanto l’anima potrà godere in Paradiso, in quanto quest’ultimo diletto sarà infinito.

Iniziando l’interpretazione allegorica, Dante ribadisce l’analogia donna-filosofia: «Sì come l’ordine vuole ancora dal principio ritornando, dico che questa donna è quella donna de lo ‘ntelletto che Filosofia si chiama» (III, 11, 1; 1, 416). Affinché il lettore possa cogliere cosa intenda per filosofia, Dante inizia una lunga trattazione su questo argomento: «Pittagora, domandato se egli si riputava sapiente, negò a sé questo vocabulo e disse sé essere non sapiente, ma amatore di sapienza. E quinci nacque poi, ciascuno studioso in sapienza che fosse “amatore di sapienza” chiamato, cioè “filosofo”» (III, 11, 5; 1, 420). Questo vocabolo, «amatore di sapienza» non trasmette, per Dante, superbia, ma umiltà. Inizia così uno splendido paragona tra l’amicizia e la filosofia: come non si può chiamare amico colui il quale vuole bene per utilità e diletto, in quanto sarebbe un’amicizia per accidente – come insegna Aristotele nell’Etica Nicomachea – così non si può definire filosofo colui che ama il sapere per diletto o utilità; «sì come l’amistà per onestade fatta è vera e perfetta e perpetua, così la filosofia è vera e perfetta che è generata per onestade solamente, sanza altro rispetto, e per bontade de l’anima amica, che è per diritto appetito e per diritta ragione» (III, 11, 11; 1, 427-428). Causa efficiente dell’amicizia è la virtù, così «de la filosofia è cagione efficiente la veritade» (III, 11, 13; 1, 430). Fine della filosofia è quella «eccellentissima dilezione che non pate alcuna intermissione o vero difetto, cioè vera felicitade che per contemplazione de la veritade s’acquista» (III, 11, 14; 1, 431). In questo contesto Dante ripropone la spiegazione allegorica di amore: «Amor che ne la mente mi ragiona. Per Amore intendo lo studio lo quale io mettea per acquisire l’amore di questa donna: ove si vuole sapere che studio si può qui doppiamente considerare. È uno studio, lo quale mena l’uomo a l’abito de l’arte e de la scienza; e un altro studio, lo quale ne l’abito acquistato adopera, usando quello. E questo primo è quello ch’io chiamo qui Amore, lo quale ne la mia mente informava continue, nuove e altissime considerazioni di questa donna che di sopra è dimostrata» (III, 12, 2-3; 1, 434-435)

Nella canzone troviamo il verso «Non vede il sol, che tutto 'l mondo gira» e per Dante il sole è Dio: come il sole illumina e riscalda prima se stesso e poi tutto il creato, così Dio illumina e riscalda con il fuoco del suo amore se stesso e tutte le creature. L’amore di Dio si manifesta anche attraverso la Sua sapienza, della quale gli uomini sono partecipi, sapienza che può essere ottenuta attraverso lo studio della filosofia. In questa vita, però, essendo l’uomo limitato dal corpo, non potrà godere appieno della felicità promessa dalla filosofia, ma dovrà aspettare la morte, quando sarà liberato dalla materia. La filosofia diventa così la strada per la perfezione e quindi per la felicità: tale strada è percorribile da tutti a eccezione degli angeli caduti. Conclude questa parte un bel parallelismo tra la filosofia e il corpo umano: come gli occhi e il sorriso trasmettono tutta la bontà della persona, così le dimostrazioni filosofiche manifestano tutto lo splendore della sapienza filosofica.

 

IV Trattato

Canzone: Le dolci rime d’amor ch’i’ solia

   

Il commento del quarto ed ultimo trattato, si estende per trenta capitoli, esattamente il doppio rispetto ai due precedenti. L’amore per la donna-filosofia viene abbandonato, per lasciare il posto a un’elaborazione politico-sociale sul tema della nobiltà. Apparentemente potrebbero sembrare due argomenti scollegati, ma visto che l’obiettivo della filosofia è il raggiungimento della felicità, questa non può esistere al di fuori di un contesto sociale: «Lo fondamento radicale de la imperiale maiestade, secondo lo vero, è la necessità de la umana civilitade, che a uno fine è ordinata, cioè a vita felice; a la quale nullo per sé è sufficiente a venire sanza l’aiutorio d’alcuno, con ciò sia cosa che l’uomo abbisogna di molte cose, a le quali uno solo satisfare non può. E però dice lo Filosofo che l’uomo naturalmente è compagnevole animale» (IV, 4, 1; 2, 547-549). Dante esiliato, vittima delle lotte di potere e degli scontri tra le diverse fazioni presenti a Firenze, sente il bisogno di difendere l’organizzazione democratica del comune e vuole riflettere su ciò che fonda la vera nobiltà.

Il ragionamento prende le mosse da quanto si credeva avesse affermato Federico II di Svevia: «dov’è da sapere che Federigo di Soave [...] domandato che fosse gentilezza, rispuose ch’era antica ricchezza e belli costumi» (IV, 3, 6; 2, 545). Veniva considerato nobile chi lo era per nascita e quanto più antiche erano le origini di una famiglia tanto maggiore era la sua nobiltà. Per confutare questa posizione, Dante riflette sul significato dell’autorità imperiale e filosofica. Essendo l’uomo un animale sociale, cerca i propri simili e si aggrega fondando le città; al tempo stesso il desiderio continuo di accaparrarsi ricchezza causa il sorgere di guerre, lotte e dissapori. Pertanto «conviene di necessitade tutta la terra, e quanto a l’umana generazione a possedere è dato, essere Monarchia, cioè uno solo principato, e uno prencipe avere; lo quale, tutto possedendo e più desiderare non possendo, li regi tegna contenti ne li termini de li regni, sì che pace intra loro sia, ne la quale si posino le cittadi, e in questa posa le vicinanze s’amino, in questo amore le case prendano ogni loro bisogno, lo qual preso, l’uomo viva felicemente; che è quello per che esso è nato» (IV, 4, 4; 2, 553-554). Tuttavia, l’autorità imperiale per indirizzare l’umano convivere verso il bene e la felicità ha bisogno della filosofia, senza la quale il suo operato diventerebbe dannoso. Pertanto secondo Dante, se una persona nata da una famiglia nobile agisce male è simile a chi sbaglia strada nonostante questa sia nitidamente tracciata, perciò tale persona non può essere definita nobile, bensì vilissima. Viceversa nobile è chi raggiunge il bene, nonostante la strada non sia stata battuta da nessun altro prima di lui. Ritornando alla definizione di Federico II, Dante aggiunge che le «antiche ricchezze» di per sé non possono dare né togliere nobiltà. Inoltre se ci si basasse solo su questa definizione si impedirebbe ad un figlio nato da padre ignobile ad aspirare alla nobiltà.

Di conseguenza, Dante indica la strada che conduce alla vera nobiltà: essendo questa un dono gratuito di Dio, ogni singolo uomo ha la libertà e possibilità di accoglierlo, esercitando le virtù nella vita sociale e nell’impegno politico. La nobiltà è un seme di felicità, pertanto coincide con l’attrazione verso il bene presente in ogni cosa. La nobiltà diventa così la perfezione della propria natura ed essendo l’uomo dotato di ragione, la nobiltà non può essere scissa dalla filosofia. Visto che la nobiltà deve essere una conquista di ogni età, Dante apre un inciso sulle età della vita. La persona nobile sarà un adolescente bello, decoroso e atletico; poi un giovane forte, leale e cortese; nella maturità acquisterà le virtù della prudenza, giustizia, magnanimità e affabilità; nella vecchiaia ammainerà le vele, ringraziando Dio della vita trascorsa e desiderando di giungere al porto. Essendo la nobiltà una qualità propria di ogni singola anima, questa non può appartenere a ciò che non possiede un’anima, proprio come le stirpi, le quali possono essere nobili o ignobili.

 

Osservazioni conclusive

A conclusione di questo sguardo di insieme sul Convivio, mi sembra si possa dire che, al di là del contenuto filosofico, quest’opera, insieme alla Vita Nuova prima e alla Commedia poi, rappresenta una tappa significativa dell’itinerario intellettuale di Dante verso la piena felicità. Un percorso iniziato con l’amore per Beatrice di cui la Vita Nuova è testimone, un amore più passionale, depositario di tutta la tradizione stilnovistica dell’amor cortese. Tuttavia tale amore si sgretolerà come un castello di sabbia l’8 giugno del 1290 a causa dell’inaspettata ed improvvisa morte di Beatrice. Ecco l’inizio di una nuova fase, la tappa del Convivio con il nuovo amore per la «bellissima e onestissima figlia de lo Imperadore de lo universo, a la quale Pittagora pose nome Filosofia». Il secondo e il terzo trattato, che di fatto formano un unico blocco, si possono definire proprio come il prosieguo della Vita Nuova, il cui elemento di raccordo è l’amore per Beatrice, che nel Convivio viene trasfigurata nella filosofia. Di lì a pochi anni, però, Dante, smarrito nella selva oscura, si renderà conto che la filosofia non è affatto sufficiente per essere liberato dai mali che affliggono l’umanità e giungere alla vera felicità. Nel secondo canto del Purgatorio Dante e Virgilio, stremati per aver percorso tutto l’Inferno, si riposano insieme a tutte le anime appena sbarcate sulla spiaggia dell’anti Purgatorio ascoltando la canzone tratta dal Convivio «Amor che ne la mente mi ragiona» cantata da Casella, «sì dolcemente| che la dolcezza ancor dentro mi suona» (Purg. II, 113-114). Quella musica e quel testo dovevano essere così gradevoli e melodiosi che «lo mio maestro e io e quella gente| ch’eran con lui parevan sì contenti, | come a nessun toccasse altro la mente» (Purg. II, 115-117). Di lì a poco, però, giungerà Catone, il guardiano del Purgatorio, a scuotere con forza Dante e tutte le altre anime con parole molto forti e dure: «Che è ciò, spiriti lenti?| Qual negligenza, quale stare è questo?| Correte al monte a spogliarvi lo scoglio| ch’esser non lascia a voi Dio manifesto» (Purg. II, 122-123). Ecco la terza tappa del percorso di Dante, l’itinerario della sua anima verso Dio, in cui i suoi amori per Beatrice e per la filosofia non sono un peso inutile da gettare, ma diventano compagni di viaggio per giungere alla vera e piena felicità.

 

 

Bibliografia

 

Dante Alighieri, Convivio, in C. Vasolie D. De Robertis (a cura di), Dante Alighieri Opere minori, I-II, Classici Ricciardi Mondadori, Milano-Napoli 1995.

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[1] G. Folena, La tradizione delle opere di Dante Alighieri, in Atti del congresso internazionale di studi danteschi (20-27 aprile 1965), Firenze, Sansoni, 1965, 18-19.
[2] G. Gorni, Appunti sulla tradizione del “Convivio” (a proposito dell’archetipo e dell’origine dell’opera), in Gorini, Dante prima della ‘Commedia’, Firenze, Cadmo, 2001,251.

Filippo Forlani
Pontificia Università della Santa Croce