Organismo e libertà. Verso una biologia filosofica

Organismus und Freiheit, ripubblicato con il titolo Das Prinzip Leben. Ansätze zu einer philosophischen Biologie, Insel, Frankfurt a.M. 1994


Organismo e libertà è di una raccolta di saggi apparsi tra il 1950 e il 1965, pubblicata originariamente in inglese col titolo The Phenomenon of life. Towards a Philosophical Biology, Harper & Row, New York 1966, e poi rimaneggiata e tradotta da Jonas in tedesco nel 1973 con alcune modifiche. La presente recensione si riferisce alla traduzione italiana dall’edizione tedesca del 1973 a cura di P.Becchi

L’Autore e le finalità dell’opera

Hans Jonas (Mönchengladbach, 1903-1993)si forma negli anni Venti a Friburgo e Marburgo, dove le sue radici ebraiche si intrecciano con l’esegesi neotestamentaria di Bultmann, la fenomenologia di Husserl e l’analitica esistenziale di Heidegger. Matura presto insoddisfazione nei confronti della sua formazione, appartenente a quell’idealismo della coscienza entro cui pone tutte le filosofie che, da Cartesio in poi, hanno individuato nella coscienza il proprio oggetto specifico pregiudicando gli sviluppi dell’antropologia filosofica e dell’ontologia. La spaccatura, lasciata in eredità dal dualismo, tra spirito, non più principio di vita, e natura offrirà la giustificazione metafisica alla spiritualizzazione dell’uomo, strappato alle sue radici biologiche, e all’esteriorizzazione della natura, ridotta a materia e movimento, col che verrà meno la possibilità di una filosofia della natura tradizionalmente intesa, nonché una visione unitaria della realtà e dell’uomo in quanto unità psicofisica. Questo, secondo l’A., l’esito del pensiero occidentale annunciato già nel dualismo gnostico tardo-antico, primo e radicale movimento nichilistico culminante nella filosofia del maestro Heidegger (cfr. cap. XI. Gnosi, esistenzialismo e nichilismo, pp.263-284). Accomunati da un senso di estraneità radicale dalla natura, convinti dell’assenza di affinità tra logos umano emondano, l’uomo gnostico e l’uomo contemporaneo non devono al mondo e alla sua legge alcun rispetto. Il nichilismo contemporaneo è però infinitamente più disperato poiché non semplicemente anticosmico, ma acosmico: il mondo, in nessun senso Kosmos, nemmeno in quanto espressione di una volontà malvagia, non imprime neppure la direzione “negativa” del rifiuto del mondo, ora neutrale rispetto ai valori a causa dello svuotamento spirituale culminante nell’eliminazione della teleologia indotta dalla scienza, ma cui avrebbe contribuito, afferma Jonas semplicisticamente, anche il Cristianesimo; un giudizio, quest’ultimo, in realtà poco pertinente se si tiene conto che la creatio ex nihilo e l’Incarnazione assegnano alla materia e al corpo una dignità inconcepibile allo Gnosticismo, e che per il Cristianesimo è del tutto improprio parlare di dualismo. Alla fine del processo di svuotamento, la volontà di potenza rimarrebbe l’unica fonte creativa di valore, di fronte ad una natura muta e manipolabile senza limiti (cfr. cap. X, Dell’uso pratico della teoria, pp. 239-262).

L’obiettivo polemico di Organismo e libertà è l’ontologia della morte, visione in cui la “morta materia cartesiana” è vera sostanza della realtà e orizzonte di comprensibilità, tanto che la contraddizione di fondo da ricondurre alla condizione originaria da cui tutte le cose provengono e cui ritornano, è la presenza della vita. Jonas colloca qui una costellazione di concetti partoriti dal dualismo: il meccanicismo, il determinismo, la loro applicazione alla vita, prima con Cartesio e poi ad opera dell’evoluzionismo darwiniano che priva la vita di un contenuto specifico, persino della creatività, dal momento che la causalità è distribuita fra organismo e ambiente (cfr. Aspetti filosofici del darwinismo, pp. 52-74). La selezione, surrogato della teleologia, favorisce un progresso non pianificato per esclusione (sopprime e non crea) e rende superflua la causalità formale. Per un po’ il finalismo sopravvive nella natura umana, ma quando la radicale contingenza travolge anche il suo ultimo baluardo, persino l’uomo non potrà più esser concepito antropomorficamente: la ragione è travestimento dell’impulso vitale, la società sovrastruttura ideologica, «il topo nel labirinto ci dice chi siamo» (p. 253). Con l’evoluzionismo, il richiamo ad una natura ideale diviene ingiustificato, e la libertà, ammesso che l’uomo sia libero, vana; ecco perché Jonas lo connette logicamente con l’esistenzialismo (cfr. p. 62). Emerso per caso, l’uomo è ora altrettanto indifferente rispetto al valore e al fine, e potenziale “oggetto” della scienza della tecnica; ragione e volontà, non più “a immagine e somiglianza di Dio”, né segni distintivi dell’animal rationale, divengono strumenti di sopravvivenza. Questa concezione della ragione, conciliabile con qualsiasi scopo, apre la via all’irrazionalismo e allo stesso indifferentismo etico dello Gnosticismo. Si comprenderà perché la motivazione dell’opera non sia esclusivamente teoretica, ma anche etica. Non si tratta di questioni accademiche, dal momento che l’A. attribuisce alla svalutazione metafisica della natura precise conseguenze pratiche quali il nichilismo, il tecno-scientismo e la crisi ecologica; dualismo antropologico e cosmologico portano all’ipertrofia del soggetto moderno e alla fallacia naturalistica, che dichiara illegittimo il passaggio dall’essere al dover essere, che sfocia nel soggettivismo e nel relativismo morale.  

Il vicolo cieco dell’ontologia della morte suggerisce a Jonas di capovolgerne l’impostazione e interrogarsi sul senso del dato offertoci proprio dall’evoluzione (da non confondere con l’evoluzionismo come teoria) di cui fa un uso “strategico” in funzione anti-dualistica, anti-riduzionistica e anti-idealistica: sullo sfondo di una natura omogenea e spoglia di direzioni privilegiate, il fenomeno della vita appare in una luce accecante e solleva l’interrogativo dal quale muove il progetto di un’ontologia della vita: come può una natura dominata dalla causalità materiale e dalla casualità aver prodotto il paradosso di una natura teleologica creata in modo non teleologico, in cui “il vedente è un prodotto del cieco”? È la vita, che manifesta un interesse per sé, un fenomeno eminente, un evento che deve ancora interpellarci circa la natura e l’essere all’interno dei quali si è manifestato e che, nel qualificare la totalità che lo ha prodotto, ne mette in discussione un concetto forse astratto? Per Jonas il filosofo non può accontentarsi del “caso e della necessità”, semmai, visto che la materia si è organizzata in modo da produrre ricchezza di forme, funzioni e gradi e persino “l’enigma” della soggettività, «il pensiero dovrebbe renderle giustizia e attribuirle la possibilità di ciò che ha fatto come insita nella sua essenza iniziale»(p. 4).

L’evoluzione risolleverebbe dunque la questione ontologica: sparita la linea divisoria tra uomo e vita extraumana diviene arduo considerare i fenomeni psichici e spirituali come l’irruzione brusca di un principio ontologico estraneo, ciò suggerirebbe l’ipotesi che una dimensione interiore, sebbene incipiente e in grado infinitesimale, sia presente fin dai primi passi del vivente; anziché estendere le prerogative della “morta materia” e bandire la teleologia persino dalla natura dell’uomo, alienandolo da se stesso (cfr. p. 51), l’evoluzione può essere utilizzata in funzione dell’estensione graduale dell’interiorità a tutto il regno della vita (principio di continuità), accettando la testimonianza di un’interiorità diretta allo scopo come valida per quella più ampia realtà che l’ha fatta emergere da sé, cui verrebbe restituita un po’ della sua dignità.

L’esperienza della guerra, dell’esposizione del corpo al pericolo della lacerazione, troverà un terreno fertile: abbandonati gli studi sulla Gnosi (recuperati nella riflessione sul dualismo), Jonas si dedicherà al progetto di una biologia filosofica che recuperi alla considerazione filosofica il fenomeno organico in quanto originario e irriducibile alla sola interiorità o esteriorità, di cui è, anzi, fusione insolubile. Il fenomeno organico, confutazione vivente del dualismo e del riduzionismo materialistico, diviene primo paradigma di un’ontologia integrale, per pensare la relazione tra natura, materia, vita, spirito, essere e dover essere, per superare le astrazioni particolari che il dualismo ha separato e giungere al fondamento nascosto della loro unità (cfr. p. 27). La biologia filosofica mira dunque ad un’ontologia della vita non semplicemente regionale, limitata all’analisi fenomenologica del vivente, bensì fondamentale: le proprietà ontologiche (essenziali) del vivente sono paradigmatiche per una teoria generale dell’essere, in alternativa all’ontologia della morte che frantuma la realtà, ne contrappone i livelli e, infine, annulla le differenze. Si tratta dunque di recuperare, non solo l’unità psicofisica dell’uomo, ma dell’intero fenomeno della vita organica, che nella sua evoluzione rivela, nel continuum di uno sviluppo ascendente dal metabolismo allo spirito, gradi sempre crescenti di libertà (nel senso più avanti chiarito). La testimonianza della soggettività umana, elevata dall’A. ad archetipo del movimento orientato a un fine, non rimane così limitata a se stessa, ma tanto in polemica con la sua riduzione naturalistica, quanto con l’estraneità anti-naturalistica, investe il concetto della natura nella sua totalità. L’essere, per Jonas, è unitario e fornisce testimonianza di sé in quel che fa scaturire da sé. Sebbene l’uomo rappresenti uno snodo cruciale per una teoria dell’essere, dalla coscienza esangue della modernità ci si libera soltanto radicando filosofia della natura e dell’uomo sul terreno di una biologia filosofica. Coerentemente, nel noto saggio Dio è un matematico? (cap. V, pp. 95-129) l’A. ricorrerà al concetto di testimonianza immanente della creazione, secondo cui se un presunto principio cosmico non può render ragione della vita, allora è insufficiente per il cosmo stesso. Detto altrimenti, ciò che è valido per il tutto deve esserlo anche per le sue parti, per cui la semplicità dell’ameba non costituisce un’obiezione alla sua rilevanza ontologica. Il “Dio matematico”, simbolo del riduzionismo, non è credibile a causa della “cecità” nei confronti del metabolismo più semplice. Egli, nel seguire le traiettorie delle particelle materiali, non vede l’essenziale: la vitain quanto vita, la forma vivente (o identità formale-funzionale) che permane nonostante sia attraversata da particelle materiali che si trattengono entro i suoi confini temporaneamente e che di volta in volta la costituiscono.

Il metodo fenomenologico della biologia filosofica

Tratto caratteristico del metodo di Hans Jonas è l’interdisciplinarietà: spirito, coscienza, interiorità, corporeità, vita e materia non possono essere trattati in modo da rendere inconcepibile la loro relazione reciproca, giacché pienamente comprensibili solo in quest’ottica. Quest’ultima fa tutt’uno con il realismo nei confronti del dato scientifico, prova ne è la centralità assegnata a metabolismo ed evoluzione. La polemica è rivolta però alla scienza che fa cattiva metafisica quando, travalicando i propri limiti, si esprime apoditticamente su temi come il finalismo, il destino ultimo dell’uomo e della natura, la libertà, l’esistenza di Dio e dello spirito, o il fondamento della realtà. D’altro canto, un’indagine filosofica sull’uomo che ne ignori l’appartenenza alla natura o che, sedotta dal successo delle scienze naturali, pretenda di eguagliarne lo statuto epistemologico, finisce per distorcere l’oggetto di indagine. Distinzione degli ambiti non è né separazione (con la pretesa di una spiegazione esaustiva senza il riferimento reciproco che condanna all’incomunicabilità) né mutua negazione (che condanna all’irrealismo). L’interdisciplinarietà pone però il serio problema del metodo che la filosofia debba adottare per recepire il dato biologico senza tradire né la specificità del fenomeno né la propria. Ora, la biologia filosofica non intende contrapporsi a quella scientifica: suo compito specifico è cogliere l’essenza del fenomeno organico, ovvero ilprincipium individuationis presente nella “cosa” e vincolante per il pensiero, un principio d’ordine non imposto cioè esteriormente dall’intelletto per esigenze classificatorie, ma ciò per cui l’organismo vivente «è un tutto e non un mero molteplice»(cfr. cap. IV, Armonia, equilibrio e divenire, pp. 81-94). L’obiettivo è quello di vedere se nell’organico vi sia una proprietà che annunci l’apertura alla dimensione finalistica e spirituale manifestantesi pienamente solo con l’uomo, ma le cui radici affondano sempre nell’organico.

A riguardo, assume un ruolo di rilievo la ricostruzione jonasiana della storia dell’ontologia (cfr. cap. I, Il problema della vita e del corpo nella dottrina dell’essere, pp. 15-35), la cui chiave di lettura è il presupposto che la concezione della vita e dell’essere siano intimamente legate, tanto che al mutare dell’una muterebbe anche l’altra: ogni concezione dell’essere presupporrebbe, sin dagli albori della riflessione umana, una precomprensione della vita.

La storia dell’ontologia (non priva di un’eco hegeliana per la sua scansione dialettica, ma con alcune semplificazioni per il mancato accenno a correnti della biologia e della filosofia alternative al meccanicismo) è descritta suggestivamente come passaggio dall’ontologia della vita, fase corrispondente al primitivo panvitalismo pre-dualistico in cui l’Essere e il mondo sembrano intelligibili solo in quanto viventi, all’ontologia della morte, visione che permeerebbe ancora la nostra concezione del mondo. Entrambe annullano il confine tra vita e morte, ma l’una a favore della vita, interpretando la morte come passaggio interno alla vita, l’altra a favore della morte; nessuna delle due coglierebbe l’immagine integrale dell’essere. Tale ricostruzione mira a far emergere il fenomeno irriducibile che mette in crisi ogni teoria implicante il dualismo o l’epifenomenalismo monistico (riduzione della realtà ad una sola dimensione rispetto a cui tutto il resto è epifenomeno, fenomeno derivato come mera complicazione quantitativa); ognuna della sua fasi, lungi dall’essere un tentativo fallito, rivelerebbe una verità parziale sull’essere, e l’insieme la sua immagine integrale che zampilla, come dalla sua fonte primigenia, dal fenomeno psicofisico di cui la corporeità dà testimonianza.

Jonas mette qui in rilievo gli esiti paradossali cui il materialismo perviene proprio nel momento del suo “trionfo” (l’evoluzionismo), infatti, una materia che debba render conto della vita e dei suoi sviluppi non è più la “morta materia cartesiana”. Materialismo e Idealismo, ontologie parziali prodottesi dalla dissoluzione del dualismo, sono destinate al fallimento perché presuppongono sempre l’altra metà. L’epifenomenalista, inoltre, nel tentativo di smascherare l’organismo come ludibrium materiae (nell’ontologia della morte compito e criterio di successo della biologia) e lo spirito (il soggettivo o il mentale) come frutto di processi fisico-chimici del cervello, finisce per confutare se stesso e la propria teoria, in quanto frutto degli stessi processi cerebrali (come nella concezione sistemica della vita, forma più raffinata di meccanicismo per il ricorso ai concetti “pseudo-teleologici” della cibernetica, che Jonas critica per il totale fraintendimento del concetto di “fine”, confuso con “la fine” di un processo (cfr. cap. VII,Cibernetica e scopo, pp. 149-169).

Benché lo schema polare scoperto dal dualismo (sé-mondo, essere interiore-esteriore, anima-corpo, spirito-materia), non sia un’invenzione arbitraria, ma un aspetto radicato nell’essere stesso e nel carattere paradossale della vita (che contiene l’esperienza della mortalità, anche se non della mia morte), la definizione sempre più per reciproca esclusione di questi poli finirà col rendere incomprensibile il fenomeno organico e persino l’elementare e immediata esperienza psicofisica del poter muovere una parte del nostro corpo in base ad un atto della volontà (Cartesio). Tale processo corrisponde ad uno spettro lungo il quale Jonas colloca diverse forme di dualismo più o meno radicali, non tutte necessariamente nichilistiche (Orfismo, Platonismo, Gnosticismo, la riflessione paolina, agostiniana, Pascal, Cartesio). La vita, intesa come totalità originaria eccedente le componenti materiali, si perde in questi passaggi, “tra coscienza e mondo esterno” (p. 28), nessuno dei due più pensabile come fenomeno psicofisico.

Conseguenza del dualismo sulla teoria della conoscenza della natura, ridotta a res extensa depurata di tutti i caratteri enigmatici riservati alla res cogitans, è l’esclusione, inizialmente solo metodologica (riduzionismo metodologico), di ogni forma di finalismo, ovvero la pretesa che il metodo fisico-matematico, basato sull’equivalenza quantitativa causa-effetto, esaurisca l’ambito di “ciò che è”, mediante l’assunzione, a sua volta indimostrabile e controparte filosofica dell’ateismo, che ciò che non è matematizzabile e così dimostrabile non esiste (riduzionismo ontologico). Il successo della spiegazione “dal basso” che riduce i fenomeni complessi, nessuno dei quali più riconducibili a “gradi di interiorità”, ai valori quantitativi di materia e movimento, viene preso per la dimostrazione della non-esistenza delle cause finali.Il metodo diviene verità ontologica: questo il fideismo della modernità, complici alcune circostanze storiche, come la scoperta dell’irrilevanza quantitativa della vita, un’eccezione da riportare all’ortodossia materialistica, in un universo aperto ma governato da forze inanimate e forgiato secondo l’immagine del cadavere.

La struttura teleologica della corporeità umana, finché non riducibile alla sola alla causalità materiale, diviene fonte di corruzione della conoscenza per la tendenza all’antropomorfismo, alla proiezione cioè dei caratteri dell’esperienza interna sul mondo esterno (Bacone). L’esclusione dell’esperienza originaria della corporeità, ponte dalla coscienza al mondo,per cui siamo una parte del mondo, esperiamo la forza vitale, la connessione tra gli oggetti della natura e il loro impatto coercitivo, e costruiamo l’idea della natura come una totalità di connessioni causali, conduce però alla deriva idealistica: persino la causalità efficiente diviene ingiustificabile, poiché una “coscienza pura contemplativa” è “tanto poco viva” quanto la natura inanimata che le sta di fronte (cfr. p. 30), e non può più dare fondamento realistico al nesso causa-effetto dei fenomeni esteriori, i quali divengono frutto di una dinamica esclusivamente mentale (proiezione psicologica in Hume o categoria formale in Kant), che sostituisce la connessione reale.

L’uomo infatti conosce attraverso lo schematismo del movimento corporeo orientato. Il corpo, insomma, prima che oggetto di esperienza e di conoscenza, è fonte dell’esperienza da cui estrapoliamo i concetti di forza, azione e causalità. Tale esperienza precede per Jonas tanto i tentativi di comprensione dell’essere (ontologia) quanto i tentativi di comprensione scientifica della natura, ed è ineliminabile da entrambi, pena la rinuncia al realismo e l’impossibilità di falsificare la connessione mentale. Nessuno dei due approcci è infatti un cominciamento assoluto, entrambi muovono da un’esperienza del mondo già costituita, dalla precomprensione che l’uomo ha del proprio posto nel tutto dell’essere, in seguito alla quale delimita, seleziona, riduce. L’opposizione tra coscienza e vita è, insomma, un’astrazione legittima dal punto di vista metodologico, ma che va tenuta a mente come tale e come atto del soggetto vivente.

Proprio l’evoluzione, nel confutare la metafisica dualistica, aggiunge un elemento utile ad uscire da questo vicolo cieco, poiché coerente con la naturale empatia che l’uomo sperimenta e con il metodo fenomenologico che mette al centro l’esperienza della teleologia vissuta nella propria corporeità. Al sospetto su ogni antropomorfismo, che su quella metafisica si reggeva, può subentrare un “antropomorfismo critico” (da non confondere con l’antropocentrismo), inteso come estensione realistica dell’interiore all’esteriore in virtù della comunicazione tra vita e vita e non proiezione ingannevole.La nostra appartenenza alla vita è cioè via d’accesso privilegiata, anzi, condizione trascendentale della comprensione delle altre forme di vita (e della stessa biologia filosofica), «che ci viene messa a disposizione dalla nostra partecipazione all’essere» (p. 128). Senza di essa ci sfuggirebbe che la vita «è individualità che ha in se stessa il proprio centro», «atto incessante della propria autocontinuazione» (pp. 115-116) e che la materia nello spazio può avere un orizzonte interiore.

L’uomo, in quanto sviluppo più ricco del vivente, è definito dal nostro A. il massimo di concreta completezza ontologica a noi conosciuta in quanto unione “duale” e non dualistica di spirito e materia. Egli allora può essere testimonianza di una qualità di tutto l’essere organico, archetipo del concreto (Urbild des Konkreten), misura di tutte le cose (cfr. p. 32) e criterio dell’ontologia integrale. L’uomo è il vertice del vivente e dell’agire intenzionale partendo dal quale è possibile indagare “l’altro tipo di causalità” (quella finale che si eleva al di sopra della causalità immediata) e determinare le classi dell’essere riduttivamente attraverso progressive sottrazioni ontologiche, fino ai livelli più semplici della materia, invece di spiegare le realtà più completa per addizione cumulativa (riduzionismo). Egli getta luce al di sotto di sé e sulla totalità di cui è parte, in modo cioè che ciò che è superiore ci ammaestri su tutto ciò che è inferiore e che altrimenti rimarrebbe muto ed invisibile. Da qui il ruolo cardine assegnato alla fenomenologia della percezione umana, accessibile direttamente, nella comprensione in particolare della vita animale, il cui aspetto interiore ci è, al contrario, inaccessibile direttamente (cfr. cap. VI,Movimento e sentimento. Sull’anima animale, pp. 137-148).

Riguardo al rilievo assegnato al dato evolutivo da Jonas, tacciato dalla critica di “criptonaturalismo”, è bene precisarne il valore non fondativo, bensì “di supporto” al metodo fenomenologico: un’ontologia che individui nella vita lo sviluppo più significativo dell’essere, non potrà ignorarne il carattere diveniente e graduale. La rivalutazione della corporeità avviene peraltro primariamente entro la storia dell’ontologia e segnatamente mediante la dimostrazione della refrattarietà a tutti i tentativi di riduzione e del vicolo cieco cui l’epistemologia moderna perviene per la sua messa tra parentesi. Il fallimento del dualismo e delle ontologie post-dualistiche suggerisce la via della relazione e della dualità contro la via delle riduzione o della separazione: «nel corpo è stretto il nodo dell’essere che il dualismo taglia, non scioglie» (p. 34). Il corpo vivente, insomma, è pietra dello scandalo, è il memento dell’ancora irrisolto interrogativo su che cosa sia l’essere.

Ontologia della vita: organismo e libertà

Posta l’ipotesi dell’’estensione graduale dell’interiorità al vivente, Jonas individua nella “libertà” della forma organica metabolizzante dall’identità fissa con la materia, la forma che “prefigura” (annuncia) lo spirito. Essa è un concetto ontologicamente descrittivo che definisce il nuovo modo di essere dei viventi non condiviso da ciò che non rientra nella classe “organismo” (p. 39): per quanto semplice, ogni organismo è libertà, essi compaiono e rimangono insieme. Non si tratta pertanto di una libertà trascendente totalmente la materialità, ma di una “libertà bisognosa”, sempre vincolata alla necessità, nello sviluppo ascendente della vita non si dà, infatti, mai forma sussistente per sé senza materia (immaterialità). Jonas definisce questa libertà anche “libertà dialettica”, sussistente cioè in virtù della relazione dinamica tra i due termini distinti, ma non separati, di forma e materia, unità e molteplicità, essere e divenire. Tale distinzione lungi dall’essere un’astrazione, è così concreta che il suo venir meno coincide con la morte. La forma organica persiste, infatti, attraverso e nonostante il continuo ricambio materiale, e non è mai riferita ad un principio sovracorporeo (non a caso Jonas elabora un’idea di immortalità impersonale, mai riferita al singolo, come in Immortalità ed esistenza odierna).

Dalla prima proprietà e polarità ontologica forma-libertà/materia-necessità, appartenente essenzialmente alla vita, vengono poi dedotte tutte le altre, invisibili al “Dio matematico”, coppie apparentemente antitetiche ma concretamente unite nel vivente (autonomia/dipendenza, attività spontanea/passività, finalità immanente/ esposizione alla causalità materiale, identità/alterità, interiorità/esteriorità, chiusura/ ricettività e apertura al mondo, isolamento/relazione o capacità di esperienza, temporalità/mortalità, essere/non-essere). Ora, nonostante l’esplicita affermazione di una causalità formale e finale (la forma vivente non è risultato, bensì causa delle accumulazioni materiali, realtà originaria, principio di individuazione e organizzazione di una molteplicità materiale, condizione di unità, attività, intelligibilità), l’ontologia di Jonas può essere definita come una singolare combinazione di neoaristotelismo ed esistenzialismo.

L’eredità dal maestro Heidegger, che pur voleva superare, è evidente nell’onnipresenza del nulla, sfondo ineliminabile del valore assegnato alla vita e alla temporalità. Con la vita, la morte ha fatto la sua comparsa nel mondo: la vita è mortale non anche se è vita, bensì perché è vita. Il prezzo della libertà e dell’individualità è la mortalità radicata nella struttura ontologica dell’organismo proprio per larevocabilità del rapporto tra forma e materia, la non-identità fissa con la materia è infatti anche l’insufficienza di ogni sua materialità. L’esistenza non è possesso definitivo, bensì conquista di ogni attimo, frutto cioè di un’attività incessante senza la quale l’organismo non potrebbe mantenersi. Le cose viventi sono creature del bisogno sospese tra essere e non essere, la vita una “crisi continuata”posta sotto la minaccia del nulla dal quel verrà inevitabilmente inghiottita, ecco perché essa non solo può ma deve autoaffermarsi (principio dell’autoaffermazione della vita). L’attività implica la presenza, in ogni singolo organismo vivente, di un “sé”, per quanto incipiente, cioè di un individualità interiore rispetto alla quale lo scambio con l’ambiente non è indifferente, ma soddisfacente, frustrante o dannoso. È il bisogno materiale la radice ultima della natura teleologica della vita, dell’apertura cioè al mondo in senso spaziale, come “presenza di cose” e luogo della soddisfazione, e parimenti all’orizzonte temporale. L’organismo non è, infatti, riducibile all’organizzazione spaziale e sincronica delle parti, il suo “permanere attraverso il mutare” è un permanere non solo nello spazio ma anche nel tempo; l’organismo è sempre teso al futuro prossimo in quanto orizzonte della soddisfazione, il suo rapporto col tempo non può essere quello indifferente dell’oggetto inanimato. La temporalità è così individuata come altra caratteristica essenziale dell’organismo e il suo significato più proprio risiede nel fatto che gli stadi della vita sono qualitativamente differenti, irripetibili e significativi proprio per la revocabilità dell’esistenza.

L’apertura al mondo si sviluppa in un continuum ascendente di gradi di libertà corrispondente alla differenziazione delle funzioni e alla progressiva centralizzazione del sistema nervoso che conduce ad “avere presente un mondo” sempre più distinto, con una crescente individuazione che diviene cosciente nell’uomo. La libertà è dunque anche il principio motore dello sviluppo evolutivo ascendente (metabolismo, sensazione, movimento, emozione, percezione e desiderio, immaginazione, arte, concetto, spirito).

Sullo sfondo del non-essere, “essere” per il vivente assume così un senso enfatico come “no al non-essere”, una possibilità costantemente offerta da conquistare attimo per attimo; il fatto che la vita si autoaffermi testimonia per Jonas l’esistenza di un interesse e di un fine all’interno della natura, inteso come aspirazione ad essere e non-indifferenza del vivente rispetto a se stesso. L’uomo dunque non inaugura “il regno dei fini”, lo accoglie come obbligazione morale nel momento in cui ne diviene consapevole. Questa la via, qui solo abbozzata, alla fondazione ontologica del valore pel superamento di un’etica unilateralmente antropocentrica, per cui, secondo il nostro A.,una natura in divenire offre maggiori possibilità (Il principio responsabilità, Einaudi, Torino 1990, 2002).

Jonas ha ritenuto la riproduzione e la sessualità (in cui, è stato notato, avrebbe potuto intravedere un ‘embrione di immortalità’, oppure, ad un certo livello di complessità, una manifestazione della polarità e dell’apertura) espressamente eccedenti rispetto agli obiettivi dell’analisi fenomenologica, dal momento che gli organismi non devono necessariamente riprodursi per la propria conservazione. Il rischio è di reintrodurre surrettiziamente ciò che Jonas critica all’evoluzionismo, ovvero la riduzione della teleologia al mero fine dell’autoconservazione, se non fosse per la precisazione che l’animale aspira a conservarsi come essere sensibile e non solo metabolizzante. A fronte della tesi dell’appartenenza alla vita come criterio epistemologico fondamentale della biologia filosofica e alla luce della centralità della corporeità, espressione della sessualità, tali lacune risaltano maggiormente. Questi elementi avrebbero potuto offrire spunti se non altro alternativi a quelle visioni pseudoscientifiche che, facendo un uso improprio dell’antropomorfismo, esaltano l’egoismo.

L’origine della lacuna è dovuta alla concettualizzazione della relazionalità e della “trascendenza” limitatamente all’opposizione/relazione col mondo e mai in riferimento alle altre forme di vita: l’atto con cui la vita si autoisola è condizione della capacità di riferirsi al mondo; tale relazionalità implica un’intenzionalità, come capacità di uscire da sé e riferirsi a qualcos’altro da sé (l’alterità del mondo). Jonas definisce questa capacità “autotrascendimento dell’esser bisognoso” e “forma pre-spirituale” presente, per quanto rudimentale, in ogni organismo. Ritiene così d’aver dimostrato la tesi della “prefigurazione” dello spirito nell’organico, corollario del principio di continuità, cui mirava la biologia filosofica.

La mancanza di un più ampio concetto di relazionalità finisce per limitare anche l’antropologia jonasiana, in cui predomina la relazione col mondo come oggetto di esperienza, e dell’uomo con se stesso nella forma dell’autoggettivazione espressa dalla domanda sul proprio posto nell’essere. Ciò limita l’orizzonte del saggio, pur splendido, sull’uomo, la cui differenza specifica è individuata nella “libertà del raffigurare”, segno della presenza di un essere simbolico che si rapporta al mondo appropriandosi dei suoi oggetti attraverso il coglimento della loro forma immateriale (il genere, l’universale). L’inutilità biologica del più rozzo dei disegni su una parete è il motivo per cui non possiamo aspettarcelo da alcun animale, i cui “artefatti” sono sempre volti al soddisfacimento di bisogni vitali (cfr cap. IX, Homo Pictor: della libertà del raffigurare, pp. 204-223). La concezione della libertà umana e dell’azione appare tuttavia troppo limitata al mero incremento di potere nei confronti della natura (il che si ripercuoterà sull’etica).

È unicamente a questo livello che si può intuire il concetto jonasiano di spirito, di cui manca in Organismo e libertà unachiarificazione, che sarebbe stata importante in funzione antidualistica e antimaterialistica. Esso non coincide comunque con l’interiorità, quest’ultima prefigura lo spirito, il quale sembra coincidere con il pieno dispiegamento del principio ontologico, che ha orientato lo sviluppo della vita, nelle capacità superiori e nella “libertà duplice” dell’uomo, spirituale e corporea, cioè della teoria (come capacità di cogliere la forma e l’universale) e della prassi (capacità di imporre la forma alla materia, di manipolare l’ambiente, cioè progettualità e abilità tecnica). J. definisce infatti l’uomo come la “creatura più libera di tutte” (p. 191; cap. VIII, La nobiltà della vista, pp. 179-197). Questa l’unica indicazione certa.

Il filosofo ebreo conclude l’opera (Epilogo. Natura ed Etica, p. 305) con l’ipotesi, eccedente i limiti della biologia filosofica, di un finalismo globale entro cui l’uomo sarebbe esecutore di una tutela che egli soltanto può accogliere come obbligazione morale, ma che non ha creato. Una natura in divenire, maggiormente aperta alla dimensione storica come possibilità dell’emergere della novità, si concilierebbe meglio peraltro con l’idea di una direzionalità e di una destinazione ultima dell’uomo. Questi sarebbe allora un “evento più che umano”, “di importanza cosmica”, poiché, in quanto unico depositario dell’opzione fondamentale per l’essere che egli soltanto può rifiutare, avrebbe il potere di influire sulla condizione metafisica dell’essere stesso (idea ripresa ne Il concetto di Dio dopo Auschwitz, estrema professione di fede nonostante il male, in cui l’A. finisce per proiettare le caratteristiche ontologiche della vita su di un Dio affidatosi all’azzardo della libertà umana). A questo livello la libertà appare nel chiaroscuro di una facoltà che ha il potere di scegliere per l’essere o per il nulla, per la vita o contro la vita. Non a caso il concetto jonasiano di responsabilità assumerà sempre più una statura ontologica e metafisica, prima ancora che morale, che, però, di fronte alla rinuncia alla categoria del sacro diviene un compito immane.

Al di là dei limiti dovuti all’impronta esistenzialistica, il forte accento posto sul “lato oscuro” dell’avventura della libertà sull’ineliminabile relazione tra mortalità e identità (che si riflette sulle posizioni di Jonas in materia di bioetica e sulla concezione dell’immortalità), ha il suo vantaggio nella concretezza assegnata all’organismo e alla corporeità e nella maggiore lucidità, contro le “metafisiche del successo garantito” accusate di misconoscere la realtà drammatica della morte del singolo (Teilhard de Chardin, Whitehead, Appendice 2, p. 134), ma anche contro il pensiero sistemico e olistico che estendono il concetto di organismo a ciò che ontologicamente organismo non è, se non metaforicamente (società, ecosistemi, biosfera). La forma, infatti, è “limite” non solo in senso quantitativo, ma anche qualitativo, cioè anche in quanto “confine” e condizione di individualità.

Osservazioni conclusive

L’opera di Hans Jonas lascia in eredità l’invito a riflettere sulla natura della vita e a ripensare la relazione e i concetti di spirito e materia in rapporto alla vita, ma soprattutto l’aspirazione ad una visione unitaria e armonica della realtà e del sapere. Parte di questa eredità è anche la lucidità contro la tentazione perenne del rifiuto gnostico dell’ordo creationis che fa tutt’uno con l’urgenza di un’antropologia dell’immagine dell’uomo, preoccupazione tutt’altro che eccessiva di fronte alle possibilità dischiusesi con l’ingegneria genetica, rispetto alle quali le visioni che abbandonano l’uomo al flusso del divenire non possono che trovarsi impreparate. Certo è che Jonas concede molto all’esistenzialismo che pur voleva superare, proprio perché nell’accogliere l’evoluzione esalta la contingenza ed il rischio rispetto allo slancio dell’autoaffermazione ed alla creatività della vita, tanto più che egli si pronuncia esplicitamente sulla non necessità che il mondo esista (cfr. p. 302), ma non su una trascendenza che lo mantenga nell’Essere, che Jonas faticherà ad introdurre anche nelle opere in cui tratta direttamente il concetto di Spirito in una relazione sempre indecisa e preoccupata di mantenere il difficile equilibrio tra epifenomenalismo e dualismo. Esso afferma, invece, che il successo non è garantito, l’esito è, anzi, imprevedibile e contempla anche il fallimento. Una prospettiva escatologica (quale avrebbe potuto essere quella aperta dalla tensione verso una correlazione stabile tra materia e forma senza più la minaccia del non essere) manca in Jonas perché la vita non è l’incontenibile ed invincibile l’élan vital di Bergson, in marcia trionfale verso il compimento finale. Ora, non è sufficiente dimostrare l’esistenza di un finalismo immanente per superare il monismo materialismo o una teoria dell’emergenza, col quale anzi l’evoluzionismo meglio si concilia. In effetti, se la filosofia della vita deve comprendere la filosofia dell’organismo e la filosofia dello spirito, e se vita significa “vita materiale”, “corpo vivente”, “essere organico” (p. 34), unione concreta di materia e forma, e ciò vale anche per l’uomo, è allora difficile ancorare la temporalità e il divenire all’eterno e alla speranza, come auspicato da Jonas, che la temporalità non possa essere l’intera verità (cfr. p. 290).

Valentina Orlando
Dottore di ricerca in Filosofia, Perugia