Hans Jonas, Das Prinzip Verantwortung. Versuch einer Ethik für die technologische Zivilisation, Insel, Frankfurt am Main 1979.
L’autore
Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica (1979) di Hans Jonas rappresenta uno dei testi classici dell’etica filosofica del Novecento, nonché l’opera più celebre del filosofo tedesco: in essa si condensano e si agglutinano le ricerche teoriche e le vicende biografiche che ne hanno scandito l’esistenza. Nato in una famiglia ebraica nel 1903 a Mönchengladbach, la parabola della sua vita interseca, come quella di moltissimi intellettuali tedeschi, alcuni fra i momenti storici più drammatici e più intensi dello scorso secolo.
La formazione di Jonas si svolge inizialmente attraverso lo studio della filosofia e della teologia in diverse università tedesche, presso le quali entra in contatto con alcuni maestri del pensiero novecentesco. Nel 1921, dopo aver ottenuto il diploma presso il liceo della propria città natale, inizia a frequentare i corsi di filosofia e di storia dell’arte all’Università di Friburgo, dove sono allora presenti figure del calibro di Jonas Cohn, Martin Heidegger e Edmund Husserl. Nel semestre successivo, tuttavia, si trasferisce a Berlino, presso la cui facoltà di filosofia segue i corsi di Eduard Meyer, Eduard Spranger ed Ernst Troeltsch, il cui approccio pedagogico influenzerà profondamente la sua riflessione successiva. Contemporaneamente, inizia a frequentare la Hochschule für die Wissenschaft des Judentums (Accademia per lo studio dell’ebraismo) di Berlino, istituzione soppressa nel 1942 dal Terzo Reich. Qui vi conosce Günther Anders e Leo Strauss. Dopo un breve periodo dedicato alla preparazione dell’emigrazione in Palestina, nell’ottobre del 1923 Jonas decide di tornare a Friburgo per completare, invece, i propri studi filosofici. Qui rinsalda il proprio rapporto con Heidegger, e decide di seguirlo, nel semestre successivo, a Marburgo. Nella cittadina dell’Assia conosce Hannah Arendt, con la quale stringe un’amicizia destinata a durare a lungo.
È durante questa fase della sua formazione che Jonas inizia a sviluppare un interesse crescente per la gnosi, tema che costituirà il centro delle sue ricerche per il conseguimento del dottorato nel 1928 a Marburgo sotto la direzione di Heidegger e Rudolf Bultmann. Con gli studi per la tesi è inaugurata una serie di studi sullo gnosticismo che rappresentano il precipitato delle ricerche della “prima fase” del suo pensiero. Fra di essi figurano Der Begriff der Gnosis (1930), Gnosi e spirito tardo-antico (2 voll. [1934-1954], tr. it. Bompiani, Milano 2010), Agostino e il problema paolino della libertà ([1930], tr. it. Morcelliana, Brescia 2007), studio che risente dell’influenza della tesi di dottorato dell’amica Arendt (Il concetto d’amore in Agostino. Saggio di interpretazione filosofica [1929], tr. it. SE, Milano 1992) e Lo gnosticismo ([1954], tr. it. SEI, Torino 1973). Il filo conduttore principale che lega fra loro questi studi è l’utilizzo per lo studio dell’ellenismo e del cristianesimo antico di categorie “esistenzialistiche” acquisite da Bultmann e Heidegger.
Una svolta biografica decisiva per Jonas è rappresentata dall’ottenimento del potere in Germania da parte dei nazionalsocialisti. Nell’ottobre del 1933, infatti, emigra a Londra per trasferirsi poi nel 1935 a Gerusalemme, dove si unisce all’Haganah, organizzazione paramilitare ebraica attiva in Palestina dal 1920 al 1948. A partire dallo scoppio della seconda guerra mondiale, Jonas s’impegna attivamente nella vita militare: è arruolato nella contraerea inglese, partecipando alla difesa di Haifa, e nel 1944 entra a far parte della Brigata ebraica dell’esercito britannico, schierata in Italia durante la risalita della penisola per la Liberazione. Infine, serve nel neonato esercito israeliano fra il 1948 e il 1949. Quest’insieme di esperienze è destinato a lasciare una traccia profonda sul suo pensiero. Il principio responsabilità, infatti, pone al centro delle proprie considerazioni la preoccupazione per i potenziali rischi che lo sviluppo tecnico e tecnologico verificatosi nel Novecento ha palesato con inusitata crudezza proprio durante i lunghi anni dei totalitarismi europei e della seconda guerra mondiale.
Prima con il trasferimento nel 1949 in Canada, dov’è borsista alla McGill University di Montreal e alla Carleton University di Ottawa, poi con lo spostamento a New York, in cui ottiene l’incarico di professore alla New School for Social Research, s’inaugura una “seconda fase” della ricerca di Jonas, che fa seguito agli studi sullo gnosticismo. Con l’approdo nel nuovo continente, infatti, comincia a sviluppare un’analisi che si rivolge ai problemi dell’organismo e, più in generale, della vita biologica, indagando la corporeità e la materia anche attraverso le categorie dell’antropologia filosofica tedesca (soprattutto Arnold Gehlen e Helmuth Plessner). Risultato principale di questa fase della sua ricerca è soprattutto il volume Organismo e libertà. Verso una biologia filosofica ([1966], tr. it. Einaudi, Torino 1999), in cui affronta criticamente la «predominanza ontologica della morte» (p. 20) ch’egli ritiene d’individuare nella riduzione materialistica e meccanicistica del pensiero contemporaneo.
Una terza e ultima stagione della filosofia di Jonas è infine quella che si dipana attorno a, e a partire da, Il principio responsabilità, il quale raccoglie e reimposta diversamente i risultati conseguiti dall’interezza degli studi che lo precedono. Infatti è proprio nel tentativo di sviluppare una “biologia filosofica” ch’egli entra in contatto con questioni e problemi di carattere pratico derivanti dalla diffusione, nel XX secolo, di tecniche di controllo e di manipolazione della natura, della vita e della morte. Come testimoniato da uno degli ultimi testi pubblicati da Jonas, intitolato Tecnica, medicina ed etica. Prassi del principio responsabilità ([1985], tr. it. Einaudi, Torino 1997), il pensiero del filosofo tedesco si rivolge in questa fase all’indagine bioetica con la volontà di mostrare i pericoli che la vita deve fronteggiare di fronte alle sembianze del «Prometeo irresistibilmente scatenato» (p. XXVII) che l’umanità sembra aver assunto nel corso del Novecento. La necessità di preservare l’umanità e la sua vita di fronte alle minacce cui la tecnicacontemporanea lo pone dinanzi; la critica alle concezioni ingenuamente utopistiche o esageratamente pessimistiche circa il futuro politico-pratico di organizzazione collettiva della vita umana e la fiducia nella facoltà razionale umana; la volontà, dunque, di mettere a punto un principio e dei criteri razionali capaci di essere applicati concretamente all’orientamento dell’attività dell’uomo: sono soprattutto questi i temi su cui Jonas, a partire da Il principio responsabilità, ha lavorato fino al momento della sua morte, sopraggiunta a New York nel 1993.
Un «Tractatus technologico-ethicus»
La fiducia di Jonas nella razionalità è evidente sin dalla struttura stessa de Il principio responsabilità, presentato nella Prefazione come un «Tractatus technologico-ethicus» che «avanza pretese di rigore» (p. XXIX) nei confronti degli esiti cui deve mettere capo, ovvero una trattazione esaustiva e ben fondata capace di sviluppare un’etica per l’epoca della civiltà tecnologica. Il richiamo al more geometrico spinoziano, che echeggia in qualche modo anche il Tractatus di Ludwig Wittgenstein, domina la ripartizione interna del libro, suddiviso in sei capitoli principali da cui si diramano ulteriori paragrafi, scolii e discussioni.
Il primo capitolo, intitolato La mutata natura dell’agire umano, pone con grande chiarezza la questione teorica centrale dibattuta lungo tutto il testo. L’intero senso della proposta di Jonas, infatti, ruota attorno all’idea che il progresso tecnologico avvenuto nel corso dei secoli XIX e XX abbia modificato in maniera sostanziale l’essenza dell’azione umana. Pertanto, di fronte all’immensità della catena di conseguenze che, grazie al potere della strumentazione tecnica di cui l’umanità si è dotata, ogni singola azione può scatenare, è necessaria una nuova riflessione etica che sostituisca i vecchi principi su cui questa branca della filosofia si è storicamente costituita. Secondo Jonas, «si è trasformata la natura dell’agire umano, e poiché l’etica ha a che fare con l’agire […], il mutamento della natura dell’agire umano esige anche un mutamento nell’etica» (p. 3). I limiti dell’etica classica convergerebbero, per il filosofo, soprattutto nella limitatezza ch’essa accordava all’azione umana. Storicamente, l’etica è stata compresa, da Platone a Kant e aldilà, come circoscritta al tempo presente, all’hic et nunc; relativa esclusivamente al rapporto dell’uomo con i propri simili; concernente perlopiù la condotta del singolo e non di una collettività. In altre parole, l’etica avrebbe sempre riguardato esclusivamente gli effetti e le modalità dell’agire in relazione al presente, non avrebbe mai riflettuto davvero sugli effetti dell’agire umano che ricadono al di fuori della sfera antropologica e sarebbe stata sempre calibrata a partire da azioni individuali, non comunitarie.
L’avanzata tecnologica scompagina tale impostazione e rende obsoleta ogni concezione etico-morale che non tenga debitamente in considerazione il rapporto dell’uomo col resto del mondo, che sia incapace di includere il futuro nel proprio orizzonte temporale di riflessione e che non sappia riconoscere la trasformazione dell’attore etico da individuale a comunitario. In primo luogo, infatti, la potenza modificatrice che la tecnica moderna può dispiegare ha per contraltare una novità assoluta in campo etico: «la vulnerabilità critica della natura davanti all’intervento tecnico dell’uomo» (p. 10). In secondo luogo, l’agire tecnico è capace oramai di conseguenze passibili di protrarsi per secoli e millenni, di conseguenza esso necessita di «un’etica della previsione e della responsabilità» (p. 24) all’altezza di questa dilatazione temporale dell’azione umana introdotta dalla tecnica. In terzo luogo, nel mutamento antropologico indotto dallo sviluppo tecnologico che trasforma, secondo il pensatore tedesco, l’homo sapiensin homo faber, «sono l’attore e l’azione collettivi, non l’attore e l’azione individuali» (p. 14) il perno della riflessione etica. Quest’insieme di posizioni rende chiaro per quali motivi Il principio responsabilità abbia potuto rappresentare uno dei testi “fondativi” per la riflessione ecologica e per i movimenti politici ambientalisti. L’acume critico che nutre le pagine di Jonas ha reso possibile l’apertura di uno spazio di riflessione e di dibattito capace di accogliere al suo interno questioni etico-politiche di grande rilevanza per il mondo contemporaneo.
Nelle Questioni relative ai fondamenti e al metodo che costituiscono il secondo capitolo, Jonas specifica alcuni dei principi che devono fungere da guida per l’istituzione di questa nuova etica. Il primo principio fondamentale ch’egli rintraccia riguarda il ruolo dell’esistenza umana in relazione alla temporalità. Poiché, come abbiamo visto, l’etica della civiltà tecnologica dovrà essere in grado di guardare principalmente al futuro, e poiché al futuro ci si rapporta attraverso previsioni e scommesse, scrive Jonas, «non si deve mai fare dell’esistenza o dell’essenza dell’uomo globalmente inteso una posta in gioco nelle scommesse dell’agire» (p. 47). Rovesciando l’idea insita nella riflessione pascaliana di una scommessa in cui si punta sul nulla, Jonas insiste infatti sulla necessità di tutelare l’esserci e l’essere-così (ovvero le caratteristiche che riconosciamo come fondamentali per la definizione dell’uomo) tanto dell’umanità presente quanto, soprattutto, della «discendenza» futura (p. 51).
Per assicurare questo principio Jonas riconosce la necessità di un discorso che sia ben fondato dal punto di vista ontologico e metafisico. L’essere e il dover-essere, infatti, hanno un fondamento che solo un’interrogazione metafisica può assicurare dacché «si può scegliere il non essere in luogo di tutte le alternative dell’essere se non è riconosciuta un’assoluta priorità dell’essere rispetto al nulla» (p. 58). Per questo la risposta al quesito leibniziano, che si domandava “perché esiste qualcosa piuttosto che il nulla?” (cfr. pp- 59-60), assume un’urgenza radicale per ogni interrogazione etica. Tuttavia, il senso della domanda leibniziana dev’essere traslato alla seguente maniera: «perché qualcosa deveavere la priorità sul nulla» (p. 61)? In tal modo diviene evidente la necessità di riflettere sull’attribuzione di valore implicita in un simile quesito.
Così, nel terzo capitolo Jonas approccia una teoria del valore che prende le mosse proprio dal rapporto fra il valore e il discorso ontologico. Sugli scopi e la loro posizione nell’essere indaga, dunque, sulla differenza che vige fra il concetto di scopo e quello di valore poiché distinguendo fra queste due nozioni è possibile fondare un’etica vincolante rispetto al mondo della natura. L’intera realtà, afferma Jonas, mostra ovunque degli scopi, sia nel regno animale sia nel regno vegetale. Tale onnipresenza degli scopi nella natura permette di ravvisare in essa del valore, dal momento che il giudizio di valore è proprio ciò che valuta gli esseri in relazione ai loro scopi immanenti. L’ultimo passaggio necessario, allora, consiste nel dimostrare l’oggettività del valore che la natura custodisce. Ma per fare ciò, ovvero per rendere «vincolante» l’approvazione umana nei confronti dei valori della natura, bisogna compiere un passo oltre la logica e l’ontologia, sconfinando nell’etica: «è necessario il concetto di bene, che non è identico a quello di valore e che […] stabilisce la differenza fra status oggettivo e soggettivo del valore» (p. 97). Non basta riconoscere che la natura possiede intrinsecamente scopi e valori, occorre pure dimostrare l’esigenza di approvarli e tutelarli.
La responsabilità
Se i primi tre capitoli del testo hanno la funzione di preparare e impostare la discussione sul principio responsabilità, sono gli ultimi tre, invece, ad affondare i colpi teorici che permettono a Jonas di plasmarela propria proposta etico-filosofica. Nel quarto capitolo, intitolato Il bene, il dover essere e l’essere: la teoria della responsabilità, il pensatore propone infatti un assioma ontologico che funge da perno per la costruzione di una teoria della responsabilità. Tale assioma vuole che la «capacità di avere degli scopi in generale» rappresenti «un bene-in-sé, la cui infinita superiorità rispetto a ogni assenza di scopo dell’essere è intuitivamente certa» (p. 102). Dunque è possibile parlare del bene soltanto a partire dall’assioma che promuove lo scopo a un rango ontologico superiore rispetto all’assenza di scopo. Da ciò si diramano una serie di fruttuose conseguenze.
In particolare, la più importante è quella che permette di ravvisare il bene in un oggetto completamente nuovo per la teoria etica: il transeunte. Se, infatti, traguardo delle aspirazioni morali nelle dottrine etiche tradizionali era il «bene supremo» – una sorta di «corollario dell’idea di perfezione» (p. 110) –, la manovra teorica di Jonas consente di guardare a ciò che è «del tutto contingente nella sua fattualità, percepito proprio nella sua transitorietà, indigenza e insicurezza» (ibidem) come necessitante di azioni responsabili nei suoi riguardi. In altre parole, dal momento che, come abbiamo visto, le capacità tecnico-tecnologiche giungono a minacciare la natura e l’essere umano stesso e a caratterizzare quest’ultimo come potenzialmente transeunte, la responsabilità nei suoi confronti deve divenire il perno di una nuova etica, capace di tutelare e salvaguardare gli scopi che appartengono a questi oggetti rischiosamente caduchi.
Ma cosa intende Jonas per responsabilità? Innanzitutto, questa nozione si lega a quella di causalità. «La condizione della responsabilità è il potere causale» (p. 115), scrive, intendendo sostenere che vi può essere responsabilità solo laddove gli agenti sono ritenuti “padroni” delle proprie azioni. La responsabilità, tuttavia, non dev’essere intesa soltanto retroattivamente, come avviene nella sfera del giuridico, bensì riguarda pure la «determinazione del da-farsi» (p. 117), traducendosi in un «senso della responsabilità» (p. 118) che deve guidare le azioni della collettività umana. Fondamentale, pertanto, è che questa responsabilità sia ben radicata, come abbiamo visto, in una prospettiva morale che abbia piena cognizione di un orizzonte temporale proteso verso il futuro.
Più che dalle definizioni nominali e dalle specificazioni teoriche, il senso e l’importanza della responsabilità per la teoria etica di Jonas sembrano emergere soprattutto dai due capitoli finali, che rappresentano un tentativo di applicare le proprie categorie e le proprie idee al mondo contemporaneo, nonché di contribuire all’apertura di uno spazio discorsivo inedito per il momento storico in cui il libro fu pubblicato. C’è anche da dire, però, che buona parte delle argomentazioni di Jonas sono calibrate sull’assetto geopolitico mondiale degli anni Settanta del Novecento, il quale era regolato dalla convivenza dei “due blocchi” (il socialismo sovietico da una parte e il capitalismo occidentale dall’altra). Per questo motivo molte pagine dedicate da Jonas alla comparazione fra i due contrapposti sistemi politico-economici sembrano aver perso, se non di mordente, perlomeno di attualità. Tuttavia, alcune acquisizioni del libro di Jonas possono tutt’oggi giocare un ruolo nella riflessione sulla “civiltà tecnologica”.
Nel quinto capitolo del libro, La responsabilità oggi: il futuro minacciato e l’idea di progresso, è importante rilevare la «solidarietà d’interesse con il mondo organico» (p. 175) che deve guidare l’agire collettivo futuro dell’umanità. Occorre constatare che con il «dominio del pensiero e con il potere della civiltà tecnologica […], una forma di vita, “l’uomo”, è stata messa in grado di minacciare tutte le altre (e quindi anche se stessa)» (p. 177). Quell’atteggiamento che, con un termine contemporaneo, potremmo indicare come “ecologismo” è necessario per sventare la minaccia che l’irresistibile e repentino progresso tecnologico ci pone dinanzi. Il potere tecnologico dell’uomo, e la razionalità di cui è dotato, implicano infatti «di per sé la responsabilità […]. Potere e pericolo rendono evidente un dovere che mediante la solidarietà senza alternative nei confronti dell’ambiente si estende, prescindendo da ogni possibile consenso, dalla nostra specie alla totalità dell’essere» (ibidem).
Il sesto capitolo, infine, La critica dell’utopia e l’etica della responsabilità, si concentra perlopiù sulla discussione critica della vocazione utopista che, secondo Jonas, appartiene al pensiero marxiano e marxista, prendendo come bersaglio polemico soprattutto Ernst Bloch e il suo «principio speranza». L’utopismo, infatti, sviluppa una «ontologia del non-essere ancora» (p. 278) che pone la comparsa sulla terra dell’uomo autentico in un futuro sempre da realizzarsi. Al contrario, per Jonas l’umanità autentica è già qui, «con tutti i suoi estremi, nella grandezza e nella meschinità, nella felicità e nel tormento, nell’innocenza e nella colpa; in breve, in tutta l’ambiguità che [le] è connaturata. Volerla eliminare significa voler eliminare l’uomo e la sua incommensurabile libertà» (ibidem).
Sebbene le soluzioni e le indagini politiche proposte da Jonas appaiano lontane dalla crisi ecologica odierna, seppur l’intensificarsi del progresso tecnologico costringa a ripensare in chiave ancor più critica i rischi e le possibilità che l’umanità si trova oggi di fronte, Il principio responsabilità rimane un testo chiave per qualsiasi riflessione etica che si prefigga di sviluppare delle soluzioni concrete ad alcuni fra i problemi pratici e teorici più urgenti del mondo contemporaneo. Richiamando l’uomo alla responsabilità nei confronti del proprio simile e dell’ambiente naturale in cui abita, insistendo sull’importanza della razionalità e della capacità di fare previsioni responsabili per il futuro, Jonas fornisce degli strumenti concettuali fruttuosi per immaginare una forma di convivenza fra gli uomini e, fra questi e la natura, ben più desiderabile delle intollerabili catastrofi di cui siamo quotidianamente spettatori. Dalle sue pagine si levano un appello alla razionalità e un’ingiunzione a ripensare il nostro modo di essere-nel-mondo che sono, oramai, impossibili da ignorare.
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