I. Kant, Kritik der Urteilskraft, Lagarde und Friedrich, Berlin und Libau 1790 (AA V); trad. it. di E. Garroni e H. Hoehnegger, Critica della facoltà di giudizio, Einaudi, Torino 1999.
Estetica e epistemologia: il problema del giudizio
La Critica della facoltà di giudizio viene pubblicata da Kant nel 1790 e conclude la trilogia delle opere che presentano il sistema della “filosofia critica”. Dopo aver pubblicato nel 1781 la Critica della ragion pura, nella quale esamina le condizioni di possibilità della conoscenza e dopo aver pubblicato nel 1788 La critica della ragion pratica, nella quale esamina i principi morali dell’agire, Kant sente l’esigenza di completare il quadro della filosofia critica con un’opera dedicata al problema del giudizio. Nell’ultimo paragrafo dell’introduzione alla terza Critica Kant spiega le ragioni di questa articolazione triadica, sostenendo che le facoltà superiori dell’animo umano sono sostanzialmente tre: la facoltà conoscitiva, che è regolata dai principi a priori dell’intelletto, analizzati nella prima Critica; la facoltà di desiderare, che è regolata dai principi a priori della ragione, analizzati nella seconda Critica; il sentimento di piacere e dispiacere, che è regolato dal principio a priori del giudizio, analizzato nella terza Critica (cf. tr. it. Einaudi, Torino 1999, p. 33).
La Critica della facoltà di giudizio è un testo complesso in cui si intrecciano diverse problematiche che, a prima vista, potrebbero sembrare non legate tra loro. La prima difficoltà che bisogna superare, per leggere questo testo, è di comprendere l’idea di fondo che tiene insieme queste problematiche apparentemente così eterogenee. In effetti ancora oggi la terza Critica viene presentata come se fosse semplicemente un trattato di estetica. Questa idea non è del tutto sbagliata, poiché è indubbio che la parte più ampia del testo è dedicata a problemi che sono di competenza dell’estetica (che cos’è il bello? che cos’è il sublime? che cos’è l’arte?). Tuttavia che la Critica della facoltà di giudizio non sia soltanto un trattato di estetica, lo si capisce anche solo prestando attenzione al titolo del testo. Kant, infatti, non intitola la sua opera Critica della facoltà “estetica” di giudizio (questo è il titolo che inquadra solo la prima sezione del testo) ma Critica della facoltà di giudizio, impegnandosi così a presentare una teoria del giudicare inteso nel suo senso più ampio e generale.
Nella Critica della ragion pura Kant aveva già parlato del giudizio, spiegando che in realtà pensare significa sempre giudicare. Il problema del giudizio appare dal punto di vista kantiano come un problema che implica l’intera sfera della conoscenza teoretica. Il fatto che la terza Critica si intitoli Critica della facoltà di giudizio suggerisce fin da subito che la posta in gioco del testo sia estetica, ma anche teoretica. Evidentemente Kant, riteneva che la trattazione relativa al giudizio già presente nella Critica della ragion pura non fosse ancora completa e che il problema del giudizio necessitasse di un’ulteriore (fondamentale) analisi. Se è vero che la trattazione dei problemi specificamente di competenza dell’estetica occupa la parte più ampia del testo, è altrettanto vero che i nove paragrafi dell’introduzione si configurano come una sorta di mini-trattazione (di una densità teorica che ha pochi paragoni) il cui significato è innanzitutto epistemologico. In quelle pagine Kant affronta una questione centrale per fondare la possibilità della conoscenza scientifica in generale, ovvero la questione del principio trascendentale della facoltà di giudizio.
Per Kant i principi trascendentali sono quelle proposizioni universali che devono essere presupposte a priori come condizioni di possibilità di ogni conoscenza. Dunque la questione del principio trascendentale del giudizio è una questione epistemologica in cui ne va della possibilità del sapere scientifico in quanto tale. In particolare, nel paragrafo IV dell’introduzione, Kant introduce una distinzione che non era presente nella prima Critica e che segna un decisivo riassestamento nell’equilibrio generale della sua teoria epistemologica: da una parte ci sono i giudizi determinanti, che sono i giudizi in cui l’universale è già dato e si tratta semplicemente di applicarlo al particolare, dall’altra parte ci sono i giudizi riflettenti, che sono i giudizi in cui l’universale non è già dato e deve essere trovato (cf. ivi, p. 15). I giudizi determinanti per antonomasia, cioè i giudizi che sono solo ed esclusivamente determinanti, sono quelli che la ragione formula applicando i concetti puri dell’intelletto (per esempio il concetto di causa, o il concetto di sostanza). I concetti puri sono “già dati” nel senso che sono a priori, cioè precedono l’esperienza e la fondano come dei presupposti universali. I giudizi puramente determinanti sono quindi i giudizi sintetici a priori descritti nella prima Critica, ovvero le proposizioni fondamentali che regolano in generale il funzionamento della ragione umana: per esempio la proposizione “ogni mutamento ha una causa” è un giudizio puramente determinante (cf. ivi, p. 18).
I giudizi riflettenti, invece, sono i giudizi che il soggetto formula quando incontra un particolare che deve essere sussunto sotto un universale che non è (ancora) dato. Anche se Kant non è del tutto esplicito a questo proposito, leggendo attentamente il paragrafo IV dell’introduzione si capisce che gli universali che non sono dati, cioè gli universali che sono cercati nel giudizio riflettente, sono i concetti empirici (“cane”, “gatto”, “albero”, “casa”, ecc.) e le leggi empiriche della fisica (la legge fondamentale dei gas, la legge di gravità, la legge della conservazione dell’energia, ecc.). Dunque la formula del giudizio riflettente potrebbe essere la seguente: “questo X è un caso di una legge fisica Y, o di un concetto empirico Z, che ancora non conosco”. È chiaro, allora, che il giudizio riflettente è un’operazione trascendentale assolutamente fondamentale, perché è l’attività cognitiva che ci consente di scoprire nuove regole e nuove leggi empiriche e di costruire concetti empirici e classificazioni a posteriori.
Estetica e teleologia
Se le cose stanno così, ci si può domandare cosa abbiano a che fare i problemi epistemologici che vengono posti nell’introduzione (come sono possibili i giudizi riflettenti? come sono possibili i concetti empirici? come sono possibili le leggi empiriche della fisica?) e i problemi estetici che sono analizzati nella prima parte dell’opera. La questione si complica ulteriormente perché accanto ai problemi estetici e epistemologici, nella terza Critica troviamo anche un terzo ordine di problemi. La seconda parte del testo, infatti, è dedicata alla facoltà teleologica di giudizio. Ma cosa vuol dire facoltà teleologica di giudizio? La teleologia nella tradizione filosofica occidentale era quella parte della filosofia che si interessava del finalismo presente nell’universo (“telos” in greco significa appunto “fine”). Mentre il giudizio estetico, per Kant, è il giudizio che riconosce il valore estetico di un oggetto (“questo X è bello”), il giudizio teleologico è il giudizio che riconosce la conformità di un oggetto ad uno scopo, cioè la sua adeguatezza in relazione ad un determinato fine (“questo X è perfettamente adeguato a questo scopo Y”).
I problemi teleologici, dunque, sono i problemi in cui ci si imbatte quando si considera il finalismo della natura. Questi problemi avevano sempre avuto, nella storia della filosofia occidentale, una connotazione metafisica. Autori come Platone, Aristotele e Tommaso – solo per fare i nomi più noti – avevano sostenuto, molto prima di Kant, l’ipotesi di una organizzazione finalistica dell’universo. La natura nelle sue molteplici forme appariva all’uomo antico e all’uomo medioevale come una straordinaria armonia, dove tutti gli enti sembravano concorrere, in modo ordinato, ad un medesimo fine. Ma la complessità di questa armonia finalistica era sempre stata interpretata in senso metafisico. Era questo il senso di quello che Kant nella terza Critica chiama “argomento fisico-teleologico” (ivi, p. 277): la natura è talmente perfetta nella sua complessità, è talmente unitaria, pur nella diversità delle sue forme, che la ragione è costretta ad ammettere l’esistenza di un ordinatore supremo. Platone nel Timeo aveva immaginato un’intelligenza divina – il celebre Demiurgo – come origine ultima del finalismo della natura. Aristotele aveva ipotizzato un Motore immobile come termine ultimo del finalismo naturale. Tommaso, da parte sua, nella famosa “quinta via”, aveva utilizzato l’argomento teleologico per dimostrare l’esistenza di Dio. L’ipotesi teleologica era, dunque, una teoria fisica e metafisica che aveva una tradizione secolare più che autorevole. Ma perché inserire una trattazione di questo genere in un testo dedicato al problema del giudizio?
Guardando l’indice della terza Critica il lettore si trova a prima vista spiazzato da questa strana eterogeneità: l’introduzione sembra voler tematizzare innanzitutto problemi epistemologici (come sono possibili giudizi riflettenti? come sono possibili i concetti empirici? come sono possibili le leggi empiriche della scienza?), la prima parte sembra voler tematizzare problemi estetici (che cos’è la bellezza? che cos’è il sublime? che cos’è l’arte?), la terza parte, infine, sembra voler tematizzare questioni che si situano nella zona di intersezione tra le scienze naturali e la metafisica (qual è il fine delle parti di cui si compone un organismo naturale? qual è il fine dei singoli organismi naturali? qual è il fine della natura nella sua totalità?). Che nesso c’è tra queste questioni così apparentemente irrelate?
Per rispondere a questa domanda e individuare l’elemento che accomuna questi diversi problemi, riconoscendo un’unità di fondo nella terza Critica, è necessario leggere con attenzione il paragrafo V dell’introduzione. In quel paragrafo Kant spiega che la ragione umana è dotata di un principio assolutamente fondamentale che, in quanto principio trascendentale della facoltà di giudizio, è una condizione di possibilità imprescindibile di ogni conoscenza della natura. Questo principio, che è a priori e che è assolutamente universale, è “il principio della conformità della natura a scopi” (ivi, p. 17). Se volessimo formulare questa idea in altri termini, potremmo dire che per Kant nella mente umana c’è una regola fondamentale, che è alla base di ogni conoscenza ricavata dall’esperienza e che può essere formulata nella seguente proposizione: “la natura è un sistema di enti che hanno una finalità razionale”. Ora in che modo questa regola assolutamente universale si applica nei tre diversi ambiti dell’epistemologia, dell’estetica e della teleologia?
La finalità della natura nella bellezza e nel sublime
È piuttosto facile comprendere in che senso e in che modo il principio della finalità della natura (o conformità della natura a scopi) si applichi alla teleologia. Come ho detto in precedenza, la teleologia è per Kant quella parte della filosofia che si interessa della finalità che è possibile riscontrare nel cosmo inteso come totalità (“qual è il fine ultimo della natura?”), ma anche della finalità che si può riscontrare nei singoli enti naturali (“qual è il fine dell’albero da frutta o del cavallo?”) e nelle singole parti di un organismo naturale (“qual è il fine del fiore?”, “qual è il fine dello zoccolo del cavallo?”). Tutti i giudizi teleologici che possiamo formulare (“la natura ha come scopo ultimo l’uomo”, “lo scopo del melo o del pero è dare nutrimento a molti animali”, “lo scopo del fiore è assicurare la riproduzione”, ecc.) presuppongono molto evidentemente l’assunzione preliminare della finalità della natura, ovvero il principio trascendentale della facoltà di giudizio. Anzi possiamo dire che esiste un intero ambito di enti naturali – l’ambito degli enti viventi studiati dalla biologia – che non sarebbe comprensibile senza presupporre questo principio. Il vivente è precisamente un ente che sembra avere un fine in se stesso, cioè, nei termini kantiani, è un ente che appare come uno “scopo naturale” (ivi, p. 195). Gli organi e le parti di un essere vivente sono aggregati di materia che sembrano concorrere ad uno scopo comune, ovvero la vita del vivente stesso. Esiste dunque un intero ambito della conoscenza naturale che si fonda necessariamente sulla presupposizione del principio della finalità della natura.
Più complessa è invece la questione della applicazione estetica di questo stesso principio. Qual è il nesso che unisce i problemi estetici e la questione della finalità o conformità a scopi? Per rispondere a questa domanda bisogna comprendere la distinzione che Kant propone tra finalità oggettiva e finalità soggettiva. Quando qualcuno afferma che “il fiore ha lo scopo di rendere possibile la riproduzione della pianta”, questo giudizio pone una finalità oggettiva (cf. ivi, p. 29). Si tratta, cioè, di un giudizio che riconosce (in modo solamente analogico) la causa finale oggettiva di un organismo o di una sua parte. Questa causa finale è “oggettiva”, nel senso che è data nella realtà naturale ed è indipendente dalla volontà dell’uomo: non è l’uomo che determina lo scopo del fiore. Ma bisogna fare attenzione a non fraintendere il senso dell’espressione “finalità oggettiva”. Per Kant il giudizio teleologico è un giudizio riflettente e i giudizi riflettenti non sono mai apodittici, perché hanno una validità solamente soggettiva. Dunque l’affermazione “lo scopo del fiore è la riproduzione” non è “oggettiva” nel senso che è indiscutibile: è un’affermazione non oggettiva che registra una finalità “oggettiva”, cioè una finalità che è data nelle cose indipendentemente dall’uomo. Ma oltre ai giudizi che pongono la finalità oggettiva di un ente, Kant riconosce un altro genere di giudizi, che sono i giudizi estetici, che pongono la finalità “soggettiva” di un ente.
Quando qualcuno dice “questo fiore è bello” questa affermazione, che è un giudizio estetico, equivale alla constatazione di una finalità in relazione alle nostre facoltà conoscitive. Dire “questo fiore è bello” per Kant equivale a dire: “questo fiore sembra avere lo scopo di esaltare le mie facoltà conoscitive”. Si tratta anche in questo caso di percepire una finalità, uno scopo, ma questa finalità non è data nella struttura dell’ente (lo zoccolo è perfetto per i terreni accidentati) o nelle relazioni tra un ente e un altro ente (il melo dà nutrimento agli animali erbivori), ma nella relazione tra l’ente e le mie facoltà conoscitive (questo fiore sembra fatto per la mia immaginazione e per il mio intelletto). Potremmo dire che il giudizio teleologico constata una finalità oggettiva, cioè una armonia nella natura, mentre il giudizio estetico constata una finalità soggettiva, cioè una armonia tra il soggetto che conosce e la natura (cf. ivi, p. 24). Dunque la percezione della bellezza, dal punto di vista kantiano è il sentimento di un accordo tra le facoltà conoscitive (immaginazione e intelletto) e la realtà. Nell’esperienza della bellezza “sentiamo” (non si tratta di un sapere razionale, ma di un sentire emotivo) che un ente naturale, o la natura nel suo complesso, sembra avere lo scopo di stimolare all’attività le nostre facoltà conoscitive. Potremmo anche dire che la bellezza è il sentimento della conoscibilità possibile della natura.
Il caso del sublime è più complesso, ma l’idea di fondo è la medesima. Quando constatiamo in un giudizio estetico che qualcosa ha una grandezza sublime (per esempio quando diciamo: “questo vulcano in eruzione è sublime”, oppure “questa montagna a picco sul mare è sublime”) in realtà non percepiamo immediatamente un accordo. Anzi, a ben vedere il primo sentimento è quello di un disaccordo: l’oggetto sublime è un oggetto che per la sua grandezza, o per la sua potenza, sembra non commisurato rispetto alle capacità della nostra immaginazione e del nostro intelletto: una montagna può apparire sublime perché sembra troppo grande per la nostra capacità percettiva e un vulcano può apparire sublime perché la sua potenza va al di là della nostra capacità di rappresentare. In questo caso la natura non ci appare affatto armonizzata con le nostre facoltà conoscitive. Ma questo disaccordo inziale per Kant è solo un lato dell’esperienza del sublime. Ciò che appare sproporzionato rispetto alle nostre facoltà conoscitive, può apparire commisurato alla nostra facoltà morale, cioè alla ragione (cf. ivi, p. 81). La grandezza della montagna o la potenza del vulcano possono apparire (sempre analogicamente) come simboli della grandezza morale dell’uomo o della potenza della ragione pratica. Dunque anche nel sublime c’è un accordo (e quindi una finalità), solo che si tratta di un accordo più complesso: il disaccordo tra la natura e le nostre facoltà conoscitive fa emergere un accordo tra la natura e la ragione morale. Dunque anche in questo caso possiamo affermare che una certa rappresentazione sembra quasi finalizzata soggettivamente, cioè sembra fatta apposta per suscitare in noi il senso della nostra superiore destinazione morale.
Il presupposto estetico della scoperta scientifica
Rimane da spiegare il nesso tra il principio della finalità della natura e le problematiche epistemologiche che Kant affronta nell’introduzione. È qui che emerge il ruolo specificamente trascendentale del principio del giudizio. Abbiamo detto che la formula del giudizio riflettente è: “questo X è il caso di una legge fisica Y, o di un concetto empirico Z, che devo ancora trovare”. È chiaro, allora, che quando Kant parla dell’operazione cognitiva che serve per “trovare l’universale”, o delle “leggi empiriche possibili (ancora da scoprire)” (ivi, p. 19), sta descrivendo il processo che porta alla scoperta scientifica.
Per spiegare questo processo Umberto Eco, in un testo molto noto (Kant e l’ornitorinco) suggeriva di pensare alla scoperta dell’ornitorinco. Non sappiamo con esattezza cosa sia passato per la mente agli esploratori che per primi si sono trovati di fronte a questo curioso animale. Sappiamo però che per cercare di comprendere qualcosa dello strano essere vivente che si trovava davanti a loro, questi valenti esploratori devono aver riflettuto molto. L’ornitorinco è un mammifero e il suo corpo e la sua coda ricordano, forse, la figura di un castoro o di qualche altro roditore simile. Ma a differenza di tutti gli altri mammiferi l’ornitorinco ha un becco simile a quello di un’anatra e depone le uova come un uccello. Le sue abitudini inoltre sono più simili a quelle di certi anfibi che non a quelle degli uccelli, o dei mammiferi più noti. Come classificare dunque questa strana creatura? Si tratta di un uccello? di un mammifero? di un anfibio? Nessuno dei concetti biologici più comuni sembra adatto per spiegare l’ornitorinco. Gli esploratori di cui parla Eco devono essersi trovati nella singolare situazione di dover inventare o costruire un concetto nuovo. Ora questa operazione, che Kant avrebbe chiamato giudizio riflettente, parte da un presupposto fondamentale: per costruire il concetto di ornitorinco bisogna supporre che esista una specie biologica determinata, che corrisponda a questo concetto. Bisogna supporre, cioè, che la natura sia organizzata come il nostro pensiero, o, detto in un altro modo, che la natura sia logica.
Questo presupposto è talmente fondamentale che noi tendiamo a dimenticarci che non si tratta affatto di una ovvietà. Gli esseri viventi sono classificabili in specie, generi, famiglie, classi, proprio come i nostri concetti. Questa organizzazione è razionale, nel senso che due viventi che appartengono al medesimo genere avranno effettivamente più proprietà in comune di due viventi che appartengono a generi diversi. Così, per esempio, anche se una tigre e un gatto sono due animali lontanissimi tra loro (ragion per cui è sconsigliabile avvicinare la prima con un piattino di latte alla mano), ci sono molte analogie, morfologiche e comportamentali tra queste due specie. A rigor di logica queste somiglianze e queste analogie potrebbero non darsi affatto. Le tigri e i gatti non fanno le uova (mi sia consentito questo esempio un po’ buffo) e, benché sappiano arrampicarsi sugli alberi, non costruiscono i loro “nidi” lassù: ma perché? Perché le tigri e i gatti, come tutti i felini, hanno dei tratti in comune e si comportano in modo sostanzialmente diverso dagli uccelli, o dai rettili? La domanda sembra assurda, ma in realtà se ci si riflette ci si accorge che non c’è nessuna ragione “a priori”, non c’è nessuna ragione veramente necessaria, che può spiegare questa straordinaria uniformità delle forme e dei comportamenti delle specie viventi.
Costruire un concetto nuovo, per esempio costruire il concetto di ornitorinco, significa individuare una serie di invarianze nella morfologia e nel comportamento di un organismo, partendo dalla presupposizione fondamentale che queste invarianze siano effettivamente regole che descrivono la realtà. Il primo esploratore di fronte al primo ornitorinco avrebbe anche potuto pensare di essere di fronte ad uno scherzo della natura o a un “mostro” unico nella sua specie. Invece, per fissare i primi elementi del concetto di ornitorinco, deve aver pensato che l’animale che aveva davanti non era un unicum, ma era un esemplare di una specie caratterizzata da proprietà, certamente singolari, ma comunque invarianti. La natura potrebbe anche essere un insieme disordinato di eventi unici, ma il più delle volte non sembra che sia così. Tutti gli ornitorinchi di tutti i tempi e di tutti i luoghi fanno le uova e tutte le tigri e i gatti di tutti i tempi e di tutti i luoghi allattano i piccoli. Perché? Perché c’è questa uniformità? Perché la natura è logica, o meglio, sembra quasi essere logica. Dunque per costruire un concetto nuovo, cioè per trovare un universale empirico, bisogna supporre che la natura si presenti a noi come un sistema ordinato di classi, insiemi, famiglie, cioè come un sistema che ha esattamente la stessa forma del nostro intelletto.
Dal punto di vista di Kant questo cosa vuol dire? Che bisogna suppore che la natura sia soggettivamente finalizzata, cioè che sia organizzata come se qualcuno (un intelligenza? Dio? il Demiurgo? questo non lo possiamo sapere se restiamo all’interno della filosofia critica kantiana) l’avesse pensata nel modo più adeguato per le nostre facoltà conoscitive. Questa supposizione, se fosse considerata come una vera e propria ipotesi teoretica, sarebbe una supposizione schiettamente metafisica. Ma Kant, come è noto, nella prima Critica esclude la possibilità di dimostrare affermazioni metafisiche come quella che ho appena formulato: “la natura è logica”. Dal punto di vista kantiano, non possiamo mai affermare che la natura è logica, o che è conoscibile, ma solo che la natura ci “sembra” logica, ci “sembra” conoscibile. Queste due affermazioni per Kant diventano dogmatiche nel momento in cui diventano tesi metafisiche. Ma allora, se non è possibile avere una conoscenza metafisica, se non è possibile dimostrare razionalmente la conoscibilità della natura, perché lo scienziato dà sempre per ovvia la supposizione fondamentale della conoscibilità e della razionalità della realtà? È qui che l’estetica si salda con l’epistemologia. Dal punto di vista kantiano c’è un’esperienza esemplare nella quale noi sentiamo – non “pensiamo”, ma “sentiamo” – la conoscibilità e la razionalità della natura: questa esperienza esemplare è l’esperienza estetica.
Si capisce allora che il sentimento estetico, cioè la percezione della bellezza della natura, ha un valore trascendentale, perché fonda la possibilità della scoperta scientifica. Se l’uomo non percepisse la natura come un ordine conforme alle esigenze dell’intelletto, l’avventura della scienza non comincerebbe nemmeno. Dal punto di vista kantiano un’umanità incapace di provare il senso della bellezza sarebbe anche un’umanità senza “gusto” della scoperta e quindi un’umanità senza scienza.