L’identità dell’opera: composizione, struttura e stile
«Il frutto della mia vita finora passata, […] io l’ho più caro de’ miei occhi»[1], ecco ciò che lo stesso Leopardi (1798-1837) ebbe occasione di dire – in una lettera all’editore Stella del 12 marzo 1826 – riguardo alle Operette morali, da lui sempre considerate un momento fondamentale della sua esperienza letteraria. Concepite come progetto artistico-filosofico di stampo classicistico costituito da una serie di prose – ciascun testo studiatamente scritto per una lettura indipendente – volte a sviluppare un discorso critico sul presente, le Operette morali cominciarono ad essere scritte da Leopardi appena dopo il suo rientro a Recanati in seguito al deludente soggiorno a Roma (1822-1823). Esse si collocano, dunque, in un momento della vita dell’autore caratterizzato dal progressivo venire meno della vena poetica e, al contempo, da un maggiore accentuarsi della sua riflessione filosofica, come testimoniato anche da quel vasto diario di pensieri e meditazioni che è lo Zibaldone. Raramente Leopardi aveva conosciuto un periodo di attività così intensa e concentrata, ma, del resto, il lavoro era frutto di un progetto da lungo tempo concepito. Già in una lettera del 1821 all’amico Giordani, infatti, il poeta aveva manifestato l’intenzione di scrivere dei trattati filosofico-satirici sotto forma di dialoghi e novelle. Le Operette devono, perciò, essere viste come l’esito organico di un processo di approfondimento filosofico lungamente meditato. La parte più corposa delle Operette morali (venti brani) viene redatta nel 1824: alcuni testi sono pubblicati come saggio su rivista, mentre la prima edizione integrale è data alle stampe nel 1827 presso l’editore Stella di Milano. Leopardi, nel frattempo, compone altre tre operette, il Frammento apocrifo di Stratone da Lampsaco (1825), Il Copernico e il Dialogo di Plotino e di Porfirio (entrambe del 1827), opere che, tuttavia, non rientrano nella prima edizione della raccolta. Assai più tardi sono il Dialogo di un venditore d’almanacchi e di un passeggere e il Dialogo di Tristano e di un amico, che l’autore redige nel 1832 e che vanno ad arricchire la seconda edizione dell’opera, pubblicata a Firenze nel 1834. La terza edizione, presso l’editore Starita di Napoli, viene, invece, bloccata dalla censura. Nel 1845, infine, l’amico Antonio Ranieri cura una pubblicazione postuma delle Operette, che segue il piano predisposto da Leopardi stesso per l’edizione napoletana delle sue Opere: da essa si esclude il Dialogo di un lettore di umanità e di Sallustio, mentre vengono aggiunti il Frammento apocrifo di Stratone da Lampsaco, Il Copernico e il Dialogo di Plotino e di Porfirio – sino ad allora inediti – arrivando al numero complessivo attuale di 24 testi.
La struttura dell’opera si può visualizzare sinteticamente attraverso l’elenco dei titoli dei singoli testi disposti secondo l’ordine con cui furono pubblicati nell’edizione definitiva del 1845 (di fianco ad ogni testo si presenta la data di composizione dello stesso):
Storia del genere umano (1824)
Dialogo di Ercole e di Atlante (1824)
Dialogo della Moda e della Morte (1824)
Proposta di premi fatta dall’Accademia dei Sillografi (1824)
Dialogo di un folletto e di uno gnomo (1824)
Dialogo di Malambruno e di Farfarello (1824)
Dialogo della Natura e di un’Anima (1824)
Dialogo della Terra e della Luna (1824)
La scommessa di Prometeo (1824)
Dialogo di un Fisico e di un Metafisico (1824)
Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare (1824)
Dialogo della Natura e di un Islandese (1824)
Il Parini ovvero della gloria (1824)
Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie (1824)
Detti memorabili di Filippo Ottonieri (1824)
Dialogo di Cristoforo Colombo e di Pietro Gutierrez (1824)
Elogio degli uccelli (1824)
Cantico del gallo silvestre (1824)
Frammento apocrifo di Stratone da Lampsaco (1825)
Dialogo di Timandro e di Eleandro (1824)
Il Copernico. Dialogo (1827)
Dialogo di Plotino e di Porfirio (1827)
Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggere (1832)
Dialogo di Tristano e di un amico (1832)
Per quanto riguarda il titolo Operette morali, il sostantivo allude al carattere breve, fulmineo, serrato dei componimenti, poche pagine in cui è racchiuso un pensiero profondamente critico e riflessivo. L’aggettivo “morali” sta ad indicare i comportamenti e i destini umani e il senso, la lezione, che si può ricavare dalle esperienze compiute. Stilisticamente, le Operette si presentano per la maggior parte in forma di dialoghi, come i titoli stessi dichiarano. I modelli cui Leopardi si rifà sono, anzitutto, i dialoghi filosofici di Platone e le prose satiriche dello scrittore greco Luciano di Samòsata (II sec. d. C.). Dando prova della sua versatile e sottile abilità imitativa, Leopardi riprese dai dialoghi lucianeschi, che avevano goduto di grande fortuna nell’antichità e nel Settecento, la comica vivacità, l’arguzia, gli effetti stranianti, le variazioni di registro, di genere e forma. Tra gli altri generi presi come modello dal recanatese si possono citare la raccolta di sentenze, il trattatello di stampo medievale e rinascimentale, l’elogio tratto dalla letteratura latina classica. Significativo è poi indubbiamente anche l’influsso dell’opera narrativa e saggistico-filosofica degli illuministi francesi.
Nel complesso, la forma esibita dalle Operette è sintetica, essenziale, precisa, talvolta persino secca, inserita all’interno di una sintassi complessa, modellata sulle lingue antiche, che convive accanto alla battuta rapida e al motto di spirito. I linguaggi utilizzati sono contraddistinti da un variegato armamentario retorico e lessicale, proprio di un’opera che alterna satira e parodia, riflessione filosofica e meditazione esistenziale, ironia amara e densità concettuale, elogio paradossale e trattato sapienziale: parole della quotidianità si affiancano a tecnicismi filosofici, rassegne aforistiche ad un’eloquenza dal tono requisitorio. Ogni operetta implica l’adozione di una sfumatura linguistica differente, di un registro proprio, di un ritmo peculiare. E il contrappunto tra un testo lungo e uno breve, tra narrativo e mimetico, tra alto e basso, tra aulico e prosaico, è una delle marche che determinano insieme la temperatura e l’effetto del libro nel suo complesso. Non si tratta, però, come superficialmente potrebbe sembrare, di un mero gioco e sfoggio di abilità retorica. Piuttosto, Leopardi cerca di sfruttare tutte le potenzialità linguistiche e stilistiche a sua disposizione per esigenze prettamente qualitative e funzionali al contenuto: coniugare fruttuosamente filosofia e letteratura, realizzando quell’intima tensione che attraversa un’opera poetica e filosofica insieme[2].
In breve, tra la poesia e la filosofia si stabilisce nella creazione leopardiana un fecondo circolo virtuoso: si potrebbe parlare, di volta in volta, di poesia filosofica o di filosofia poetica. Non a caso è stata adottata, per tale singolare procedimento compositivo, la formula di “pensiero poetante”[3]. L’effetto globale è di grande impatto: la contaminazione dei generi (dialogo, narrazione, trattato), la comicità applicata alo tragico, l’iridiscente mutevolezza del registro, che vira costantemente dalla medietà del discorso filosofico all’elevatezza di certi risvolti critici, alla colloquialità del tono comico, sollecitano ripetutamente il lettore, divertendolo, sconcertandolo e, soprattutto, inducendolo alla riflessione.
Il contenuto dell’opera: natura del testo e nuclei tematici
Le Operette morali non possono essere giudicate prescindendo dal fatto che la stessa forza della prosa poetica leopardiana deriva dalla profondità delle posizioni che l’autore vi esprime e che gli stessi caratteri dello stile leopardiano sono tutt’altro che indifferenti al movimento interno, problematico delle Operette. Esse sono, infatti, soprattutto un «libro di argomento profondo e tutto filosofico e metafisico […] benché scritto con leggerezza apparente»[4]. Più nello specifico, le Operette si presentano come una somma di componimenti privi di cornice e di una rete di precisi richiami tematici e formali. Si diversificano tra loro per il lessico, le tecniche della narrazione, l’ambientazione e la tipologia dei personaggi che appartengono alla storia, alla letteratura, al mito o scaturiscono, tramite fantasiose personificazioni, da un libero gioco immaginativo. Tuttavia, Leopardi le concepì espressamente come un libro unitario, dotato di un chiaro disegno che è di tipo speculativo e filosofico. In questa fase della sua vita, il recanatese aveva temporaneamente accantonato la prospettiva soggettiva e autobiografica degli Idilli e l’impegno civile delle Canzoni per dedicarsi ad un’opera – intessuta di pungente satira e di intensa vis immaginativa – volta alla demistificazione delle ideologie che permeavano il suo tempo, in particolare di quelle concezioni di matrice spiritualistico-cattolica, nonché di quelle «magnifiche sorti e progressive»[5] proprie di certe tendenze ottimistiche dell’Illuminismo, le quali, pur con sensibili differenze, si facevano entrambe promotrici di uno strenuo antropocentrismo.
L’intento consisteva nel mettere a nudo la cruda verità sulla condizione umana tragica e dolorosa e, senza cedere ad inutili e mendaci illusioni consolatorie, nell’indicare temporaneamente un corretto modo di stare di fronte al negativo. L’atteggiamento esistenziale che l’autore sembra suggerire è l’ironico distacco (es. Dialogo di un venditore d’almanacchi e di un passeggere), non disgiunto dalla ricerca di una solidarietà tra gli uomini di fronte ad una natura nemica, cieca e indifferenti alle sorti dei viventi (es. Dialogo della Natura e di un Islandese); una solidarietà che aiuti a sopportare l’innegabile peso della vita, ma che ne permetta di valorizzare anche gli affetti (es. Dialogo di Plotino e di Porfirio). Se si considera, pertanto, la configurazione complessiva che le anima, non si può negare che le Operette possiedano una loro organicità di fondo, espressione lucida e matura del pensiero di Leopardi che penetra sempre più in profondità nel dolore universale, nell’ingenua e fallace prospettiva antropocentrica, nell’ottusità dell’ottimismo progressista. Ciò non significa che il discorso sia di per sé sistematico, vale a dire che proceda con un argomentare ordinato e graduale. Anzi, la molteplicità delle tecniche narrative e dei pretesti fantastici e letterari colloca il lettore dinanzi ad angolazioni sempre nuove, cangianti, caleidoscopiche, talvolta grottesche e stranianti, creando una continua dialettica tra una raccolta apparentemente senza centro e una fitta tessitura di rimandi interni, tra la pluralità delle forme e la necessità di una logica ricomposizione sul piano filosofico-concettuale.
D’altronde, Leopardi ha un concetto di filosofia tutt’altro che arido e limitato alla sfera della pura razionalità. Al contrario, per lui alla sola immaginazione - e alla poesia che se ne fa veicolo – spetta il sentire con ineguagliabile intensità i grandi misteri della vita. Si verifica così quel reciproco compenetrasi, quell’osmosi euristicamente feconda fra la facoltà poetica e la facoltà filosofica, fra la costante tensione speculativa e la profonda tensione lirica[6]. Il carattere liberamente itinerante della riflessione leopardiana, con la sua impostazione ironica e dialogica, può essere visto anche come una revisione e una riproposizione del metodo socratico, volto ad una postura interrogante che non lascia spazio a risposte definitive, ma piuttosto nutre inesausto il dubbio[7]. Non si cerchi, perciò, nelle Operette morali l’elaborazione di un pensiero filosofico sistematico, stringente: il dubbio, l’interrogazione, sta al principio e alla fine della speculazione di Leopardi, che non si conclude con una affermazione, ma nemmeno con una negazione, bensì, piuttosto, con la tragica domanda riguardante il valore della vita umana e il fine dell’esistenza universale[8]. La ragione – istanza valorizzata da Leopardi quale strumento fondamentale di indagine sul reale – non conduce ad altro che alla constatazione della miseria umana, della nullità e vanità di senso che accomuna tutto l’esistente. In tale prospettiva, non si può non sottolineare l’enorme distanza che separa Leopardi da quella forma mentis secolarmente abituata a vedere, nell’uomo, il centro e il fine dell’universo, il fulcro del suo senso[9].
Al cuore della metafisica leopardiana, così come emerge dalle pagine delle Operette e dalle rapsodiche riflessioni dello Zibaldone, vi è, quindi, un nucleo essenziale di anti-antropocentrismo, di scetticismo e di relativismo, nonché la considerazione poeticamente ed esistenzialmente patita ed esperita del dolore, della sofferenza, dell’infelicità radicale, motivi che costituiscono il tema assillante di una problematica non risolta e non risolvibile. In questo senso, Leopardi, con il semplice riferimento alla inevitabilità e insensatezza del dolore umano e cosmico che resiste a qualsiasi tentativo di razionalizzazione, demolisce, corrode il dogmatismo ingenuo della filosofia dei lumi, con tutta la sua carica di entusiasmi, di speranza, di fiducia nel progresso e nella scienza come panacea universale, destinata a risolvere tutti gli enigmi.
Ne emerge, dunque, non soltanto una visione problematica dell’esistenza e un’inquietudine mai paga delle risposte – sempre parziali – della ragione, ma anche un atteggiamento demistificante, critico e ambivalente nei confronti della cultura del suo tempo – sia di matrice cristiana che di matrice illuminista – non privo di punte polemiche, ironiche e di posizioni contestatarie. In fondo, più drasticamente, è la stessa possibilità di conseguire il vero ad essere messa in discussione. Più che di uno “scrivere contro”, si dovrebbe parlare, in realtà, di uno scrivere attraverso la contraddizione che permea e condiziona ogni aspetto dell’agire umano.
I molteplici personaggi che si avvicendano sulla scena dei testi delle Operette discutendo di argomenti in apparenza diversissimi altro non sono che le successive e dinamiche angolature prospettiche da cui lo sguardo del poeta riprende e agisce il dramma universale della assenza di significato, del proliferare delle soluzioni di compromesso che distolgono l’essere dalla possibilità di conoscere e di riconoscersi. L’impostazione dialogica quale forma testuale propria delle Operette risponde esattamente a questa esigenza di rappresentare il non-essere, il non-essere del certo, del vero, dell’assoluto, nel palesare la provvisorietà inerente ad un progetto etico negativo, che obliquamente si alimenta della insistita revoca in dubbio della dimostrazione esemplare e di ogni attitudine prescrittiva[10].
Più nello specifico, nella struttura delle Operette due dialoghi assai significativi fungono da proemio e da conclusione. Il primo è La storia del genere umano, nel quale la vicenda mitica dell’umanità coincide simbolicamente con l’evoluzione di ogni individuo dall’infanzia alla maturità. Nel racconto leopardiano, gli uomini passano dalla felice e spensierata età delle origini alla progressiva disillusione nei confronti della realtà. Vani risultano i numerosi tentativi di Giove di ovviare all’infelicità del genere umano mediante illusori valori: la Verità, che infine si insedia sulla terra, non fa che accrescere il dolore degli uomini. Unica episodica consolazione è la presenza di Amore, che risveglia negli animi più sensibili la speranza della giovinezza.
Neppure questo conforto è, invece, presente nell’ultima operetta, il Dialogo di Tristano e di un amico. Tristano-Leopardi contrappone ormai al vuoto ottimismo delle ideologie coeve la sua visione cruda del mondo, nella quale l’essere umano è nulla. In virtù di tale disperata conclusione non resta al protagonista che desiderare la morte, come estremo e sommo atto di coraggio. Fra i due estremi della Storia del genere umano e del Tristano si sviluppa la galleria dei grandi miti leopardiani: la contrapposizione fra il carattere transeunte ed episodico delle opinioni umane e l’ineluttabilità degli eventi naturali (Dialogo della Moda e della Morte); la desolata considerazione del poeta sull’inevitabile e irrimediabile “imperfezione” della vita umana, orfana di ogni felicità (Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare); l’opportunità e la necessità del rischio e dell’azzardo per sfuggire alla mediocrità della vita e al tedio (Dialogo di Cristoforo Colombo e di Pietro Gutierrez), la consapevolezza che il non essere è meglio dell’essere e che la vita non implica alcun giovamento (Dialogo di Malambruno e di Farfarello). L’attenzione di Leopardi si posa cioè su quelli che sono i problemi eterni dell’uomo, a prescindere dalle sue mutevoli apparenze storiche: il dolore, la malattia, l’amore, la morte, il senso del vivere. In sottotraccia si nota, in ogni caso, il ricorrere di alcune opposizioni dialettiche, di alcune polarità che strutturano, benché in modo oscillante, la riflessione portata avanti da Leopardi nelle Operette morali: natura/ragione e piacere/infelicità.
Per quanto riguarda il contrasto tra natura e ragione, bisogna rilevare che Leopardi, verso la metà degli anni ’20, realizza che la propria sofferenza individuale – che gli era parsa in precedenza una dolorosa e personale (ma proprio perciò limitata) contraddizione rispetto all’armonia del tutto – non è invece che la conseguenza e il riflesso di leggi generali. Sulla natura s’appunta la sua denuncia: da lì provengono i mali dell’uomo. Ma, a guardar meglio, si scopre che, in fondo, anche la natura è incolpevole, in quanto agisce anch’essa sotto la costrizione di quelle leggi generali. E alla ragione non resta che svelare e mettere spietatamente in luce il meccanismo a cui tutto è sottomesso.
Ora, in questo passaggio da una natura benigna ad una natura matrigna, o meglio ancora, completamente indifferente alle ragioni e al destino degli uomini, convergono diverse influenze. Se nella fase precedente il concetto leopardiano di natura derivava da una serie di suggestioni filosofiche e letterarie classiche, oltre che dalla lettura dei testi di Rousseau, così nel periodo della maturità Leopardi sposta la sua attenzione verso i rappresentanti dell’Illuminismo materialistico più radicale (d’Holbach e Helvétius, ad esempio). Al contempo, però, come si è già notato, l’uso che egli fa del concetto di ragione appare assai diverso rispetto a quello dei suoi probabili ispiratori settecenteschi. La ragione conduce a smascherare le illusioni, certo. Ma ciò non porta alla solare, soddisfacente, illuministica conoscenza della realtà. La ragione non fa altro che rivelare la totale impotenza di ogni conato umano, mostrando, di contro, l’universalità e l‘insensatezza del dolore, di cui il proprio dolore personale non è che tragico specchio. Il possesso della ragione da parte dell’uomo si mostra, pertanto, un discutibile privilegio, perché se essa consente la conoscenza, la conoscenza è dolore, in quanto rende consapevoli della inevitabilità del male. La ragione, come Giano bifronte, ha in Leopardi un duplice volto, positivo e negativo, così come ha una duplice natura, illuministica da un lato, romantica dall’altro. Secondo Leopardi non potrà mai esserci alcun progresso o sviluppo di civiltà che abbia la possibilità di incidere positivamente sulla questione fondamentale della felicità e dell’infelicità.
Non c’è rimedio, a suo giudizio, per un’infelicità costitutiva che deriva dall’organizzazione stessa dell’universo, e che la ragione dell’uomo, nel momento stesso in cui la conosce, rende addirittura più stabile e duratura. Quanto più cresce la ragione, tanto più cresce l’infelicità: per cui sono i fanciulli e i primitivi ad avere una percezione minore dell’infelicità, in quanto sono da essi meno esercitate le facoltà razionali. Come scrive il filosofo Giovanni Gentile nel suo commento alle Operette morali, «lo svegliarsi dell’intelligenza (scellerato ardimento!) è il principio della perdizione. E invano l’uomo cercherà col pensiero di ristaurare la sua vita e riconquistare la dilettosa e cara piaggia d’un tempo!»[11]. Non c’è scampo: una volta che la ragione abbia deciso di andare fino in fondo al processo di conoscenza, raggiunge la certezza che la natura – ossia l’universo tutto – è dominata da leggi ferree e immodificabili, che possono anche essere analizzate e comprese scientificamente nelle loro diverse concatenazioni, ma restano imperscrutabili relativamente ai fini ultimi e ai primi principi per i quali agiscono. L’essere umano, ultima e più debole particella di questo universale meccanismo, subisce senza poter resistere – e senza comprenderne il senso – le conseguenze di queste dinamiche cosmiche dalle quali egli è investito al pari di tutti gli altri esseri, sia animati che inanimati.
L’universo, pur così vario e così diverso da come l’uomo l’ha concepito o seguita a concepirlo (cioè un universo umanizzato, mondanizzato), ha, però, in comune con l’uomo il dolore, anzi, tutto l’universo ha un unico denominatore comune, la sofferenza dei viventi. Lo stato di infelicità è allora “cosmico”, coinvolge tutti e tutto, e non un semplice prodotto dell’evoluzione storica e relativa dell’uomo: è una condizione assoluta, un dato eterno e immutabile. Il male nel mondo non è accidentale, non è un disordine, un’imperfezione; esso è ordinario, essenziale. Non c’è altro che male. Da qui la stoltezza di ogni superbia religiosa o umanistica. Leopardi, a tal riguardo, si diverte a schernire ferocemente chiunque cerchi non soltanto una provvidenza, ma anche solo un’armonia, un progetto della natura[12]. Insomma, la natura, nel senso più assoluto non può essere considerata teleologicamente ordinata[13].
Una simile, drammatica, concezione dell’esistenza, trova certamente la sua tragica vetta nel Dialogo della Natura e di un Islandese, scritto tra il 21 e il 30 maggio 1824, operetta che fa da cerniera all’intero libro e che rappresenta una chiave di volta del pensiero leopardiano. In essa la natura perde qualsiasi tratto benevolo, assumendo un volto implacabile, totalmente ostile ai viventi, essendo sua unica occupazione il mantenimento della legge fondamentale dell’universo – il circolo perpetuo e perverso di produzione, conservazione e distruzione della materia – che comporta per tutti gli esseri – e vieppiù per l’uomo, che, attraverso la ragione, ne diviene consapevole – una legge di sofferenza e di morte: la natura genera le specie viventi esclusivamente allo scopo di farle morire. “Patire” è, pertanto, la parola chiave di questo dialogo. Così afferma l’islandese nel suo rivolgersi alla natura: «mi avveggo che tanto ci è destinato e necessario il patire, quanto il non godere»[14]. Da ciò si evince il palese contrasto che, nella riflessione portata avanti da Leopardi, c’è tra la vita, insaziabile di piacere e felicità, unicamente desiderosa di godere, e il perdurare dell’esistenza e della specie, motore di continuo ed inesausto dolore, di cui solo si occupa e preoccupa la natura.
Si è giunti, in tal modo, alla seconda polarità che, in stretta connessione con la prima – natura/ragione - struttura l’universo discorsivo delle Operette morali: piacere/infelicità. L’esito più amaro del pessimismo leopardiano è proprio la consapevolezza che la perenne tensione alla felicità, ovvero il piacere, unico anelito insito nel vivere, è destinato costantemente a restare frustrato, a rimanere inappagato: «Dunque, l’essere dei viventi è in contraddizione essenziale e necessaria con se medesimo»[15]. Ora, la presenza di questa contraddizione che oppone il fine naturale dell’uomo – la felicità – al meccanismo cieco ed ineluttabile dell’universo, che genera esclusivamente sofferenza e morte, mette in discussione, da un punto di vista metafisico, la possibilità stessa di comprendere il sistema della natura, rendendo vano persino il principio di non-contraddizione. Dinanzi a tale esito, la natura si mostra, in fondo, per Leopardi incomprensibile.
Di fronte alla ragione si spalanca un baratro incolmabile che denuncia la parzialità e l’insufficienza degli stessi principi primi del comprendere umano. La verità si palesa come un tremendo paradosso, come inquietante insensatezza. L’incomprensibilità della natura promuove una visione allarmata, una postura epistemologica di stampo relativistico che assume, a tratti, le ombre di un cupo nichilismo, proteso alla perturbante scomposizione prismatica del reale.
La modernità e la peculiare, perpetua inattualità del pensiero leopardiano, per il quale «poesia e filosofia si muovono sulla stessa scena dell’immaginazione», sono radicate in questa perentoria denuncia del principio di non contraddizione, che è al tempo stesso indicazione dell’assenza di fondamento logico del pensiero e di qualunque postulazione ultimativa di verità. Il logos, per Leopardi, non è che una forma degenerata di mythos, una costruzione immaginaria rispondente al bisogno di certezze dell’uomo e storicamente impostasi quale unica possibilità di lettura del reale[16].
D’altra parte, «la perfezion della ragione consiste in conoscere la sua propria insufficienza»[17].
Conclusione: il “pensiero poetante” di Leopardi
È «l’interrogazione costante in profondità, l’interrogazione disperata sulla presenza dell’uomo in terra, nella natura, nel mondo, che rifiuta la regola, la definizione, insomma la composizione nella ragione»[18], ad essere al cuore della meditazione di Leopardi così come esposta nelle Operette morali. Da qui l’orientarsi della sua indagine poetico-filosofica sul dolore universale, sullo sgomento cosmico, sulla labilità dell’essere, sulla vanità dell’uomo quale interprete e voce di un’unica tragedia universale. E, insieme, il senso profondo dell’arcano e del mistero, «la verità nell’interrogare, non già nel rispondere»[19], la configurazione problematica che assume la datità e il senso del reale, il significato profondo del limite della ragione, nonché la grandezza umana consistente, paradossalmente, nella impossibilità di trascendere il contingente e nella angosciosa presa di coscienza del proprio nulla. Eppure, le Operette morali, «malgrado tutto e anzi proprio nella loro prevalente negatività, restano un libro di inquietante poesia religiosa»[20].
Leopardi, novello Qoèlet, incarna in ciò la coscienza critica della filosofia dei lumi che trae linfa vitale da quella tormentata attenzione esistenziale rivolta alla drammaticità della condizione umana, ai problemi del bene e del male, del dolore e della felicità, del senso o del non senso dell’esistenza, problemi che nessuna scoperta scientifica, nessuna invenzione tecnica o nessun ottimistico progresso sociale possono risolvere, poiché non si tratta di problemi legati al tempo e alla situazione storica, ma di problemi di natura squisitamente ontologica. La stoffa aporetica della sua riflessione, fondata su un disincantato quanto inquieto realismo e su un carattere di protesta che nutre tutta la sua ricerca, esibisce senza paludamenti consolatori lo smarrimento dell’uomo moderno dinanzi al quale è venuto meno un centro, la possibilità di un punto di riferimento, da cui l’acuto senso di vertigine e l’esperienza amara del sentirsi come perso, sospeso tra due infiniti: l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo.
La coscienza, in breve, dell’esistenza che scivola nel nulla. Leopardi «non accetta la soluzione religiosa, ma per il fatto stesso che rifiuta tutte le soluzioni naturalistiche, razionalistiche e immanentistiche, e lascia il problema irrisolto e irresolubile, sì che il mistero del dolore su un tale piano è destinato a rimanere tragicamente bloccato, mostra per assurdo come sola possibile appunto quella soluzione religiosa che pure inizialmente rifiuta. Sulla stessa linea si pone la consapevolezza della insufficienza di tutte le cose umane di fronte alle aspirazioni dell’uomo, che l’intero universo non vale a placare»[21]. La questione del dolore e del suo mistero, la miseria dell’essere umano – che nessuna conquista della ragione potrà mai mutare – e la percezione profonda della sua tragica consapevolezza d’esistere, alimentano in Leopardi una postura che, pur negando il trascendente, invoca, attraverso il dubbio martellante e l’incessante domandare, la possibilità di un senso celato nelle pieghe di un universo ostile, enigmatico. Solo restano, come ultimi appigli, come ultimi precari sostegni che custodiscono la vita umana dal baratro, i valori fragili dell’immaginazione poetica, dell’amicizia, della pietà, della compassione, di quella partecipazione commossa e solidale alle pene degli uomini.
Bibliografia
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Paolo Pizzuti
[1] G. Leopardi, (a cura di W. Binni e di E. Ghidetti), Tutte le opere, Sansoni, 1969, I, p. 1244
[2] W. Binni, Lettura delle Operette morali, Marietti, 1987
[3] A. Asor Rosa, Storia europea della letteratura italiana. Ottocento, Le Monnier Scuola - Mondadori, 2008
[4] G. Leopardi, (a cura di W. Binni e di E. Ghidetti), op.cit., I, p. 1274
[5] G. Leopardi, Canti, Rizzoli, 1974, p. 116
[6] I. Scaramucci, La dimensione pascaliana da Leopardi a Montale, Edizioni IPL, 1972
[7] A. Tartaro, Leopardi, Editori Laterza, 1984
[8] M. Fubini, in G. Leopardi (a cura di M. Fubini), Opere, UTET, 2013
[9] M. Donà, Misterio grande. Filosofia di Giacomo Leopardi, Bompiani, 2013
[10] F. Secchieri, Con leggerezza apparente. Etica e ironia nelle “Operette morali”, Mucchi Editore, 1992
[11] G. Gentile, Proemio, in G. Leopardi, Operette morali. Con proemio e note di Giovanni Gentile, Zanichelli Editore, 1918, p. 23
[12] P. Citati, Leopardi, Mondadori, 2010
[13] M. Donà, op.cit.
[14] G. Leopardi, (a cura di L. Melosi), Operette morali, Rizzoli, 2008, p. 86.
[15] G. Leopardi, Zibaldone, Mondadori, 2012, II, 4099-4100, p. 1076
[16] F. Secchieri, op.cit., p.46 (corsivo nel testo)
[17] G. Leopardi, Zibaldone, op.cit., I, 407, p. 259
[18] C. Bo, L’eredità di Leopardi, Vallecchi, 1964, p. 5 (corsivo nel testo)
[19] Ibidem, p. 14
[20] G. Getto, Saggi leopardiani, Vallecchi, 1966, p. 192
[21]I. Scaramucci, , op.cit., p. 38