L’Autore e il progetto di un’Apologia della Religione Cristiana
Nella sera di Lunedì 23 novembre 1654 Pascal scopre il mistero di Gesù Cristo. Egli scrive: «Da circa le dieci e mezzo di sera fino a circa la mezzanotte e mezzo. Fuoco. Dio d’Abramo, Dio d’Isacco, Dio di Giacobbe, non dei filosofi e dei dotti. Certezza […]. Dio di Gesù Cristo […]. Io me ne sono separato […]. Che io non ne sia mai separato! Egli non si conserva che per le vie indicate nel Vangelo. Rinuncia totale e dolce» (pp. 301-303)». Quanto descritto è verosimilmente una meditazione intensissima di cui Pascal non fa parola, ma che trascrive su un biglietto che porterà con sé cucito nel risvolto della giacca e ritrovato solo dopo la sua morte. Due mesi dopo la «notte di fuoco», durante un ritiro spirituale nel monastero di Port-Royal-des Champs, concepisce il progetto di un’Apologia della Religione Cristiana. L’idea direttrice si rifà al tema centrale delle Confessioni di Agostino, col quale condivide la convinzione che la conversione del cuore è opera di Dio, Maestro interiore: l’apologeta non fa che prepararla.
Il progetto dell’Apologia della religione cristiana e Le Lettere Provinciali (redatte in forma anonima tra il 1656 e il 1657, in occasione della burrasca che si abbatté sul movimento giansenista di Port-Royal e della polemica contro la cosiddetta “morale casuistica”) costituiscono i due pilastri dell’opera di Pascal, il quale, a causa di uno stato di salute assai cagionevole, dovette interrompere anche per lunghi periodi ogni attività intellettuale. Le conoscenze mediche del Seicento non consentono di diagnosticare di quale infermità egli soffrisse. Pascal morì nella notte del 19 agosto 1662, all’età di 39 anni.
Dall’Apologia alle edizioni dei “Pensieri”
Pascal aveva intrapreso l’idea di classificare gli appunti preparatori dell’Apologia in 27 gruppi di frammenti. La maturazione del suo pensiero apologetico si intravede nel gruppo di frammenti XI°: «A P.R. Per domani» (verosimilmente «A Port-Royal. In vista della conferenza di domani») e XV°: «Transizione». Anche se non si sa con esattezza quando si tenne (probabilmente verso la fine del 1659), Pascal si riferisce all’esposizione del piano dell’Apologia presentato a Port-Royal:«A P.R. per domani. Invano, o uomini, cercate in voi stessi il rimedio alle vostre miserie. Tutti i vostri lumi non possono giungere che a riconoscere che non è in voi stessi che troverete la verità e il bene. I filosofi ve l’hanno promesso e non l’hanno potuto fare. Essi non sanno né qual è il vostro vero bene, né qual è il vostro vero stato. Come avrebbero fornito rimedi ai vostri mali, che essi non hanno neppure conosciuti?» (n. 321, pp. 592-593). Rispetto allo schema del progetto iniziale dell’Apologia («miseria dell’uomo senza Dio - Grandezza dell’uomo con Dio») che traccia un itinerario dall’antropologia della condizione umana alla teologia delle manifestazioni di Dio, si passa ad un secondo schema «Dio ha messo in Gesù Cristo la salvezza degli uomini». Le meditazioni della Sacra Scrittura si addensano nei gruppi di frammenti successivi al XV°. Il pensiero apologetico di Pascal diventa una “cristologia” d’ispirazione agostiniana.
Al momento della morte, i carteggi diventano proprietà della famiglia Périer, con la quale era imparentato. Una preparazione paziente e travagliata di una prima raccolta dei frammenti ritrovati fra le sue carte viene data alle stampe il 2 gennaio 1670 con il titolo di Pensieri sulla religione e alcuni altri argomenti. Questa prima edizione curata a Port-Royal è all’origine dell’appellativo di Pensieri successivamente dato alla raccolta.
Va subito detto che diverse numerazioni dei Pensieri nascono dalle differenti edizioni curate da Louis Lafuma e poi da Michel Le Guern seguendo il testo della “Prima Copia”; e poi da Philippe Sellier utilizzando invece la “Seconda Copia”. Dalla prima edizione di Port-Royal (1670), per stilare la quale era servito già il testo della “Prima Copia”, fino a quella di Condorcet (1776) e a quella di don Charles Bossut (1779), al quale si deve la prima edizione in 5 voll. delle Opere Complete di Pascal, si introdusse l’infelice abitudine di separare i Pensieri di indole filosofica da quelli che trattano di problemi attinenti alla religione. Questa divisone travisa di fatto il progetto dell’Apologia della religione cristiana così come fu pensato da Pascal. Si succedettero così altre edizioni che, oltre a riprodurre il testo esatto deiPensieri, cercavano di ordinarli secondo un piano dell’Apologia ricostruito in modo conforme alle indicazioni, purtroppo parziali, date dalla conferenza tenuta a Port-Royal da Pascal. Nell’Ottocento va ricordata l’edizione curata da Armand Prosper Faugère, Pensées, fragments et lettres de Blaise Pascal, publiées pour la première fois conformément aux manuscrits originaux (1844) e quella di Ernest Havet, Les Pensées de Pascal (1852). Nel Novecento, l’edizione critica di tutte le opere in 14 voll. (1904-1914) curata dal filosofo Léon Brunschvicg (1869-1944) con la collaborazione di P. Boutroux e F. Gazier, e l’edizione di Jacques Chevalier, nelle Oeuvres Complètes de Pascal (1954). Le abituali numerazioni dei Pensieri si riferiscono a queste due ultime edizioni (Brunschvicg oppure Chevalier). Dopo la metà del Novecento, le ricerche paleografiche di Zacharie Tourneur e di Didier Anzieu sull’Originale hanno consentito a Louis Lafuma di tornare alla classificazione primitiva dei frammenti in Le manuscrit des Pensées de Pascal, les feuillets autographes reclassés dans l’ordre de la Copie (Paris, 1962). Philippe Sellier curò una nuova edizione de Les Pensées (Paris, 1976) tratti dalla “Seconda Copia” del manoscritto che Gilberte Périer aveva conservato come editio non varietur.
La meditazione pascaliana sui “due infiniti”
La meditazione sull’infinito è un punto nodale nel pensiero dello scienziato francese. Due erano i temi conflittuali del tempo: da una parte la centralità del Sole aveva sostituito la centralità della Terra; dall’altra, la tenue frontiera fra il mondo “sub-lunare” ed il mondo celeste aveva lasciato il posto all’incommensurabile vuoto enigmatico che separava adesso l’orbita di Saturno dalla sfera delle stelle fisse. Dalla posizione dell’uomo in un universo immenso, nel quale nulla è proporzionato al suo proprio corpo, quali conclusioni ricaverà l’uomo riguardo alla sua condizione?
Pascal riprende il tema della “duplice infinità” nella meditazione che, significativamente, ha essa pure un duplice titolo: Sproporzione dell’uomo e I due infiniti (n. 84, pp. 425-434). La meditazione comincia dunque con un dittico: l’osservazione telescopica dell’infinitamente grande (con l’ausilio del cannocchiale galileiano) e quella microscopica dell’infinitamente piccolo (con l’ausilio dell’occhialino). Ponendosi dal punto di vista dell’osservatore terrestre, Pascal mostra che l’universo celeste si allarga in una serie di spire, ognuna delle quali è il centro della successiva. La prima spira rappresenta l’orbita solare; la seconda raffigura il movimento delle stelle; e infine accessibile soltanto all’immaginazione, la spirale galattica. Nella descrizione dell’infinitamente piccolo la progressione decrescente prende l’avvio dal corpo umano, per passare poi all’acaro della scabbia, suddiviso infine nelle sue parti, fino ad arrivare all’«ambito di quello scorcio di atomo».
Può la meditazione che segue essere detta “copernicana”? A dispetto della sua versatilità, Pascal sembra aver dato poca attenzione alla riforma dell’astronomia tolemaica: «Prigione. Mi sembra giusto che non si approfondisca l’opinione di Copernico: ma questo....! Importa per tutta la vita sapere se l’anima è mortale o immortale» (n. 346, p. 529). Apparentemente dunque Pascal ha dato uno sguardo soltanto distratto alla “rivoluzione copernicana”, quasi chiedendosi: “l’uomo aspetta la sentenza di condanna a morte in un carcere: sarebbe ragionevole che si distraesse di ciò che l’aspetta dopo la morte?”.
Quali sono dunque le conclusioni della meditazione pascaliana su I due Infiniti? Anzitutto, lo smarrimento dell’immaginazione davanti al fatto che nulla nell’universo è proporzionato all’uomo: «Che cos’è l’uomo nella natura? Un nulla in confronto con l’infinito, un tutto in confronto al nulla, qualcosa di mezzo fra il nulla e il tutto» (n. 84, p. 428). Lo sconcerto sfocia nell’angoscia: «Il silenzio eterno di questi spazi infiniti mi spaventa» (n. 91, p. 436). Pascal – esponente, secondo la felice espressione di A. Koyré, della cultura che è passata dal «mondo chiuso all’universo infinito» – offre però un rimedio allo sgomento dell’immaginazione intesa come potenza ingannatrice.
Senza citare Copernico (1473-1543), la meditazione è dunque in verità radicalmente copernicana, ma l’A non si preoccupa di disquisire sulla posizione centrale della Terra, bensì di porrein evidenza che la prospettiva dell’uomo, nell’intero universo osservato, è inevitabilmente terrestre. Appare qui l’indirizzo anticartesiano della meditazione pascaliana: se per Descartes ciò che non è di natura puramente intellettuale è privo di evidenza (non può essere chiaro e distinto), Pascal, pur non negando che le immagini legate all’oscurità dei nostri sensi siano suscettibili di riforma prima di tramutarsi in pensiero, ne concepisce la mutevolezza in tutt’altro modo, facendo del punto di vista terrestre un universale principio di “relatività osservazionale”. Egli confronta metodicamente la posizione dell’uomo nell’universo alla nostra condizione e alle nostre conoscenze: «La nostra ragione è sempre delusa dalla mutevolezza delle apparenze; nulla può fissare il finito tra i due infiniti che lo racchiudono e lo fuggono. Avendo ben capito questo, credo che ci si terrà quieti, ciascuno nello stato in cui la natura lo ha posto. Poiché questo luogo di mezzo che ci è toccato in sorte è sempre lontano dagli estremi, che cosa importa che uno abbia un po’ più di intelligenza delle cose?» (n. 84, pp. 431-432). Il nostro orizzonte umano ci confina in una docta ignorantia: «Quel poco di essere che abbiamo ci nasconde la vista dell’infinito. La nostra intelligenza occupa nell’ordine delle cose intellegibili lo stesso grado del nostro corpo nell’estensione della natura […]. Se l’uomo studiasse se stesso per prima cosa, capirebbe quanto sia incapace di andare oltre» (ibidem, pp. 430 e 432). Pascal è ben lontano da Descartes e dalla sua dottrina della certezza fondata sull’evidenza delle idee chiare e distinte.
Due obiezioni si presentano al modo di procedere di Pascal: non sta egli confondendo l’infinito (desunto da riflessioni filosofico-matematiche) con l’immensità (geometrica) dello spazio? È forse allora lo scetticismo il solo esito consentito alla nostra condizione? Concediamo che Pascal ammetta la “duplice infinità” sia per ragioni fisiche che matematiche, senza tuttavia confonderle. L’ipotesi dell’infinità dello spazio era ritenuta all’epoca una conseguenza necessaria della geometria euclidea, considerata un solido edificio, benché alcuni suoi critici ponevano in questione la sua applicabilità alla realtà fisica. Ma i geometri erano ancora lontani dalla revisione degli assiomi di Euclide che avrebbe condotto alle geometrie non-euclidee, in particolare la geometria di uno spazio finito e illimitato. Rispetto alla seconda obiezione osserviamo che, alla luce del suo intero pensiero, lo scetticismo pascaliano non è mai da intendersi come scetticismo radicale.
Un ulteriore elemento di interesse è un certo “superamento” della stessa immaginazione grazie al pensiero sull’infinito. In matematica l’idea della “duplice infinità” ha avvicinato Pascal alla soglia del calcolo infinitesimale: l’infinito è infatti una caratteristica dei numeri e delle grandezze, ma il continuo è la chiave che spiega l’implicazione reciproca dell’infinitamente grande e dell’infinitamente piccolo.
L’infinità è centrale anche nella teologia naturale dell’A.: «Che la nostra immaginazione si perda in tale pensiero (dell’immensità - infinità del mondo) è il più grande segno sensibile dell’onnipotenza di Dio» (n. 84, p. 426). Da una parte, l’infinità è il segno specifico della presenza di Dio nell’universo; dall’altra, l’infinità è per Pascal l’attributo essenziale di Dio.
Come il finito può essere il segno e l’immagine dell’infinito? Tale domanda è per il pensatore rancese la questione capitale della teologia naturale. Anche se egli non ripercorre la storia filosofica della nozione di infinito, l’ha chiaramente presente. L’infinito “potenziale” e incompleto è l’illimitato e l’indeterminato: è l’infinito dell’immaginazione, ma consiste in una nozione “inadempiente”. Lo riprova il fatto che i “finitisti” sono pronti ad ammettere l’infinito potenziale, poiché non si tratta di un vero infinito, perché può essere sempre aumentato o prolungato. C’è quindi una contraddizione quando si parla di numero infinito o di grandezza infinita, giacché non c’è numero massimo. L’infinito “attuale”, invece, è l’inesauribile, del quale il continuo ci dà l’idea più adeguata. L’infinito attuale non è diminuito dalla sottrazione di una parte finita, pur reiterata. La sua nozione è richiesta dall’intelligibilità della realtà. L’idea stessa di un infinito potenziale postula l’infinito attuale. La “continuità”, per esempio, richiede la divisibilità infinita del movimento, dello spazio e del tempo, che non sono colte dalla percezione.
La presenza di Dio nella sua creazione, collegata all’opposizione fra finito e infinito, si manifesta particolarmente nella relazione dell’infinito attuale con l’infinito potenziale. Pascal ne viene convinto da una considerazione di s. Agostino: l’infinità di Dio è allo stesso tempo certissima e incomprensibilissima. Perciò la meditazione del frammento “dei due infiniti”, che propone un bilancio delle conoscenze naturali, si presenta assai diversa dall’Itinerarium mentis in Deum (1259) di s. Bonaventura, ispirato alla teologia tradizionale dell’esemplarismo cristiano. Il teologo francescano risaliva a Dio secondo tre tappe: le tracce di Dio nel mondo; la considerazione della nostra somiglianza con Dio nell’intelletto e nella volontà; la contemplazione di Dio nelle cose al di sopra delle nostre capacità. Le idee fondamentali dell’ascesa verso Dio sono due: le realtà naturali (vestigia Dei) sono immagini degli attributi divini; il rapporto fra l’uomo creato a immagine e somiglianza di Dio (imago Dei) e la natura è quello fra un microcosmo e il macrocosmo. Pascal rompe con questa tradizione: la presenza dell’infinito nell’immensità e nell’incommensurabilità del finito è il segno della presenza del Dio infinito e della sua trascendenza. Ma il segno non è più immagine perché, allo stesso tempo, vela e svela, nasconde e manifesta. Il segno naturale condurrà Pascal alla dottrina delle “figure” nelle Sacre Scritture. Egli interpreta dunque la trascendenza di Dio in termini di infinità, e l’infinità in termini di incomprensibilità.
La “scommessa” su Dio
Convinto che non ci possa essere vera fede senza vera speranza, perché la fede aderisce a beni spirituali promessi da Dio stesso, Pascal riconosce qualche affinità tra l’atto di fede cristiana e una scommessa. Tale è, a nostro parere, il senso del celebre frammento intitolato: «Infinito - nulla» e noto come “la scommessa sull’esistenza del Dio dei cristiani” (n. 451, pp. 572-578). Oltre ad essere isolato nei frammenti non classificati dei Pensieri, l’argomento non si lascia agevolmente collocare nel disegno apologetico dell’A. (pare che il frammento sia databile al 1655, pochi mesi dopo i lavori sul calcolo delle probabilità e anteriore di due anni alla classificazione dei frammenti in vista della redazione dell’Apologia, non era previsto che ne facesse parte. Pare anche che fosse rivolto ai “libertini”, scetticheggianti e restii alla morale cristiana). D’altronde, non fu recepito favorevolmente ed è tutt’oggi oggetto di molte discussioni. I principali rimproveri rivoltigli furono di peccare di leggerezza e persino d’immoralità: come fare dell’esistenza di Dio l’oggetto di una scommessa? Non devo condizionare la mia credenza nell’esistenza di Dio all’interesse che spero di ricavarne. Come si può scommettere rinunciando a qualcosa di certo senza neppure sapere se, vincendo, si avrà un premio? E non si ammette così, anche, la possibilità che Dio non esista (che senso infatti avrebbe la scommessa se tale eventualità venisse esclusa)? Vi fu poi l’obiezione, sorta nel clima dell’illuminismo, di Diderot, Condorcet e Voltaire: tutte le religioni che minacciano un inferno e promettono un paradiso sono in grado di proporre lo stesso argomento. Un’ultima obiezione è la critica neo-kantiana di Jules Lachelier (1832-1918) alla scommessa, cui, pur ammettendo un’importanza psicologica, nega ogni valore metafisico: questa è un atto empirico che non può oltrepassare i limiti dell’esperienza. Si tratta di scommessa ideale, soggetta allo stesso vizio dei “cento talleri sognati” che Kant utilizzava contro l’argomento ontologico di Anselmo di Aosta: la posta in gioco non è deposta sul tavolo di gioco, ma è sognata, e dunque non “posta realmente in gioco”.
Nondimeno, l’alternativa filosofica resta sempre: o Dio esiste o non esiste; uno contro uno: una ragione opposta all’altra. Come trasformare l’alternativa teorica e logica in una scommessa pratica? Un gioco (come testa o croce) nel quale ho una probabilità su due di vincere, non è né vantaggioso né svantaggioso se la somma vinta è doppia della posta investita. Diventa vantaggioso se tale somma è più che doppia. Partendo da questa regola si arriva alla proposta pascaliana. Se, scommettendo per Dio, avessi una probabilità su due di vincere due vite, potrei scommettere o non scommettere. Se ne vincessi tre, avrei più interesse a scommettere. Ma nella scommessa in favore di Dio, se vinco, vinco infinite vite: allora, se ho una probabilità contro due di vincere, e un premio di infinite vite contro una sola, esiste un evidente interesse a giocare. Pascal ci pone di fronte ad un caso limite che non può essere escluso a priori: una sola possibilità (chance) favorevole contro infinite contrarie. E Pascal ha la risposta: puntare sull’infinità del premio.
Lo schema appena tracciato spiega l’interpretazione standard della scommessa pascaliana. In termini matematici l’infinito più uno è uguale all’infinito; l’infinito meno uno è uguale all’infinito. Se i beni del mondo fossero “oggettivamente” quasi nulla, l’impegno a puntare e scegliere per Dio sarebbe fuori dubbio. Ma questa interpretazione elementare e matematicizzante solleva un’enorme difficoltà e i suoi aspetti paradossali la riducono all’assurdo. Se infatti concediamo che si può scommettere quando si mette in gioco qualcosa di certo contro qualcosa di superiore, pure incerto, è anche vero che se la vita presente non vale nulla, non si ha niente da mettere in gioco; e se riteniamo la nostra vita e i nostri beni come tali, cioè quasi nulla rispetto all’infinito attuale, lo facciamo in realtà perché già sappiamo che Dio esiste. E se so che Dio è qualcosa di reale, non ho più ragione di scommettere. La condizione di possibilità di questa scommessa (che Dio esista) elimina la scommessa medesima. Si può tuttavia preferire un’interpretazione più profonda e che Pascal stesso riferisce alla condizione umana. Vi è altrettanto impegno nello scommettere sull’immortalità della nostra anima quanto sull’esistenza di Dio. «Distrazione. Gli uomini, non avendo potuto liberarsi dalla morte, dalla miseria, dall’ignoranza hanno deciso, per esser felici, di non pensarci» (n. 213, p. 482). «Ci si immagini un gran numero di uomini in catene e tutti condannati a morte, di cui alcuni sono ogni giorno sgozzati sotto gli occhi degli altri; quelli che restano vedono la propria sorte in quella dei loro simili e, guardandosi gli uni gli altri con dolore e senza speranza aspettano il loro turno. Tale è l’immagine della condizione degli uomini» (n. 341, p. 528). Viviamo e siamo mortali. Dipende da noi scommettere in favore di Dio o scommettere contro la sua esistenza, ma non dipende da noi scommettere o non scommettere affatto. E difatti, qualunque scommessa, più o meno remotamente, scommette sulla morte, perché l’uomo è proteso verso un futuro. Il vero oggetto della scommessa ultima è la vita eterna, la vittoria sulla morte: «Che giova all’uomo guadagnare il mondo intero, se poi si perde o rovina se stesso?» (Lc 9,25) (n. 649, p. 686). La scommessa dei giocatori di azzardo soppesa casi equipossibili, cosa che non esclude l’indifferenza verso di essa; la scommessa religiosa riflette su due compossibili: la mia propria esistenza con o senza Dio.
Pascal apologeta: la condizione dell’uomo e la ricerca del Dio nascosto
Pascal è senza dubbio uno degli autori che ha posto in luce con maggiore realismo e drammaticità la condizione dell’uomo di fronte a se stesso, all’enigma della propria vita e della propria morte, e dunque alla sua condizione di fronte a Dio. Accenneremo qui brevemente ad altri due importanti temi: la necessità per l’uomo di porsi domande esistenzialmente significative, alle quali egli cerca si sfuggire attraverso il divertissement, e la tensione che egli sperimenta, nella sua ricerca, fra nascondimento e rivelazione di Dio.
Riguardo alla miseria dell’uomo e l’oblio di questa nel divertimento, Pascal è meno preoccupato di sottolineare le divergenze dei filosofi, sia dogmatici sia pirroniani, che di evidenziare l’importanza, per gli uni e per gli altri, di conoscere la vera condizione e destino dell’uomo. «Vi è in lui la capacità di conoscere la verità e di essere felice; ma non ha la verità stabile o soddisfacente. Vorrei dunque portare l’uomo a desiderare di trovarne […] per seguirla ovunque la troverà sapendo quanto la sua conoscenza sia oscurata dalle passioni; vorrei bene che odiasse in sé la concupiscenza che lo determina di per se stessa, affinché non lo accusasse nel fare la sua scelta, né lo trattenesse quando avrà scelto» (n. 331, p. 516).
Al centro dell’VIII° gruppo di frammenti dedicato ai “Contrari”, vi è la questione del contrasto fra la costituzione dell’uomo e la sua condizione esistenziale: «È necessario conoscersi: quand’anche questo non servisse a trovare il vero, almeno servirebbe a regolare la propria vita» (n. 81, p. 425). Ma i filosofi non hanno alcuna soluzione a questo problema paradossale: «Quale novità, quale mostro, quale caos, quale soggetto di contraddizione, quale prodigio! Giudice di tutte le cose, sprovveduto verme della terra; depositario del vero, cloaca di incertezza e di errore; gloria e rifiuto dell’universo. Chi sbroglierà questo garbuglio? La natura confonde i pirroniani, e la ragione confonde i dogmatici. Cosa diventerete dunque, o uomini che cercate la vostra vera condizione con la vostra ragione naturale? Voi non potete sfuggire una di queste sette, né rimanere in alcuna. Conosci dunque, o superbo, quale paradosso sei a te stesso. Umiliati, ragione impotente; taci, natura imbecille: imparate che l’uomo supera infinitamente l’uomo: apprendete dal vostro maestro la vostra vera condizione, che ignorate. Ascoltate Dio». La lunga citazione è estratta da un frammento che costituisce un vero e proprio discorso apologetico (n. 438, pp. 564-565). L’enigma insolubile della nostra condizione ha la sua origine in un mistero ancora più incomprensibile, la trasmissione della miseria spirituale della colpa a tutti gli uomini, che la dottrina cristiana conosce come peccato originale. «Certamente nulla ci urta più fortemente di questa dottrina, e tuttavia senza questo mistero, il più incomprensibile di tutti, noi restiamo incompressibili a noi stessi. Il nodo della nostra condizione si avvolge e si attorce in questo abisso di modo che l’uomo è più inconcepibile senza questo mistero di quanto questo mistero non sia inconcepibile per l’uomo» (ibidem, p. 566).
Il gruppo successivo di frammenti ha per oggetto il “Divertimento” preso nell’accezione etimologica di “distogliere lo sguardo da ciò che non si vuole guardare”. Senza eccessiva forzatura, si potrebbe accostare il “divertimento” pascaliano alla “rimozione” freudiana. Ma da cosa si è spinti a “divertirsi”? «Gli uomini non avendo potuto liberarsi dalla morte, dalla miseria, dall’ignoranza, hanno deciso per essere felici, di non pensarci» (n. 213, p. 482). Il divertissement non rende l’uomo felice «perché esso […] dal di fuori; e quindi è dipendente, e perciò suscettibile di essere turbato da mille accidenti, che rendono inevitabili le afflizioni» (n. 216, p. 482).
Il divertimento manifesta così il contrasto tra la nostra costituzione (non possiamo non aspirare alla felicità) e la nostra condizione (non possiamo raggiungere la felicità). La ricerca della felicità è per noi una specie di “droga”: dipendiamo da essa, e quando ci manca siamo in crisi di astinenza. Il divertimento ci fornisce un succedaneo della felicità e per di più transitorio. I principali sintomi della sua mancanza sono la noia e la paura. Ma l’uomo conosce altrettante inquietudini quanti i sentimenti che gli sono costitutivamente naturali: mortale, aspira all’immortalità; finito, soltanto l’infinito l’accontenterebbe; la ragione, impotente a dar valore alle cose, sa soltanto rifugiarsi nell’illusione. Pascal non sentenzia che la ragione ha inventato con il divertimento un rimedio ancora più miserabile della miseria, ma lo lascia intendere: rifugio contro la disperazione, il suo vero esito è la “vanità”, la vacuità dei contenuti, l’inconsistenza, lo svuotamento del proprio tempo. Il divertimento, facendoci perdere l’equilibrio, ci mette così in moto perpetuo, l’esistenza si dibatte così in un’agitazione senza vero presente: «Non ci teniamo mai fermi al tempo presente. Anticipiamo l’avvenire quasi fosse troppo lento a venire, quasi per affrettare il suo corso; oppure richiamiamo il passato, per arrestarlo quasi fosse troppo fugace; imprudenti al punto di aggirarci nei tempi che non sono nostri, e di non pensare al solo che ci appartiene» (n. 168, pp. 461-462).
Ma qual è per Pascal il rilievo apologetico del tema del “divertimento”? Sottolineare l’importanza del desiderio umano di felicità: delusi e insoddisfatti di noi stessi, poniamo il nostro centro di gravità fuori di noi, privandoci di ogni stabilità. Pascal conclude, come già Agostino, che non potendo trovare la felicità né in noi stessi, né fuori di noi, la troveremo soltanto in Dio. «Gli stoici dicono: “Rientrate in voi stessi; è lì che troverete la vostra quiete”. E ciò non è vero. Gli altri dicono: “Uscite al di fuori; cercate la felicità, divertendovi”. E ciò non è vero. Vengono le malattie. La felicità non è né fuori di noi, né dentro di noi; è in Dio, e fuori e dentro di noi» (n. 391, p. 544). La felicità è nel Dio nascosto che va ricercato. Egli, infatti, non è per Pascal un Dio assente, né negazione della provvidenza, in tal caso la condizione umana sarebbe essenzialmente tragica: per Pascal, se Dio non fosse presente, non sarebbe nemmeno nascosto. Si tratta, in definitiva, di un tema mistico: «Se Dio si svelasse continuamente agli uomini, non ci sarebbe merito a credergli; e, se non si svelasse mai, ci sarebbe poca fede. Ma egli di solito si nasconde, e si svela di rado a quelli che vuole assumere a suo servizio. Questo strano segreto, in cui Dio è nascosto, impenetrabile alla vista degli uomini, è una grande lezione per portarci nella solitudine, lontano dalla vita degli uomini» (p. 207). Egli non esce dal segreto della natura che lo copre, se non per eccitare la nostra fede a servirlo con tanto più ardore, quanto più lo conosciamo con certezza. A coloro che non lo cercano, non si manifesta per misericordia affinché Egli non sia per loro un accusatore e un motivo di condanna.
Da massima di vita spirituale, l’idea del Dio nascosto si trasforma in un principio universale di teologia fondamentale che contraddistingue tutte le manifestazioni e rivelazioni divine. La storia della salvezza del genere umano si è svolta con una successione di rivelazioni del Dio nascosto. Pascal distingue quattro nascondimenti-svelamenti: il primo è quello della Sua natura increata, che ci nascose fino all’evento dell’Incarnazione; nel secondo Dio si è nascosto ancora di più coprendosi con la nostra umanità; nel terzo ha scelto di restare con gli uomini nel più oscuro dei segreti, quello della Eucaristia; il quarto è il nascondimento dello Spirito di Dio nella Sacra Scrittura e nella sua interpretazione, nella tensione fra senso spirituale e senso letterale.
Perché un Dio che si nasconde? Una presenza nascosta è una presenza inaccessibile, eppur riconoscibile. Quando non è riconosciuta, resta non di meno reale. E la presenza nascosta viene ricercata, per essere scoperta e svelata. Non pochi commentatori di Pascal ne hanno travisato il pensiero ritenendo che, per lui, Dio non potrebbe non nascondersi, perché altrimenti non vi sarebbe né morale né religione. In realtà, per Pascal, Dio vuole nascondersi perché è questa la condizione per stabilire una vera comunicazione con gli uomini, chiamati a cercarlo non solo con la ragione, ma anche con il cuore. Il nascondimento di Dio non risponde ad una convenienza strategica, né ad una necessità ontologica. «Il modo di agire di Dio, che dispone ogni cosa con dolcezza, è di porre la religione nelle menti con le ragioni, e nei cuori con la grazia. Ma volerla porre nelle menti e nei cuori con la forza e con le minacce, non è porvi la religione, ma il terrore» (n. 9, p. 401). «Dio vuole disporre più la volontà che la mente. La chiarezza perfetta servirebbe alla mente e nuocerebbe alla volontà. Umiliare la superbia». «Che Dio ha voluto nascondersi. Essendo Dio così nascosto, ogni religione che non afferma che Dio è nascosto non è vera; e ogni religione che non ne dia la ragione, non istruisce. La nostra fa tutto questo: vere tu es Deus absconditus» (nn. 596 e 598, p. 661).
L’originalità di Pascal consiste nella rielaborazione dei princìpi della teologia fondamentale relativi alla Rivelazione da un duplice punto di vista: a) il tema del Dio nascosto è anche il tema di Dio che si rivela nell’economia del suo disegno provvidenziale, una rivelazione che Pascal preferisce presentare sotto il profilo degli attributi operativi di Dio, anziché ontologici; b) inserisce le azioni divine in una storia del genere umano costituita in una storia della salvezza.
Pascal parla di «segreti» per designare le antitesi e i paradossi di Dio che allo stesso tempo si nasconde e si svela. a) Dio nascosto nella natura: l’immensità occulta l’infinità. L’infinito potenziale, illimitato ma incompleto ed indeterminato, dell’immaginazione, offusca l’infinito attuale, l’infinito dell’intelligenza che è il solo vero infinito. Il visibile dissimula l’invisibile. L’AT insegna che Dio è trascendente, cioè incomprensibile ed inaccessibile. I suoi pensieri sono infinitamente superiori a quelli dell’uomo. Pascal intende l’incomprensibilità biblica di Dio alla luce della sua idea di infinità. Tutta la natura porta i segni dell’infinito potenziale: l’infinità attuale dell’unico Dio, in compenso, lo rende inesauribilmente comunicabile. b) Dio nascosto in Gesù Cristo: l’umanità del Verbo incarnato oscura la sua divinità rendendola meno riconoscibile, ma grazie all’incarnazione Dio si è reso sorprendentemente riconoscibile e vicino a noi con al sua umanità. c) Dio nascosto nella Chiesa: mentre la mondanità degli ecclesiastici oscura la morale evangelica e sembra interrompere l’evangelizzazione, la presenza eucaristica manifesta e perpetua la permanenza della verità di Cristo risorto nell’annuncio del Vangelo. d) Dio nascosto nelle difficoltà di comprensione della Bibbia: gli uomini hanno sempre aspettato un salvatore e i profeti annunciato vari Messia: non sono mancati falsi profeti che ne hanno compromesso il vero riconoscimento. Eppure Dio ha progressivamente preparato l’avvento del Verbo divino fatto carne per mezzo di profezie ove senso spirituale e senso letterale della Scrittura convergono.
I quattro “nascondimenti” di Dio indicano in definitiva l’economia divina della distribuzione di luci ed ombre nella successione dei tempi. I tempi della storia umana, sia collettiva che individuale, allargano la frattura che separa la verità della nostra costituzione dalla realtà storica della nostra condizione, accrescendo in noi la nostalgia che venga ricomposta la loro unità. Se la dialettica della “contrarietà” ha precipitato nella miseria l’uomo senza Dio, la nostalgia della grandezza della sua alleanza con Dio lo risolleva alla sua prima dignità. Se la sua miseria è invalicabile, la sua dignità è indistruttibile. «Tutte queste miserie provano la sua grandezza. Sono miserie di grande signore, miserie di un re spodestato». «La grandezza dell’uomo sta in ciò, che si riconosce miserabile. Un albero non si riconosce miserabile. Si è quindi miserabili perché ci si riconosce miserabili; ma è essere grandi riconoscere che si è miserabili» (nn. 269 e 255, pp. 499 e 495).
Il fondamento della sua inalienabile dignità è che l’uomo è un “essere pensante”. «Canna pensante. Non è nello spazio che io devo cercare la mia dignità, ma nel retto esercizio del mio pensiero. Non avrei alcuna superiorità, possedendo delle terre. Con lo spazio, l’universo mi comprende e mi inghiotte come un punto; con il pensiero io lo comprendo» (n. 265, p 497). In questo Pascal è pienamente d’accordo con Descartes, ma non secondo la logica del cogito, ergo sum. All’interno del pensiero umano c’è un contrasto fra la ragione, facoltà della deduzione, e il “cuore”, facoltà della certezza. Tutti i ragionamenti giungono alla conclusione della mia miseria, il cuore ha la certezza della mia dignità. Paziente nelle miserie, reminiscente nella grandezza: ecco l’attuale condizione decaduta dell’uomo. Ma la verità per l’uomo non consiste tanto nella conformità dei suoi giudizi alla realtà delle sue miserie, quanto nella rettitudine del suo cuore che percepisce e asserisce la sua dignità, in modo però ben diverso da quanto richiedeva l’evidenza cartesiana delle idee innate, chiare e distinte: «Il cuore ha le sue ragioni, che la ragione non conosce; lo si constata in mille cose». «Noi conosciamo la verità, non solamente, con la ragione, ma anche con il cuore; è in quest’ultimo modo che noi conosciamo i primi princìpi, ed è invano che il ragionamento, che non vi ha parte, cerca di impugnarli» (nn. 477, 479, pp. 585-586). È la constatazione della propria condizione di miseria e la reminiscenza della nostra nativa grandezza che deve muovere gli uomini alla ricerca della propria verità, e con essa della propria felicità, in Dio. Per questo, osserva Pascal, «non ci sono che tre categorie di persone: quelle che servono Dio, perché l’hanno trovato; quelle che si impegnano a cercarlo, perché non l’hanno trovato; quelle che vivono senza cercarlo, né averlo trovato. Le prime sono ragionevoli e felici; le ultime sono folli e infelici; quelle di mezzo sono infelici e ragionevoli» (n. 364, p. 532).
Brani antologici proposti:
La verità si conosce non solo con la ragione, ma anche con il cuore (nn. 479 e 482)
Chi sono, da dove vengo e dove vado: la necessità della ricerca di Dio (nn. 334 e 335)
L'uomo nella natura, sospeso fra due infiniti (nn. 84-91)