M. Blondel, L'Action. Essai d'une critique de la vie et d'une science de la pratique, (1893) Presses Universitaires de France, Paris 1950.
tr. it. L’Azione. Saggio di una critica della vita e di una scienza della prassi, a cura di S. Sorrentino, San Paolo, Cinisello Balsamo 1993.
L’autore e il contesto dell’opera
Blondel nacque a Digione nel 1861 e fu professore all’università di Aix-en-Provence dal 1895 al 1927; il suo principale contributo al rapporto fra fede e ragione lo si trova nelle intuizioni sostanziali contenute ne L’Action (1893), nella difesa del metodo dell’immanenza operata nella Lettre sur l’apologétique (1896) e nell’esposizione della nozione cattolica di Tradizione in Histoire et dogme (1904). Dopo il lungo intermezzo dovuto alla crisi modernista, Blondel pubblica la sua monumentale “trilogia”, rappresentata dai due tomi de La Pensée (1934), dalla sua ontologia L’Être et les êtres (1935), e da altri due tomi intitolati ancora L’Action (1936-37), dei quali il secondo ripropone con inserimenti e aggiunte minori la tesi dottorale del 1893.
Chi si accosta al pensiero di Blondel non può ignorare la complicata trama di rapporti e di dibattiti nei quali egli visse e operò. A motivo del forte clima anti-modernista presente allora nel Sant’Uffizio, egli dovette in più occasioni corredare le sue tesi con un’adeguata ermeneutica, nonché far uso di pseudonimi negli articoli pubblicati nelle prime decadi del XX secolo. In numerosi ambienti Blondel era infatti esplicitamente additato come fonte di ispirazione di un certo numero di autori le cui opere venivano allora ritenute non conformi alla dottrina cattolica. I principali punti di aggancio del pensiero blondeliano con le critiche rivolte ai modernisti riguardavano la rivalutazione della sfera soggettiva nonché la scelta di una filosofia che, nella ricerca della verità, privilegiasse l’azione e la volontà in luogo del realismo metafisico classico, che dava invece priorità all’essere come colto dall’intelletto. Pur restando fedele alle sue intuizioni originarie, che delinearono in lui il metodo e i frutti di una filosofia dell’azione, il dibattito ingaggiato con i suoi avversari e le numerose opposizioni che la filosofia dell’immanenza incontrava presso il sant’Uffizio condussero Blondel ad una maggiore e progressiva precisazione del suo pensiero e ad un parziale riavvicinamento alle tesi di Tommaso d’Aquino, che Leone XIII aveva riproposto nel 1879 come autore di riferimento.
Leggendo Blondel si avverte forte e chiara l’ispirazione di Blaise Pascal. Anche per Blondel infatti, l’uomo è incompiuto e al tempo stesso consapevole di un’autotrascendenza che è insieme fonte della sua dignità e del suo disagio esistenziale; come già Pascal, anche Blondel obbliga l’uomo a prendere coscienza del problema del senso della vita, reclamandogli di prendere posizione; come per Pascal, anche per Blondel la ragione può soltanto “gridare” la fede senza esigerla, indicarla senza dedurla, reclamarla come necessaria per la vita, sapendo che nella sua essenza resta gratuita. Come per Pascal, anche per Blondel, con le medesime parole, “l’uomo supera infinitamente l’uomo”, e lasciato a sé stesso resta un enigma incomprensibile, un enigma che solo Dio può svelare e decodificare; un Dio della cui rivelazione si può soltanto restare in attesa, ma un Dio del quale la vera esperienza religiosa può già dire molto; un Dio conosciuto solo nel fuoco della grazia, capace di fornire risposte che, accolte nella fede, la ragione umana può riconoscere credibili perché espressione delle sue aspirazioni più profonde.
L’Azione è un testo rigoroso e sistematico, diretto a persone colte. Il suo interlocutore è un intellettuale consapevole del profondo esame critico, e ultimamente del presunto esito nichilista, sperimentato da buona parte delle tradizionali affermazioni di senso, fra le quali le prove morali circa l’esistenza di Dio e la possibilità di una sua rivelazione. Il contesto remoto che Blondel ha di fronte è quello dell’ambiente dell’Ecole Normale, nel quale il positivismo e il razionalismo filosofici avevano buon gioco, ed il successo delle scienze empiriche nella conoscenza del reale poteva considerarsi un risultato acquisito. Il linguaggio, gli autori citati e gli esempi da lui impiegati, specie nella parte III dell’opera, mostrano la sua familiarità con tale contesto, in favore del quale Blondel desidera elaborare un metodo apologetico sufficientemente significativo. Di fronte al carattere razionalista del suo interlocutore, la scelta di sviluppare un cammino antropologico consentirà a Blondel di restituire all’attività razionale e scientifica la sua dimensione personalista, mostrando come essa partecipi a pieno titolo delle domande esistenziali legate all’agire del soggetto. Fin dall’avvio dell’Azione, Blondel fa avvertire tutta la densità del problema antropologico: «La vita umana ha o non ha un senso? E l’uomo ha un destino? Io agisco, ma senza neanche sapere che cos’è l’azione, senza aver desiderato di vivere, senza conoscere esattamente né chi sono né addirittura se sono. Questa apparenza di essere che si agita in me, queste azioni irrisorie e fugaci di un’ombra, ebbene sento dire che esse portano in loro una pesante responsabilità per l’eternità, e che, anche a prezzo del sangue, non posso comprare il nulla, perché per me non esiste più: sarei dunque condannato alla vita, condannato alla morte, condannato all’eternità! Ma come, e con quale diritto, se non l’ho né saputo né voluto?» (p. 65).
Guardando la situazione esistenziale dell’uomo, heideggerianamente “gettato” a sua insaputa nell’essere, Blondel pone l’enfasi sull’enigma dell’agire, che nel rivelare la libertà/emergenza dell’uomo pone al contempo il problema del fine dell’azione e della responsabilità ad esso collegata. Consapevole che «non vi sono problemi più insolubili di quelli che non esistono» (p. 83), Blondel riepiloga nell’Introduzione quanto svilupperà lungo la sua opera, ovvero il suo intento di mostrare che l’interrogativo radicale sul significato ultimo dell’azione è un interrogativo sensato e che diviene ragionevole accogliere quanto si riconosca adeguato a darle un compimento.
L’azione è necessaria perché nella vita umana è necessario operare delle scelte: essa è un fatto universale e ineludibile. Di più, si percepisce che ogni azione è, nostro malgrado, gravida di conseguenze, facendo così sorgere il problema della responsabilità che vi è associata. L’azione, inoltre, si nutre di un mondo di fini che supera quanto i sensi ci forniscono: «una mera conoscenza non è mai sufficiente a metterci in azione, perché non ci afferra interamente: in ogni atto, c’è un atto di fede» (p. 67).
Struttura e contenuto
In particolare, l’itinerario de L’Action si articola in cinque Parti: le prime tre sono dedicate rispettivamente a presentare, fondare ed illustrare il problema dell’azione, alla luce dell’insufficienza delle risposte pervenute dall’ordine ultimamente fenomenico; la quarta parte espone come dovrebbe realizzarsi una ricerca sensata della soluzione a tale problema, delineando in cosa consista “il solo necessario” verso cui l’azione umana si orienta; la quinta ed ultima parte intende giustificare perché, quando si cercano le ragioni ultime del compimento dell’azione, sia ragionevole ammettere un’apertura dei fini dell’agire umano verso il soprannaturale annunciato dalla religione/rivelazione, svelando così l’orientamento e il vero termine del destino dell’uomo.
Come già Pascal nei confronti dei libertini e del loro divertissement, Blondel mostra nella Parte prima de L’Azione l’insufficienza della posizione del “dilettante”, ovvero dell’“esteta”. Per essi la vita è un gioco. Con il loro disimpegno vorrebbero dimostrare che il problema del fine/responsabilità dell’azione si può vanificare, relegandolo così a “non problema”. Il dilettante resta sempre in superficie, rifiutando di prendere sul serio qualsiasi cosa, con un atteggiamento che nell’esteta diventa bramosia di provare tutto e fruire di tutto, negando l’esistenza di un fondamento di verità e di bene in base al quale misurare il significato delle proprie azioni, le quali, proprio per questo, vengono dichiarate prive di senso. In realtà, osserva Blondel, tanto il dilettante quanto l’esteta non evitano il problema di una volontà che guidi l’azione, perché entrambi orientano la propria volontà a “volere sé stessi”. Se l’uomo disimpegnato non volesse davvero nulla, dovrebbe terminare con l’annientare sé stesso. La sua vita tradisce una sottile, insanabile doppiezza: dice di non volere, ma non potrebbe, senza volere, cercare solo sé stesso. Fra l’altro, poiché la sua esperienza non può essere infinita e illimitata, la sua è una posizione pregiudiziale: egli postula che tutto sia vanità e gioco, affermando a priori che nessun senso sia mai riscontrabile ovunque. La sua è un’autolatria: si auto-sacrifica a tutti gli oggetti del suo piacere, fino ad auto-annullarsi nella dispersione. L’esteta si ama tanto male da disperdersi e perdersi nella infinità delle cose vane che cerca. In definitiva, il dilettante e l’esteta non annientano il problema perché non possono astenersi dall’agire e, per di più, lo fanno in modo contraddittorio: non vogliono altro che “loro stessi affermando il nulla”, ma senza voler annullare sé stessi. Non si può essere dilettante o esteta fino in fondo e radicalmente: «non si può perché non si vuole fare a meno di essere e di agire; la rinuncia morale non è né più né meno possibile e verace dell’astensione metafisica» (p.104). Chi si adopera con un simile atteggiamento per la rimozione del problema morale dell’azione e del destino umano, lo pone ancora in tutta la sua interezza.
La Parte seconda dell’opera prosegue chiedendosi se per il problema dell’azione possa esistere una soluzione negativa, ovvero l’affermazione del “nulla” quale conclusione dell’esperienza, termine della scienza e fine dell’ambizione umana. In questo caso, a differenza del precedente, si affermerebbe positivamente l’esistenza di una volontà, ma questa si orienterebbe in modo consapevole verso il pessimismo, con Schopenauer, o verso il nichilismo, con Nietzsche. La volontà verrebbe così applicata a non attendersi nulla dalla vita se non il nulla stesso. Blondel segnala che perfino una certa visione della scienza sembrerebbe volerci condurre verso tale obbligata conclusione. Egli si riferisce alla decostruzione fisicalista del reale, tipica del materialismo naturalista dell’Ottocento, tesa a mostrarcene l’intimo e inesorabile destino verso la dissoluzione finale: in sostanza, desacralizzando il mondo, la scienza rivelerebbe come illusoria ogni aspirazione di eternità.[1] Si tratta di una visione, notiamo per inciso, che in forme diverse ha continuato ad emergere più volte lungo tutto il Novecento, specialmente attraverso gli aforismi di Jacques Monod, Steven Weinberg, Carl Sagan e Richard Dawkins, o perfino attraverso alcuni commenti fortemente ideologizzati del darwinismo, quando impiegato come negazione filosofica di senso; commenti, questi, non certo rappresentativi dell’impresa scientifica nel suo insieme, né della migliore riflessione umanistica ad essa collegata, ma divenuti influenti a motivo della cornice filosofica totalizzante con cui sono stati proposti al grande pubblico. Blondel sostiene però l’intrinseca contraddizione derivante dall’orientare la tensione volitiva verso il nulla: non sembra si “possa volere il nulla” poiché di esso non abbiamo esperienza se non per negazione. Si vuole in realtà qualcosa, mai il nulla. In verità, porre volitivamente il senso di tutto nel nulla, egli scrive, è un modo surrettizio di affermare il Tutto, del quale si sente la privazione. «Che cosa significa credere e aspirare al nulla di ogni oggetto di pensiero o di desiderio? Significa ammettere questo Grande Tutto con una testimonianza e un atto di fede spontanei che trascendono la scienza, con una decisione originale che manifesta l’iniziativa della volontà» (p.122). In linea con la lezione pascaliana, Blondel osserva che la volontà si orienta sempre verso la felicità, anche quando non lo riconosce esplicitamente; anche quando, come in una sorta di suicidio metafisico, si vuole affermare metafisicamente il nulla, esattamente come quando, uccidendosi, l’uomo vuole annientare sé stesso. La volontà apparente del nulla manifesta pertanto anch’essa un volere contraddittorio: da una parte un volere profondo di essere, che i fenomeni da soli non riescono a soddisfare al mostrare la loro contingenza o perfino la loro deludente dissoluzione; dall’altra un volere superficiale che ci fa aderire ai fenomeni stessi, dei quali non intendiamo privarci. Il problema dell’azione viene così lasciato aperto, segnalando la persistenza di una reale dicotomia, insanabile, fra la volontà dichiarata o voluta (quella di voler togliere senso all’azione, limitarla al campo del piacere, del fenomenico, o proporsi/postulare di orientarla radicalmente verso il nulla) e la volontà intimamente e veramente volente (quella che esprime la vera tensione della nostra auto-trascendenza).
Lo sguardo si dirige allora ad approfondire l’ordine fenomenico, chiedendosi se la mera fatticità dell’azione, ovvero l’osservazione del suo dispiegarsi nelle varie attività umane, possa rivelare la sede della tensione ultima della volontà volente. È questo il lungo percorso della Parte terza dell’opera, che prende avvio dal mondo fenomenico per eccellenza, quello indagato dalle scienze positive. Il senso dell’azione – ipotizza Blondel – potrebbe risiedere in una mera fatticità inquestionata, come sostenuto dal positivismo nelle sue varie versioni, dal materialismo e dallo scientismo, che reclamano di poter interpretare esaustivamente la fenomenologia umana – e dunque anche la sua tensione verso l’azione – dandone così ragione. L’azione e il senso delle scelte umane non rimanderebbero allora ad alcun ulteriore, perché l’azione stessa verrebbe scomposta e ridotta entro l’ordine empirico assunto a spiegazione ultima del reale. Tale programma, però, viene mostrato da Blondel come inconsistente. Né le scienze matematiche né le scienze sperimentali sono capaci di dar ragione dell’azione, ma piuttosto la presuppongono. È proprio essa che unifica ciò che in quelle resta frammentario, orientandole verso il fine della ricerca del vero. «In queste scienze in cui tutto sembra pervaso dalla luce, e in cui la distinzione delle idee raggiunge la sua perfezione, la molla della scienza non rientra nella scienza; ciò che esse conoscono non lo conoscono così come lo conoscono» (p. 153). Per quanto accurata, l’attività delle scienze si limita ad una descrizione del mondo reale attraverso la mediazione di simboli e di rappresentazioni matematizzabili, le quali, nel loro insieme, non sono in grado di offrire una spiegazione ultima della realtà, almeno per le dimensioni in cui questa sfugge alla presa del metodo scientifico.
Esaurito il confronto con le scienze positive, la ricerca del senso dell’azione si sposta verso altri ambiti fenomenici, che parrebbero capaci di determinarlo: la coscienza dell’essere umano quale spirito che si esprime in una dimensione corporale; la cooperazione fra gli uomini e l’azione sociale; la fecondità della riproduzione umana e la famiglia; la costruzione della società e l’adempimento di un ordine morale naturale. Orbene, in tutti questi ambiti si registra sempre uno scarto fra ciò che la volontà è desiderosa di raggiungere e ciò che potrebbe giustificarla (e così determinarla) a partire da quella specifica sfera dell’agire. Né i suoi istinti, né le sue passioni, né le sue aspirazioni naturali, né ciò che umanamente riconosce meritevole di impegno, nulla di tutto ciò è in grado di soddisfare l’uomo pienamente, né contiene gli elementi interpretativi adeguati per determinare completamente la sua fenomenologia. L’analisi di Blondel – è facile riconoscerlo – conduce così l’interlocutore alla conclusione pascaliana che “l’uomo sorpassa infinitamente l’uomo”,[2] con la differenza che essa si snoda avendo adesso come sfondo le conoscenze scientifiche e antropologiche di fine Ottocento e non più quelle che l’autore dei Pensées poteva avere alla metà del Seicento. E qui Blondel, come Pascal, può finalmente nominare la direzione e il luogo di tale eccedenza, riunendoli in un’esortazione: “ascoltate Dio”. Il luogo della volontà volente è il soprannaturale, il religioso nel senso più autentico: «Da tutti questi tentativi scaturisce solo questa conclusione doppiamente perentoria: è impossibile non riconoscere l’insufficienza di tutto l’ordine naturale, e di non avvertire un bisogno ulteriore; è impossibile trovare in sé di che soddisfare questo bisogno religioso. Esso è necessario, ma è impraticabile. Ecco, in termini nudi e crudi, le conclusioni del determinismo dell’azione umana» (p. 420).
Di conseguenza, i falsi assoluti nei quali l’uomo pone erroneamente l’obiettivo ultimo della propria azione possono essere qualificati come espressione di atteggiamento superstizioso, come un vedere e tematizzare il soprannaturale dove il soprannaturale non c’è: «Con la sua azione volontaria l’uomo trascende i fenomeni; egli non può adeguare le sue stesse esigenze; possiede in sé più di quanto non possa utilizzare da solo; con le sole sue forze non riesce a mettere nella sua azione voluta tutto quello che è all’origine della sua attività volontaria. Pertanto, anche se presume di fare a meno di qualsiasi religione o di crearsene una a suo piacimento, nondimeno non esorbita il suo diritto, e tantomeno appaga il suo bisogno necessario o le esigenze della sua volontà. Tutti i tentativi di portare a compimento l’azione umana falliscono. Ed è impossibile che l’azione umana non cerchi di portare a compimento se stessa e di essere sufficiente a se stessa. Questo le è indispensabile ma non lo può. Da una parte c’è la necessità di fare piazza pulita di tutte le invenzioni che, partendo dall’uomo e procedendo dal santuario più intimo del suo cuore, hanno come obiettivo ridicolo e patetico di monopolizzare il divino. Dall’altra il sentimento dell’impotenza e del bisogno che l’uomo ha di un compimento infinito rimane insanabile. Perciò, tanto artificiale è ogni religione naturale, altrettanto naturale è l’attesa di una religione» (pp. 421-422).
La Parte quarta de L’Action prende avvio dalla constatazione dello scacco sofferto dall’azione voluta, in quanto la situazione di crisi esistenziale in cui l’uomo versa, il cui culmine è rappresentato dall’enigma della morte, sembrerebbe contraddire e vincere le aspirazioni più intime dell’essere umano. Eppure, la percezione di questa crisi dimostra la forza intrinseca e indistruttibile dell’attività volente, risuscitando nuovamente il problema di quale sia la sua vera origine. Si va così delineando un vero e proprio conflitto: non posso procurare da me ciò che darebbe senso e compimento all’azione umana, tuttavia non posso rinunciare a volerlo. Tutta l’esperienza della fenomenologia dell’azione converge verso la postulazione di un “unico necessario” che pone l’uomo di fronte ad un’ineludibile alternativa: o egli cerca prometeicamente di determinare il fine ultimo della sua volontà, volendo la sua vita finita e in essa il desiderio (frustrato) di infinito, oppure sceglie di porsi nelle condizioni di ascoltare/accettare un compimento che venga dall’Alto, dandosi alcune semplici regole di comportamento che esprimano la sincerità della sua coscienza finita, desiderosa di infinito. Se è vero che Blondel offre un certo raccordo fra la percezione di questo Essere necessario e le prove dell’esistenza di Dio tratte dalla contingenza del reale, è anche vero che egli insiste soprattutto sul valore immanente di tale percezione, come avrà modo di spiegare più diffusamente nella Lettera sull’apologetica: è nella contingenza che abita l’Assoluto necessario. Quale, dunque, l’esito possibile della alternativa? Dato che l’inevitabile trascendenza dell’azione umana obbliga a scegliere necessariamente l’infinito, il punto nodale diviene scegliere se essere dio con Dio oppure contro Dio. La libertà eccede sempre ogni determinismo ed obbliga a dover scegliere: «In ultima analisi non è la libertà ad essere assorbita nel determinismo, ma è il determinismo globale della vita umana a dipendere da questa alternativa ultimativa: o escludere da noi qualsiasi altra volontà diversa dalla nostra, o affidarsi all’essere altro da noi come l’unico che ci salva. L’uomo aspira a fare il dio. Il dilemma è: essere dio senza Dio e contro Dio, o essere dio per mezzo di Dio e con Dio» (p. 458).
Di questa alternativa, il filosofo francese esplora con fredda oggettività tutte le conseguenze, concludendo che la scelta di voler determinare in modo autarchico la propria trascendenza conduce alla morte dell’azione, perché la schiaccia sulle tante contraddizioni messe in luce nell’itinerario fin lì svolto. Al contrario, la disponibilità a far morire la propria autosufficienza aprendosi ad un senso che non ci appartiene (ma del quale non possiamo fare a meno) si traduce in vita dell’azione. Sebbene Nietzsche non venga esplicitamente citato, è assai interessante leggere Blondel proprio sullo sfondo di Così parlò Zarathustra (1883-1885). Di fatto è Blondel ad esporre quali siano le vere conseguenze del nostro “uccidere Dio”, e lo fa in modo implacabile, con un realismo e una crudezza per nulla inferiori a quelli impiegati dal filosofo tedesco. Uccidendo la propria trascendenza, presenza dell’Assoluto in noi, l’essere umano non prepara per sé una vita finalmente libera, ma esattamente il contrario, annientando la sua libertà. Blondel illustra così anticipatamente l’esito, in parte successivo allo stesso Nietzsche, proprio del nichilismo e del fisicalismo postmoderni, nei quali la verità della libertà umana viene radicalmente negata e illusoriamente riportata entro la sfera del materialismo biologico. La scelta di “essere dio con Dio” – per dirla con le parole di Blondel – è sì una scelta di vita, ma implica farsi carico delle conseguenze della trascendenza dell’azione: operare in sincerità e coerenza di vita, accettare la sofferenza e il sacrificio cui va incontro chi decide di conservare la tensione finito/infinito senza dileguarla o contraffarla. Scegliere per la vita dell’azione e per l’apertura all’Altro, infine, vuol dire fare estrema attenzione a non “determinare” l’Essere necessario, mantenendo una costante attitudine di sano apofatismo e di apertura al mistero. In questo passaggio conclusivo della penultima parte de L’Azione, il suo autore può finalmente introdurre una nozione di “soprannaturale” e proporre l’ulteriore snodo, poi sviluppato nell’ultima parte del saggio, circa l’attesa di un mediatore-rivelatore: «Nell’uomo c’è una vita migliore della vita dell’uomo. E questa vita non può essere alimentata dall’uomo. È necessario che qualcosa di divino abiti in lui. A rigore la nozione del soprannaturale è questa: assolutamente impossibile e assolutamente necessario all’uomo. L’azione dell’uomo trascende l’uomo; e lo sforzo supremo della sua ragione consiste nel vedere che egli non può, che non deve circoscriversi a essa. È un’attesa sincera del messia ignoto, un battesimo di desiderio che la scienza umana è impotente a provocare, perché questo stesso bisogno è un dono. La scienza può mostrarne la necessità, non può farlo nascere. […] Questo riconoscimento è necessario, ma cessa di essere efficace, se non facciamo appello al mediatore ignorato, se ci chiudiamo al salvatore rivelato» (pp. 491-492).[3]
Il successivo sviluppo presentato nella Parte quinta ha una duplice finalità: riepilogare il percorso svolto lungo l’intero saggio, mostrando lo statuto pienamente filosofico e non teologico di una filosofia dell’azione che conduce l’uomo fino alla scelta pro o contro l’”unico necessario”, e chiarire sotto molteplici aspetti che il soprannaturale tematizzato con il metodo dell’immanenza resta un dono gratuito, qualcosa che non appartiene alla natura, anche se in essa e da essa sorge l’azione che trova nel soprannaturale il suo unico vero compimento. Si tratta certamente di chiarimenti – come i numerosi offerti pochi anni più tardi nella Lettera sull’apologetica – forniti avendo di fronte le problematiche suscitate dal modernismo, le stesse che lo spingeranno ad allegare numerose precisazioni ai suoi scritti, allo scopo di distanziare la sua posizione da quella di coloro che, partendo anch’essi dalla prospettiva dell’immanenza, attribuivano un primato quasi assoluto al sentimento soggettivo e all’esperienza religiosa.
Qual è, a questo punto, la valenza apologetica de L’Action? Non certo quella di mostrare la possibilità storica della rivelazione cristiana, né la divinità dei fatti che potrebbero attestarla come realmente avvenuta. Si tratta di una “apologetica preliminare”, o se si preferisce, filosoficamente “preambolare”, il cui intento è piuttosto mostrare come l’uomo attenda (sia aperto verso) qualcosa che si presenterebbe assai simile all’ordine soprannaturale cristiano, un soprannaturale che i credenti affermano aver intersecato la storia degli uomini, un’affermazione la cui fenomenologia e coerenza teoretica, e i cui frutti storici, la filosofia ha il compito di indagare. Non è il contenuto della rivelazione cristiana soprannaturale che l’itinerario de L’Action intende dimostrare, bensì la ragionevolezza che un tale contenuto possa lecitamente essere ascoltato, e che abbia la capacità di rivelare l’uomo all’uomo. In altre parole, la filosofia non è competente per considerare i dogmi del cristianesimo come rivelati, ma può certamente considerare se essi siano per noi rivelatori. In coerenza con l’impostazione seguita, Blondel può così giungere a sostenere che, in prospettiva filosofica, l’abisso esistente fra l’assolutezza dell’essere necessario e la contingenza dell’essere umano rende plausibile la comparsa di un mediatore, o comunque l’azione di un’assistenza divina. E possono esistere atti di fede in una rivelazione soprannaturale con una singolare fenomenologia, quella di essere atti totalmente umani e insieme totalmente donati: «Per portare a compimento la natura e per dare sbocco all’aspirazione dell’uomo, l’uomo e la natura non sono sufficienti. Ora è impossibile che l’espansione integrale dell’azione volontaria non ci conduca a quella voragine spalancata che ci separa da ciò che vogliamo essere. È impossibile che colmiamo l’abisso; è impossibile che non vogliamo che sia colmato; è impossibile che non pensiamo alla necessità di un’assistenza divina. E tuttavia sembra inconcepibile che quella operazione rimanga soprannaturale quando diventa nostra, o che sia nostra senza cessare di essere soprannaturale. Se, da un lato, dovrebbe, ci sembra, provenire interamente da una sorgente esterna a noi, dall’altro dovrebbe essere totalmente immanente» (p. 508).
In tutta l’argomentazione seguita, fino alle conclusioni che chiudono il saggio, Blondel mantiene vivo il primato dell’azione e, come abbiamo visto, lo statuto filosofico-antropologico della sua analisi. Va osservato che uno dei risultati centrali del suo itinerario apologetico, quello che il contenuto della Rivelazione cristiana possegga una capacità esplicativa dell’umano, ovvero si auto-proponga come ragionevole ipotesi del compimento del volere dell’uomo e della irriducibilità di questo all’orizzonte del naturale, è anch’esso risultato di una prassi. Infatti, è vivendo fino in fondo da uomini, per dirla in qualche modo, che l’essere umano scopre che può dirsi cristiano; è facendo tutta l’esperienza umana della profondità di senso dell’azione – e delle scelte di fronte alle quali essa ci colloca – che possiamo riconoscere come adeguata l’ipotesi di accettare i contenuti positivi della rivelazione recata dal cristianesimo. L’azione, infine, mostra ancora il suo primato in un ultimo snodo che la apre adesso verso la dimensione teologica: una dimostrazione della verità del cristianesimo, non potrebbe mai essere affidata ad una filosofia oggettivata, bensì soltanto ad una manifestazione personale della prassi, l’unica capace di comunicare in modo efficace e nella quale è necessariamente coinvolta la libertà del singolo. Infatti, la riflessione filosofica può mostrare l’irriducibilità dell’azione umana all’ordine naturale, può esprimere i termini della scelta che pone il senso dell’azione entro l’uomo o fuori di esso, può anche esporre gli esiti che tale scelta reca con sé, ponendo l’essere umano di fronte all’inevitabilità dell’alternativa: tuttavia, essa non può andare oltre. Il suo esercizio oggettivo e universale termina qui, lasciando spazio ad una elaborazione teologica dell’azione. In tale spazio la persona umana resta sola, con la sua libertà, di fronte all’Assoluto. L’adesione alla Verità adesso si chiama fede e l’unica dimostrazione possibile si chiama testimonianza.
Incompletezza delle scienze positive e insufficienza dello scientismo nella luce de L’Action
Le numerose pagine che Blondel dedica ad una giustificazione dell’irriducibilità del senso dell’azione sul piano dell’analisi empirica non passano inosservate, sia per la pertinenza con cui egli si muove nel contesto delle scienze, sia per la penetrazione della riflessione filosofica che ne correda il giudizio. Egli sembra avvertire che su questo terreno si gioca una partita decisiva per la giustificazione della pretesa cristiana, anche a motivo dell’enorme peso esercitato dalla visione scientifica sul modo di pensare di ampi strati della società. Per tali ragioni, ci proponiamo di riprendere qui alcuni passaggi tratti dalla Parte terza del suo saggio. «A certi uomini di cultura – egli osserva in apertura – dietro le percezioni immediate, che le menti semplici continueranno per lungo tempo a prendere come moneta sonante, la realtà sembra tale, assolutamente tale quale la presentano le scienze positive. E per essi l’universo, tutto sommato, è un sistema di movimenti variati e ritmati nel quale rientrano le nostre azioni. Essi immaginano per analogia con il sensibile ciò che non possono percepire direttamente […]. Come si è sviluppato questo realismo fenomenista? È interessante farlo vedere, per prepararsi a osservare se davvero le scienze positive ci bastano in tutto e se sono sufficienti a se stesse» (p. 140). Sorge qui la domanda attorno alla quale ruoteranno le argomentazioni di Blondel, una domanda che non ha perso affatto la sua attualità: «è la scienza che spiega tutto dell’azione, o è invece l’azione che fornisce alla scienza la materia per sussistere?» (p. 142).
Alla fine del XIX secolo (come oggigiorno) l’ambizione dello scientismo consisteva nel dimostrare che la constatazione dei fatti bruti e la descrizione positiva della loro concatenazione equivalesse a fornirne una completa spiegazione causale. Esso intendeva determinare l’origine dell’uomo, l’origine della coscienza e la fenomenologia della vita morale con la stessa precisione e rigore con cui applicava il metodo matematico-sperimentale allo studio della fisica degli enti materiali, in laboratorio come sui corpi celesti. La pretesa è affascinante, ma è giustificata?, si domanda Blondel. Sul piano antropologico, può la volontà dichiarata di circoscrivere nell’ordine naturale dei fatti l’intera fenomenologia umana (volontà dichiarata o voluta) esprimere in modo esauriente il movimento intimo che guida la coscienza e la sua intera attività intellettuale (volontà volente)? Se la domanda veniva posta con pertinenza all’epoca de L’Action, oggi lo è ancora di più a causa dello sviluppo delle neuroscienze e del loro tentativo di dare una ragione compiuta dell’attività della mente umana in termini empirici. «Sono questioni decisive, affermava Blondel, che bisogna risolvere a ogni costo prima di essere legittimati a pronunciarsi con una competenza scientifica sulla portata dell’azione e sul senso del destino umano» (p. 136). Secondo una prospettiva scientista, la posizione del soggetto precederebbe solo cronologicamente l’attività delle scienze ma non lo farebbe essenzialmente. In analogia con quanto un chimico farebbe applicando un “metodo dei residui”, l’analisi del filosofo di Aix-en-Provence distingue con pazienza quanto dell’uomo-soggetto sia oggetto delle scienze matematiche, quanto lo sia delle scienze naturali e quanto, invece, continui a sfuggire ad esse, reclamando una filosofia propria, ovvero una filosofia dell’azione. Il procedimento seguito non è distruttivo bensì costruttivo: il risultato finale sarà infatti che proprio il terzo dominio, quello dell’azione libera del soggetto, costituisce l’ambito più importante per l’attività scientifica: da esso le scienze attingono la loro ispirazione e la loro coerenza, rendendo possibile la ricerca e le sue intime motivazioni. «Se si mostra che ciò che nelle scienze positive è loro trascendente ed estraneo è esattamente ciò che le rende possibili e impiegabili, questo significherà mettere in luce ciò che nella stessa scienza esige che la scienza sia oltrepassata. Se ognuna di esse avesse una specie di indipendenza o di sufficienza, avremmo il diritto di fermarci a essa e di accontentarci dei suoi successi anche se provvisori. Ma non è così; e questa imperfezione non riguarda la carenza dei suoi risultati, peraltro sempre parziali, ma la stessa natura delle verità che essa raggiunge e del metodo che adopera. Non solo la scienza è carente mentre è in fieri, ma anche se la si suppone fatta e perfetta, è ancora carente. La verità è che c’è un difetto iniziale e finale di ciascuna separatamente e di tutte insieme nel loro mutuo commercio. Le scienze positive non ci soddisfano perché non sono sufficienti in se stesse» (p. 146).
L’incompletezza delle scienze viene fondata da Blondel in modo progressivo, occupandosi separatamente prima delle scienze matematiche e poi di quelle fisico- sperimentali. Le prime hanno buon gioco nell’analisi, ma necessitano di una mens che recuperi il momento sintetico. Il mondo della sensazione e il mondo dell’agire le sono estranei. A motivo della loro necessaria astrazione, esse non spiegano la loro efficacia e non conoscono fino in fondo ciò su cui operano. Ma anche le scienze sperimentali hanno bisogno, per la loro analisi e la loro sintesi, di addentrarsi in un terreno che non è più il loro. Ciò vale sia per quelle più propriamente fisiche che per le scienze biologiche. Nel primo caso è il soggetto che coglie con il suo sguardo sintetico il determinismo che lega i fenomeni; nel secondo è sempre il soggetto che vi riconosce, con la sua psicologia, le analogie tassonomiche e l’unità della ricostruzione storica. In senso ancor più generale, Blondel insiste sulla considerazione che l’attività delle scienze, per quanto completa ed accurata, non oltrepassa mai il compito di una “descrizione del reale”, una descrizione in larga parte simbolica, che a motivo dello stesso metodo impiegato non può coincidere con il reale stesso. La capacità predittiva delle scienze matematizzate ed i risultati pragmatici del metodo scientifico contribuiscono a forgiare l’idea che non si tratti di una mera rappresentazione, ma di una metafisica esauriente. «I simboli costruiti dallo scienziato finiscono per essere così coerenti tra loro, per avere una tale efficacia, per realizzarsi con tale evidenza tra le sue mani, che per lui diventa grande la tentazione di considerare tutto questo simbolismo come l’immagine fedele della realtà, come la realtà stessa. Lo si proietta al di fuori di sé con la convinzione che leggi della meccanica razionale, le costruzioni del cristallografo o gli schemi del chimico siano l’espressione di un meccanismo reale al quale conviene attribuire, col pretesto della certezza scientifica, una portata oggettiva e veramente metafisica. È questo l’errore fondamentale da combattere» (p. 160). Non è qui in gioco la dimensione veritativa della conoscenza scientifica, ma la dimenticanza diffusa che al termine dei suoi giudizi si debba operare ancora un “ritorno al reale” che riguadagni la ricchezza di quelle dimensioni che il metodo scientifico ha tenuto in sospeso o dalle quali ha dovuto fare astrazione. Ignorarlo, vorrebbe dire ostinarsi a sposare l’ideale cartesiano: «Così concepita, l’azione porta esclusivamente sull’ordine immanente dell’universo, incluso il governo delle passioni umane e lo sviluppo della morale e della politica. Ora lo stesso progresso delle scienze e l’esame che ne abbiamo attentamente fatto del loro raccordo hanno mostrato che di fatto e di diritto l’ideale previsto da Cartesio è una chimera: la scienza, sempre frastagliata, non domina né spiega l’agire, il quale non si riduce mai al determinismo dei fenomeni domato e utilizzato dal nostro pensiero e per i nostri bisogni».[4]
Di notevole interesse è la visione di Blondel in merito alla portata interpretativa dell’evoluzionismo, ovvero la ricostruzione storico-naturale e l’unificazione filosofica dello sviluppo dei viventi basata sulla teoria dell’evoluzione biologica, formulata da Charles Darwin solo qualche decennio prima. Egli qualifica la visione evolutiva come una sorta di “alchimia della natura”. Non siamo per nulla di fronte ad una negazione dell’evoluzione biologica, che in quegli anni andava ormai consolidandosi come teoria scientifica, bensì alla negazione di una sua applicazione superficiale volta a fornire del mondo naturale una interpretazione filosofica materialistica ed esaustiva, nonostante il fatto che le ragioni di molti processi che regolano la vita e le sue trasformazioni sfuggano al suo potente schema interpretativo. Come l’alchimia cercava di fornire una teoria unitaria della trasformazione dei vari elementi naturali ignorando ancora la loro composizione atomica e le regole dei loro legami chimici, così il paradigma evolutivo si sforza di suggerire una visione capace di legare in modo continuato la trasformazione delle morfologie dei viventi, non conoscendo ancora del tutto le ragioni scientifiche più profonde che spiegano un gran numero di processi biologici. Sorprende la forte somiglianza fra la lettura che Blondel fa della biologia evoluzionistica del suo tempo ed il giudizio di ricercatori contemporanei che paragonano l’odierna situazione della biologia a quella della chimica prima della scoperta della tavola periodica degli elementi, grazie alla quale si sarebbero più tardi conosciute le ragioni profonde delle trasformazioni chimiche e dei legami atomici e molecolari che le presiedono.[5] Pur conoscendo il linguaggio della genetica molecolare ed essendo in grado di ricostruire con buona approssimazione i vari passaggi avvenuti su scala macroscopica e di popolazione, la biologia odierna sembra ancora ignorare molti perché delle trasformazioni genetiche e morfologiche dei viventi. Quando la scienza intende poi puntare verso domande ultime e totalizzanti, come quella di dare ragione dell’origine, l’incompetenza dell’analisi scientifica si fa per Blondel ancor più radicale: «Il problema dell’origine reale e della costituzione degli esseri è totalmente differente dal problema della discendenza storica e della composizione organica delle forme viventi. E per non fare della metafisica senza saperlo occorre separare i due problemi, perché la scienza è assolutamente incompetente sul primo» (p. 165). Nell’ordine dei viventi, osserva il filosofo francese, «nessun composto è riducibile ai suoi componenti. Se pure non può farne a meno, li trascende sempre. Perciò il rapporto fra la causa e gli effetti non potrebbe essere analitico. E chi riconosce questa verità non ha più diritto di ridurre tutto nella natura al determinismo dei fatti» (p. 168).
Dal punto di vista filosofico, la principale insufficienza del metodo empirico – e dunque di ogni possibile riduzione della fenomenologia dell’azione al suo livello – è indicata da Blondel nell’incapacità delle scienze di congiungere, dall’interno del loro metodo, due ordini fra loro diversi: il calcolo e l’intuizione, la frammentarietà delle osservazioni fattuali e il determinismo unificante che le rende intelligibili. Il secondo ordine non può essere dedotto dal primo: «la scienza non può limitarsi alla scienza» (p. 170). Questa irriducibilità, e dunque l’implicito richiamo ad una fonte esterna alla scienza, ad un soggetto che dia ragione della compossibilità di questi due ordini, viene così espressa dal filosofo francese: «In effetti da una parte l’analisi matematica non raggiunge mai la realtà sensibile al termine delle sue astrazioni. Dall’altra l’osservazione diretta può benissimo sforzarsi di rendere scientifico il concreto, il particolare, la qualità, inserendo sotto l’intuizione dei sensi un mondo di determinazioni quantitative; ma lungi dal far svanire il fenomeno qualitativo nello spazio di una formula astratta, ne fa emergere l’irriducibile originalità» (p.171). In fondo, tale irriducibilità non fa altro che evidenziare l’esistenza di un problema che trascende la scienza; ma la risoluzione di tale problema avviene per Blondel a livello pratico, e dunque nell’ordine dell’azione-prassi, riconoscendo che l’azione da cui procedono le scienze non si esaurisce in esse: mentre le sorregge, al tempo stesso le eccede e le trascende, mentre ne assicura il successo, dimostra che nell’attività scientifica c’è più di quanto il suo metodo conosca o attinga. Chiara, a questo punto, la tesi della scienza come attività umana rivelatrice dell’umano: «È quindi impossibile che la scienza si limiti a quello che sa, perché essa è già di più di quello che sa. In forza della volontà che la pone e la alimenta c’è in essa quello che si vorrebbe escludere al di qua o al di là di essa. Pertanto in quel qualcosa che avevamo ammesso dal principio [compimento dell’azione], con la speranza che la scienza positiva lo esaurisse, sussiste un elemento irriducibile, il quale dalla visuale di queste scienze positive rimane trascendente, senza però cessare di essere immanente ad esse» (p. 172).
Non è senza interesse qui sottolineare che l’elemento che dà senso all’attività scientifica, pur trascendendo la scienza, è anche immanente ad essa: l’impresa scientifica partecipa alla ricerca della verità (trascendente), ed è capace di appassionare il soggetto fornendo energie sempre nuove alla sua azione (immanente), perché la scienza è un valore in sé. È pertanto lecito occuparsi di una “scienza dell’azione” che, mostrando come l’azione, anche l’azione della ricerca scientifica, rimandi al di la di sé stessa e come il suo fine debba essere ricevuto dall’esterno, può giungere a giustificare la ragionevolezza dell’apertura dell’uomo ad una rivelazione. «Qualsiasi disciplina scientifica per sussistere esige il postulato dell’azione, e l’azione stessa deve diventare oggetto di una scienza vera e propria. […] L’azione risolve l’antinomia delle scienze positive soltanto ponendo un nuovo problema di un altro ordine» (p. 173). E ancora: «le scienze positive non sono che l’espressione parziale e subalterna di un’attività che le abbraccia, le sostiene e le trascende. Una sola via d’uscita rimane: seguire il movimento da cui esse procedono, cercandone per così dire l’equazione, per vedere se in ciò che le trascende e le fonda c’è materia di una scienza autentica […]» (p. 178).
All’epoca in cui Blondel scriveva, il materialismo scientista poteva considerarsi una corrente di maggioranza negli ambienti intellettuali di influenza francese, come testimoniano le difficoltà personali che molti scienziati credenti, come Duhem, Poincaré o Faà di Bruno dovettero affrontare nel mondo accademico. Si comprende l’insistenza del filosofo di Aix-en-Provence nel combattere l’idea che il pensiero scientifico potesse sostituirsi ad una fondazione metafisica del reale, come voluto già dal positivismo ed allora in procinto di essere nuovamente teorizzato dal neopositivismo logico. Nella Parte terza de L’Action egli si preoccupa di chiarire che le scienze non sono in grado spiegare il fondo remoto e la ragione ultima delle cose, diremmo l’essere e la specificità formale di ogni ente: «esse devono unicamente costituire un sistema di relazioni coerenti, partendo da differenti convenzioni e nella misura in cui ciascuna delle loro differenti ipotesi è controllata di fatto. Come vi sono parecchi modi di dimostrare e di esprimere una verità conosciuta, vi sono parecchi modi di raggiungere una verità sconosciuta, e diversi modi di conoscerla. Pertanto la varietà, la fecondità e, per così dire, la libertà della scienza è illimitata. […] dalla necessità delle verità da essa stabilite non si deve indurre alcuna necessità di natura, perché in essa non vi è natura, vi sono solo rapporti; e il carattere arbitrario delle definizioni e delle convenzioni iniziali limita la necessità delle relazioni scientifiche a queste stesse relazioni» (p. 175). Se in queste affermazioni di Blondel si può notare l’eco di un certo convenzionalismo, come sostenuto da Boutroux e da Poincaré in merito all’epistemologia delle leggi di natura, esse non sottoscrivono però alcun relativismo conoscitivo; intendono piuttosto chiarire la duttilità e l’infinita apertura delle nostre rappresentazioni scientifiche della natura, e dunque l’inadeguatezza delle scienze positive a fornire un sapere ultimo.
L’attrazione quasi magica del metodo scientifico e dei suoi risultati sulle menti semplici citata proprio in apertura della Parte terza de L’Action, tale da far immaginare che tutto il reale possa essere compreso e ultimamente giustificato grazie all’impiego delle scienze empiriche assunte a sistema metafisico, viene, al termine del percorso di Blondel, smascherata come programma ultimamente superstizioso, riepilogandone l’intima inadeguatezza. «Si voleva ridurre l’uomo e i suoi atti ai soli fenomeni definiti dalla conoscenza positiva, ovvero, ma è la stessa cosa sotto una forma differente, si riteneva che il fenomeno positivo potesse sussistere senza l’uomo e la sua azione. Ed ecco che questa pretesa è insostenibile. Essa è contraddittoria, perché escludere quello che rende le scienze possibili e valide significa rinnegarle nel momento stesso in cui le ammettiamo e le sfruttiamo. Per il fatto stesso di porle, si esige qualche altra cosa al di fuori di esse. Si riconosce che la soluzione completa dell’enigma non sta in esse, ma esse stesse sono enigmatiche. Così cade, con la superstizione della Scienza, l’indegna presunzione di colui che, abusando presso i semplici del prestigio di una parola magica, si erge a loro guida, come se sul segreto della vita lo scienziato la sapesse più lunga dell’ultima delle persone umili» (p. 177). Non è difficile riconoscere tutta l’attualità di questo giudizio di Blondel e non si può non volerne trarre suggerimenti su come anche oggi andrebbe orientata una corretta divulgazione scientifica. Troppo spesso alleata di un riduzionismo antropologico e non solo epistemologico, la divulgazione delle scienze al grande pubblico veicola non di rado una falsa immagine dell’impresa scientifica, mirante più a colpire ed impressionare le menti semplici che non a formarle, a promuoverle cioè ad una conoscenza davvero più profonda del reale, rispettosa delle sue risonanze umanistiche e filosofiche.
Osservazione conclusiva: l’unificazione del sapere attorno ai fini dell’azione
Vi è infine un ulteriore punto della riflessione di Blondel sulle scienze e sul ruolo che esse potrebbero svolgere entro una visione unitaria del sapere che riteniamo meriti di essere messo in luce. L’affermazione dello iato conoscitivo fra sapere delle scienze positive e sapere ultimo, da lui più volte ribadita, non è impiegata per dissociare l’impresa scientifica dalla ricerca filosofica. La strategia dell’itinerario seguito dal nostro Autore ha invece come intento renderle entrambe disponibili ad essere collegate ed unificate proprio nell’azione. La sua è una vera proposta di unificazione del sapere nell’azione che guida le intenzioni e i fini della conoscenza. Tale unificazione è suscettibile di essere posta in relazione con quella fenomenologia dell’atto di religione che orienta il soggetto verso i fini ultimi dell’agire, manifestandosi quale atto unificante dell’esperienza intellettuale della persona. Per Blondel ogni conoscenza, per divenire efficace, necessita di un coinvolgimento del soggetto, e in ogni atto c’è in fondo un atto di fede. L’autentica conoscenza scientifica è allora manifestativa di un impegno verso il reale, nel riconoscere che il movente dell’azione non giace negli aspetti empirici della scienza ma in ciò che la trascende e resiste ai cambiamenti di paradigma e al progresso delle formulazioni. La scienza non può divenire filosofia né tanto meno metafisica, ma perché la scienza sia possibile il soggetto deve riconoscere una filosofia immanente nell’attività scientifica, in quanto attività umana. È questa filosofia ciò che la determina, senza poter essere da questa determinata: «Le ipotesi, i simboli, le spiegazioni potranno cambiare, e di sicuro cambieranno. Quello che resterà è il procedimento dello spirito nella costruzione e nel mutuo adattamento di queste teorie, è il senso stesso delle indagini scientifiche. La conoscenza scientifica non si esaurisce nella propria opera; e ciò che la fa essere non si restringe a ciò che essa sa e fa. Non si può credere che le scienze non abbiano una portata reale. E in effetti ne hanno una, ma diversamente da come si pensa e al contrario di quanto si immagina comunemente […] quel tanto di realtà che esse hanno va ricercato in ciò che le determina, non in ciò che esse determinano» (pp. 175-176).
A coloro che propongono una presunta incompatibilità fra il sapere delle scienze della natura e la pretesa cristiana, servendosi del pensiero scientifico per sancire un divieto di accesso a chiunque, in un contesto culturale segnato dal progresso contemporaneo, voglia far transitare, anche nelle riflessioni di uomini di scienza, argomenti atti a mostrare l’apertura dell’uomo alla Rivelazione e alla fede, la lezione di Blondel ha oggi ancora molto da dire. Essa non si limita a fornire risposte finalizzate solo a mostrare una compatibilità epistemologica; né ripropone, come molti, una retorica armonia fondata su una generica diversità di piani, di cui non si chiarisce però mai il fondamento; il metodo di Blondel entra invece nel merito delle intenzioni che guidano l’azione del soggetto, tematizza il rapporto di questi con una realtà oggetto sia della scienza che della fede, si dirige al fondamento ultimo della passione che muove verso la ricerca del vero. È in questo ordine di idee, riteniamo, che una propedeutica alla fede in un contesto scientifico diviene, ieri come oggi, più efficace.
Bibliografia
R. Virgoulay, L’Action de Maurice Blondel. Relecture pour un centenaire, Beauchesne, Paris 1992.
M. Leclerc, Il destino umano nella luce di Blondel, Cittadella, Assisi 2000.
G. Coffele, Apologetica e teologia fondamentale. Da Blondel a de Lubac, Studium, Roma 2004
[1] Queste erano in fondo le tesi del materialismo naturalistico, un movimento assai influente nell’ambiente tedesco, che ereditando l’idea storicista dalla filosofia hegeliana anticipò e poi accolse il darwinismo quale proposta di lettura del posto dell’uomo nella natura, per la quale si reclamavano precise ricadute in ambito filosofico e religioso. Ne furono esponenti Jakob Moleschott (1822-1893), Ludwig Büchner (1824-1899) e Ernst H. Häckel (1834-1919). Cf. A. Negri, Il materialismo naturalistico dell’Ottocento, in “Grande Antologia Filosofica”, Marzorati, Milano 1976, vol. XXIV, 1-166.
[2] «Conosci dunque, o superbo, quale paradosso sei a te stesso. Umiliati, ragione impotente; taci, natura imbecille: imparate che l’uomo supera infinitamente l’uomo: apprendete dal vostro maestro la vostra vera condizione, che ignorate. Ascoltate Dio», Pascal, Pensées, n. 438, in Bausola, Pascal. Pensieri, opuscoli, lettere, 565.
[3] Presente, ancora una volta, l’ispirazione pascaliana: cf. Pensées, nn. 462, 465, 466.
[4] La pagina è tratta dalla II ed. de L’Azione: cf. L’Action, Alcan, Paris 1937, vol. II, 390-391.
[5] Il parallelo è proposto, fra gli altri, da G. McGhee, Convergent Evolution: A Periodic Table of Life?, in S. Conway Morris (ed.), The Deep Structure of Biology. Is Convergence Sufficiently Ubiquitous to Give a Directional Signal?, Templeton Foundation Press, West Conshohocken (PA) 2008.
Una versione estesa del presente studio è pubblicata in G. Tanzella-Nitti, Teologia della credibilità, vol. 1: La teologia fondamentale e la sua dimensione di apologia, Città Nuova, Roma 2015, pp. 548-580.
Brani antologici proposti
Una lettura filosofica dell'evoluzionismo, parte III della I ed.